martedì 31 luglio 2007
Panorama. "Junglee girls"
Da una parte si trovano le junglee girl, le ragazze della giungla, come Rochom P’ngieng, la piccola cambogiana sparita nel 1989 e riapparsa all’improvviso, poco tempo fa, dopo aver trascorso 18 anni nella foresta. Queste «selvagge» in città arrivano quasi per sbaglio, perché di norma vivono tra gli alberi, con le loro tribù, in mezzo alla natura. Dall’altra parte si trovano le junglee intese in senso lato, cioè quelle ragazze che arrivano da fuori, dagli slum, dalle periferie, dai villaggi, e che decidono di spostarsi a Nuova Delhi, a Mumbay (Bombay), di diventare un po’ come le sette ragazze di cui parla la scrittrice indiana Ginu Kamani nel suo libro ripubblicato in Italia dalla Einaudi che si intitola, appunto, Junglee girls. Libro che negli ultimi mesi è diventato un manifesto delle ragazze indiane giovani, ribelli, disobbedienti, occidentalizzate, età fra i 16 e i 24 anni, che decidono di scappare dalla propria condizione di ragazze dell’India profonda e di avventurarsi in città, di scoprire quelli che chiamano i «baci londinesi», il «sesso americano», di percorrere la stessa scia ribelle dei personaggi del romanzo di Kamani. Dove i protagonisti arrivano in città, si mettono a lavorare in nero, iniziano a ballare dove non dovrebbero, iniziano a integrarsi come sognavano, scappando da quei villaggi dove i dottori, come si legge nel libro di Kamani, prescrivevano ai ragazzi «celibati a vita», «precoci sterilizzazioni», dove spiegavano «i rischi del sesso», illustravano la pericolosità di quei «coiti deleteri», di quegli scandalosi «ormoni disinibiti» e di quelle svergognate giovani condannate a un futuro nei villaggi vicini alla giungla. Le cose un po’ stanno cambiando perché ci sono ragazze che vogliono diventare come la tennista Sania Mirza, una delle donne più note d’India, la sportiva più famosa della nazione, la Sharapova di Hyderabad. Giovane, bella, musulmana, simbolo di emancipazione femminile, così trasgressiva, così junglee e così ribelle da essere stata vittima di una fatwa, di una scomunica, per aver indossato un po’ troppo spesso completini non esattamente in linea con l’ortodossia islamica, e che comunque ha continuato a giocare, sotto scorta ma sempre con il gonnellino. Sono junglee girl quelle ragazze che vanno al di là dell’ovattato mondo di Bollywood e dei pomposi matrimoni tra Aishwarya Rai e Abhishek Bachchan. Sono quelle un po’ disobbedienti, un po’ hippy, che hanno avuto, anche grazie a un libro come Junglee girl, il coraggio di comportarsi come Surabhi Sarkar. Surabhi è una giovanissima (13 anni) che ha deciso, iniziativa clamorosa, di far partire un’azione legale contro i suoi genitori a Raiganj, piccola città a 400 chilometri da Kolkata, nella parte orientale dell’India. Surabhi, era l’11 aprile, è andata dalla polizia locale, ha detto che i genitori la sfruttavano; ha raccontato del padre che aveva perso il lavoro e che, proprio per questo, la faceva sgobbare il doppio di quanto già non faticasse; e ha poi raccontato che proprio non ne poteva più di quel night club maledetto dove il padre la costringeva a ballare, a spogliarsi, a danzare praticamente nuda e ad avere quello stupido nome che proprio non sopportava, Suparna. Da quel club Surabhi ha deciso di scappare, ha rinunciato a quei 25, a volte 125 euro che l’avevano fatta arricchire ma con i quali non riusciva a vivere e si sentiva prigioniera, prima che la giovane indiana decidesse di diventare come una delle protagoniste del romanzo di Karumi. Una vera e propria Indian junglee girl.
Claudio Cerasa
31/07/07
Claudio Cerasa
31/07/07
Il Foglio. "Il Sabba di Rignano"
Ha ragione Giovanni Bollea, questi interrogatori fanno male ai bambini
Il carrozzone del circo mediatico-giudiziario si è concesso un paio di giorni di villeggiatura a 40 km da Roma, tra l’asilo di Rignano Flaminio e il Tribunale di Tivoli dove, da venerdì, sono in corso due incidenti probatori sui bambini vittime dei presunti abusi. E vedrete che anche oggi, sui giornali che scortano il carrozzone, troverete descrizioni del Sabba delle streghe, con i “castelli cattivissimi” e con gli avvocati che parleranno di “abusi confermati” e magari anche con qualche nome di bambino sfuggito per il gusto della curiosità. Non è il caso di tornare a spiegare che difficilmente bastano le parole di un bambino per “provare” un abuso, ma è invece il caso di allarmarsi su come questi interrogatori vengano utilizzati, più che come “prove schiaccianti”, come pugni negli occhi dei lettori, dato che a Rignano “prove schiaccianti” ancora non sembrano essercene. Non ci sono foto e non ci sono video e fino a prova contraria si deve parlare di presunzione di innocenza, non di colpevolezza. E per questo sarebbe utile memorizzare le parole del neuropsichiatra infantile Giovanni Bollea: “Preferisco pensare che un colpevole non venga condannato piuttosto che vedere dei bambini costretti a subire interrogatori del genere”. E’ vero, gli interrogatori possono anche essere utili come prove, ma portare dei bambini a parlare di abusi in un tribunale sempre più aperto al pubblico, e poi sbattere quelle parole in prima pagina, non può che far del male a quei figli e magari pure creare una gran confusione nelle indagini. Ha ragione il professor Bollea.
Claudio Cerasa
31/07/07
Il carrozzone del circo mediatico-giudiziario si è concesso un paio di giorni di villeggiatura a 40 km da Roma, tra l’asilo di Rignano Flaminio e il Tribunale di Tivoli dove, da venerdì, sono in corso due incidenti probatori sui bambini vittime dei presunti abusi. E vedrete che anche oggi, sui giornali che scortano il carrozzone, troverete descrizioni del Sabba delle streghe, con i “castelli cattivissimi” e con gli avvocati che parleranno di “abusi confermati” e magari anche con qualche nome di bambino sfuggito per il gusto della curiosità. Non è il caso di tornare a spiegare che difficilmente bastano le parole di un bambino per “provare” un abuso, ma è invece il caso di allarmarsi su come questi interrogatori vengano utilizzati, più che come “prove schiaccianti”, come pugni negli occhi dei lettori, dato che a Rignano “prove schiaccianti” ancora non sembrano essercene. Non ci sono foto e non ci sono video e fino a prova contraria si deve parlare di presunzione di innocenza, non di colpevolezza. E per questo sarebbe utile memorizzare le parole del neuropsichiatra infantile Giovanni Bollea: “Preferisco pensare che un colpevole non venga condannato piuttosto che vedere dei bambini costretti a subire interrogatori del genere”. E’ vero, gli interrogatori possono anche essere utili come prove, ma portare dei bambini a parlare di abusi in un tribunale sempre più aperto al pubblico, e poi sbattere quelle parole in prima pagina, non può che far del male a quei figli e magari pure creare una gran confusione nelle indagini. Ha ragione il professor Bollea.
Claudio Cerasa
31/07/07
sabato 28 luglio 2007
RollingStone. "Perez Hilton"
Dice di essere il maiale più amato di Hollywood, dice di essere il ciccione più famoso d’america, dice di essere il disoccupato più ricercato del mondo, il ladro più pagato della California, il gangster più desiderato da Britney, da Paris, da Brad, magari un po’ meno da Kate (che lui non ama), da Pete (che lui non ama), da Colin (che lui non ama), da Sienna (che lui non ama), o da Jennifer (che in realtà lui non ama e lei, c’è da dire, ricambia con amicizia). Dice di essere un vero genio, dice di essere il blogger più famoso del mondo, dice di essere quello più scorretto, quello più informato, quello più cool, quello più fat e quello più smart. Dice così, Perez, il gossiparo più famoso del mondo, il castigatore di very important people, uno che voleva fare l’attore, uno che aveva pensato di fare il cantante, uno che aveva provato a fare il giornalista, uno che ora vive soltanto con un sito (perezhilton.com) dove lui, Perez, pubblica dodici scoop al giorno; con quelle foto che per qualcuno sono rubate, per qualcuno altro semplicemente prestate, ma che, comunque, mr Hilton pubblica ogni giorno sul suo sito (dove oltre ai commenti, Perez aggiunge un po’ polvere tratteggiata vicino al naso e un po’ di pipì lì in mezzo alle gambe) grazie al quale, Perez, che in realtà si chiama Mario e che in realtà si chiama Lavendiera e non Hilton come la sua amica Paris, Perez, si diceva, è diventato una delle quaranta superstar di Internet, il gangster di riferimento della Cbs, l’ospite d’onore di Mtv nonché uno dei cento uomini dell’anno per il Time. Eccolo qui, Perez. Tutto semplice, no? Mica tanto. Perché provateci voi a essere come lui. Provateci voi a guadagnare 100 mila euro all’anno lavorando con un computer, un mouse, una testiera in uno spaventoso bar di Los Angeles. Provateci voi a diventare il re del gossip, il bandito del pettegolezzo, il Truman Capote della chiacchiera e a chiamare Kate Moss “Cokate”, a parlare di Eminem dandogli del Feminem, a incastrare Beckham pubblicando, in anteprima, le foto di David crocifisso, senza maglietta, senza scarpini e, ovviamente, senza mutande e a dimostrare che le tette di Jennifer Attinson non sono granché, a pubblicare, per primo, l’intervista integrale di Sienna Miller, l’attrice che poco prima di interpretare Factory Girl, spiegava perché gli allucinogeni in fondo non sono così male e che però anche i funghetti quasi quasi anche se io preferisco la morfina, thanks. Provateci voi a fare informazione con le tette, a criticare con il gossip, ad essere credibile con qualche culetto, a riuscire a essere il primo ad avere le foto della figlia di Tom (Cruise) e Katie (Holmes), il video (porno) di Colin (Farell) e ad aver il coraggio di pubblicare le foto di Donald Trump appisolato al concerto di Justin Timberlake (il miliardario americano è conosciuto anche per aver recitato nell’ottimo film “I fantasmi non possono farlo”, grazie al quale Donald fu acclamato come peggior attore non protagonista dell’anno). E tutto questo, Perez, lo fa sapendo di essere lo stesso Hilton a cui ci si rivolge Los Angeles quando si dice “Yes, I am gay, but at least I’m not a rude asshole like Perez Hilton” e senza aver paura di essere incastrato per quei milioncini di debiti, senza aver paura di farsi beccare con quelle cravatte gialle, quegli occhiali rossi, quei crocifissi (a grandezza umana) appesi al collo e quelle magliette fucsia che forse, ma forse, neanche Enrico Papi avrebbe il coraggio di indossare.
Perché tutti dicono di odiare quel maledetto Pig Face di Perez che ruba le foto (ma in realtà le foto, a Perez, gli arrivano sul computer), che sputtana i vip (magari prima di un loro film), che piazza il segretissimo filmino porno del cantante (magari prima di un suo concerto) e che è odiato come Lele Mora, temuto come Fabrizio Corona, disprezzato come Paolini, e che però, poi, resta l’unico gossipparo così scorretto, e quindi così geniale, che viene odiato solo quando spegne il computer e che riesce a essere credibile con tante tette, tanti culi e con le cravatte più brutte di quelle di Enrico Papi.
Claudio Cerasa
Agosto 2007
Perché tutti dicono di odiare quel maledetto Pig Face di Perez che ruba le foto (ma in realtà le foto, a Perez, gli arrivano sul computer), che sputtana i vip (magari prima di un loro film), che piazza il segretissimo filmino porno del cantante (magari prima di un suo concerto) e che è odiato come Lele Mora, temuto come Fabrizio Corona, disprezzato come Paolini, e che però, poi, resta l’unico gossipparo così scorretto, e quindi così geniale, che viene odiato solo quando spegne il computer e che riesce a essere credibile con tante tette, tanti culi e con le cravatte più brutte di quelle di Enrico Papi.
Claudio Cerasa
Agosto 2007
martedì 24 luglio 2007
Il Foglio. "Il perfetto aggiotaggio balneare e il controesodo in topless su Second life"
Si chiama aggiotaggio balneare e naturalmente è fantastico, geniale, sublime, diabolico, professionalmente impeccabile. Funziona così. Si tira fuori un numero, si tira fuori un dato, si tira fuori una notizia verosimile, si affianca alla notizia un qualsiasi tipo di “allarme” (allarme bikini, allarme caldo, allarme esodo, allarme Second life, allarme Autogrill, allarme meduse, allarme patate transgeniche) e poi si fanno passare un paio di giorni, si dà conto di qualche nuovo allarme che dia credibilità agli allarmi precedenti, giusto per far capire che gli allarmi balneari non sono uno scherzetto (un classico è il tradizionale “allarme calamaro gigante”) e poi si ricomincia, si riparte. Si lasciano passare alcuni giorni e si risponde, con fermezza, a tutti quegli allarmi lì. E si risponde con un’altra incredibile paginata, con un’altra diabolica notizia, con un altro meraviglioso dato e con un’altra sublime emergenza che, il più delle volte, è conseguenza diretta di uno degli allarmi precedenti. E così, per un allarme esodo c’è un successivo allarme controesodo, per un allarme bikini c’è un allarme dell’addio bikini, per un allarme meduse ci sarà un nuovo allarme della fine delle meduse e per l’emergenza delle due ore di fila per gli imbarchi per la Sicilia si risponderà con il controesodo tra Genova e Sestri Levante.
Ora immaginate cosa potranno inventarsi i diabolici professionisti dell’aggiotaggio balneare quando tra un anno, nel 2008 – come spiegato da Francesco Rutelli nella “Giornata del Turismo-Passione Italia” – in estate ci saranno ben 14 giorni di vacanze in meno e quando le vacanze brillanti e le controsveglie intelligenti si concentreranno tutte in un mese, invece che due. Ecco, in quel caso l’aggiotaggio balneare dovrà essere ancora più creativo rispetto a quello di quest’anno; rispetto al solito: “Gli italiani scelgono di non partire”, seguito dai “consigli per le escursioni” della guardia forestale, accompagnati dai nove milioni (nove!) del miniesodo di luglio, dal classico articolo di Michele Serra su Repubblica stile: “Io, prigioniero in auto nella tundra lombarda” (arriverà, vedrete che arriverà) che si andrà a inserire alla perfezione nel su e giù, su e giù della borsa delle news, come successo ieri pomeriggio e come leggerete oggi sui giornali: “Vacanze, luglio non da record”. Non da record? Ecco. Un po’ di attenzione, per favore. Perché si potrà pur continuare a giustificare il traffico con le nuove vocazioni estive (“Catechismo sotto l’ombrellone”, scriveva ieri la Stampa) e si potrà dire che anche in questo weekend il traffico è stato sostenuto nell’intera mattinata senza disagi ai caselli di uscita della rete e che i flussi di traffico s’intensificheranno nel corso della giornata con forti rallentamenti sull’A-11 tra Genova-Sestri Levante. Però attenzione: se aggiotaggio dev’essere, che si esageri. I dati, please, spariamoli per bene. Divertiamoci sul serio. Perché se è vero che, come già successo la scorsa estate, ogni sabato i giornali parleranno dei 9 milioni di italiani in auto e poi i giornali continueranno a dire che la domenica gli italiani “al rientro” sono 10 milioni, alla fine, dopo tre mesi d’estate, tra gli italiani che partono e quelli che tornano, in tutto ci sarebbero 12 milioni di italiani che rientrerebbero senza mai essere partiti. Aiuto! Allarme rientri.
E poi. Chi, attento alla moda, dovesse comunque riuscire a raggiungere la spiaggia (sempre che il giorno prima della partenza un giornale non dia per “decaduta”, in senso mondano, la propria destinazione, per poi resuscitarla la settimana dopo) si troverà di fronte a un paio di dubbi, ingenerati da altre campagne di stampa uguali e contrarie. Al primo sole di maggio, infatti, si era schiusa la possibilità per le signore panciute di indossare finalmente con orgoglio il costume intero, che sembrava definitivamente scomparso. “E’ tornato di moda”, titolavano i settimanali femminili, “il costume intero tenta il sorpasso” gridavano le testate on line (TGcom in testa) e i quotidiani pieni di pagine sulle “nuove tendenze”. Ed ecco che, come per effetto dei sogni di mezz’estate, complice il Financial Times che descrive l’Italia (ancora) come il paese delle donne nude, e complici fors’anche le vetrine dei saldi (che espongono centinaia di costumi interi invenduti) ieri la Stampa ha rispolverato non il bikini (mai tramontato) ma addirittura il topless, con uno speciale a due pagine sulla storia delle maggiorate pioniere dell’abbronzatura a seno scoperto. Ma se, nonostante tutto, la signora attenta al trend supera l’incertezza sul costume, si troverà di nuovo in ambasce al momento di uscire dall’albergo. Se infatti la signora suddetta non cede all’incerto fascino degli zoccoloni in plastica Crocs, che cosa ne sarà dei suoi piedi? “Questa è l’estate delle ballerine”, gridavano infatti ai primi caldi di giugno i cronisti di moda e costume, su quotidiani e settimanali. Eppure oggi è fortunata la signora che non ha ancora fatto la valigia, perché negli ultimi giorni i giornali pullulavano di foto e disegni delle zeppe: alte, altissime, multicolori, in saldo e già di moda l’anno scorso. Se, disperata, la signora vorrà infine rinfrescarsi con una bevanda, ricadrà nel dubbio: per le pagine del Corriere, infatti, gli italiani soprattutto bevono birra, specie fuori casa, anche se il vino “resiste nel weekend”. Peccato che a inizio estate sui giornali era esploso (come l’anno scorso) il “boom” delle vacanze enologiche. E’ l’aggiotaggio, bellezza.
E quindi, la sera, arrivi a casa, ti butti sul divano, e tu, come altri milioni di persone, vai su Second life, poi spegni il computer e la mattina leggi i giornali. E scopri che i professionisti dell’aggiotaggio si attaccano pure al mondo virtuale. Geniale, fantastico, tu però non ci capisci più nulla. Ma come? Avevi letto che il primo miliardario virtuale era una signora che vendeva terreni (virtuali) a mille dollari l’uno, avevi letto che c’era una ragazza bellissima con un avatar brutto brutto (“così mi apprezzano per le idee”), avevi letto che qualche geniaccio aveva abbandonato la propria attività “reale” perché credeva che quella virtuale “rendesse di più”. E invece no. Così, all’improvviso, tu scopri che la vita virtuale non è così diversa dalla reale. Scopri che gli uomini sono cattivi, pure lì, e scopri che lì ci sono stupri, omicidi, pedofili e furti. E scopri che i “milioni di utenti” del mondo virtuale e quelle “cifre destinate a esplodere nei prossimi mesi” e tutti quei circuiti di Formula Uno, tutti quei quartieri a luci rosse, quei progetti scientifici, quelle chiacchierate con Cavour e con Garibaldi e quel tripudio orgiastico di vitalità virtuale che fino a due giorni fa era destinato “a esplodere nei prossimi mesi” ora, così, è improvvisamente in declino. E allora leggi che le imprese lasciano le isole, leggi che i milioni di utenti non sono più milioni di utenti, leggi che il paradiso virtuale era un fallimento piuttosto reale e chiudi il giornale, rivai in spiaggia, ti ricordi che il vino “resiste nel weekend” e ti leggi del controesodo sulla Genova-Sestri Levante. E tu però sai bene che nel perfetto aggiotaggio balneare, i topless sulle spiagge, gli italiani che non vanno più in vacanza e l’allarme Second life tra qualche giorno sarà girato, stravolto e magnificamente ribaltato. Tornerà il boom Second Life, torneranno i topless, tornerà Michele Serra e torneranno anche le meduse. Proprio come già successo una decina di anni fa: Repubblica 10 agosto 1991, pagina 21. “Un’invasione di meduse nelle acque cagliaritane”.
Marianna Rizzini, Claudio Cerasa, Piero Vietti
Ora immaginate cosa potranno inventarsi i diabolici professionisti dell’aggiotaggio balneare quando tra un anno, nel 2008 – come spiegato da Francesco Rutelli nella “Giornata del Turismo-Passione Italia” – in estate ci saranno ben 14 giorni di vacanze in meno e quando le vacanze brillanti e le controsveglie intelligenti si concentreranno tutte in un mese, invece che due. Ecco, in quel caso l’aggiotaggio balneare dovrà essere ancora più creativo rispetto a quello di quest’anno; rispetto al solito: “Gli italiani scelgono di non partire”, seguito dai “consigli per le escursioni” della guardia forestale, accompagnati dai nove milioni (nove!) del miniesodo di luglio, dal classico articolo di Michele Serra su Repubblica stile: “Io, prigioniero in auto nella tundra lombarda” (arriverà, vedrete che arriverà) che si andrà a inserire alla perfezione nel su e giù, su e giù della borsa delle news, come successo ieri pomeriggio e come leggerete oggi sui giornali: “Vacanze, luglio non da record”. Non da record? Ecco. Un po’ di attenzione, per favore. Perché si potrà pur continuare a giustificare il traffico con le nuove vocazioni estive (“Catechismo sotto l’ombrellone”, scriveva ieri la Stampa) e si potrà dire che anche in questo weekend il traffico è stato sostenuto nell’intera mattinata senza disagi ai caselli di uscita della rete e che i flussi di traffico s’intensificheranno nel corso della giornata con forti rallentamenti sull’A-11 tra Genova-Sestri Levante. Però attenzione: se aggiotaggio dev’essere, che si esageri. I dati, please, spariamoli per bene. Divertiamoci sul serio. Perché se è vero che, come già successo la scorsa estate, ogni sabato i giornali parleranno dei 9 milioni di italiani in auto e poi i giornali continueranno a dire che la domenica gli italiani “al rientro” sono 10 milioni, alla fine, dopo tre mesi d’estate, tra gli italiani che partono e quelli che tornano, in tutto ci sarebbero 12 milioni di italiani che rientrerebbero senza mai essere partiti. Aiuto! Allarme rientri.
E poi. Chi, attento alla moda, dovesse comunque riuscire a raggiungere la spiaggia (sempre che il giorno prima della partenza un giornale non dia per “decaduta”, in senso mondano, la propria destinazione, per poi resuscitarla la settimana dopo) si troverà di fronte a un paio di dubbi, ingenerati da altre campagne di stampa uguali e contrarie. Al primo sole di maggio, infatti, si era schiusa la possibilità per le signore panciute di indossare finalmente con orgoglio il costume intero, che sembrava definitivamente scomparso. “E’ tornato di moda”, titolavano i settimanali femminili, “il costume intero tenta il sorpasso” gridavano le testate on line (TGcom in testa) e i quotidiani pieni di pagine sulle “nuove tendenze”. Ed ecco che, come per effetto dei sogni di mezz’estate, complice il Financial Times che descrive l’Italia (ancora) come il paese delle donne nude, e complici fors’anche le vetrine dei saldi (che espongono centinaia di costumi interi invenduti) ieri la Stampa ha rispolverato non il bikini (mai tramontato) ma addirittura il topless, con uno speciale a due pagine sulla storia delle maggiorate pioniere dell’abbronzatura a seno scoperto. Ma se, nonostante tutto, la signora attenta al trend supera l’incertezza sul costume, si troverà di nuovo in ambasce al momento di uscire dall’albergo. Se infatti la signora suddetta non cede all’incerto fascino degli zoccoloni in plastica Crocs, che cosa ne sarà dei suoi piedi? “Questa è l’estate delle ballerine”, gridavano infatti ai primi caldi di giugno i cronisti di moda e costume, su quotidiani e settimanali. Eppure oggi è fortunata la signora che non ha ancora fatto la valigia, perché negli ultimi giorni i giornali pullulavano di foto e disegni delle zeppe: alte, altissime, multicolori, in saldo e già di moda l’anno scorso. Se, disperata, la signora vorrà infine rinfrescarsi con una bevanda, ricadrà nel dubbio: per le pagine del Corriere, infatti, gli italiani soprattutto bevono birra, specie fuori casa, anche se il vino “resiste nel weekend”. Peccato che a inizio estate sui giornali era esploso (come l’anno scorso) il “boom” delle vacanze enologiche. E’ l’aggiotaggio, bellezza.
E quindi, la sera, arrivi a casa, ti butti sul divano, e tu, come altri milioni di persone, vai su Second life, poi spegni il computer e la mattina leggi i giornali. E scopri che i professionisti dell’aggiotaggio si attaccano pure al mondo virtuale. Geniale, fantastico, tu però non ci capisci più nulla. Ma come? Avevi letto che il primo miliardario virtuale era una signora che vendeva terreni (virtuali) a mille dollari l’uno, avevi letto che c’era una ragazza bellissima con un avatar brutto brutto (“così mi apprezzano per le idee”), avevi letto che qualche geniaccio aveva abbandonato la propria attività “reale” perché credeva che quella virtuale “rendesse di più”. E invece no. Così, all’improvviso, tu scopri che la vita virtuale non è così diversa dalla reale. Scopri che gli uomini sono cattivi, pure lì, e scopri che lì ci sono stupri, omicidi, pedofili e furti. E scopri che i “milioni di utenti” del mondo virtuale e quelle “cifre destinate a esplodere nei prossimi mesi” e tutti quei circuiti di Formula Uno, tutti quei quartieri a luci rosse, quei progetti scientifici, quelle chiacchierate con Cavour e con Garibaldi e quel tripudio orgiastico di vitalità virtuale che fino a due giorni fa era destinato “a esplodere nei prossimi mesi” ora, così, è improvvisamente in declino. E allora leggi che le imprese lasciano le isole, leggi che i milioni di utenti non sono più milioni di utenti, leggi che il paradiso virtuale era un fallimento piuttosto reale e chiudi il giornale, rivai in spiaggia, ti ricordi che il vino “resiste nel weekend” e ti leggi del controesodo sulla Genova-Sestri Levante. E tu però sai bene che nel perfetto aggiotaggio balneare, i topless sulle spiagge, gli italiani che non vanno più in vacanza e l’allarme Second life tra qualche giorno sarà girato, stravolto e magnificamente ribaltato. Tornerà il boom Second Life, torneranno i topless, tornerà Michele Serra e torneranno anche le meduse. Proprio come già successo una decina di anni fa: Repubblica 10 agosto 1991, pagina 21. “Un’invasione di meduse nelle acque cagliaritane”.
Marianna Rizzini, Claudio Cerasa, Piero Vietti
giovedì 19 luglio 2007
Il Foglio. "Intercettando Moretti"
5 maggio 2003, Nanni recita la deposizione del Caimano in Tribunale. Ecco lo stenografico
Roma. Nell’ormai non più misterioso ma
pur sempre impenetrabile, inarrivabile,
pungente, provocatorio, criptico, segreto, imperscrutabile,
maniacale e inevitabilmente
geniale, capolavoro preelettorale di Nanni
Moretti, le tracce lasciate dallo Stanley di
Monteverde (“ma lui è molto più bello, Moretti
è proprio un figo”, ci confessa una comparsa)
arrivano su un nastro. Dopo le comparse
coalizzate, perché “non siamo mercenari”,
gli addetti del casting mobilitati, perché
“noi siamo professionisti e soprattutto
non siamo stupidi”, i costumisti infastiditi,
“perché vogliamo essere rispettati”, a svelare
i maniacali misteri del film di Nanni Moretti
su Silvio il Caimano sono delle intercettazioni
registrate direttamente da uomini
vicini all’entourage morettiano. Coalizzati,
curiosi ma inevitabilmente incazzati.
Il Caimano, Silvio Orlando, “salta sulla
preda e la inghiotte”, salta in politica “non
perché gliene sia venuto l’estro”, “codifica
stramberie utili alla fuga dai processi milanesi”.
Puro Cordero. Il Caimano parla di
Silvio Berlusconi e delle più importanti
tappe che nella vita lo hanno portato a passare,
“non perché gliene sia venuto l’estro”,
dall’imprenditoria alla politica. E ce lo ricorda
sedici giorni prima delle elezioni, come
il Foglio è in grado di documentare tra
virgolette.
“Perché non risponde
adesso? L’imputato vuole
continuare a sottrarsi al
processo”, si sente nella
registrazione. Parla un
magistrato. Moretti sperava
che il suo Silvio, il
suo Caimano, qualcosa
dicesse. Ma Moretti, che oresta
la sua voce a Silvio, non
parla. “Non rispondo, vado”.
Commenta. “Ora mi inquadrano”, dice il Moretti
regista. “Sono già in ritardo dal presidente
greco che mi aspetta per un importante
incontro istituzionale”, continua il Moretti-
attore-Silvio. Il magistrato è una donna.
Sembra Margherita Buy, innamorata del Caimano,
che in una scena del film uccide suo
marito in una stanza circondata da bandiere
rosse con falci e martello. L’imputato è Silvio
Berlusconi, la voce è di Nanni. Continua il
pm: “Ma io questa volta mi aspettavo che il
presidente del Consiglio…”. Moretti la interrompe.
E’ nervoso. Il passaggio recitato da
Mister M. nei panni di mister B. è quello del
5 maggio 2003, quando Silvio Berlusconi si
presentò spontaneamente ai “processi milanesi”
sulla Sme. E sui quali forse è anche
informato bene Antonio Ingroia, il pm palermitano,
uomo di punta dello staff di Giancarlo
Caselli, già protagonista dell’altrettanto
eccellente ma sfortunatamente non più
impenetrabile lungometraggio di Enrico
Deaglio, intercettato dal Foglio assieme al
regista, il 23 febbraio, in una cena nel ristorante
romano da Evangelista. Dopo aver superato
brillantemente due mesi di alta depressione
che avevano insospettito alcune
persone “dell’ambiente”, portandole a pensare
che lo stesso regista non volesse dire
nulla del film “semplicemente perché del
film non ci stava capendo nulla”, Moretti
aveva avvisato il suo compagno di tavola.
“Sarà un filmone elettorale”.
“Perché io faccio parte di una troika”
I girotondi, il comizio di piazza Navona,
gli appelli, i consigli a sinistra, i cortometraggi.
Lo volevano in politica ma lui la politica
voleva farla a suo modo. “Perché io faccio
parte di una troika, faccio parte di una
troika che regge il consiglio”, dice Moretti al
magistrato. Il consiglio è il Consiglio d’Europa
che il Cav. avrebbe presieduto fino al dicembre
2003. “L’imputato vuole continuare
a sottrarsi al processo. Eppure io leggo in
quest’aula: ‘la legge è uguale per tutti’”. Moretti
recita, ma sembra essere furioso. “Sì,
ma questo cittadino qui forse è un po’ più
uguale degli altri”. Si ferma. Riprende. “Visto
che la maggioranza degli italiani in libere
elezioni ha conferito il mandato per governare”.
Pause, silenzi, commenti. Ancora
Moretti. Ancora Silvio. Si blocca la scena.
Moretti fa il Cav., Silvio Orlando fa il Caimano.
Elio De Capitani fa il Berlusconi imprenditore.
Il Cav. è uno e trino. Ma la voce
del Cav. pensante è la voce del Moretti narratore:
“I miei alleati. Non erano nessuno.
Erano fascisti. Li ho portati al governo, li ho
fatti diventare ministri. Erano democristiani
e si flagellavano. Si battevano il petto in
mezzo alla strada. E io li ho rassicurati.
Quelli della Lega nord poi… Tutta l’Europa
mi diceva: stai attento. Stai attento, sono razzisti.
Stai attento. Li ho fatti ragionare. Ho
portato al governo anche loro nonostante
m’insultassero. Nonostante mi dicessero che
ero un mafioso. Tutti li ho portati. Tutti li ho
portati. Ce ne fosse uno che oggi mi ha telefonato.
Ce ne fosse uno”. Il magistrato della
“legge è uguale per tutti”, fuori campo,
commenta. “Sono passati cinque anni dalla
prima udienza preliminare. L’imputato non
ha fatto altro che sottrarsi dal processo. Non
si è presentato in aula quando si era impegnato
a farlo. Si è dato da fare in ogni modo
per fare approvare delle leggi il cui fine era
quello di impedire che si celebrasse e si
portasse a termine questo processo. Quello
che era in gioco a questo punto era la possibilità
stessa di celebrarlo”. Sottofondo di
violini, stile Kubrick. (Con le norme capestro
del giornalismo non si riesce a scrivere un articolo
decente, nemmeno quando c’è lo scoop).
Claudio Cerasa
16/3/06
Roma. Nell’ormai non più misterioso ma
pur sempre impenetrabile, inarrivabile,
pungente, provocatorio, criptico, segreto, imperscrutabile,
maniacale e inevitabilmente
geniale, capolavoro preelettorale di Nanni
Moretti, le tracce lasciate dallo Stanley di
Monteverde (“ma lui è molto più bello, Moretti
è proprio un figo”, ci confessa una comparsa)
arrivano su un nastro. Dopo le comparse
coalizzate, perché “non siamo mercenari”,
gli addetti del casting mobilitati, perché
“noi siamo professionisti e soprattutto
non siamo stupidi”, i costumisti infastiditi,
“perché vogliamo essere rispettati”, a svelare
i maniacali misteri del film di Nanni Moretti
su Silvio il Caimano sono delle intercettazioni
registrate direttamente da uomini
vicini all’entourage morettiano. Coalizzati,
curiosi ma inevitabilmente incazzati.
Il Caimano, Silvio Orlando, “salta sulla
preda e la inghiotte”, salta in politica “non
perché gliene sia venuto l’estro”, “codifica
stramberie utili alla fuga dai processi milanesi”.
Puro Cordero. Il Caimano parla di
Silvio Berlusconi e delle più importanti
tappe che nella vita lo hanno portato a passare,
“non perché gliene sia venuto l’estro”,
dall’imprenditoria alla politica. E ce lo ricorda
sedici giorni prima delle elezioni, come
il Foglio è in grado di documentare tra
virgolette.
“Perché non risponde
adesso? L’imputato vuole
continuare a sottrarsi al
processo”, si sente nella
registrazione. Parla un
magistrato. Moretti sperava
che il suo Silvio, il
suo Caimano, qualcosa
dicesse. Ma Moretti, che oresta
la sua voce a Silvio, non
parla. “Non rispondo, vado”.
Commenta. “Ora mi inquadrano”, dice il Moretti
regista. “Sono già in ritardo dal presidente
greco che mi aspetta per un importante
incontro istituzionale”, continua il Moretti-
attore-Silvio. Il magistrato è una donna.
Sembra Margherita Buy, innamorata del Caimano,
che in una scena del film uccide suo
marito in una stanza circondata da bandiere
rosse con falci e martello. L’imputato è Silvio
Berlusconi, la voce è di Nanni. Continua il
pm: “Ma io questa volta mi aspettavo che il
presidente del Consiglio…”. Moretti la interrompe.
E’ nervoso. Il passaggio recitato da
Mister M. nei panni di mister B. è quello del
5 maggio 2003, quando Silvio Berlusconi si
presentò spontaneamente ai “processi milanesi”
sulla Sme. E sui quali forse è anche
informato bene Antonio Ingroia, il pm palermitano,
uomo di punta dello staff di Giancarlo
Caselli, già protagonista dell’altrettanto
eccellente ma sfortunatamente non più
impenetrabile lungometraggio di Enrico
Deaglio, intercettato dal Foglio assieme al
regista, il 23 febbraio, in una cena nel ristorante
romano da Evangelista. Dopo aver superato
brillantemente due mesi di alta depressione
che avevano insospettito alcune
persone “dell’ambiente”, portandole a pensare
che lo stesso regista non volesse dire
nulla del film “semplicemente perché del
film non ci stava capendo nulla”, Moretti
aveva avvisato il suo compagno di tavola.
“Sarà un filmone elettorale”.
“Perché io faccio parte di una troika”
I girotondi, il comizio di piazza Navona,
gli appelli, i consigli a sinistra, i cortometraggi.
Lo volevano in politica ma lui la politica
voleva farla a suo modo. “Perché io faccio
parte di una troika, faccio parte di una
troika che regge il consiglio”, dice Moretti al
magistrato. Il consiglio è il Consiglio d’Europa
che il Cav. avrebbe presieduto fino al dicembre
2003. “L’imputato vuole continuare
a sottrarsi al processo. Eppure io leggo in
quest’aula: ‘la legge è uguale per tutti’”. Moretti
recita, ma sembra essere furioso. “Sì,
ma questo cittadino qui forse è un po’ più
uguale degli altri”. Si ferma. Riprende. “Visto
che la maggioranza degli italiani in libere
elezioni ha conferito il mandato per governare”.
Pause, silenzi, commenti. Ancora
Moretti. Ancora Silvio. Si blocca la scena.
Moretti fa il Cav., Silvio Orlando fa il Caimano.
Elio De Capitani fa il Berlusconi imprenditore.
Il Cav. è uno e trino. Ma la voce
del Cav. pensante è la voce del Moretti narratore:
“I miei alleati. Non erano nessuno.
Erano fascisti. Li ho portati al governo, li ho
fatti diventare ministri. Erano democristiani
e si flagellavano. Si battevano il petto in
mezzo alla strada. E io li ho rassicurati.
Quelli della Lega nord poi… Tutta l’Europa
mi diceva: stai attento. Stai attento, sono razzisti.
Stai attento. Li ho fatti ragionare. Ho
portato al governo anche loro nonostante
m’insultassero. Nonostante mi dicessero che
ero un mafioso. Tutti li ho portati. Tutti li ho
portati. Ce ne fosse uno che oggi mi ha telefonato.
Ce ne fosse uno”. Il magistrato della
“legge è uguale per tutti”, fuori campo,
commenta. “Sono passati cinque anni dalla
prima udienza preliminare. L’imputato non
ha fatto altro che sottrarsi dal processo. Non
si è presentato in aula quando si era impegnato
a farlo. Si è dato da fare in ogni modo
per fare approvare delle leggi il cui fine era
quello di impedire che si celebrasse e si
portasse a termine questo processo. Quello
che era in gioco a questo punto era la possibilità
stessa di celebrarlo”. Sottofondo di
violini, stile Kubrick. (Con le norme capestro
del giornalismo non si riesce a scrivere un articolo
decente, nemmeno quando c’è lo scoop).
Claudio Cerasa
16/3/06
Il Foglio. "Il regista depresso “si sente Kubrick”, filma e spiega la vita del Cav."
LE COMPARSE SI COALIZZANO CONTRO LO STANLEY DI MONTEVERDE PER SVELARE I MISTERI DEL FILM. ECCOLI
Il misterioso, impenetrabile, discusso, segreto,
polemico, politico, propagandistico,
pungente e provocatorio “Caimano” di Nanni
Moretti comincia dentro una casa “molto
borghese” nel centro di Roma, a piazzale
Flaminio. Una classica stanza morettiana
con libri, videocassette, colori freddi, molta
cultura, scene lunghe, lunghi silenzi, lunghi
dialoghi. Una stanza. “Molto simile a quella
della ‘stanza del figlio’”, fa notare un componente
un po’ ribelle del casting morettiano.
“Lui si sentiva molto Kubrick, era criptico,
segreto, imperscrutabile, maniacale”.
Poi, un po’ spaventato, puntualizza. “Moretti
è meraviglioso, a Natale mi ha fatto anche
un regalo”. Il mistero del propagandistico e
inevitabilmente pungente ultimo film di
Nanni Moretti (che per la prima volta a Roma
verrà distribuito in dodici sale) viene a
poco a poco svelato dai misteriosi e segreti
componenti del cast del “Caimano”. Il certamente
film capolavoro, che inizialmente
sembrava parlare anche di Silvio Berlusconi,
potrebbe clamorosamente essere un film
che parla di Silvio Berlusconi. Senza nessun
anche. E le comparse alla fine si sono coalizzate
contro il provocatorio, irritante, seducente
e polemico Nanni Moretti.
“Non ci voleva dire niente, ma dico io.
Perché dobbiamo lavorare per qualcosa che
non possiamo conoscere? Mica siamo mercenari”,
si sfoga una comparsa che a discapito
della sua qualifica professionale preferisce
non comparire. Chi compare non vuole
apparire, ma chi non voleva mostrare alla
fine ha mostrato. Non tanto, ma un po’ ha
mostrato. Pungente, politico e soprattutto
elettorale, aveva confessato al pubblico ministero
e compagno di tavola Antonio Ingroia,
nella segretissima cena intercettata
dal Foglio dieci giorni fa, tra le segretissime
tavolate della signora Adele al ristorante
Evangelista. Dove tra un carciofo e una zuppa
era stato ammesso che in fondo sì, il film
è molto elettorale. “Insieme a Palombella
Rossa è la pellicola più politica che lui abbia
mai realizzato”, dice un ragazzo del casting.
Guai a parlarne. E del suo film è stato
lo stesso cordiale e accigliato Nanni Moretti
ad averci detto che non voleva dire nulla
“perché un film va visto senza sapere nulla”.
Ci aveva assicurato il Moretti indigesto “con
quel mal di pancia che non ti dico”, qualche
giorno fa a via delle Zoccolette a Roma, che
“vedrete qualcosa solo quando uscirà il
film”, che diamine. Se non si deve sapere
nulla, non si deve sapere nulla. Ma il Moretti
coerente e misterioso che non voleva dire
nulla e che alla fine un po’ ha detto, dicendoci
anche una bugia, ha fatto arrabbiare il
suo cast. E le comparse che preferiscono
non comparire perché poi “dobbiamo ricomparire
sui set”, ci raccontano che il Caimano
è effettivamente Silvio Orlando. Così
caimano e così maniacalmente perfetto nell’andare
a interrompere a proprio piacimento
le scene del film dentro il film, che alla
fine è così morettiano da somigliare tanto
allo stesso Nanni Moretti. Ci aveva detto che
non si doveva vedere nulla fino all’uscita del
film. Le comparse lo sapevano, ci tenevano.
“Poteva almeno avvertirci”, si lamentano visibilmente
infastiditi per quelle misteriose
e impenetrabili immagini comparse all’improvviso
nei cinema. Gli ottanta secondi di
trailer non sono andati giù. “Non si capisce
nulla”, ci dice una comparsa sabauda che
congiuntamente ai suoi colleghi, alle altre
comparse e ad alcuni componenti del casting,
si è ribellata. “Ma perché non dobbiamo
sapere nulla?”, si chiede Giovanni che
poi ci conferma. “Il caimano è certamente il
protagonista ed è certamente Silvio Orlando.
Ma nel film dentro il film il personaggio di
Silvio Berlusconi potrebbe essere sdoppiato.
Come una divinità”.
“Non ci stava più capendo niente”
Da una parte il Berlusconi imprenditore,
dall’altra il Berlusconi caimano e controllore
della vita degli altri”. Indirizzati dalle
tracce e dalle prove raccolte dai curiosi e indiscreti
sovversivi morettiani, il film che
parlerà di Berlusconi, “uno dei film più politici
che Moretti abbia mai fatto”, viene
però clamorosamente smentito da una delle
poche persone che il film lo abbia visto per
intero e che molto cordialmente prima precisa:
“A me voi del Foglio non piacete” e poi
tenta di depistarci, precisando (senza che
noi avessimo pensato nulla): “Non è poi così
politico come voi potete pensare”. Non la
pensa così una fonte che ha direttamente
chiesto e pregato il Foglio di poter dire la
sua sul film, sollecitata anche dagli eccessivi
misteri dello stesso film di Moretti. Misteri
che incredibilmente potrebbero avere anche
un risvolto che con il marketing e con la
volontà di nascondere il film per creare attesa
non c’entra proprio nulla. “Moretti non
ci raccontava nulla perché era lui stesso a
non averci capito nulla del film”. L’incredibile
sfogo di una comparsa pugliese trova riscontro
in una fonte che preferisce definirsi
“dell’ambiente”. Che rivela come il polemico,
brillante, pungente e misterioso Nanni
Moretti nel mezzo della sua creazione dall’inevitabile
fascino preelettorale, come ha
amato sottolineare ai tavoli del ristorante
romano assieme al suo compagno di battaglia
Ingroia, abbia avuto una crisi depressiva
di struggente intensità. La fonte “dell’ambiente”
ci rivela che nell’ambiente si sapeva.
“Nanni Moretti ha interrotto per due
mesi la sue riprese. Era entrato in crisi, non
aveva più un’idea chiara, non sapeva bene
come continuare. Moretti non ci stava capendo
più niente”. Per questo dunque non
raccontava a nessuno la trama. Per questo
quando le comparse, interdette dalla complessità
della trama e per questo incuriosite,
chiedevano delucidazioni sul film si vedevano
interrotte da un brusco ma comprensibile:
“Aspettate di vederlo al cinema”.
Semplicemente non la sapeva neanche
lui. “Ma era una crisi, per favore. Nell’ambiente
si sa che sulle crisi artistiche non si
scherza”. Poi Nanni Moretti si è ripreso. E
per continuare le riprese ha ripreso la misteriosa,
impenetrabile e pungente trama
del “Caimano”. Che racconta qualcosa in
più delle semplici avventure di un caimano.
“Il film parla di Silvio Berlusconi”, dice
senza mistero Franco. “La trama è costruita
su spezzoni di vita del premier. Vengono ricordati
alcuni momenti salienti della sua
storia. Quelle fasi di passaggio decisive nel
suo passaggio da semplice imprenditore a
politico. Ci sono dei riferimenti ben precisi
all’Edilnord, agli inizi del Cavaliere. Si spiega
in che modo si sia ingigantito il suo patrimonio
e quali siano state le amicizie che gli
hanno permesso di ingigantirlo”. Il caimano
si trasforma assieme ai suoi soldi. Ma a
quanto pare s’innamora pure. E gli imperscrutabili
sguardi di intesa tra Margherita
Buy e Silvio Orlando (mostrati anche negli
ottanta secondi del trailer che hanno fatto
sobbalzare dalle sedie anche quelle comparse
alle quali era stato assicurato, esattamente
come al Foglio, che del film no, non si
deve sapere nulla fino all’ultimo) sono qualcosa
in più che semplici sguardi di intesa e
di complicità. Silvio Orlando e Margherita
Buy sono una coppia. I figli sono stati scelti
a Roma da Lucio, componente del casting.
Uno ha dodici anni, la bambina di anni ne
ha dieci. Uno è figlio di Orlando, una di Margherita
Buy. Anche se Lucio lascia intendere
che i due figli potrebbero essere entrambi
del Silvio e della Margherita. Nella scena
già citata dell’Auditorium di Roma dove
Margherita Buy viene interrotta sul palco
dal Caimano, la signora Cecilia ci racconta
che Silvio Orlando mormorava a Margherita
Buy: “Perché mi hai lasciato, che cosa hai
fatto?”. Nelle terre sabaude, oltre alla scena
dello sbarco di Cristoforo Michele Placido
Colombo, una comparsa infiltrata del Foglio
ci rivela particolari su Margherita Buy che
non solo “ha lasciato e cosa ha fatto”, ma anche
ucciso qualcuno. Ha ucciso il marito.
Nella scena in un casale a Sabaudia arrivano
i poliziotti. Tra di loro c’è la talpa del Foglio.
“Margherita Buy – ci conferma – aveva
ucciso suo marito. Noi siamo arrivati nel palazzo,
lei scende, si agita, scappa. Non sa più
dove andare. E’ disperata”. I poliziotti cercano
di intimarla. “Scendi giù, scendi”. La
Buy si butta da una finestra. “Non si era fermata,
ma non credo che sia morta”.
Nella scena descritta la fonte del Foglio è
stata vestita con abiti degli anni Settanta.
“Ci hanno fatto crescere i basettoni, a Moretti
non so perché ma piacciono molto i basettoni”.
I costumisti erano stati avvertiti. Il
periodo è quello, non c’è dubbio. Parcheggiata
di fronte alla casa c’era un Alfetta. Dopo
il matrimonio trotzkista con Virzì e Sorrentino,
lo spettro del comunismo si aggira
in maniera chiara anche nella casa di Margherita
Buy. “Era piena di bandiere rosse
con la falce e il martello. Sulle pareti erano
appese alcune stampe russe. Margherita
Buy aveva un vestitino leggero. Stava festeggiando
e la tavola era tutta imbandita di vivande.
Parlava con altre persone in modo
molto disteso all’interno di quest’ambiente
completamente rosso. Poi arriviamo noi poliziotti
e lei inizia a scappare. Non sa dove
andare, decide di buttarsi dal terrazzino. Ricordo
che a posizionare le bandiere rosse in
sala è stato lo stesso Nanni Moretti. Sembrava
divertito, le sventolava, lui con quei
colori si diverte”. Nella stanza del comunismo
avviene l’omicidio. “Il film è ricco di
simbologia, un morto nella stanza rossa non
può voler dire altro che quei colori sono parte
attiva nell’omicidio”.
Come per voler dire che nella morte del
marito di Margherita Buy il misterioso e impenetrabilmente
pungente Caimano (così
morettiano da somigliare tanto allo stesso
geniale Nanni Moretti) all’interno del suo
film abbia fatto la sua scelta nella scelta. In
quell’omicidio, in quell’atmosfera di pace
morettiana, in quel momento di rivisitazione
della vita del Cav., con il rosso, la falce e
martello, le bandiere, i comunisti appesi alle
pareti, in tutto questo i veri responsabili
di tutto quanto quello che sta succedendo e
di tutto quanto quello che il Caimano sta
realizzando, in tutto questo, in tutta la strategia
del Silvio caimano, i veri colpevoli (e i
veri complici) sono loro. Stanno lì, fermi, imbalsamati,
accondiscendenti. Vedono il Caimano
e non gli dicono nulla. Non gli hanno
detto nulla e quando l’hanno fatto era troppo
tardi. Meglio ricordare di chi è la vera
colpa di tutto questo, appena sedici giorni
prima delle elezioni.
Claudio Cerasa
8/03/06
Il misterioso, impenetrabile, discusso, segreto,
polemico, politico, propagandistico,
pungente e provocatorio “Caimano” di Nanni
Moretti comincia dentro una casa “molto
borghese” nel centro di Roma, a piazzale
Flaminio. Una classica stanza morettiana
con libri, videocassette, colori freddi, molta
cultura, scene lunghe, lunghi silenzi, lunghi
dialoghi. Una stanza. “Molto simile a quella
della ‘stanza del figlio’”, fa notare un componente
un po’ ribelle del casting morettiano.
“Lui si sentiva molto Kubrick, era criptico,
segreto, imperscrutabile, maniacale”.
Poi, un po’ spaventato, puntualizza. “Moretti
è meraviglioso, a Natale mi ha fatto anche
un regalo”. Il mistero del propagandistico e
inevitabilmente pungente ultimo film di
Nanni Moretti (che per la prima volta a Roma
verrà distribuito in dodici sale) viene a
poco a poco svelato dai misteriosi e segreti
componenti del cast del “Caimano”. Il certamente
film capolavoro, che inizialmente
sembrava parlare anche di Silvio Berlusconi,
potrebbe clamorosamente essere un film
che parla di Silvio Berlusconi. Senza nessun
anche. E le comparse alla fine si sono coalizzate
contro il provocatorio, irritante, seducente
e polemico Nanni Moretti.
“Non ci voleva dire niente, ma dico io.
Perché dobbiamo lavorare per qualcosa che
non possiamo conoscere? Mica siamo mercenari”,
si sfoga una comparsa che a discapito
della sua qualifica professionale preferisce
non comparire. Chi compare non vuole
apparire, ma chi non voleva mostrare alla
fine ha mostrato. Non tanto, ma un po’ ha
mostrato. Pungente, politico e soprattutto
elettorale, aveva confessato al pubblico ministero
e compagno di tavola Antonio Ingroia,
nella segretissima cena intercettata
dal Foglio dieci giorni fa, tra le segretissime
tavolate della signora Adele al ristorante
Evangelista. Dove tra un carciofo e una zuppa
era stato ammesso che in fondo sì, il film
è molto elettorale. “Insieme a Palombella
Rossa è la pellicola più politica che lui abbia
mai realizzato”, dice un ragazzo del casting.
Guai a parlarne. E del suo film è stato
lo stesso cordiale e accigliato Nanni Moretti
ad averci detto che non voleva dire nulla
“perché un film va visto senza sapere nulla”.
Ci aveva assicurato il Moretti indigesto “con
quel mal di pancia che non ti dico”, qualche
giorno fa a via delle Zoccolette a Roma, che
“vedrete qualcosa solo quando uscirà il
film”, che diamine. Se non si deve sapere
nulla, non si deve sapere nulla. Ma il Moretti
coerente e misterioso che non voleva dire
nulla e che alla fine un po’ ha detto, dicendoci
anche una bugia, ha fatto arrabbiare il
suo cast. E le comparse che preferiscono
non comparire perché poi “dobbiamo ricomparire
sui set”, ci raccontano che il Caimano
è effettivamente Silvio Orlando. Così
caimano e così maniacalmente perfetto nell’andare
a interrompere a proprio piacimento
le scene del film dentro il film, che alla
fine è così morettiano da somigliare tanto
allo stesso Nanni Moretti. Ci aveva detto che
non si doveva vedere nulla fino all’uscita del
film. Le comparse lo sapevano, ci tenevano.
“Poteva almeno avvertirci”, si lamentano visibilmente
infastiditi per quelle misteriose
e impenetrabili immagini comparse all’improvviso
nei cinema. Gli ottanta secondi di
trailer non sono andati giù. “Non si capisce
nulla”, ci dice una comparsa sabauda che
congiuntamente ai suoi colleghi, alle altre
comparse e ad alcuni componenti del casting,
si è ribellata. “Ma perché non dobbiamo
sapere nulla?”, si chiede Giovanni che
poi ci conferma. “Il caimano è certamente il
protagonista ed è certamente Silvio Orlando.
Ma nel film dentro il film il personaggio di
Silvio Berlusconi potrebbe essere sdoppiato.
Come una divinità”.
“Non ci stava più capendo niente”
Da una parte il Berlusconi imprenditore,
dall’altra il Berlusconi caimano e controllore
della vita degli altri”. Indirizzati dalle
tracce e dalle prove raccolte dai curiosi e indiscreti
sovversivi morettiani, il film che
parlerà di Berlusconi, “uno dei film più politici
che Moretti abbia mai fatto”, viene
però clamorosamente smentito da una delle
poche persone che il film lo abbia visto per
intero e che molto cordialmente prima precisa:
“A me voi del Foglio non piacete” e poi
tenta di depistarci, precisando (senza che
noi avessimo pensato nulla): “Non è poi così
politico come voi potete pensare”. Non la
pensa così una fonte che ha direttamente
chiesto e pregato il Foglio di poter dire la
sua sul film, sollecitata anche dagli eccessivi
misteri dello stesso film di Moretti. Misteri
che incredibilmente potrebbero avere anche
un risvolto che con il marketing e con la
volontà di nascondere il film per creare attesa
non c’entra proprio nulla. “Moretti non
ci raccontava nulla perché era lui stesso a
non averci capito nulla del film”. L’incredibile
sfogo di una comparsa pugliese trova riscontro
in una fonte che preferisce definirsi
“dell’ambiente”. Che rivela come il polemico,
brillante, pungente e misterioso Nanni
Moretti nel mezzo della sua creazione dall’inevitabile
fascino preelettorale, come ha
amato sottolineare ai tavoli del ristorante
romano assieme al suo compagno di battaglia
Ingroia, abbia avuto una crisi depressiva
di struggente intensità. La fonte “dell’ambiente”
ci rivela che nell’ambiente si sapeva.
“Nanni Moretti ha interrotto per due
mesi la sue riprese. Era entrato in crisi, non
aveva più un’idea chiara, non sapeva bene
come continuare. Moretti non ci stava capendo
più niente”. Per questo dunque non
raccontava a nessuno la trama. Per questo
quando le comparse, interdette dalla complessità
della trama e per questo incuriosite,
chiedevano delucidazioni sul film si vedevano
interrotte da un brusco ma comprensibile:
“Aspettate di vederlo al cinema”.
Semplicemente non la sapeva neanche
lui. “Ma era una crisi, per favore. Nell’ambiente
si sa che sulle crisi artistiche non si
scherza”. Poi Nanni Moretti si è ripreso. E
per continuare le riprese ha ripreso la misteriosa,
impenetrabile e pungente trama
del “Caimano”. Che racconta qualcosa in
più delle semplici avventure di un caimano.
“Il film parla di Silvio Berlusconi”, dice
senza mistero Franco. “La trama è costruita
su spezzoni di vita del premier. Vengono ricordati
alcuni momenti salienti della sua
storia. Quelle fasi di passaggio decisive nel
suo passaggio da semplice imprenditore a
politico. Ci sono dei riferimenti ben precisi
all’Edilnord, agli inizi del Cavaliere. Si spiega
in che modo si sia ingigantito il suo patrimonio
e quali siano state le amicizie che gli
hanno permesso di ingigantirlo”. Il caimano
si trasforma assieme ai suoi soldi. Ma a
quanto pare s’innamora pure. E gli imperscrutabili
sguardi di intesa tra Margherita
Buy e Silvio Orlando (mostrati anche negli
ottanta secondi del trailer che hanno fatto
sobbalzare dalle sedie anche quelle comparse
alle quali era stato assicurato, esattamente
come al Foglio, che del film no, non si
deve sapere nulla fino all’ultimo) sono qualcosa
in più che semplici sguardi di intesa e
di complicità. Silvio Orlando e Margherita
Buy sono una coppia. I figli sono stati scelti
a Roma da Lucio, componente del casting.
Uno ha dodici anni, la bambina di anni ne
ha dieci. Uno è figlio di Orlando, una di Margherita
Buy. Anche se Lucio lascia intendere
che i due figli potrebbero essere entrambi
del Silvio e della Margherita. Nella scena
già citata dell’Auditorium di Roma dove
Margherita Buy viene interrotta sul palco
dal Caimano, la signora Cecilia ci racconta
che Silvio Orlando mormorava a Margherita
Buy: “Perché mi hai lasciato, che cosa hai
fatto?”. Nelle terre sabaude, oltre alla scena
dello sbarco di Cristoforo Michele Placido
Colombo, una comparsa infiltrata del Foglio
ci rivela particolari su Margherita Buy che
non solo “ha lasciato e cosa ha fatto”, ma anche
ucciso qualcuno. Ha ucciso il marito.
Nella scena in un casale a Sabaudia arrivano
i poliziotti. Tra di loro c’è la talpa del Foglio.
“Margherita Buy – ci conferma – aveva
ucciso suo marito. Noi siamo arrivati nel palazzo,
lei scende, si agita, scappa. Non sa più
dove andare. E’ disperata”. I poliziotti cercano
di intimarla. “Scendi giù, scendi”. La
Buy si butta da una finestra. “Non si era fermata,
ma non credo che sia morta”.
Nella scena descritta la fonte del Foglio è
stata vestita con abiti degli anni Settanta.
“Ci hanno fatto crescere i basettoni, a Moretti
non so perché ma piacciono molto i basettoni”.
I costumisti erano stati avvertiti. Il
periodo è quello, non c’è dubbio. Parcheggiata
di fronte alla casa c’era un Alfetta. Dopo
il matrimonio trotzkista con Virzì e Sorrentino,
lo spettro del comunismo si aggira
in maniera chiara anche nella casa di Margherita
Buy. “Era piena di bandiere rosse
con la falce e il martello. Sulle pareti erano
appese alcune stampe russe. Margherita
Buy aveva un vestitino leggero. Stava festeggiando
e la tavola era tutta imbandita di vivande.
Parlava con altre persone in modo
molto disteso all’interno di quest’ambiente
completamente rosso. Poi arriviamo noi poliziotti
e lei inizia a scappare. Non sa dove
andare, decide di buttarsi dal terrazzino. Ricordo
che a posizionare le bandiere rosse in
sala è stato lo stesso Nanni Moretti. Sembrava
divertito, le sventolava, lui con quei
colori si diverte”. Nella stanza del comunismo
avviene l’omicidio. “Il film è ricco di
simbologia, un morto nella stanza rossa non
può voler dire altro che quei colori sono parte
attiva nell’omicidio”.
Come per voler dire che nella morte del
marito di Margherita Buy il misterioso e impenetrabilmente
pungente Caimano (così
morettiano da somigliare tanto allo stesso
geniale Nanni Moretti) all’interno del suo
film abbia fatto la sua scelta nella scelta. In
quell’omicidio, in quell’atmosfera di pace
morettiana, in quel momento di rivisitazione
della vita del Cav., con il rosso, la falce e
martello, le bandiere, i comunisti appesi alle
pareti, in tutto questo i veri responsabili
di tutto quanto quello che sta succedendo e
di tutto quanto quello che il Caimano sta
realizzando, in tutto questo, in tutta la strategia
del Silvio caimano, i veri colpevoli (e i
veri complici) sono loro. Stanno lì, fermi, imbalsamati,
accondiscendenti. Vedono il Caimano
e non gli dicono nulla. Non gli hanno
detto nulla e quando l’hanno fatto era troppo
tardi. Meglio ricordare di chi è la vera
colpa di tutto questo, appena sedici giorni
prima delle elezioni.
Claudio Cerasa
8/03/06
Il Foglio. "Spiando Nanni Moretti"
Svelati i misteri del Caimano. E’ Silvio Orlando, cioè Silvio. Placido
sbarca a Sabaudia come Colombo. Il regista Virzì celebra le nozze
trotzkiste. Prove raccolte in un ristorante di Roma e nei suoi dintorni
Roma. Sulle tracce del misterioso, segreto,
impenetrabile nuovo film di Nanni Moretti,
“Il Caimano”, il Foglio è riuscito a scoprire
il misterioso, segreto, impenetrabile
racconto cinematografico. Attori, scene, registi
che recitano, attori che fanno i registi,
galeoni che sbarcano a Sabaudia “per i quali
sono stati usati tantissimi soldi”, caimani
che salgono sul palco, interrompendo le
scene, giornate gelate in pieno luglio, concerti
all’Auditorium, misteriosi flirt tra i
protagonisti, attori che recitano sotto la (vera)
pioggia e attori (veri) che si ammalano.
Sul set non si parla. Chi recita non può, è
scritto sul contratto. Ma le comparse, i costumisti,
gli addetti al casting ci hanno raccontato
in che modo è stato costruito e in
che modo è stato tenuto nascosto il prossimo
film pre-elettorale di Moretti.
Il film, girato tra la periferia di Roma, le
spiagge di Sabaudia e Milano, uscirà il 24
marzo in 300 copie. I protagonisti saranno
Silvio Orlando, Margherita Buy, Jasmine
Trinca, Michele Placido e Elio de Capitani.
Per il film il regista ha persino reclutato
molti bambini nelle scuole elementari romane,
tra questi uno ha un ruolo da protagonista.
E’ Daniele, molto probabilmente
il figlio di Margherita Buy. “E
forse non è un caso – sostiene un ragazzo
che ha lavorato nel film
– i bambini sono messi in
scena per convincere emotivamente
lo spettatore
che il Caimano riveste
un ruolo subdolo. E che
non si faccia scrupoli a
esercitare il suo senso
di onnipresenza e onnipotenza
anche
sugli stessi bambini”.
All’interno del
film sono presenti
una serie di altri
film. Ognuno con
un suo regista. Il Caimano
è Silvio Orlando. Ha un ruolo preciso,
è lui che controlla, che appare nelle
scene spesso senza dire nulla. Vigila su ciò
che accade. Si guarda in giro e quando c’è
qualcosa che a lui non quadra, ferma tutto,
blocca il film nel film. Perché il film deve
essere proprio come vuole lui. “Alza un dito,
fa gestacci, si fa notare fino a quando gli
altri – gli attori – non sono costretti a interrompere
ciò che stanno facendo in quel
momento”, dice una comparsa. Gli attori
non potevano e non dovevano parlare.
Pierluigi, lo chiameremo così, era a Sabaudia.
“A me mi ha fatto venire la febbre”.
Pioveva tantissimo ma Moretti ha
continuato a far girare il film. Pierluigi è
rimasto sul set “dalle 18 alle 5 di mattina”.
A Sabaudia c’era un vascello con sopra Michele
Placido. La scena era quella di uno
sbarco. Pierluigi era curioso e ha chiesto,
“ma chi è il caimano?”. Per tutti la stessa
risposta. “Lo vedrai al cinema”. Ma loro lo
sapevano. “Il caimano è Berlusconi. Nel
film è Silvio Orlando”. Il protagonista è lui.
Cristoforo Colombo sbarca a Sabaudia.
“Non ha badato a spese per questa scena e
in particolare per il vascello. Era immenso,
curatissimo nei particolari. Ha speso
tantissimo. Io vedevo arrivare Orlando.
Quando interveniva bloccava tutto senza
dire una parola, solo con i gesti”. Ricorda
Pierluigi, riassumendo il vero senso del
film: “Si sarebbe voluto parlare di come
sia difficile fare cinema in Italia. I registi
hanno recitato proprio per questo”. Pierluigi
era curioso. Osservava il Caimano.
“Orlando passava sulla scena del film e dava
fastidio. Scendeva dalla collinetta e rimaneva
a guardare. Sembrava lui quello a
cui dovevano tornare i conti”. “Si impadronisce
dello stato”, direbbe Cordero che
in un articolo su Repubblica aveva accostato
il Cav. alla figura del Caimano.
“Ce l’ha fatta girare venti volte la scena”
“Ce l’ha fatta girare venti volte quella
scena”. Nel film nel film c’è un regista per
ogni trama. Un regista che fa il regista e alcuni
registi (veri) che fanno gli attori. “C’è
una scena in cui Virzì celebra un matrimonio.
Margherita Buy sposa Paolo Sorrentino.
Sorrentino dovrebbe avere un fazzoletto
rosso al collo”. Gli altri registi sono Carlo
Mazzacurati nella parte di un cameriere,
Renato De Maria, Antonello Grimaldi,
Jerzy Sthur.
Tiziana, la chiamiamo così, era seduta
nella settima fila dell’Auditorium di Roma,
sala Santa Cecilia. Era luglio. “Faceva un
caldo incredibile. Moretti era molto affascinante.
C’era una strana aria. Moretti
parlava molto con Silvio Orlando. Ma lui si
metteva continuamente a ridere e la scena
è stata ripetuta un’infinità di volte. Mi sembra
che Moretti volesse un personaggio
molto più severo, più brusco. Molto più deciso”.
Tiziana era arrivata alle nove di mattina.
“Mi ha fatto uscire alle 21”. Sul palco
c’è un’orchestra e anche Margherita Buy.
“Cantava con uno spartito davanti a sé”.
Orlando è seduto in platea, controlla. Interrompe.
Entra sulla scena e all’Auditorium
salta sul palco. “Sembrava scandire i
tempi e i ruoli di ogni ripresa”. Stoppa, si
avvicina a Margherita Buy. Le parla all’orecchio.
Tiziana era curiosa. Chiede anche
lei. Le rispondono: “Aspetti di vedere il
film al cinema”. Dice Tiziana: “Siamo rimasti
chiusi dentro la sala, dodici ore sotto
l’aria condizionata. Moretti aveva il maglione
intorno alla gola per ripararsi”. Tiziana
dice: “Sembrava che Orlando fosse il
marito di Margherita Buy. Non doveva parlare
nessuno, non poteva parlare nessuno”.
Tiziana, parlando con le altre comparse, ricorda:
“Eravamo molto curiosi di osservare
Moretti in azione. Ma noi veramente lo
volevamo anche vedere come attore. All’Auditorium
lui non ha recitato. Ma una
piccolissima particina sono quasi sicura
che lui l’abbia fatta”. La stessa cosa ci dice
Pierluigi. “In mezzo a tutti questi registi voleva
esserci anche lui”. E’ una tecnica pubblicitaria.
Geniale. Non dire nulla prima di
un film è molto importante. Crea attesa. “Il
pubblico non vede l’ora di capire di cosa si
parla”, dice Francesco Piccolo uno degli
sceneggiatori del film. Insieme con lui ha
collaborato alla scrittura Heidrun Schleef,
che con Moretti aveva già lavorato alla
“Stanza del Figlio”.
Alla fine il regista ci ha parlato
Alla fine però ha parlato con noi anche
Moretti, giovedì sera in via delle Zoccolette,
al ristorante Evangelista, a Roma. Con
lui c’era (e se non era lui era un sosia
perfetto) Antonio Ingroia, il
pm palermitano con il quale
Giancarlo Caselli
ha istruito il processo
per mafia contro
Marcello Dell’Utri. Si
è parlato del film. Si è sentita
una data. Il 24 marzo. Sedici
giorni prima delle elezioni. Parlavano
del film. Lo commentavano,
cercavano di analizzarlo.
Ma parlavano
anche di politica.
Dei girotondi, di
quelle proposte ricevute
da Nanni
per entrare in politica,
su quella voglia che aveva Nanni
di entrare in politica facendo girotondi
ma non solo, delle svastiche e le falci e
martello allo stadio – che non è possibile
che siano considerate allo stesso modo –
delle elezioni, di Berlusconi, di questo film
che in fondo un po’ elettorale lo è, si parla
di destra e di sinistra. Cordiale, gentile.
Sul tavolo di Moretti arrivano i carciofi
al mattone, zuppa di ceci, maialino e zabaione.
Sono in due. Di fronte a lui un uomo,
capelli radi, barbetta incolta. Ingroia
(o il suo sosia perfetto). Moretti del film
non vuole parlare. Sbuffa, i capelli sono arruffati,
indossa un maglioncino azzurro. Ha
la solita barbetta un po’ incolta, il solito
sguardo un po’ distaccato, le solite parole
scandite e cadenzate. E’ il solito Nanni Moretti.
Sorride, era arrivato con un mal di
pancia “che non ti dico”. Aveva detto: “Non
posso mangiare nulla”. La gente lo guarda
con grande curiosità. C’è chi bisbiglia. Si sa
che Moretti sta montando il suo film. Si sa
che sarà una pellicola con grande riferimento
all’attualità politica. In una sola parola:
Berlusconi. Ma in realtà nessuno, finora,
aveva raccontato alcunché di significativo.
Si siede a tavolo, molto composto e
molto cordiale. Il Foglio lo intercetta: “Al
cinema a me piace arrivare senza sapere
nulla”. E allora, assicura, “si saprà qualcosa
soltanto quando uscirà nelle sale”.
Franco Cordero scriveva su Repubblica
del Caimano: “Il bello dello studiare B. è
che le ipotesi analiticamente giuste risultano
sempre confermate a opera sua: salta
sulla preda, la inghiotte e digerisce, indi ripete
l’operazione; fenomeni naturali, come
le cacce del coccodrillo o la digestione del
pitone. Tout se tient nella sua storia. I paleontologi
ricostruiscono l’intero dinosauro
da una vertebra. Idem qui. Persi i protettori
salta in politica e non perché gliene sia
venuto l’estro: impadronendosi dello stato
vuol salvare una terrificante ricchezza in
crescita continua; siccome ha la cultura dei
caimani, non gli passa nella testa che esistano
poteri separati; e non stia bene diluirsi
i falsi in bilancio, ai quali risulta piuttosto
dedito, o storpiare la disciplina delle
rogatorie affinché prove d’accusa spariscano
dai processi milanesi, o codificare stramberie
utili alla fuga da Milano”. Il Caimano
deve impadronirsi dello stato. Nel film il
Caimano deve controllare la scena. Non
può sfuggirgli nulla perché tutto deve passare
sotto il suo controllo. Gli attori devono
dire quello che vuole lui. La regia deve essere
esattamente come ce l’ha in mente lui.
Le luci, le battute, la scenografia, i movimenti.
Al Caimano non può sfuggire nulla.
Ma nei corridoi della Mikado, la società
che distribuirà il film, già s’ascolta che
“stupirà la locandina”: “Non sarà come tutte
le altre”. Ma che vuol dire? C’è da aspettarsi
un fotomontaggio? Qualcuno parla di
“un’Italia sovrastata da…”. E’ tutto. Ma
qualcuno si sbilancia perché “il manifesto
pubblicitario non sarà soltanto promozione
artistica, ma una vera campagna”. Giusto,
perché “Il Caimano” uscirà a ridosso
delle elezioni e – se non abbiamo capito
male – vorrebbe dipingere un’Italia dove
gli italiani portano in scena la loro vita, ma
se a un personaggio particolare – guarda
caso Berlusconi – non piace qualcosa “entra
in scena e cambia tutto” come lui vuole.
Un ruolo che permette al Caimano di
poter dire, o semplicemente pensare, che
nella vita degli attori e quindi degli italiani
ciò che va bene è soltanto ciò che piace
al Caimano.
26/02/06
sbarca a Sabaudia come Colombo. Il regista Virzì celebra le nozze
trotzkiste. Prove raccolte in un ristorante di Roma e nei suoi dintorni
Roma. Sulle tracce del misterioso, segreto,
impenetrabile nuovo film di Nanni Moretti,
“Il Caimano”, il Foglio è riuscito a scoprire
il misterioso, segreto, impenetrabile
racconto cinematografico. Attori, scene, registi
che recitano, attori che fanno i registi,
galeoni che sbarcano a Sabaudia “per i quali
sono stati usati tantissimi soldi”, caimani
che salgono sul palco, interrompendo le
scene, giornate gelate in pieno luglio, concerti
all’Auditorium, misteriosi flirt tra i
protagonisti, attori che recitano sotto la (vera)
pioggia e attori (veri) che si ammalano.
Sul set non si parla. Chi recita non può, è
scritto sul contratto. Ma le comparse, i costumisti,
gli addetti al casting ci hanno raccontato
in che modo è stato costruito e in
che modo è stato tenuto nascosto il prossimo
film pre-elettorale di Moretti.
Il film, girato tra la periferia di Roma, le
spiagge di Sabaudia e Milano, uscirà il 24
marzo in 300 copie. I protagonisti saranno
Silvio Orlando, Margherita Buy, Jasmine
Trinca, Michele Placido e Elio de Capitani.
Per il film il regista ha persino reclutato
molti bambini nelle scuole elementari romane,
tra questi uno ha un ruolo da protagonista.
E’ Daniele, molto probabilmente
il figlio di Margherita Buy. “E
forse non è un caso – sostiene un ragazzo
che ha lavorato nel film
– i bambini sono messi in
scena per convincere emotivamente
lo spettatore
che il Caimano riveste
un ruolo subdolo. E che
non si faccia scrupoli a
esercitare il suo senso
di onnipresenza e onnipotenza
anche
sugli stessi bambini”.
All’interno del
film sono presenti
una serie di altri
film. Ognuno con
un suo regista. Il Caimano
è Silvio Orlando. Ha un ruolo preciso,
è lui che controlla, che appare nelle
scene spesso senza dire nulla. Vigila su ciò
che accade. Si guarda in giro e quando c’è
qualcosa che a lui non quadra, ferma tutto,
blocca il film nel film. Perché il film deve
essere proprio come vuole lui. “Alza un dito,
fa gestacci, si fa notare fino a quando gli
altri – gli attori – non sono costretti a interrompere
ciò che stanno facendo in quel
momento”, dice una comparsa. Gli attori
non potevano e non dovevano parlare.
Pierluigi, lo chiameremo così, era a Sabaudia.
“A me mi ha fatto venire la febbre”.
Pioveva tantissimo ma Moretti ha
continuato a far girare il film. Pierluigi è
rimasto sul set “dalle 18 alle 5 di mattina”.
A Sabaudia c’era un vascello con sopra Michele
Placido. La scena era quella di uno
sbarco. Pierluigi era curioso e ha chiesto,
“ma chi è il caimano?”. Per tutti la stessa
risposta. “Lo vedrai al cinema”. Ma loro lo
sapevano. “Il caimano è Berlusconi. Nel
film è Silvio Orlando”. Il protagonista è lui.
Cristoforo Colombo sbarca a Sabaudia.
“Non ha badato a spese per questa scena e
in particolare per il vascello. Era immenso,
curatissimo nei particolari. Ha speso
tantissimo. Io vedevo arrivare Orlando.
Quando interveniva bloccava tutto senza
dire una parola, solo con i gesti”. Ricorda
Pierluigi, riassumendo il vero senso del
film: “Si sarebbe voluto parlare di come
sia difficile fare cinema in Italia. I registi
hanno recitato proprio per questo”. Pierluigi
era curioso. Osservava il Caimano.
“Orlando passava sulla scena del film e dava
fastidio. Scendeva dalla collinetta e rimaneva
a guardare. Sembrava lui quello a
cui dovevano tornare i conti”. “Si impadronisce
dello stato”, direbbe Cordero che
in un articolo su Repubblica aveva accostato
il Cav. alla figura del Caimano.
“Ce l’ha fatta girare venti volte la scena”
“Ce l’ha fatta girare venti volte quella
scena”. Nel film nel film c’è un regista per
ogni trama. Un regista che fa il regista e alcuni
registi (veri) che fanno gli attori. “C’è
una scena in cui Virzì celebra un matrimonio.
Margherita Buy sposa Paolo Sorrentino.
Sorrentino dovrebbe avere un fazzoletto
rosso al collo”. Gli altri registi sono Carlo
Mazzacurati nella parte di un cameriere,
Renato De Maria, Antonello Grimaldi,
Jerzy Sthur.
Tiziana, la chiamiamo così, era seduta
nella settima fila dell’Auditorium di Roma,
sala Santa Cecilia. Era luglio. “Faceva un
caldo incredibile. Moretti era molto affascinante.
C’era una strana aria. Moretti
parlava molto con Silvio Orlando. Ma lui si
metteva continuamente a ridere e la scena
è stata ripetuta un’infinità di volte. Mi sembra
che Moretti volesse un personaggio
molto più severo, più brusco. Molto più deciso”.
Tiziana era arrivata alle nove di mattina.
“Mi ha fatto uscire alle 21”. Sul palco
c’è un’orchestra e anche Margherita Buy.
“Cantava con uno spartito davanti a sé”.
Orlando è seduto in platea, controlla. Interrompe.
Entra sulla scena e all’Auditorium
salta sul palco. “Sembrava scandire i
tempi e i ruoli di ogni ripresa”. Stoppa, si
avvicina a Margherita Buy. Le parla all’orecchio.
Tiziana era curiosa. Chiede anche
lei. Le rispondono: “Aspetti di vedere il
film al cinema”. Dice Tiziana: “Siamo rimasti
chiusi dentro la sala, dodici ore sotto
l’aria condizionata. Moretti aveva il maglione
intorno alla gola per ripararsi”. Tiziana
dice: “Sembrava che Orlando fosse il
marito di Margherita Buy. Non doveva parlare
nessuno, non poteva parlare nessuno”.
Tiziana, parlando con le altre comparse, ricorda:
“Eravamo molto curiosi di osservare
Moretti in azione. Ma noi veramente lo
volevamo anche vedere come attore. All’Auditorium
lui non ha recitato. Ma una
piccolissima particina sono quasi sicura
che lui l’abbia fatta”. La stessa cosa ci dice
Pierluigi. “In mezzo a tutti questi registi voleva
esserci anche lui”. E’ una tecnica pubblicitaria.
Geniale. Non dire nulla prima di
un film è molto importante. Crea attesa. “Il
pubblico non vede l’ora di capire di cosa si
parla”, dice Francesco Piccolo uno degli
sceneggiatori del film. Insieme con lui ha
collaborato alla scrittura Heidrun Schleef,
che con Moretti aveva già lavorato alla
“Stanza del Figlio”.
Alla fine il regista ci ha parlato
Alla fine però ha parlato con noi anche
Moretti, giovedì sera in via delle Zoccolette,
al ristorante Evangelista, a Roma. Con
lui c’era (e se non era lui era un sosia
perfetto) Antonio Ingroia, il
pm palermitano con il quale
Giancarlo Caselli
ha istruito il processo
per mafia contro
Marcello Dell’Utri. Si
è parlato del film. Si è sentita
una data. Il 24 marzo. Sedici
giorni prima delle elezioni. Parlavano
del film. Lo commentavano,
cercavano di analizzarlo.
Ma parlavano
anche di politica.
Dei girotondi, di
quelle proposte ricevute
da Nanni
per entrare in politica,
su quella voglia che aveva Nanni
di entrare in politica facendo girotondi
ma non solo, delle svastiche e le falci e
martello allo stadio – che non è possibile
che siano considerate allo stesso modo –
delle elezioni, di Berlusconi, di questo film
che in fondo un po’ elettorale lo è, si parla
di destra e di sinistra. Cordiale, gentile.
Sul tavolo di Moretti arrivano i carciofi
al mattone, zuppa di ceci, maialino e zabaione.
Sono in due. Di fronte a lui un uomo,
capelli radi, barbetta incolta. Ingroia
(o il suo sosia perfetto). Moretti del film
non vuole parlare. Sbuffa, i capelli sono arruffati,
indossa un maglioncino azzurro. Ha
la solita barbetta un po’ incolta, il solito
sguardo un po’ distaccato, le solite parole
scandite e cadenzate. E’ il solito Nanni Moretti.
Sorride, era arrivato con un mal di
pancia “che non ti dico”. Aveva detto: “Non
posso mangiare nulla”. La gente lo guarda
con grande curiosità. C’è chi bisbiglia. Si sa
che Moretti sta montando il suo film. Si sa
che sarà una pellicola con grande riferimento
all’attualità politica. In una sola parola:
Berlusconi. Ma in realtà nessuno, finora,
aveva raccontato alcunché di significativo.
Si siede a tavolo, molto composto e
molto cordiale. Il Foglio lo intercetta: “Al
cinema a me piace arrivare senza sapere
nulla”. E allora, assicura, “si saprà qualcosa
soltanto quando uscirà nelle sale”.
Franco Cordero scriveva su Repubblica
del Caimano: “Il bello dello studiare B. è
che le ipotesi analiticamente giuste risultano
sempre confermate a opera sua: salta
sulla preda, la inghiotte e digerisce, indi ripete
l’operazione; fenomeni naturali, come
le cacce del coccodrillo o la digestione del
pitone. Tout se tient nella sua storia. I paleontologi
ricostruiscono l’intero dinosauro
da una vertebra. Idem qui. Persi i protettori
salta in politica e non perché gliene sia
venuto l’estro: impadronendosi dello stato
vuol salvare una terrificante ricchezza in
crescita continua; siccome ha la cultura dei
caimani, non gli passa nella testa che esistano
poteri separati; e non stia bene diluirsi
i falsi in bilancio, ai quali risulta piuttosto
dedito, o storpiare la disciplina delle
rogatorie affinché prove d’accusa spariscano
dai processi milanesi, o codificare stramberie
utili alla fuga da Milano”. Il Caimano
deve impadronirsi dello stato. Nel film il
Caimano deve controllare la scena. Non
può sfuggirgli nulla perché tutto deve passare
sotto il suo controllo. Gli attori devono
dire quello che vuole lui. La regia deve essere
esattamente come ce l’ha in mente lui.
Le luci, le battute, la scenografia, i movimenti.
Al Caimano non può sfuggire nulla.
Ma nei corridoi della Mikado, la società
che distribuirà il film, già s’ascolta che
“stupirà la locandina”: “Non sarà come tutte
le altre”. Ma che vuol dire? C’è da aspettarsi
un fotomontaggio? Qualcuno parla di
“un’Italia sovrastata da…”. E’ tutto. Ma
qualcuno si sbilancia perché “il manifesto
pubblicitario non sarà soltanto promozione
artistica, ma una vera campagna”. Giusto,
perché “Il Caimano” uscirà a ridosso
delle elezioni e – se non abbiamo capito
male – vorrebbe dipingere un’Italia dove
gli italiani portano in scena la loro vita, ma
se a un personaggio particolare – guarda
caso Berlusconi – non piace qualcosa “entra
in scena e cambia tutto” come lui vuole.
Un ruolo che permette al Caimano di
poter dire, o semplicemente pensare, che
nella vita degli attori e quindi degli italiani
ciò che va bene è soltanto ciò che piace
al Caimano.
26/02/06
mercoledì 18 luglio 2007
IL Foglio. "Di Pietro chiede a Bruxelles una cambiale in bianco sulla Tav"
Il governo presenta all’Ue una bozza di Torino-Lione senza tracciato. I sindaci protestano, i movimenti preparano una sorpresa
Roma. Il governo italiano invierà oggi all’Unione europea la prima richiesta ufficiale per ricevere i finanziamenti sulla tratta ad alta velocità della Torino-Lione. La Tav, per capirci. Il documento, scritto dal ministro per le Infrastrutture, Antonio Di Pietro, e da Jean-Louis Borloo, ministro dell’Ecologia del governo francese, è stato presentato come l’ultimo, duro, secco, definitivo ultimatum sull’alta velocità. Ma anche questo ultimatum, un po’ come successo con gli ultimi dieci duri, secchi e definitivi ultimatum, non soltanto rischia di aggiungersi a uno dei tanti paragrafi della grande barzelletta sulla Tav, ma rischia di creare un caso politico a sinistra dell’Unione, e non soltanto lì.
Nello stesso giorno in cui Rifondazione comunista dice che “non esiste nessun percorso, progetto, tracciato che possa ritenersi condiviso”, il ministro Di Pietro dice che “la Tav si farà” e dice che il tunnel di base della Torino-Lione uscirà in corrispondenza del comune di Chiomonte, quindi non più in corrispondenza con quello di Venaus. Ed è questa l’unica vera novità del progetto che arriverà oggi sul tavolo del commissario dell’Unione europea, Jacques Barrot. Un progetto che prevede la richiesta, tra il 2007-2013, di un finanziamento di 725 milioni di euro in grado di coprire, in parte, i 9 miliardi complessivi previsti per il tracciato (tracciato che secondo il progettista torinese Loris Dadam – intervistatato da Panorama – non entrà in funzione prima del 2027). Il problema però è sempre lo stesso: ancora una volta il governo non parla di date, non parla di veri tracciati, non parla di tempi, rimanda le decisioni a un tavolo futuro – il prossimo sarà il 23 luglio, ma da qui a fine anno ne sono previsti molti altri – e sul destino dell’alta velocità non ha nel cassetto neppure una vera cartina. Il perché lo spiega, e lo ammette, lo stesso Di Pietro: “In questo momento non si deve dire come sarà il tracciato, questo le definiremo poi”. E’ per questo che oggi a parlare di “progetto” viene un po’ da sorridere, dato che il governo italiano chiede soldi per la Tav senza avere idea di come sarà la sua Tav, dice che la Tav si farà senza sapere né come, né dove, né quando, propone soluzioni che non risolvono granché e rischia ora di stringere in un angolo sia Rifondazione comunista sia i Verdi. Perché se è vero che la Tav si farà, la sinistra dell’Unione dovrà dire ai suoi elettori che fino a oggi si è scherzato, che la Tav, in fondo, non è proprio da buttare via e che tutti quei no Tav, convinti che il problema della Tav sia proprio la Tav e non questo o quel tracciato, forse non dicono proprio la verità. Ora: Rifondazione è davvero pronta a deludere la sua base, quando è lo stesso Fausto Bertinotti ad aver appena messo in guardia l’elettorato sul sempre maggiore rischio “di un delcino all’orizzonte della sinistra Europea?”.
Dice al Foglio Osvaldo Napoli, vicepresidente dell’Anci, deputato di Forza Italia ed ex sindaco di Giaveno, comune della Val Sangone: “Per quale motivo Di Pietro ha deciso di spostare l’uscita del tunnel da Venaus a Chiomonte senza consultare nessun rappresentante del comune né tantomeno il sindaco? Sarà perché in un comune di centrosinistra, come Venaus, i no Tav erano diventati troppo forti, mentre in un comune di centrodestra, come Chiomonte, i no Tav hanno meno influenza? Non vorrà mica ammettere, ministro, che la concertazione si fa solo quando conviene all’elettorato della sua coalizione?”. E per capire lo scarso peso dato alle parole del governo potrebbe essere sufficiente notare come ieri Liberazione, quotidiano di Rifondazione, abbia nascosto la sua reazione alla “Tav che si farà” in un trafiletto a pagina 6. Un trafiletto piccolo piccolo, dove il responsabile della commissione per la protezione delle Alpi dice, tra l’altro, che “l’ipotesi del tunnel di base si sta allontando, perché l’opposizione italiana è troppo forte”. Dunque, nessun rischio sulla Tav. E se mai ci fosse qualche dubbio, se mai il governo pensasse di scavalcare il popolo dei no Tav, oggi sul tavolo del commissario Barrot dovrebbe arrivare un altro documento firmato da 32 consigli comunali della Valsusa. Un documento dove, se ce ne fosse ancora bisogno, verrà argomentata “l’assoluta non condivisione” dell’attuale dossier sulla Tav.
Claudio Cerasa
18/07/07
Roma. Il governo italiano invierà oggi all’Unione europea la prima richiesta ufficiale per ricevere i finanziamenti sulla tratta ad alta velocità della Torino-Lione. La Tav, per capirci. Il documento, scritto dal ministro per le Infrastrutture, Antonio Di Pietro, e da Jean-Louis Borloo, ministro dell’Ecologia del governo francese, è stato presentato come l’ultimo, duro, secco, definitivo ultimatum sull’alta velocità. Ma anche questo ultimatum, un po’ come successo con gli ultimi dieci duri, secchi e definitivi ultimatum, non soltanto rischia di aggiungersi a uno dei tanti paragrafi della grande barzelletta sulla Tav, ma rischia di creare un caso politico a sinistra dell’Unione, e non soltanto lì.
Nello stesso giorno in cui Rifondazione comunista dice che “non esiste nessun percorso, progetto, tracciato che possa ritenersi condiviso”, il ministro Di Pietro dice che “la Tav si farà” e dice che il tunnel di base della Torino-Lione uscirà in corrispondenza del comune di Chiomonte, quindi non più in corrispondenza con quello di Venaus. Ed è questa l’unica vera novità del progetto che arriverà oggi sul tavolo del commissario dell’Unione europea, Jacques Barrot. Un progetto che prevede la richiesta, tra il 2007-2013, di un finanziamento di 725 milioni di euro in grado di coprire, in parte, i 9 miliardi complessivi previsti per il tracciato (tracciato che secondo il progettista torinese Loris Dadam – intervistatato da Panorama – non entrà in funzione prima del 2027). Il problema però è sempre lo stesso: ancora una volta il governo non parla di date, non parla di veri tracciati, non parla di tempi, rimanda le decisioni a un tavolo futuro – il prossimo sarà il 23 luglio, ma da qui a fine anno ne sono previsti molti altri – e sul destino dell’alta velocità non ha nel cassetto neppure una vera cartina. Il perché lo spiega, e lo ammette, lo stesso Di Pietro: “In questo momento non si deve dire come sarà il tracciato, questo le definiremo poi”. E’ per questo che oggi a parlare di “progetto” viene un po’ da sorridere, dato che il governo italiano chiede soldi per la Tav senza avere idea di come sarà la sua Tav, dice che la Tav si farà senza sapere né come, né dove, né quando, propone soluzioni che non risolvono granché e rischia ora di stringere in un angolo sia Rifondazione comunista sia i Verdi. Perché se è vero che la Tav si farà, la sinistra dell’Unione dovrà dire ai suoi elettori che fino a oggi si è scherzato, che la Tav, in fondo, non è proprio da buttare via e che tutti quei no Tav, convinti che il problema della Tav sia proprio la Tav e non questo o quel tracciato, forse non dicono proprio la verità. Ora: Rifondazione è davvero pronta a deludere la sua base, quando è lo stesso Fausto Bertinotti ad aver appena messo in guardia l’elettorato sul sempre maggiore rischio “di un delcino all’orizzonte della sinistra Europea?”.
Dice al Foglio Osvaldo Napoli, vicepresidente dell’Anci, deputato di Forza Italia ed ex sindaco di Giaveno, comune della Val Sangone: “Per quale motivo Di Pietro ha deciso di spostare l’uscita del tunnel da Venaus a Chiomonte senza consultare nessun rappresentante del comune né tantomeno il sindaco? Sarà perché in un comune di centrosinistra, come Venaus, i no Tav erano diventati troppo forti, mentre in un comune di centrodestra, come Chiomonte, i no Tav hanno meno influenza? Non vorrà mica ammettere, ministro, che la concertazione si fa solo quando conviene all’elettorato della sua coalizione?”. E per capire lo scarso peso dato alle parole del governo potrebbe essere sufficiente notare come ieri Liberazione, quotidiano di Rifondazione, abbia nascosto la sua reazione alla “Tav che si farà” in un trafiletto a pagina 6. Un trafiletto piccolo piccolo, dove il responsabile della commissione per la protezione delle Alpi dice, tra l’altro, che “l’ipotesi del tunnel di base si sta allontando, perché l’opposizione italiana è troppo forte”. Dunque, nessun rischio sulla Tav. E se mai ci fosse qualche dubbio, se mai il governo pensasse di scavalcare il popolo dei no Tav, oggi sul tavolo del commissario Barrot dovrebbe arrivare un altro documento firmato da 32 consigli comunali della Valsusa. Un documento dove, se ce ne fosse ancora bisogno, verrà argomentata “l’assoluta non condivisione” dell’attuale dossier sulla Tav.
Claudio Cerasa
18/07/07
martedì 17 luglio 2007
Il Foglio. "La via anglo-svedese riduce il numero delle vittime della strada"
Più controlli, pene severe, più telecamere e una politica che punti ad azzerare gli incidenti mortali. Ecco come fanno gli altri
Roma. Due giorni dopo il terribile incidente stradale di Pinerolo, dove una ragazza di diciassette anni è stata investita – e uccisa – da un uomo di trent’anni, che oltre ad avere parecchio alcol nel sangue aveva già collezionato tre ritiri di patente per guida in stato di ebbrezza, nascoste tra le parole del ministro Alessandro Bianchi (“servono pene più severe”), le dichiarazioni del ministro Giuliano Amato (“a chi guida ubriaco va sequestrata l’auto”) e i progetti del ministro Livia Turco (“via al piano nazionale ‘alcol e salute’”), il problema della sicurezza stradale, in Italia, sembra bloccarsi come sempre di fronte a un punto ben preciso: la situazione può essere migliorata, non risolta. E’ sotto la luce di questo problema che il ministro per la Salute, Turco, si sente in dovere di ricordare che in Italia c’è “il 70 per cento di italiani a rischio” e che il ministro dei Trasporti Bianchi spiega che, in fondo, la questione è semplice: “Non sono le idee che mancano, ma sono i soldi”. Dunque, morire per strada è inevitabile, c’è ben poco da fare e più in là proprio non si può andare. I morti continueranno ad arrivare, gli incidenti non si possono fermare e semmai possiamo provar a tener bassa la marea, ma non chiedeteci di fermarla: una soluzione a tutti quei mazzi di fiori poggiati sugli alberi, purtroppo, non c’è. Semplicemente non esiste. Ma c’è qualcuno che in Europa, già da parecchio tempo, crede che la teoria dell’“inevitabilità della tragedia” non soltanto sia ormai vecchia ma anche culturalmente sbagliata. La pensano così in Inghilterra, la pensano così, da circa dieci anni, in Svezia e, da pochi mesi, la pensano così anche in Svizzera. Chissà se Giuliano Amato, Livia Turco e Alessandro Bianchi hanno mai sentito nominare queste due paroline: zero and vision.
Dice Marcel Haeghi, Responsabile sicurezza stradale della Commissione europea, in un servizio andato in onda su Report, qualche mese fa: “Chi guida si deve sentire sorvegliato. I controlli sono alla base di una guida sicura e per trasformare la popolazione italiana di guidatori in guidatori capaci di avere lo stesso numero di incidenti degli svedesi o degli inglesi ci vuole, proporzionalmente, lo stesso numero di controlli”. Controlli, dunque. Il dottor Haeghi si riferisce a un modello in particolare, quello inglese. Un modello che si ispira al concetto di “zero vision” adottato nel 1997 dal governo svedese. Zero vision significa zero morti, significa puntare ad azzerare le vittime delle strade, non a ridurle. Grazie a questo progetto, l’Inghilterra, in un decennio ha registrato una notevole diminuzione del numero di incidenti mortali: da 9.000 sono diventati 3.000 l’anno. E oltre a contenere il numero di morti, l’Inghilterra è riuscita a risparmiare pure sui controlli stradali: al posto di aumentare il numero degli agenti, nel Regno Unito sono aumentate le telecamere, soprattutto in città. Risultato? Più multe, sanzioni più severe e il 47 per cento di incidenti in meno. E’ per questo che ora, a Londra, per una multa non pagata, non si va dal giudice di pace, si può finire direttamente in galera. Il modello zero vision nasce però nel 1997 su iniziativa del Parlamento svedese e nasce con quattro obiettivi che vanno ad aggiungersi alle sanzioni più severe, al rigoroso controllo dei limiti di velocità e all’aumento delle telecamere. Tre punti sui quali il governo svedese ha lavorato con successo: eliminare gli errori, prevenire gli infortuni, migliorare le tecniche di salvataggio. E’ così che la Svezia ha deciso di puntare all’azzeramento dei morti sulle sue strade e ha fissato anche una data limite: il 2020, quando magari in Italia i lavori per la Tav saranno appena, trionfalmente, cominciati.
Senza prendere in considerazione l’idea dell’europarlamentare inglese, Chris Davies, che pochi mesi fa ha proposto di vietare la produzione di vetture che superino i 163 km/h, c’è un altro paese che ha scelto di adottare la politica zero vision: la Svizzera. Risultato? In un anno, gli incidenti mortali sulle strade svizzere sono diminuiti del 9 per cento. Ecco perché dire “non sono le idee che mancano, ma i soldi”, è un modo un po’ troppo semplice e un po’ troppo italiano per non ammettere che forse, se ci fossero delle idee così buone, oltre che evitare gli incidenti, in Italia si potrebbero risparmiare pure un bel po’ di soldi.
Claudio Cerasa
17/7/07
Roma. Due giorni dopo il terribile incidente stradale di Pinerolo, dove una ragazza di diciassette anni è stata investita – e uccisa – da un uomo di trent’anni, che oltre ad avere parecchio alcol nel sangue aveva già collezionato tre ritiri di patente per guida in stato di ebbrezza, nascoste tra le parole del ministro Alessandro Bianchi (“servono pene più severe”), le dichiarazioni del ministro Giuliano Amato (“a chi guida ubriaco va sequestrata l’auto”) e i progetti del ministro Livia Turco (“via al piano nazionale ‘alcol e salute’”), il problema della sicurezza stradale, in Italia, sembra bloccarsi come sempre di fronte a un punto ben preciso: la situazione può essere migliorata, non risolta. E’ sotto la luce di questo problema che il ministro per la Salute, Turco, si sente in dovere di ricordare che in Italia c’è “il 70 per cento di italiani a rischio” e che il ministro dei Trasporti Bianchi spiega che, in fondo, la questione è semplice: “Non sono le idee che mancano, ma sono i soldi”. Dunque, morire per strada è inevitabile, c’è ben poco da fare e più in là proprio non si può andare. I morti continueranno ad arrivare, gli incidenti non si possono fermare e semmai possiamo provar a tener bassa la marea, ma non chiedeteci di fermarla: una soluzione a tutti quei mazzi di fiori poggiati sugli alberi, purtroppo, non c’è. Semplicemente non esiste. Ma c’è qualcuno che in Europa, già da parecchio tempo, crede che la teoria dell’“inevitabilità della tragedia” non soltanto sia ormai vecchia ma anche culturalmente sbagliata. La pensano così in Inghilterra, la pensano così, da circa dieci anni, in Svezia e, da pochi mesi, la pensano così anche in Svizzera. Chissà se Giuliano Amato, Livia Turco e Alessandro Bianchi hanno mai sentito nominare queste due paroline: zero and vision.
Dice Marcel Haeghi, Responsabile sicurezza stradale della Commissione europea, in un servizio andato in onda su Report, qualche mese fa: “Chi guida si deve sentire sorvegliato. I controlli sono alla base di una guida sicura e per trasformare la popolazione italiana di guidatori in guidatori capaci di avere lo stesso numero di incidenti degli svedesi o degli inglesi ci vuole, proporzionalmente, lo stesso numero di controlli”. Controlli, dunque. Il dottor Haeghi si riferisce a un modello in particolare, quello inglese. Un modello che si ispira al concetto di “zero vision” adottato nel 1997 dal governo svedese. Zero vision significa zero morti, significa puntare ad azzerare le vittime delle strade, non a ridurle. Grazie a questo progetto, l’Inghilterra, in un decennio ha registrato una notevole diminuzione del numero di incidenti mortali: da 9.000 sono diventati 3.000 l’anno. E oltre a contenere il numero di morti, l’Inghilterra è riuscita a risparmiare pure sui controlli stradali: al posto di aumentare il numero degli agenti, nel Regno Unito sono aumentate le telecamere, soprattutto in città. Risultato? Più multe, sanzioni più severe e il 47 per cento di incidenti in meno. E’ per questo che ora, a Londra, per una multa non pagata, non si va dal giudice di pace, si può finire direttamente in galera. Il modello zero vision nasce però nel 1997 su iniziativa del Parlamento svedese e nasce con quattro obiettivi che vanno ad aggiungersi alle sanzioni più severe, al rigoroso controllo dei limiti di velocità e all’aumento delle telecamere. Tre punti sui quali il governo svedese ha lavorato con successo: eliminare gli errori, prevenire gli infortuni, migliorare le tecniche di salvataggio. E’ così che la Svezia ha deciso di puntare all’azzeramento dei morti sulle sue strade e ha fissato anche una data limite: il 2020, quando magari in Italia i lavori per la Tav saranno appena, trionfalmente, cominciati.
Senza prendere in considerazione l’idea dell’europarlamentare inglese, Chris Davies, che pochi mesi fa ha proposto di vietare la produzione di vetture che superino i 163 km/h, c’è un altro paese che ha scelto di adottare la politica zero vision: la Svizzera. Risultato? In un anno, gli incidenti mortali sulle strade svizzere sono diminuiti del 9 per cento. Ecco perché dire “non sono le idee che mancano, ma i soldi”, è un modo un po’ troppo semplice e un po’ troppo italiano per non ammettere che forse, se ci fossero delle idee così buone, oltre che evitare gli incidenti, in Italia si potrebbero risparmiare pure un bel po’ di soldi.
Claudio Cerasa
17/7/07
venerdì 13 luglio 2007
Il Foglio. "Il baco di Repubblica"
Tutto ciò che avreste voluto sapere e non avete mai osato chiedere in un blog che spia Largo Fochetti
Enrico Maria Porro abita a Cernusco sul Naviglio, ha un blog incredibile, è pazzo per Repubblica, tiene sotto controllo inviati, corrispondenti, cronisti, opinionisti e scrive cose che non avremmo voluto vedere, almeno fino a poco tempo fa. Le scrive da un anno e mezzo, dal 28 febbraio 2006, le scrive quasi ogni giorno e c’è chi le prende sul serio, “Hi, how can I contact Renato Caprile?”, e chi non crede che ci sia qualcuno che si metta lì a dire: “Come ci mancano le analisi di Bernardo Valli!”.
Era partito forte, il lettore P., con il suo pazzoperrepubblica.blogspot, fotografando chiunque avesse in mano una copia di Rep., riportando le rilevazioni audipress, seguendo, passo passo, “Scalfari, nel suo consueto editoriale domenicale”, non perdendosi gli spostamenti degli inviati, azzardando previsioni (“La situazione a Gaza sta degenerando, si rischia un’imminente guerra civile tra Hamas e al Fatah. Che farà il corrispondente di Repubblica da Gerusalemme? Commenterà tutto da là o cercherà di avvicinarsi alla striscia? C’è Renato Caprile da quelle parti? Vedremo”), raccontando i propri scoop (“E dai e dai, alla fine Alberto Stabile ce l’ha fatta ad arrivare a Gaza City. Tutta la redazione di Pazzo per Repubblica si complimenta con lui per il coraggio dimostrato”), preoccupandosi dei conti di Largo Fochetti (“che bisogno c’era di mandare Claudio Tito e Marco Marozzi in Giappone sapendo dello sciopero di sette giorni?”), suggerendo ristoranti (“Il prode Marozzi è a Varsavia. E noi gli suggeriamo di andare all’Angolo di Roma a mangiare), criticando il direttore (“A Bombay muoiono in 200 ma Ezio Mauro affoga la notizia a mezza pagina. Dentro, però, si riscatta”). Poi però succede qualcosa tra il giornale con il Fondatore più intelligente, il vicedirettore più bello, il corrispondente più alto, l’inviato più abbronzato e il suo lettore. Succede che il lettore P. si ferma, riflette e si incazza (“I black block ieri a Rostock non hanno picchiato nessun inviato di Repubblica. Anche perché non ce n’era”), inizia ad annotare i refusi (“Il milanese Ravelli, inviato a Rostock, è diventato Fabbrizio”), sospetta un mobbing mediorientale (“Ma che senso ha mandare la Longo a Gerusalemme e a Ramallah quando c’è già lì Stabile?”), ironizza sugli scoop di Rep. (“Gaza: Alan Johnston liberato dopo 114 giorni di prigionia. Ad attenderlo Alberto Mattone”) e racconta, a Valencia, il difficile ruolo degli inviati (“Finisce lo sciopero del vento ma continua quello di Carlo Marincovich che sifola in spiaggia”). Dopo un anno e mezzo, il lettore P. scopre che Rep. ha il dono dell’ubiquità (“Oggi troviamo Davide Carlucci come inviato a Padova e quattro pagine dopo lo troviamo a Milano”), critica, ancora, la linea editoriale (“Siamo sinceramente rimasti un po’ delusi nello scoprire, oggi, che Repubblica ha dedicato solo due pagine all’evento musicale Live Earth”) e inizia a rendersi conto del partito Rep. (“L’analista di Repubblica, Massimo Giannini, cerca di metterci una pezza con una lunga intervista al capo del governo Romano Prodi”). E poi, naturalmente, c’è Vittorio Zucconi. Dov’è Zucconi? In Liguria o in America? Da dove scrivi le tue “storie americane”, Vittorio? Risponde il redattore F. “Le storie americane che leggete sono state redatte sotto l’ombrellone di una comunissima spiaggetta ligure”. Sì, ma poi sarà tornato a casa. Risposta del redattore P. “Oggi a firma di un suo pezzo riappare la scritta ‘dal nostro inviato a Washington’”. Che significa? “Pronto rientro di Vittorio negli States o pronto intervento riparatore di Repubblica che finge che gli articoli di Zucconi siano scritti all’ombra della Casa Bianca?”.
Claudio Cerasa
13/07/07
Enrico Maria Porro abita a Cernusco sul Naviglio, ha un blog incredibile, è pazzo per Repubblica, tiene sotto controllo inviati, corrispondenti, cronisti, opinionisti e scrive cose che non avremmo voluto vedere, almeno fino a poco tempo fa. Le scrive da un anno e mezzo, dal 28 febbraio 2006, le scrive quasi ogni giorno e c’è chi le prende sul serio, “Hi, how can I contact Renato Caprile?”, e chi non crede che ci sia qualcuno che si metta lì a dire: “Come ci mancano le analisi di Bernardo Valli!”.
Era partito forte, il lettore P., con il suo pazzoperrepubblica.blogspot, fotografando chiunque avesse in mano una copia di Rep., riportando le rilevazioni audipress, seguendo, passo passo, “Scalfari, nel suo consueto editoriale domenicale”, non perdendosi gli spostamenti degli inviati, azzardando previsioni (“La situazione a Gaza sta degenerando, si rischia un’imminente guerra civile tra Hamas e al Fatah. Che farà il corrispondente di Repubblica da Gerusalemme? Commenterà tutto da là o cercherà di avvicinarsi alla striscia? C’è Renato Caprile da quelle parti? Vedremo”), raccontando i propri scoop (“E dai e dai, alla fine Alberto Stabile ce l’ha fatta ad arrivare a Gaza City. Tutta la redazione di Pazzo per Repubblica si complimenta con lui per il coraggio dimostrato”), preoccupandosi dei conti di Largo Fochetti (“che bisogno c’era di mandare Claudio Tito e Marco Marozzi in Giappone sapendo dello sciopero di sette giorni?”), suggerendo ristoranti (“Il prode Marozzi è a Varsavia. E noi gli suggeriamo di andare all’Angolo di Roma a mangiare), criticando il direttore (“A Bombay muoiono in 200 ma Ezio Mauro affoga la notizia a mezza pagina. Dentro, però, si riscatta”). Poi però succede qualcosa tra il giornale con il Fondatore più intelligente, il vicedirettore più bello, il corrispondente più alto, l’inviato più abbronzato e il suo lettore. Succede che il lettore P. si ferma, riflette e si incazza (“I black block ieri a Rostock non hanno picchiato nessun inviato di Repubblica. Anche perché non ce n’era”), inizia ad annotare i refusi (“Il milanese Ravelli, inviato a Rostock, è diventato Fabbrizio”), sospetta un mobbing mediorientale (“Ma che senso ha mandare la Longo a Gerusalemme e a Ramallah quando c’è già lì Stabile?”), ironizza sugli scoop di Rep. (“Gaza: Alan Johnston liberato dopo 114 giorni di prigionia. Ad attenderlo Alberto Mattone”) e racconta, a Valencia, il difficile ruolo degli inviati (“Finisce lo sciopero del vento ma continua quello di Carlo Marincovich che sifola in spiaggia”). Dopo un anno e mezzo, il lettore P. scopre che Rep. ha il dono dell’ubiquità (“Oggi troviamo Davide Carlucci come inviato a Padova e quattro pagine dopo lo troviamo a Milano”), critica, ancora, la linea editoriale (“Siamo sinceramente rimasti un po’ delusi nello scoprire, oggi, che Repubblica ha dedicato solo due pagine all’evento musicale Live Earth”) e inizia a rendersi conto del partito Rep. (“L’analista di Repubblica, Massimo Giannini, cerca di metterci una pezza con una lunga intervista al capo del governo Romano Prodi”). E poi, naturalmente, c’è Vittorio Zucconi. Dov’è Zucconi? In Liguria o in America? Da dove scrivi le tue “storie americane”, Vittorio? Risponde il redattore F. “Le storie americane che leggete sono state redatte sotto l’ombrellone di una comunissima spiaggetta ligure”. Sì, ma poi sarà tornato a casa. Risposta del redattore P. “Oggi a firma di un suo pezzo riappare la scritta ‘dal nostro inviato a Washington’”. Che significa? “Pronto rientro di Vittorio negli States o pronto intervento riparatore di Repubblica che finge che gli articoli di Zucconi siano scritti all’ombra della Casa Bianca?”.
Claudio Cerasa
13/07/07
venerdì 6 luglio 2007
Il Foglio. L’Italia ha perso il treno. L’Economist traccia la super rete dei super treni super veloci. Non ci siamo
L’Economist la chiama proprio così: “new era of international rail travel”, e racconta di un’eccitante epoca in arrivo per i viaggi in treno, per quelli internazionali e per quelli tra i più importanti paesi d’Europa. Un’era con treni velocissimi che da Strasburgo arriveranno a Parigi in meno di 2 ore e 40 e che dalla Gare de Lyon raggiungeranno la King Cross St Pancreas londinese in poco più di 2 ore e 30. Comincerà una grande “high speed revolution”, uno straordinario concerto ad alta velocità dove ci sarà uno spartito per la Svizzera, per il Belgio, per la Germania, per l’Austria, per l’Olanda, ovviamente uno per la Francia e, naturalmente, nessuno per l’Italia. Per bacco.
Che sorpresa vedere i più grandi paesi dell’Europa ad alta velocità che decidono – da questa settimana, non tra vent’anni – di mettersi insieme per programmare il futuro del trasporto ferroviario del continente, senza no Tav, senza pecorariscani e senza pendolari sdraiati per ore (e senza biglietto) sui binari delle stazioni. Perché, se a Palazzo Chigi non se ne sono ancora accorti, mentre in Italia i ragazzi dei no Tav dicono ancora che “da qui la Tav non passerà mai” (è successo ieri), a pochi chilometri da una Torino-Lione sulla quale si è trionfalmente deciso di non decidere, c’è un Railteam europeo che progetta fantastici treni che faranno concorrenza agli aerei e ferrovie privatizzate piene di low cost Ryanrail o Easytrain. E nella “new era of international rail travel” di cui parla l’Economist, l’Italia non viene neanche nominata, mai. Semplicemente non esiste. Ma che sorpresa.
Claudio Cerasa
06/07/07
Che sorpresa vedere i più grandi paesi dell’Europa ad alta velocità che decidono – da questa settimana, non tra vent’anni – di mettersi insieme per programmare il futuro del trasporto ferroviario del continente, senza no Tav, senza pecorariscani e senza pendolari sdraiati per ore (e senza biglietto) sui binari delle stazioni. Perché, se a Palazzo Chigi non se ne sono ancora accorti, mentre in Italia i ragazzi dei no Tav dicono ancora che “da qui la Tav non passerà mai” (è successo ieri), a pochi chilometri da una Torino-Lione sulla quale si è trionfalmente deciso di non decidere, c’è un Railteam europeo che progetta fantastici treni che faranno concorrenza agli aerei e ferrovie privatizzate piene di low cost Ryanrail o Easytrain. E nella “new era of international rail travel” di cui parla l’Economist, l’Italia non viene neanche nominata, mai. Semplicemente non esiste. Ma che sorpresa.
Claudio Cerasa
06/07/07
giovedì 5 luglio 2007
Il Foglio. "Flat tax, web, punto esclamativo e via la cravatta. Il network di Capezz"
Roma. Il primo giorno di lavoro del nuovo network di Daniele Capezzone comincia alle 16.52 minuti su un tavolino bianco, di fronte alla sede romana del Corriere della Sera, con sei microfoni, duecento curiosi, tredici idee, un punto esclamativo, cinquanta firme, una camicia sbottonata (e senza cravatta) e due buone pagine di programma. L’ex segretario dei radicali, ieri pomeriggio, dopo parecchie settimane di attesa, ha finalmente presentato il suo movimento che da ora, oltre ad avere un nome (dec!dere), un colore (tra il rosso e il mandarino), un sito (decidere.net ) e un suo contratto (articolato in 13 punti), presto potrebbe avere anche una buona rete di adesioni. O di amici, come direbbe Capezzone.
I tredici “cantieri” con cui l’ex segretario radicale è sceso in campo partendo da una piazzetta sono tredici spunti interessanti. Nell’agenda che Capezzone ha scelto di coniugare all’infinito (“decidere, competere, meritare, trasformare”), il presidente della commissione Attività produttive della Camera, come da sua ammissione, per la sua “offerta pubblica di alleanza” si è voluto ispirare a quelli che potrebbero ormai considerarsi i modelli unici del nuovo e indipendente universo capezzoniano. Si parte, o almeno ci si prova, dall’agenda Giavazzi, si passa per l’esperienza dei Volenterosi (da cui Capezz, oltre il colore, ha eredito anche la grafica del sito), si arriva a Tony Blair, toccando la Francia sarkozista e osservando, con molta curiosità, la rivoluzionaria (e repubblicana) coppia da ticket americano, formata da Rudolph Giuliani e Fred Thompson, che in un primo momento aveva deciso di annunciare proprio il 4 luglio, Indipendence Day, la sua candidatura. Thompson poi ha rinviato, Capezz no. In attesa che il deputato della Rosa nel Pugno presenti un Dpef alternativo a quello del governo, in sei minuti Capezzone, ieri (senza nominare la parola radicale, cosa che però fa nel messaggio di benvenuto sul suo sito, dove conclude con un bel “proviamoci insieme”), ha spiegato su che cosa intende puntare per il nuovo network, che avrà un forum, una chat, un servizio di sms, un aggregatore, parecchi amici (anche in area Confindustria), ma, prima di tutto, avrà due o tre punti con i quali, Capezz, vorrebbe ritagliarsi un profilo a metà tra un Bersani, un Tremonti e un Anders Borg, il giovane ministro delle Finanze svedese. Dunque si parla di rivoluzione fiscale, di una tassa piatta al 20 per cento, di federalismo fiscale, di presidenzialismo sul modello americano, di credito di imposta per scuola e sanità, di privatizzazioni sul modello Aznar (che Capezzone, ultimamente, cita spesso), di un’impresa in un giorno e di un modello welfare che vorrebbe portare, entro il 2018, l’età pensionabile a 65 anni (proposta di legge che Capezz ha già presentato assieme agli onorevoli Tabacci, Della Vedova e Urso). Capezzone, poi, parla anche di superamento degli ordini professionali, di statuto dei lavoratori, di abolizione del sostituto d’imposta per lavoratori dipendenti e di abolizione del valore legale del titolo di studio. Ma la proposta, o meglio, il cantiere su cui l’ex segretario radicale punta, da subito, è anche l’idea più apprezzata da una piccola delegazione del Parlamento finlandese, arrivata qui a Largo Goldoni per ascoltare mr Capezzone e affascinata da quella flat tax che vorebbe far diminuire la spesa pubblica dello 0,4 per cento ogni anno nei prossimi cinque. E’ partendo proprio da quest’idea che Capezz proverà a costruire una rete territoriale che si posiziona un po’ di quà e un po’ di là, che ama il bipolarismo, auspica il bipartitismo, che i finlandesi definiscono “in the middle” ma che, nel giro di un anno, come ammesso tra le righe da Capezzone, deciderà da che parte stare. Anche se, per il momento, il network di Capezz, più che a sinistra, sembrerebbe partire guardando un po’ più in là.
Claudio Cerasa
5/7/07
I tredici “cantieri” con cui l’ex segretario radicale è sceso in campo partendo da una piazzetta sono tredici spunti interessanti. Nell’agenda che Capezzone ha scelto di coniugare all’infinito (“decidere, competere, meritare, trasformare”), il presidente della commissione Attività produttive della Camera, come da sua ammissione, per la sua “offerta pubblica di alleanza” si è voluto ispirare a quelli che potrebbero ormai considerarsi i modelli unici del nuovo e indipendente universo capezzoniano. Si parte, o almeno ci si prova, dall’agenda Giavazzi, si passa per l’esperienza dei Volenterosi (da cui Capezz, oltre il colore, ha eredito anche la grafica del sito), si arriva a Tony Blair, toccando la Francia sarkozista e osservando, con molta curiosità, la rivoluzionaria (e repubblicana) coppia da ticket americano, formata da Rudolph Giuliani e Fred Thompson, che in un primo momento aveva deciso di annunciare proprio il 4 luglio, Indipendence Day, la sua candidatura. Thompson poi ha rinviato, Capezz no. In attesa che il deputato della Rosa nel Pugno presenti un Dpef alternativo a quello del governo, in sei minuti Capezzone, ieri (senza nominare la parola radicale, cosa che però fa nel messaggio di benvenuto sul suo sito, dove conclude con un bel “proviamoci insieme”), ha spiegato su che cosa intende puntare per il nuovo network, che avrà un forum, una chat, un servizio di sms, un aggregatore, parecchi amici (anche in area Confindustria), ma, prima di tutto, avrà due o tre punti con i quali, Capezz, vorrebbe ritagliarsi un profilo a metà tra un Bersani, un Tremonti e un Anders Borg, il giovane ministro delle Finanze svedese. Dunque si parla di rivoluzione fiscale, di una tassa piatta al 20 per cento, di federalismo fiscale, di presidenzialismo sul modello americano, di credito di imposta per scuola e sanità, di privatizzazioni sul modello Aznar (che Capezzone, ultimamente, cita spesso), di un’impresa in un giorno e di un modello welfare che vorrebbe portare, entro il 2018, l’età pensionabile a 65 anni (proposta di legge che Capezz ha già presentato assieme agli onorevoli Tabacci, Della Vedova e Urso). Capezzone, poi, parla anche di superamento degli ordini professionali, di statuto dei lavoratori, di abolizione del sostituto d’imposta per lavoratori dipendenti e di abolizione del valore legale del titolo di studio. Ma la proposta, o meglio, il cantiere su cui l’ex segretario radicale punta, da subito, è anche l’idea più apprezzata da una piccola delegazione del Parlamento finlandese, arrivata qui a Largo Goldoni per ascoltare mr Capezzone e affascinata da quella flat tax che vorebbe far diminuire la spesa pubblica dello 0,4 per cento ogni anno nei prossimi cinque. E’ partendo proprio da quest’idea che Capezz proverà a costruire una rete territoriale che si posiziona un po’ di quà e un po’ di là, che ama il bipolarismo, auspica il bipartitismo, che i finlandesi definiscono “in the middle” ma che, nel giro di un anno, come ammesso tra le righe da Capezzone, deciderà da che parte stare. Anche se, per il momento, il network di Capezz, più che a sinistra, sembrerebbe partire guardando un po’ più in là.
Claudio Cerasa
5/7/07
mercoledì 4 luglio 2007
Il Foglio. "Lite di idee radicali, oggi Capezz lancia “decidere” (e la flat tax?)"
Roma. Daniele Capezzone sta per lanciare il suo network, oggi; Marco Panella lo anticipa di qualche ora, con gli auguri ma anche con l’annuncio di una campagna sulla trasparenza del lavoro dei deputati che fa seguito a quella parte della mozione ad personam, cioè contro Capezzone, approvata dal comitato radicale dello scorso fine settimana. Capezzone sta per lanciare una serie di proposte sull’economia; i radicali lo anticipano con un convegno sulle pensioni e il welfare.
Perché nello stesso momento in cui, ieri pomeriggio, l’ex segretario radicale limava i 13 punti del network liberale che presenterà oggi alle 16.45 a largo Carlo Goldoni e su Internet, cioè mentre il presidente della commissione Attività produttive della Camera ragionava su pensioni, scaloni, welfare, imposte, pochi metri più in là, scendendo giù per via del Seminario, entrando al numero 76 del palazzo che ospita la commissione Antimafia, nella sala Refettorio di Palazzo San Macuto, parte della segreteria dei radicali italiani, con Emma Bonino, ministro per il Commercio estero, Maurizio Beretta, direttore generale di Confindustria, i deputati Benedetto Della Vedova (FI) e i senatori Maurizio Sacconi (FI) Antonio Polito (Dl) e Lamberto Dini (Dl), ragionava – con capezzoniano tempismo – su pensioni, scaloni, scalini, welfare, imposte. Con Polito pronto a ricordare che non ha alcun senso la politica del “tassare, spendere e poi spendere pure male”, con Beretta che spiegava che la sinistra antagonista che non vuole scaloni e non vuole riforme sembra “non voler discutere di nulla”, con Bonino che ricordava – un po’ come già fatto in Campidoglio la mattina – perché è importante “una politica di ammortizzatori sociali per i milioni di lavoratori co.co.co e co.co.pro” e con il senatore dl Polito che chiariva per quale motivo la situazione, in realtà, sia un po’ più grave di quel che si crede. Spiega Polito, riferendosi al surreale scalino proposto due giorni fa del ministro del Lavoro, Cesare Damiano: “C’è una parte della cultura italiana che sembra stia adottando una nuova politica. La chiamerei rifiuto del lavoro: sembra che lavorare poco sia diventato un diritto, mentre, storicamente, il movimento operaio non ha mai gradito la cultura del ‘lavorare poco’. Se non ricordo male, qualche annetto fa, c’era qualcuno che ancora parlava di ‘piena occupazione’”. E se Bonino, sulla linea di Massimo D’Alema, ricordava, ancora, che “le risorse non ci sono, ma seppure ci fossero non dovrebbero essere utilizzate così”, alla lite a puntate tra Capezzone, Pannella e Bonino si aggiungeva un nuovo capitolo. Mentre Capezzone ufficializzava il nome del suo network – “decidere” – e preparava anche il suo sito – www.decidere.net – e rifletteva sul colore di quello che tra un anno potrebbe diventare un partito – il logo del network capezzoniano sarà a metà tra il colore di un mandarino e quello di un limone, cioè la scala cromatica utilizzata attorno alla “V” dei volenterosi – a via del Seminario si anticipavano, di qualche ora, gli argomenti capezzoneidi di questo pomeriggio, senza però sfiorare quello che potrebbe essere il cavallo di battaglia del network “decidere”: chissà che Cap. non ritiri fuori la vecchia idea di rivoluzione fiscale, flat tax e aliquote uniche al 20 per cento. Mentre, insomma, Capezzone preparava il suo movimento, arriva Marco Pannella. Dopo aver fatto “comunque i nostri migliori auguri al nostro compagno radicale Capezzone”, il leader radicale, clamorosamente, annuncia la sua grande riforma “radicale, parlamentare e democratica”, precisando che la grande riforma, “avverrà senza nessuna necessità di comportarci secondo modelli e illusioni affidate a scorribande-lampo contro i nostri stessi compagni e i nostri alleati”. Sono le diciotto e dodici minuti: Marco Pannella ha appena rilanciato l’idea di un network liberale.
Claudio Cerasa
4/7/07
Perché nello stesso momento in cui, ieri pomeriggio, l’ex segretario radicale limava i 13 punti del network liberale che presenterà oggi alle 16.45 a largo Carlo Goldoni e su Internet, cioè mentre il presidente della commissione Attività produttive della Camera ragionava su pensioni, scaloni, welfare, imposte, pochi metri più in là, scendendo giù per via del Seminario, entrando al numero 76 del palazzo che ospita la commissione Antimafia, nella sala Refettorio di Palazzo San Macuto, parte della segreteria dei radicali italiani, con Emma Bonino, ministro per il Commercio estero, Maurizio Beretta, direttore generale di Confindustria, i deputati Benedetto Della Vedova (FI) e i senatori Maurizio Sacconi (FI) Antonio Polito (Dl) e Lamberto Dini (Dl), ragionava – con capezzoniano tempismo – su pensioni, scaloni, scalini, welfare, imposte. Con Polito pronto a ricordare che non ha alcun senso la politica del “tassare, spendere e poi spendere pure male”, con Beretta che spiegava che la sinistra antagonista che non vuole scaloni e non vuole riforme sembra “non voler discutere di nulla”, con Bonino che ricordava – un po’ come già fatto in Campidoglio la mattina – perché è importante “una politica di ammortizzatori sociali per i milioni di lavoratori co.co.co e co.co.pro” e con il senatore dl Polito che chiariva per quale motivo la situazione, in realtà, sia un po’ più grave di quel che si crede. Spiega Polito, riferendosi al surreale scalino proposto due giorni fa del ministro del Lavoro, Cesare Damiano: “C’è una parte della cultura italiana che sembra stia adottando una nuova politica. La chiamerei rifiuto del lavoro: sembra che lavorare poco sia diventato un diritto, mentre, storicamente, il movimento operaio non ha mai gradito la cultura del ‘lavorare poco’. Se non ricordo male, qualche annetto fa, c’era qualcuno che ancora parlava di ‘piena occupazione’”. E se Bonino, sulla linea di Massimo D’Alema, ricordava, ancora, che “le risorse non ci sono, ma seppure ci fossero non dovrebbero essere utilizzate così”, alla lite a puntate tra Capezzone, Pannella e Bonino si aggiungeva un nuovo capitolo. Mentre Capezzone ufficializzava il nome del suo network – “decidere” – e preparava anche il suo sito – www.decidere.net – e rifletteva sul colore di quello che tra un anno potrebbe diventare un partito – il logo del network capezzoniano sarà a metà tra il colore di un mandarino e quello di un limone, cioè la scala cromatica utilizzata attorno alla “V” dei volenterosi – a via del Seminario si anticipavano, di qualche ora, gli argomenti capezzoneidi di questo pomeriggio, senza però sfiorare quello che potrebbe essere il cavallo di battaglia del network “decidere”: chissà che Cap. non ritiri fuori la vecchia idea di rivoluzione fiscale, flat tax e aliquote uniche al 20 per cento. Mentre, insomma, Capezzone preparava il suo movimento, arriva Marco Pannella. Dopo aver fatto “comunque i nostri migliori auguri al nostro compagno radicale Capezzone”, il leader radicale, clamorosamente, annuncia la sua grande riforma “radicale, parlamentare e democratica”, precisando che la grande riforma, “avverrà senza nessuna necessità di comportarci secondo modelli e illusioni affidate a scorribande-lampo contro i nostri stessi compagni e i nostri alleati”. Sono le diciotto e dodici minuti: Marco Pannella ha appena rilanciato l’idea di un network liberale.
Claudio Cerasa
4/7/07
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