Il super tuesday del pd e ad agosto W a denver con barack
Roma. L’ultima democratica gocciolina di partito liquido atterrerà a New York all’aeroporto John Fitzgerald Kennedy alle diciassette e undici minuti del prossimo primo febbraio, a quattro giorni dal super tuesday primario di martedì prossimo; sarà una gocciolina travestita da delegazione, una gocciolina molto giovane, molto veltroniana, molto democratica, molto americana, che busserà al numero 139 di Fulton Street (sede principale degli obamiani newyorkesi), farà un salto nel palazzo più bello della quarantatreesima strada (alla nuova sede del New York Times), si trasferirà al piano terra dell’American progress di Washington (il think tank di John Podesta), seguirà dieci giorni di primarie americane, comprerà qualche palloncino blu, lancerà in aria molti coriandoli e, con le urne degli stati più grandi aperte, spiegherà all’America democrat perché il Go Go Obama, oltre che a essere ora veltronianamente kennediano, sarà anche democraticamente rutelliano e molto franceschiniano.
Quattro giorni dopo l’ultimo endorsement per Barack Obama (quello di Ted, fratello di Jfk, che arriva dopo quello di Caroline, figlia di Jfk, di Ethel, vedova di Bobby, e di Patrick, figlio di Ted) da via Santa Anastasia, in piena estasi obamiana, partiranno due piccole delegazioni del Pd che studieranno gli ingranaggi primari del partito a vocazione obamiana: da un lato ci sarà il deputato Roberto Giachetti (e con lui i democrat Enrica Braccioni e Benedetta Marino); dall’altra ci saranno invece Gianluca Lioni, Luigi Madeo e Luciano Nobili: tre giovani – tutti ex Margherita – che tra qualche mese esporteranno nel Pd giovanile le primarie americane e che, al loro ritorno, presenteranno ai vertici del loft la propria relazione sulle sfumature del Pd di Obama; sfumature che, nel loft con o senza tessere, con o senza correnti, con o senza congressi, con o senza voti, hanno comunque avuto il tempo di creare qualche piccolo imbarazzo, dato che a piazza Santa Anastasia le idee di Obama sono quelle che piacciono da sempre a Veltroni (che lo scorso anno ha scritto la prefazione alla versione italiana del libro del candidato di colore, conosciuto tre anni prima alla convention democrat di Boston), sono quelle che piacciono dalla scorsa estate anche a Franceschini (ieri clintoniano, oggi molto più obamiano) ma sono quelle che non piacciono da tempo né a Rutelli né a D’Alema; che proprio come le tre figlie di Bobby Kennedy (Kathleen, Bobby e Kerry) tra un “Without Patricio”, un “Politics, the beautiful” e un “Audacity of hope” preferirebbero senz’altro le 672 pagine autobiografiche della metà clintoniana del Pd americano. Perché il loft oggi è certamente kennediano ed è certamente maggioritario: ma è noto che tra i veltroniani – almeno fino a poco tempo fa – c’è più Hillary che Obama e c’è più Bill che Barack. E se sabato prossimo a New York arriveranno i giovani del Pd a studiare l’obamismo elettorale, il prossimo 25 agosto alla convention democrat di Denver (che potrebbe incoronare candidato presidenziale Obama) quel giorno, che ci sia un governo tecnico o no, che ci siano elezioni oppure no, W ci sarà. Ed è anche per questo che quella leadership calda costruita sognando Luther King, Kennedy, Madre Teresa e Ségolène Royal, W oggi vorrebbe vedersela riconosciuta non tanto come post blairiana (come scritto dal Times) e neppure come postclintoniana (come suggerito da Newsweek): semplicemente, W la vorrebbe un po’ più a vocazione obamiana. E al suo ritorno, l’ultima democratica gocciolina di partito liquido proverà a spiegargli un po’ come si fa.
Claudio Cerasa
30/1/08
mercoledì 30 gennaio 2008
sabato 26 gennaio 2008
Il Foglio. amanda, la morte, i balli in maschera. E’ la nuova cronaca nera
Dei delitti e delle scene. Metà Kubrick, metà Schnitzler. Il doppio sogno della studentessa americana, in carcere da cento giorni per il giallo di Perugia. Come un’inchiesta con troppi indizi si trasforma in un processo agli aggettivi
Forse ho letto. Forse ho fatto i compiti. Forse sono uscita. Forse ho sognato. Forse ho fatto la doccia. Forse ho fatto un tiro. Forse mi sono addormentata. Forse ho fatto l’amore. Il doppio sogno di Amanda è l’occhio di Kubrick, la penna di Schnitzler, la maschera di Pirandello, la notte di Halloween; il doppio sogno di Amanda è una stanza a Perugia, è un piumone bianco, un armadio a muro, uno schizzo di sperma, una lavatrice in funzione, un interrogatorio infinito, un reggiseno che si slaccia, una coscia che si scopre, un poliziotto che ti guarda, una mutandina che si toglie e otto centimetri di sangue che ti uccidono. Il doppio sogno di Amanda è tutto quello che gli altri desideravano, tutto quello che gli altri non riuscivano a spiegare: la studentessa, l’Erasmus, l’omicidio, la coinquilina, il computer, il film, la mamma, il papà, l’erba, il telefonino, il messaggino, i giovani, il sesso, il blog, il pompino; con l’aggettivo che diventa più grave della possibile prova, e con l’accusa che si trasforma in attributo: bella, giovane, erasmus, ventenne, simpatica, disponibile, disinibita, allegra, vivace, e molto, molto fatta. Inspira e respira, piccola: un altro tiro? Primo novembre, Perugia: Meredith: ventidue anni, studentessa, inglese, coinquilina di Amanda; Rudy: studente, ventuno anni, ivoriano, amico di Meredith e Amanda; Raffaele: studente, ventiquattro anni, fidanzato di Amanda; Patrick: trentasette anni, congolose, barista; Amanda: vent’anni, studentessa, americana. Dolcetto o scherzetto? Primo novembre, giovedì sera, è la notte dopo Halloween; la casa è quella di Meredith e di Amanda: lo stereo è spento, Meredith spalanca la porta, apre a qualcuno, lo fa entrare, lo accompagna in camera, si sdraia sul letto, e muore: uccisa con una lama di sei centimetri che tra le ventidue e le ventitré e trenta le strappa otto centimetri di collo, con un taglio lungo quattro secondi che da destra scorre verso sinistra, e la uccide. Poi un attimo, e l’osso del collo si spezza in due. La casa. La porta all’ingresso: chiusa con una doppia mandata. I cassetti: svuotati, ma non quello di Amanda. Su un bicchiere: l’impronta di Amanda. Sul lavandino: il sangue di Amanda, e quello di Meredith. Su un cuscino: l’impronta di Rudy. Nel water: le feci di Rudy. Sul reggiseno: il dna di Raffaele. Sulla mattonella: l’impronta a cerchi concentrici di un paio di nike air max numero 42 e mezzo; simili a quelle trovate a casa di Raffaele. A casa di Raffaele, sulla mensola, un coltello di venti centimetri a lama fissa, con schizzi di candeggina fresca e due microtracce: sulla punta il dna di Meredith, sull’impugnatura quello di Amanda. In carcere: oggi Amanda, Rudy e Raffaele. Ieri Patrick, ora libero ma ancora indagato. Le accuse: concorso in omicidio e violenza sessuale. See you later, piccola: “Sì, Amanda vive in un altro mondo, vive la vita come se fosse un sogno, e il suo unico pensiero è provare piacere, in ogni momento”, dice Raffaele in una lettera forse scritta in carcere o forse no. Inspira e respira, Amanda; pollice e indice si toccano e si strofinano, la cartina scivola sui polpastrelli come una caramella da scartare: e la giri, la stropicci, la fai scorrere da un palmo all’altro, l’accendi e tiri. Inspira e respira. Il doppio sogno di Amanda è una frase del suo doppio, è un verbo coniugato all’infinito, è una tuta nera molto attillata, è un perizoma in un negozio al centro, è una parola sussurrata: sì, scopiamo. “Both high of cannabis”, dice lei. “Fatti”, dice Amanda: quella sera eravamo completamente fatti.
Era proprio come volevano che diventasse, Amanda. Perfetta. Perfetta per chi può raccontare una cosa senza conoscerla, perfetta per chi può parlare di Erasmus senza averlo fatto, perfetta per chi può parlare di giovani senza averci mai parlato, perfetta per chi può parlare di sesso senza ricordarsi più che cos’è. Perfetta, Amanda: perché era tutto quello che serviva ai genitori degli altri; tutto quello volevano dimostrare, tutto quello che ancora non capivano, che ancora non comprendevano, che ancora non conoscevano ma che ora finalmente riconoscono: tesoro, vorrai mica diventare come Amanda? Era tutto quello che serviva, Amanda; era la perfetta non studentessa, la perfetta non fidanzata, la perfetta non coinquilina, la perfetta non amica, la perfetta non figlia. “Era”, perché se ne parla così di Amanda; se ne parla sempre al passato: perché c’è un prima e un dopo quando sei fuori da una cella. E c’è solo un prima quando invece ci sei dentro: perché il presente è il tempo che ti condanna, il passato quello che ti incastra. Il dopo invece non c’è. Era: bella, studentessa, Erasmus, ventenne, simpatica, disponibile, disinibita, allegra, vivace, e molto, molto fatta. Inspira. Respira. E poi: chi è Amanda? Quella coinquilina? Quella fidanzata? Quella del night? Quella del blog? Quella di Amelie? Quella con il Vangelo in carcere? Amanda è scrivere qualcosa su qualcuno che esiste solo come lo hai inventato tu. E’ la proiezione della paura così reale che non può più essere virtuale; e che diventa drogata perché studentessa, zoccola perché biondissima, glaciale perché sospetta, colpevole perché bellissima. Dieci, cento, mille. La maschera di Amanda però è quella che fa comodo agli altri.
Quella sera: alle 19 e un minuto, Meredith accende il dvd a casa della sua amica Sophie; preme on e sceglie un film che si chiama “The Notebook”, con Gena Rowlands, James Garner, Tim Ivey; alle venti e quaranta uno studente polacco vede Amanda uscire dalla casa di Raffaele; tre minuti dopo una telecamera a circuito chiuso, di fronte alla villetta di Meredith, cattura una sagoma, una silhouette nera; bellissima, sottile: è Amanda, dicono. Diciassette minuti dopo, Meredith spegne il lettore dvd, saluta Sophie, torna a casa. Un’ora e quindici minuti dopo, Meredith connette per otto secondi il suo telefonino a Internet. Passano quattordici minuti, Patrick batte uno scontrino: lui è ancora lì, al suo locale “Le Chic”. Un minuto dopo, un testimone racconta di aver visto un uomo nero correre via dalla casa di Meredith. Alle ventidue e trenta minuti, Rudy sta per entrare in un night club. Poco dopo, alle ventidue e trentotto minuti, la cella telefonica più vicina alla casa di Meredith localizza il codice Imei (International Mobile Equipment Identity) del telefonino di Patrick. Il dettaglio sembra importante. Sembra, però. Perché la cella più vicina alla casa di Meredith è anche quella più vicina al pub “Le Chic”, dove lavora Patrick. Tre minuti prima, Patrick riceve un messaggio da Amanda: “See you later”, Patrick; che significa ci vediamo dopo, ma significa anche “Ciao: ci si vede”, ma chissà quando. Dalle venti e trentacinque minuti fino alle dodici del giorno dopo, il telefonino di Amanda non squilla e non riceve telefonate. Dalle venti e quarantadue minuti fino alle sei del giorno dopo, il telefono di Raffaele non squilla e non riceve telefonate: “vuoto di traffico”, lo chiamano i magistrati. Poche ore dopo, alle tredici del due novembre, due agenti della polizia postale si presentano di fronte casa di Amanda e Meredith e troveranno la porta aperta, il vetro rotto, Meredith con il collo tagliato in due, e Raffaele e Amanda seduti sul divano; la lavatrice brontola: dentro anche alcuni panni di Meredith.
Il doppio sogno di Amanda è una frase del suo doppio, è un verbo coniugato all’infinito, è una tuta nera attillata, è un perizoma in un negozio al centro, è una parola sussurrata: scopiamo. “Wild sex tonight”, dice Amanda due giorni dopo la notte di Halloween.
Tesoro mio, vuoi diventare come Amanda?
Due giorni dopo la morte di Meredith, al numero dieci di via Guglielmo Calderini, a Perugia, una telecamera a circuito chiuso riprende i due ragazzi, mano nella mano, in un negozio di intimo. Fidanzati, li chiamano: sono così i ragazzi di oggi, piccola mia. Il proprietario del negozio – il signor Carlo Maria Scotto – riconosce i ragazzi, li segue con lo sguardo, registra, ascolta, racconta: “Amanda, comprati il perizoma che stanotte facciamo sesso selvaggio”. Sono fatti così i ragazzi: fumano, comprano perizomi, fanno sesso. Pensa. L’amica morta, e loro scopano. Come se il perizoma fosse fatto per incartare i libri di Spinoza, o come se il perizoma fosse fatto per nascondere un coltello. E allora, eccola Amanda: quella che ci provava con i clienti, quella cacciatrice di uomini, quella che non puoi avere storie romantiche con lei, quella che non porti a casa per farle conoscere tua madre, ché magari arriva e le dice scusa, hai una cartina? Ma anche quella dell’ex fidanzato di Roma, quello che racconta di quella scommessa vinta a casa sua, e con Amanda che guarda un film, perde la scommessa, inizia a massaggiare, si sfila la maglietta, si slaccia il reggiseno, gioca con i polpastrelli, scende con la testa, e scende sempre di più; e lui sospira, e racconta: “She wanted to try lots of positions”. Troppo bella, troppo fredda, troppo glaciale, troppo intelligente. Così Amanda diventa “angel face”, ma solo per poter dimostrare che angel non lo è. Foxy Knox, la chiamano. Foxy, come la volpe; Knox, come il cognome. Niente invenzioni, però: era Amanda a chiamarsi così sul suo blog; perché giovani, studenti, sesso, droga, e quindi Internet. Perfetta, Amanda. Perfetta per il mondo virtuale che diventa reale solo quando il mondo reale proprio non lo capisci. Come Amelie, a casa di Raffaele. “La vita è solo un’interminabile replica di uno spettacolo che non avrà mai luogo”, diceva Amelie, nel suo Meraviglioso Mondo. E Amanda diventa proprio così. Lei, “che vive in un altro mondo”, “che vive la vita come se fosse un sogno”, e “che il suo unico pensiero è provare piacere, in ogni momento”. Eppure. Eppure quella faccia d’angelo, quegli occhi chiari, quei capelli dorati, quel sorriso grande così. Eppure Amanda studiava, era intelligente, era brava a scuola, e allora tu non capisci: perché il Male deve essere giustificato, perché ci deve essere un filo, ci deve essere un sintomo; e allora la colpa può esser anche un aggettivo: troppo bella, troppo fredda, troppo glaciale, troppo intelligente. Troppo. Troppi indizi per non provare, troppe tracce per non fermare. E così, a cinque giorni dall’omicidio di Meredith, l’indagine è “sostanzialmente chiusa”. Lo dice il magistrato. E lo dice tre volte tra il primo e il quattordici novembre. Chiusa, chiusa, chiusa: anche se un uomo nero, Patrick, verrà arrestato solo per una mezza confessione di Amanda e solo per un messaggino sospetto. Chiusa, anche se sul corpo di Amanda non verranno trovate né ferite, né tagli, né nient’altro che possa spiegare quelle microtracce nel lavandino, con il sangue di Meredith confuso con quello di Amanda. Chiusa, anche se il quarantadue con i cerchi concentrici di Raffaele un giorno ci sarà e il giorno dopo, invece, in casa non ci sarà più. Chiusa, anche se nessuno, in “quel mondo fatto di frequentazioni tra studenti, anche fuori dal mondo universitario, nelle loro abitazioni e negli esercizi pubblici” – come racconta Arturo De Felice, questore di Perugia – non è ancora riuscito a trovare né tutte le armi, né il movente del delitto. Chiusa, anche se l’unica conferma che quella sera Amanda sia stata davvero a casa sua è un fermo immagine di una bellissima silhoutte nera, ripresa di spalle. Chiusa, anche se sui computer di Amanda e di Raffaele l’analisi delle memorie è stata fatta solo dopo due mesi dall’omicidio. Chiusa, anche se nell’appartamento di Meredith su centodieci impronte digitali, quelle di Amanda sono solo due, o forse solo una. Chiusa, anche se Amanda racconterà – a proposito della confessione su Patrick – che “la polizia mi ha fatto pressioni perché facessi il suo nome, non so perché l’ho fatto”; chiusa, dunque: anche se Rudy, a oggi, è l’unico tra i quattro indagati di cui è stata provata la presenza, quella sera, a casa di Meredith. Chiusa, anche se l’ordinanza descriveva “un delitto commesso al culmine di un gioco erotico al quale la vittima aveva deciso improvvisamente di sottrarsi” quando invece gioco erotico forse non ci sarebbe stato affatto. Chiusa, anche se “i gravi indizi di colpevolezza” per i quali Patrick finirà in carcere saranno gravi solo per dieci giorni, il tempo di entrare e uscire dal carcere; il tempo di passare da un verbo al presente a uno al passato.
Respira e inspira, piccola. Il doppio sogno di Amanda è un interrogatorio e due frasi che non tornano: “Ho seri dubbi sulla verità delle mie dichiarazioni perché rese sotto pressione di stress, choc e perché ero esausta”, “I remember in a confused way”. Confused. Quella sera, Amanda la racconta così, così, e così.
Due novembre. Amanda ricorda di aver passato la notte con il suo fidanzato, Raffaele. Ricorda di essersi svegliata, di essere tornata a casa e di aver trovato per terra una macchia di sangue, dietro la porta di casa. Che strano, ha pensato. E allora va da Raffaele, ritorna a casa verso mezzogiorno e lì troverà la polizia postale: con il corpo di Meredith ancora avvolto in un piumone bianco – dietro la porta della stanza da letto – e con la lavatrice che comincia a brontolare.
E poi anche così. Sei novembre: Amanda ricorda di aver lasciato casa di Raffaele alle venti e trenta minuti per incontrare Patrick. Con Patrick, Amanda torna nell’appartamento in via della Pergola numero sette, dove da qualche mese abita insieme con Meredith. Prima di uscire, Amanda dice di aver fatto uso di droga, dice di essersi fatta qualche canna, e per questo – dice – non ricorda esattamente come sono andate le cose. Non ricorda molto, Amanda: ma ricorda che Patrick ha fatto sesso con Meredith. Non ricorda esattamente, Amanda: non ricorda se Meredith è stata prima minacciata, ma, “in a confused way”, ricorda che lei era in cucina, ricorda che Patrick era entrato nella stanza di Meredith, e ricorda che sì, è stato Patrick a uccidere Meredith. Non ricorda quanto tempo avessero passato insieme, dice Amanda. Ricorda però che aveva sentito Meredith urlare e che lei, molto spaventata, si era coperta le orecchie con tutte e due le mani. Non ricorda altro, Amanda. E non ricorda se Raffaele fosse con lei, quella notte.
Il sei novembre, Amanda scrive una lettera dal carcere. Il pm le ha appena ricordato di quella mattina, quando Amanda – pochi minuti prima dell’interrogatorio del tre novembre – aveva raccontato al fidanzato della terza coinquilina di via della Pergola – Marco – di aver visto quella sera il cadavere di Meredith accanto all’armadio, quando invece Meredith la mattina era stata trovata vicino al letto. Amanda non risponde, e poi prende la lettera. “Extreme exhaustion”, scrive. Sì, sono esausta. Nelle due pagine buttate giù nel carcere perugino di Capanne, Amanda precisa che – riguardo all’ultima confessione fatta –, ancora oggi lei stessa ha molti dubbi sulla veridicità delle cose che dice. Confused: perché Amanda è ancora sotto choc, e ci sono delle cose che lei stessa ha detto perché spaventata e perché, in qualche modo, si considera esausta: sì, extreme exhaustion; sono molto, molto confusa. Amanda racconta di non aver avuto un interprete nel corso del primo interrogatorio, racconta di essere stata colpita al capo da un poliziotto, dice che la sua testa è piena di idee e sa perfettamente che “lavorare così” sarebbe frustrante per tutti.
Ma io non ho ucciso Meredith. Non ho nulla da temere. Non ho alcuna bugia da dire. Non ho nulla di cui essere preoccupata. Inspira, respira; inspira, respira: cara mamma, quello che è successo è tutto un mistero. Non posso pensare che a questo. Sono davvero preoccupata per questa storia del coltello, non capisco come quel coltello si trovasse a casa di Raffaele. Ma tutto questo è stupido, perché io non posso dire nient’altro, io ero là e non posso mentire su questo.
“Futilità”, dicono gli investigatori. “Incredibile futilità”: che tradotto significa fare una cazzata e non saper spiegare il perché. Deve essere andata così, pensano: c’erano tre, forse quattro persone in quella stanza, una ragazza sul letto che faceva l’amore, o qualcosa di simile, con un ragazzo; un ragazzo che le lascia addosso qualche macchia sospetta (che prima sembrava sperma e che invece poi si scoprirà che sperma non lo era affatto), forse lo stesso ragazzo che qualche minuto dopo andrà in bagno a fare la cacca; un ragazzo: forse era di colore o forse no, forse era con altre due persone, o forse tre. Forse era con un’altra ragazza. Forse è stata l’altra ragazza a nascondere nel piumone il corpo di Meredith (“per pietà”, dirà una consulente del pm). Forse. Forse Meredith è stata uccisa sul letto, forse qualcuno ha ripulito le impronte, forse erano in tre e una la teneva ferma, un’altra le apriva la gola e la terza le prendeva il collo, spezzandoglielo a metà. Forse. Forse qualcuno voleva incastrare qualcun altro, forse quella sera in quella casa c’erano Amanda, Rudy e Raffaele, forse l’impronta della Nike, numero 42 e mezzo, è quella di Raffaele, forse Patrick era lì ma non c’entrava nulla, forse qualcuno ha aperto i cassetti di casa per rubare i soldi, forse Meredith non sopportava che Amanda si facesse le canne, forse non sopportava che Amanda non usasse mai la lavatrice, forse non sopportava tutti quegli uomini ogni sera a casa, forse Amanda credeva che Meredith le volesse rubare il lavoro, forse Amanda era in cucina, forse era a letto, forse non era a casa. Forse. Forse ho visto Amelie. Forse ho letto. Forse ho fatto i compiti. Forse sono uscita. Forse ho sognato. Forse ho fatto la doccia. Forse ho fatto un tiro. Forse mi sono addormentata. Forse ho fatto l’amore. Confused, e al passato: e se non c’è la prova basta l’aggettivo, o magari anche un sostantivo. Perché troia in inglese lo scrivono così: virgin like a beauty, dress up slutty, few social inhibitions. E’ questo quello che raccontano gli ex, quello che dicono gli amici, quello che dicono le tracce lasciate da Amanda: più di là che di qua. Più sulla rete, che nella casa. Qui, a casa – nella casa di Meredith, che però era anche di Amanda – una macchia di sangue sul lavandino e un’impronta sul bicchiere. Lì, sulla rete, il film, il blog, le foto, il libro, i post. E si dice di sapere tutto di Amanda proprio perché forse non si sa nulla. E’ il virtuale che diventa reale solo perché il reale non lo conosci affatto. Inspira, respira, e tutto sembra uguale. Lì metti uno accanto all’altro e tutto si sovrappone: gli occhi glaciali, la fidanzata, la villa, lo studente, la tesi di laurea; e l’Amanda di Perugia sembra la vicina di casa di Erba, e il Patrick di Le Chic sembra il Da Silva di Rignano, e il Raffaele nel mondo di Amelie sembra lo Stasi di Garlasco: e così Olindo, di Erba, racconta che la moglie Rosa mentre sogna Raffaella, la compagna uccisa di Azouz, disegna su un foglietto di carta sagome simili al corpo di Chiara (di Garlasco); Erba, Rignano, Garlasco, Perugia. Tutto un filo, tutto torna. Tutte facce diverse di un film che si ripete sempre sulla stessa pellicola: gli occhi azzurri, i capelli corti, la pelle chiara, il computer, il fidanzato, la fidanzata, la microtraccia, le balle degli studenti, i corpi sulle mattonelle, le impronte che non si trovano e i due laureandi quasi bocconiani: Stasi e Sollecito; ché ogni individuo con ideali è un potenziale assassino, diceva Gómez Dávila. E poi la rete: dove ci sono troppi indizi per dire che una prova buona non c’è. Perché ora il cronista non ha più bisogno di bussare a casa del “parente della vittima”, e avvicinarsi al tavolino, sbottonare il cappotto, far scivolare in tasca la fotografia della morta ammazzata, e mandarla di nascosto in stampa. Ora Amanda è su MySpace, Meredith su Facebook, Raffaele su Hotmail. Foto, profili, musica, nickname e ultimo movie. Per esempio Amanda, che il cinque dicembre del 2006 apre il computer e scrive la trama di un film. Si chiama Baby Brother, il regista è Robert A. McGowan, l’anno di produzione è il 1927. Sangue, lame, mattonelle. “Cade a terra, il sangue le cola dalla bocca, lei lo ingoia, non muove la mascella, ma si muove come se ci fosse qualcuno che le passasse una lama sul lato sinistro della faccia”. Eccola: è la prova virtuale che rende perfettamente riconoscibile il reale; e allora Amanda diventa quello gli altri volevano dimostrare, quello che gli altri non capivano e che non comprendevano, e che ora invece sembra terribilmente reale. E allora, tesoro, non andare a dormire tardi, non uscire dopo mezzanotte, chiudi a chiave la porta, hai studiato, hai fatto i compiti, con chi hai dormito ieri sera, lascia perdere le americane, non guardare troppa televisione, togliti quell’orecchino, spegni quella sigaretta, spegni quel computer, e dimmi: vorrai mica sposare una come Amanda? Amanda doveva essere così, non la ragazza americana che studia, si diverte, scherza, fuma, beve e ogni tanto scopa: Amanda deve essere il perfetto peggior modello da portare sul piattino a chi quel modello non lo hai mai voluto vedere. Capisci di cosa parlavo, tesoro? E allora il diario di Amanda si trasforma nel riflesso delle sue intenzioni, il profilo diventa l’alibi impossibile e quelle foto sono l’istantanea di ciò che Amanda sarebbe diventata. Le foto: con Amanda di profilo, con lo zaino blu, il mento poggiato sul pugno chiuso, il treno che non passa; con la coppolina celeste, la lingua un po’ fuori un po’ dentro, l’indice che punta le labbra, gli occhi celesti spalancati; con la borsetta grigia, al coffee shop di Amsterdam; con la maglietta nera, il cerchietto nero, il tacco nero, il trucco nero, i capelli raccolti, il rossetto muto. Basta una foto, e Amanda diventa quello che gli altri volevano scrivere; quello che gli altri non erano mai riusciti a far vedere. Tutto chiaro, come la prima visione di una replica: una replica di un film che però non esiste. Perché, tesoro, quella storia non è vera, forse quella ragazza non è così: ma tu credici lo stesso, e vedrai che io mi sentirò meglio.
Il sogno, la scuola, la foto, il tiro. Il doppio sogno di Amanda è l’occhio di Kubrick, la maschera di Pirandello, la notte di Halloween e la penna di Schnitzler. “Doppio sogno”, come il libro scritto da Arthur Schnitzler, come l’“Eyes Wide Shut” girato da Stanley Kubrick e ispirato da Schnitzler. Doppio sogno, come quella scena nel film di Kubrick: l’orgia, la donna americana con gli occhi azzurri, con i capelli biondi, con tantissimi uomini, e troppo silenziosa, quasi glaciale, molto confused, bellissima, drogata: il doppio sogno perfetto, che nella vita si chiama Julienne Davis ma che nel film si fa chiamare Mandy: o se volete semplicemente Amanda.
Claudio Cerasa
26/01/08
Forse ho letto. Forse ho fatto i compiti. Forse sono uscita. Forse ho sognato. Forse ho fatto la doccia. Forse ho fatto un tiro. Forse mi sono addormentata. Forse ho fatto l’amore. Il doppio sogno di Amanda è l’occhio di Kubrick, la penna di Schnitzler, la maschera di Pirandello, la notte di Halloween; il doppio sogno di Amanda è una stanza a Perugia, è un piumone bianco, un armadio a muro, uno schizzo di sperma, una lavatrice in funzione, un interrogatorio infinito, un reggiseno che si slaccia, una coscia che si scopre, un poliziotto che ti guarda, una mutandina che si toglie e otto centimetri di sangue che ti uccidono. Il doppio sogno di Amanda è tutto quello che gli altri desideravano, tutto quello che gli altri non riuscivano a spiegare: la studentessa, l’Erasmus, l’omicidio, la coinquilina, il computer, il film, la mamma, il papà, l’erba, il telefonino, il messaggino, i giovani, il sesso, il blog, il pompino; con l’aggettivo che diventa più grave della possibile prova, e con l’accusa che si trasforma in attributo: bella, giovane, erasmus, ventenne, simpatica, disponibile, disinibita, allegra, vivace, e molto, molto fatta. Inspira e respira, piccola: un altro tiro? Primo novembre, Perugia: Meredith: ventidue anni, studentessa, inglese, coinquilina di Amanda; Rudy: studente, ventuno anni, ivoriano, amico di Meredith e Amanda; Raffaele: studente, ventiquattro anni, fidanzato di Amanda; Patrick: trentasette anni, congolose, barista; Amanda: vent’anni, studentessa, americana. Dolcetto o scherzetto? Primo novembre, giovedì sera, è la notte dopo Halloween; la casa è quella di Meredith e di Amanda: lo stereo è spento, Meredith spalanca la porta, apre a qualcuno, lo fa entrare, lo accompagna in camera, si sdraia sul letto, e muore: uccisa con una lama di sei centimetri che tra le ventidue e le ventitré e trenta le strappa otto centimetri di collo, con un taglio lungo quattro secondi che da destra scorre verso sinistra, e la uccide. Poi un attimo, e l’osso del collo si spezza in due. La casa. La porta all’ingresso: chiusa con una doppia mandata. I cassetti: svuotati, ma non quello di Amanda. Su un bicchiere: l’impronta di Amanda. Sul lavandino: il sangue di Amanda, e quello di Meredith. Su un cuscino: l’impronta di Rudy. Nel water: le feci di Rudy. Sul reggiseno: il dna di Raffaele. Sulla mattonella: l’impronta a cerchi concentrici di un paio di nike air max numero 42 e mezzo; simili a quelle trovate a casa di Raffaele. A casa di Raffaele, sulla mensola, un coltello di venti centimetri a lama fissa, con schizzi di candeggina fresca e due microtracce: sulla punta il dna di Meredith, sull’impugnatura quello di Amanda. In carcere: oggi Amanda, Rudy e Raffaele. Ieri Patrick, ora libero ma ancora indagato. Le accuse: concorso in omicidio e violenza sessuale. See you later, piccola: “Sì, Amanda vive in un altro mondo, vive la vita come se fosse un sogno, e il suo unico pensiero è provare piacere, in ogni momento”, dice Raffaele in una lettera forse scritta in carcere o forse no. Inspira e respira, Amanda; pollice e indice si toccano e si strofinano, la cartina scivola sui polpastrelli come una caramella da scartare: e la giri, la stropicci, la fai scorrere da un palmo all’altro, l’accendi e tiri. Inspira e respira. Il doppio sogno di Amanda è una frase del suo doppio, è un verbo coniugato all’infinito, è una tuta nera molto attillata, è un perizoma in un negozio al centro, è una parola sussurrata: sì, scopiamo. “Both high of cannabis”, dice lei. “Fatti”, dice Amanda: quella sera eravamo completamente fatti.
Era proprio come volevano che diventasse, Amanda. Perfetta. Perfetta per chi può raccontare una cosa senza conoscerla, perfetta per chi può parlare di Erasmus senza averlo fatto, perfetta per chi può parlare di giovani senza averci mai parlato, perfetta per chi può parlare di sesso senza ricordarsi più che cos’è. Perfetta, Amanda: perché era tutto quello che serviva ai genitori degli altri; tutto quello volevano dimostrare, tutto quello che ancora non capivano, che ancora non comprendevano, che ancora non conoscevano ma che ora finalmente riconoscono: tesoro, vorrai mica diventare come Amanda? Era tutto quello che serviva, Amanda; era la perfetta non studentessa, la perfetta non fidanzata, la perfetta non coinquilina, la perfetta non amica, la perfetta non figlia. “Era”, perché se ne parla così di Amanda; se ne parla sempre al passato: perché c’è un prima e un dopo quando sei fuori da una cella. E c’è solo un prima quando invece ci sei dentro: perché il presente è il tempo che ti condanna, il passato quello che ti incastra. Il dopo invece non c’è. Era: bella, studentessa, Erasmus, ventenne, simpatica, disponibile, disinibita, allegra, vivace, e molto, molto fatta. Inspira. Respira. E poi: chi è Amanda? Quella coinquilina? Quella fidanzata? Quella del night? Quella del blog? Quella di Amelie? Quella con il Vangelo in carcere? Amanda è scrivere qualcosa su qualcuno che esiste solo come lo hai inventato tu. E’ la proiezione della paura così reale che non può più essere virtuale; e che diventa drogata perché studentessa, zoccola perché biondissima, glaciale perché sospetta, colpevole perché bellissima. Dieci, cento, mille. La maschera di Amanda però è quella che fa comodo agli altri.
Quella sera: alle 19 e un minuto, Meredith accende il dvd a casa della sua amica Sophie; preme on e sceglie un film che si chiama “The Notebook”, con Gena Rowlands, James Garner, Tim Ivey; alle venti e quaranta uno studente polacco vede Amanda uscire dalla casa di Raffaele; tre minuti dopo una telecamera a circuito chiuso, di fronte alla villetta di Meredith, cattura una sagoma, una silhouette nera; bellissima, sottile: è Amanda, dicono. Diciassette minuti dopo, Meredith spegne il lettore dvd, saluta Sophie, torna a casa. Un’ora e quindici minuti dopo, Meredith connette per otto secondi il suo telefonino a Internet. Passano quattordici minuti, Patrick batte uno scontrino: lui è ancora lì, al suo locale “Le Chic”. Un minuto dopo, un testimone racconta di aver visto un uomo nero correre via dalla casa di Meredith. Alle ventidue e trenta minuti, Rudy sta per entrare in un night club. Poco dopo, alle ventidue e trentotto minuti, la cella telefonica più vicina alla casa di Meredith localizza il codice Imei (International Mobile Equipment Identity) del telefonino di Patrick. Il dettaglio sembra importante. Sembra, però. Perché la cella più vicina alla casa di Meredith è anche quella più vicina al pub “Le Chic”, dove lavora Patrick. Tre minuti prima, Patrick riceve un messaggio da Amanda: “See you later”, Patrick; che significa ci vediamo dopo, ma significa anche “Ciao: ci si vede”, ma chissà quando. Dalle venti e trentacinque minuti fino alle dodici del giorno dopo, il telefonino di Amanda non squilla e non riceve telefonate. Dalle venti e quarantadue minuti fino alle sei del giorno dopo, il telefono di Raffaele non squilla e non riceve telefonate: “vuoto di traffico”, lo chiamano i magistrati. Poche ore dopo, alle tredici del due novembre, due agenti della polizia postale si presentano di fronte casa di Amanda e Meredith e troveranno la porta aperta, il vetro rotto, Meredith con il collo tagliato in due, e Raffaele e Amanda seduti sul divano; la lavatrice brontola: dentro anche alcuni panni di Meredith.
Il doppio sogno di Amanda è una frase del suo doppio, è un verbo coniugato all’infinito, è una tuta nera attillata, è un perizoma in un negozio al centro, è una parola sussurrata: scopiamo. “Wild sex tonight”, dice Amanda due giorni dopo la notte di Halloween.
Tesoro mio, vuoi diventare come Amanda?
Due giorni dopo la morte di Meredith, al numero dieci di via Guglielmo Calderini, a Perugia, una telecamera a circuito chiuso riprende i due ragazzi, mano nella mano, in un negozio di intimo. Fidanzati, li chiamano: sono così i ragazzi di oggi, piccola mia. Il proprietario del negozio – il signor Carlo Maria Scotto – riconosce i ragazzi, li segue con lo sguardo, registra, ascolta, racconta: “Amanda, comprati il perizoma che stanotte facciamo sesso selvaggio”. Sono fatti così i ragazzi: fumano, comprano perizomi, fanno sesso. Pensa. L’amica morta, e loro scopano. Come se il perizoma fosse fatto per incartare i libri di Spinoza, o come se il perizoma fosse fatto per nascondere un coltello. E allora, eccola Amanda: quella che ci provava con i clienti, quella cacciatrice di uomini, quella che non puoi avere storie romantiche con lei, quella che non porti a casa per farle conoscere tua madre, ché magari arriva e le dice scusa, hai una cartina? Ma anche quella dell’ex fidanzato di Roma, quello che racconta di quella scommessa vinta a casa sua, e con Amanda che guarda un film, perde la scommessa, inizia a massaggiare, si sfila la maglietta, si slaccia il reggiseno, gioca con i polpastrelli, scende con la testa, e scende sempre di più; e lui sospira, e racconta: “She wanted to try lots of positions”. Troppo bella, troppo fredda, troppo glaciale, troppo intelligente. Così Amanda diventa “angel face”, ma solo per poter dimostrare che angel non lo è. Foxy Knox, la chiamano. Foxy, come la volpe; Knox, come il cognome. Niente invenzioni, però: era Amanda a chiamarsi così sul suo blog; perché giovani, studenti, sesso, droga, e quindi Internet. Perfetta, Amanda. Perfetta per il mondo virtuale che diventa reale solo quando il mondo reale proprio non lo capisci. Come Amelie, a casa di Raffaele. “La vita è solo un’interminabile replica di uno spettacolo che non avrà mai luogo”, diceva Amelie, nel suo Meraviglioso Mondo. E Amanda diventa proprio così. Lei, “che vive in un altro mondo”, “che vive la vita come se fosse un sogno”, e “che il suo unico pensiero è provare piacere, in ogni momento”. Eppure. Eppure quella faccia d’angelo, quegli occhi chiari, quei capelli dorati, quel sorriso grande così. Eppure Amanda studiava, era intelligente, era brava a scuola, e allora tu non capisci: perché il Male deve essere giustificato, perché ci deve essere un filo, ci deve essere un sintomo; e allora la colpa può esser anche un aggettivo: troppo bella, troppo fredda, troppo glaciale, troppo intelligente. Troppo. Troppi indizi per non provare, troppe tracce per non fermare. E così, a cinque giorni dall’omicidio di Meredith, l’indagine è “sostanzialmente chiusa”. Lo dice il magistrato. E lo dice tre volte tra il primo e il quattordici novembre. Chiusa, chiusa, chiusa: anche se un uomo nero, Patrick, verrà arrestato solo per una mezza confessione di Amanda e solo per un messaggino sospetto. Chiusa, anche se sul corpo di Amanda non verranno trovate né ferite, né tagli, né nient’altro che possa spiegare quelle microtracce nel lavandino, con il sangue di Meredith confuso con quello di Amanda. Chiusa, anche se il quarantadue con i cerchi concentrici di Raffaele un giorno ci sarà e il giorno dopo, invece, in casa non ci sarà più. Chiusa, anche se nessuno, in “quel mondo fatto di frequentazioni tra studenti, anche fuori dal mondo universitario, nelle loro abitazioni e negli esercizi pubblici” – come racconta Arturo De Felice, questore di Perugia – non è ancora riuscito a trovare né tutte le armi, né il movente del delitto. Chiusa, anche se l’unica conferma che quella sera Amanda sia stata davvero a casa sua è un fermo immagine di una bellissima silhoutte nera, ripresa di spalle. Chiusa, anche se sui computer di Amanda e di Raffaele l’analisi delle memorie è stata fatta solo dopo due mesi dall’omicidio. Chiusa, anche se nell’appartamento di Meredith su centodieci impronte digitali, quelle di Amanda sono solo due, o forse solo una. Chiusa, anche se Amanda racconterà – a proposito della confessione su Patrick – che “la polizia mi ha fatto pressioni perché facessi il suo nome, non so perché l’ho fatto”; chiusa, dunque: anche se Rudy, a oggi, è l’unico tra i quattro indagati di cui è stata provata la presenza, quella sera, a casa di Meredith. Chiusa, anche se l’ordinanza descriveva “un delitto commesso al culmine di un gioco erotico al quale la vittima aveva deciso improvvisamente di sottrarsi” quando invece gioco erotico forse non ci sarebbe stato affatto. Chiusa, anche se “i gravi indizi di colpevolezza” per i quali Patrick finirà in carcere saranno gravi solo per dieci giorni, il tempo di entrare e uscire dal carcere; il tempo di passare da un verbo al presente a uno al passato.
Respira e inspira, piccola. Il doppio sogno di Amanda è un interrogatorio e due frasi che non tornano: “Ho seri dubbi sulla verità delle mie dichiarazioni perché rese sotto pressione di stress, choc e perché ero esausta”, “I remember in a confused way”. Confused. Quella sera, Amanda la racconta così, così, e così.
Due novembre. Amanda ricorda di aver passato la notte con il suo fidanzato, Raffaele. Ricorda di essersi svegliata, di essere tornata a casa e di aver trovato per terra una macchia di sangue, dietro la porta di casa. Che strano, ha pensato. E allora va da Raffaele, ritorna a casa verso mezzogiorno e lì troverà la polizia postale: con il corpo di Meredith ancora avvolto in un piumone bianco – dietro la porta della stanza da letto – e con la lavatrice che comincia a brontolare.
E poi anche così. Sei novembre: Amanda ricorda di aver lasciato casa di Raffaele alle venti e trenta minuti per incontrare Patrick. Con Patrick, Amanda torna nell’appartamento in via della Pergola numero sette, dove da qualche mese abita insieme con Meredith. Prima di uscire, Amanda dice di aver fatto uso di droga, dice di essersi fatta qualche canna, e per questo – dice – non ricorda esattamente come sono andate le cose. Non ricorda molto, Amanda: ma ricorda che Patrick ha fatto sesso con Meredith. Non ricorda esattamente, Amanda: non ricorda se Meredith è stata prima minacciata, ma, “in a confused way”, ricorda che lei era in cucina, ricorda che Patrick era entrato nella stanza di Meredith, e ricorda che sì, è stato Patrick a uccidere Meredith. Non ricorda quanto tempo avessero passato insieme, dice Amanda. Ricorda però che aveva sentito Meredith urlare e che lei, molto spaventata, si era coperta le orecchie con tutte e due le mani. Non ricorda altro, Amanda. E non ricorda se Raffaele fosse con lei, quella notte.
Il sei novembre, Amanda scrive una lettera dal carcere. Il pm le ha appena ricordato di quella mattina, quando Amanda – pochi minuti prima dell’interrogatorio del tre novembre – aveva raccontato al fidanzato della terza coinquilina di via della Pergola – Marco – di aver visto quella sera il cadavere di Meredith accanto all’armadio, quando invece Meredith la mattina era stata trovata vicino al letto. Amanda non risponde, e poi prende la lettera. “Extreme exhaustion”, scrive. Sì, sono esausta. Nelle due pagine buttate giù nel carcere perugino di Capanne, Amanda precisa che – riguardo all’ultima confessione fatta –, ancora oggi lei stessa ha molti dubbi sulla veridicità delle cose che dice. Confused: perché Amanda è ancora sotto choc, e ci sono delle cose che lei stessa ha detto perché spaventata e perché, in qualche modo, si considera esausta: sì, extreme exhaustion; sono molto, molto confusa. Amanda racconta di non aver avuto un interprete nel corso del primo interrogatorio, racconta di essere stata colpita al capo da un poliziotto, dice che la sua testa è piena di idee e sa perfettamente che “lavorare così” sarebbe frustrante per tutti.
Ma io non ho ucciso Meredith. Non ho nulla da temere. Non ho alcuna bugia da dire. Non ho nulla di cui essere preoccupata. Inspira, respira; inspira, respira: cara mamma, quello che è successo è tutto un mistero. Non posso pensare che a questo. Sono davvero preoccupata per questa storia del coltello, non capisco come quel coltello si trovasse a casa di Raffaele. Ma tutto questo è stupido, perché io non posso dire nient’altro, io ero là e non posso mentire su questo.
“Futilità”, dicono gli investigatori. “Incredibile futilità”: che tradotto significa fare una cazzata e non saper spiegare il perché. Deve essere andata così, pensano: c’erano tre, forse quattro persone in quella stanza, una ragazza sul letto che faceva l’amore, o qualcosa di simile, con un ragazzo; un ragazzo che le lascia addosso qualche macchia sospetta (che prima sembrava sperma e che invece poi si scoprirà che sperma non lo era affatto), forse lo stesso ragazzo che qualche minuto dopo andrà in bagno a fare la cacca; un ragazzo: forse era di colore o forse no, forse era con altre due persone, o forse tre. Forse era con un’altra ragazza. Forse è stata l’altra ragazza a nascondere nel piumone il corpo di Meredith (“per pietà”, dirà una consulente del pm). Forse. Forse Meredith è stata uccisa sul letto, forse qualcuno ha ripulito le impronte, forse erano in tre e una la teneva ferma, un’altra le apriva la gola e la terza le prendeva il collo, spezzandoglielo a metà. Forse. Forse qualcuno voleva incastrare qualcun altro, forse quella sera in quella casa c’erano Amanda, Rudy e Raffaele, forse l’impronta della Nike, numero 42 e mezzo, è quella di Raffaele, forse Patrick era lì ma non c’entrava nulla, forse qualcuno ha aperto i cassetti di casa per rubare i soldi, forse Meredith non sopportava che Amanda si facesse le canne, forse non sopportava che Amanda non usasse mai la lavatrice, forse non sopportava tutti quegli uomini ogni sera a casa, forse Amanda credeva che Meredith le volesse rubare il lavoro, forse Amanda era in cucina, forse era a letto, forse non era a casa. Forse. Forse ho visto Amelie. Forse ho letto. Forse ho fatto i compiti. Forse sono uscita. Forse ho sognato. Forse ho fatto la doccia. Forse ho fatto un tiro. Forse mi sono addormentata. Forse ho fatto l’amore. Confused, e al passato: e se non c’è la prova basta l’aggettivo, o magari anche un sostantivo. Perché troia in inglese lo scrivono così: virgin like a beauty, dress up slutty, few social inhibitions. E’ questo quello che raccontano gli ex, quello che dicono gli amici, quello che dicono le tracce lasciate da Amanda: più di là che di qua. Più sulla rete, che nella casa. Qui, a casa – nella casa di Meredith, che però era anche di Amanda – una macchia di sangue sul lavandino e un’impronta sul bicchiere. Lì, sulla rete, il film, il blog, le foto, il libro, i post. E si dice di sapere tutto di Amanda proprio perché forse non si sa nulla. E’ il virtuale che diventa reale solo perché il reale non lo conosci affatto. Inspira, respira, e tutto sembra uguale. Lì metti uno accanto all’altro e tutto si sovrappone: gli occhi glaciali, la fidanzata, la villa, lo studente, la tesi di laurea; e l’Amanda di Perugia sembra la vicina di casa di Erba, e il Patrick di Le Chic sembra il Da Silva di Rignano, e il Raffaele nel mondo di Amelie sembra lo Stasi di Garlasco: e così Olindo, di Erba, racconta che la moglie Rosa mentre sogna Raffaella, la compagna uccisa di Azouz, disegna su un foglietto di carta sagome simili al corpo di Chiara (di Garlasco); Erba, Rignano, Garlasco, Perugia. Tutto un filo, tutto torna. Tutte facce diverse di un film che si ripete sempre sulla stessa pellicola: gli occhi azzurri, i capelli corti, la pelle chiara, il computer, il fidanzato, la fidanzata, la microtraccia, le balle degli studenti, i corpi sulle mattonelle, le impronte che non si trovano e i due laureandi quasi bocconiani: Stasi e Sollecito; ché ogni individuo con ideali è un potenziale assassino, diceva Gómez Dávila. E poi la rete: dove ci sono troppi indizi per dire che una prova buona non c’è. Perché ora il cronista non ha più bisogno di bussare a casa del “parente della vittima”, e avvicinarsi al tavolino, sbottonare il cappotto, far scivolare in tasca la fotografia della morta ammazzata, e mandarla di nascosto in stampa. Ora Amanda è su MySpace, Meredith su Facebook, Raffaele su Hotmail. Foto, profili, musica, nickname e ultimo movie. Per esempio Amanda, che il cinque dicembre del 2006 apre il computer e scrive la trama di un film. Si chiama Baby Brother, il regista è Robert A. McGowan, l’anno di produzione è il 1927. Sangue, lame, mattonelle. “Cade a terra, il sangue le cola dalla bocca, lei lo ingoia, non muove la mascella, ma si muove come se ci fosse qualcuno che le passasse una lama sul lato sinistro della faccia”. Eccola: è la prova virtuale che rende perfettamente riconoscibile il reale; e allora Amanda diventa quello gli altri volevano dimostrare, quello che gli altri non capivano e che non comprendevano, e che ora invece sembra terribilmente reale. E allora, tesoro, non andare a dormire tardi, non uscire dopo mezzanotte, chiudi a chiave la porta, hai studiato, hai fatto i compiti, con chi hai dormito ieri sera, lascia perdere le americane, non guardare troppa televisione, togliti quell’orecchino, spegni quella sigaretta, spegni quel computer, e dimmi: vorrai mica sposare una come Amanda? Amanda doveva essere così, non la ragazza americana che studia, si diverte, scherza, fuma, beve e ogni tanto scopa: Amanda deve essere il perfetto peggior modello da portare sul piattino a chi quel modello non lo hai mai voluto vedere. Capisci di cosa parlavo, tesoro? E allora il diario di Amanda si trasforma nel riflesso delle sue intenzioni, il profilo diventa l’alibi impossibile e quelle foto sono l’istantanea di ciò che Amanda sarebbe diventata. Le foto: con Amanda di profilo, con lo zaino blu, il mento poggiato sul pugno chiuso, il treno che non passa; con la coppolina celeste, la lingua un po’ fuori un po’ dentro, l’indice che punta le labbra, gli occhi celesti spalancati; con la borsetta grigia, al coffee shop di Amsterdam; con la maglietta nera, il cerchietto nero, il tacco nero, il trucco nero, i capelli raccolti, il rossetto muto. Basta una foto, e Amanda diventa quello che gli altri volevano scrivere; quello che gli altri non erano mai riusciti a far vedere. Tutto chiaro, come la prima visione di una replica: una replica di un film che però non esiste. Perché, tesoro, quella storia non è vera, forse quella ragazza non è così: ma tu credici lo stesso, e vedrai che io mi sentirò meglio.
Il sogno, la scuola, la foto, il tiro. Il doppio sogno di Amanda è l’occhio di Kubrick, la maschera di Pirandello, la notte di Halloween e la penna di Schnitzler. “Doppio sogno”, come il libro scritto da Arthur Schnitzler, come l’“Eyes Wide Shut” girato da Stanley Kubrick e ispirato da Schnitzler. Doppio sogno, come quella scena nel film di Kubrick: l’orgia, la donna americana con gli occhi azzurri, con i capelli biondi, con tantissimi uomini, e troppo silenziosa, quasi glaciale, molto confused, bellissima, drogata: il doppio sogno perfetto, che nella vita si chiama Julienne Davis ma che nel film si fa chiamare Mandy: o se volete semplicemente Amanda.
Claudio Cerasa
26/01/08
venerdì 25 gennaio 2008
Il Foglio. Controbunker di W, spunta la vocazione maggioritaria elastica
• Bettini propone un “governo delle riforme”, Veltroni pensa al referendum. E se si va al voto? “Se qualcuno ci sta, ben venga”
Roma. Sono le quattordici e due minuti quando il vicesegretario del Pd, Dario Franceschini, scende dal Campidoglio, arriva al Senato e dopo cinquantaquattro minuti di colloquio con Walter Veltroni spiega perché l’agonizzante serietà al governo non poteva che essere, ieri, l’unica scelta possibile per il loft del Pd. “Il voto di fiducia renderà trasparente di fronte a tutti la scelta di chi, come noi, mantiene il patto con gli italiani e il sostegno a Prodi e chi per un motivo o un altro, ha cambiato idea e tradito il patto”, raccontava ieri pomeriggio Franceschini, prima che i centessantuno senatori sfiduciassero Prodi a Palazzo Madama; prima che Prodi parlasse a Palazzo Madama di “ritocchi alla squadra di governo” e di “urgenti riforme istituzionali”; prima che la vocazione maggioritaria del Pd fosse costretta a caricare il suo terzo colpo in canna per sopravvivere al bunker ulivista, e ora sfiduciato, di Romano Prodi.
Fino a ieri pomeriggio, la posizione del Pd veltroniano era quella pianificata lunedì sera insieme con i parlamentari del loft: “Le elezioni sono la scelta peggiore per il paese”. Un modo gentile, questo, per togliere qualsiasi alibi a chiunque avesse voluto collocare il Pd sulla scena del delitto prodiano; ma anche un modo come un altro per far capire che, se è vero che il Pd considera le elezioni come la scelta peggiore, dall’altra parte al loft c’è qualcuno che già da tempo aveva cominciato a riflettere sul modo migliore per arrivare al voto. Con un governo Prodi, ufficialmente; con un esecutivo tecnico – e “super partes”, come direbbe Mario Monti – nella realtà. E fino a ieri mattina, i conti tornavano pure: Rutelli, D’Alema, Casini, Bertinotti, Marini, Napolitano, Pisanu, governo tecnico, voto a maggio o referendum. Perché come priorità per il Pd, come scritto ieri sull’Unità dal costituzionalista veltroniano Stefano Ceccanti, ci sarebbe un “governo con mandato più ristretto possibile che accompagni anche la celebrazione del referendum e che ne perfezioni l’esito”. L’idea non è certo stata cancellata dall’agenda del controbunker veltroniano: al loft si sono accorti che nel pallottoliere del governo tecnico mancherebbe il bussolotto dell’Udc, ieri Goffredo Bettini chiedeva a Berlusconi di far “fare un passo avanti storico all’Italia” con un governo delle riforme, ma il dato di fatto è che W ha capito che il carrozzone liquido del Pd per evitare di schiantarsi contro il palo della serietà al governo da ora in poi deve fare corsa a sé. Anche rispetto al bunker ormai affondato di Prodi.
Qualsiasi decisione prenderà in queste ore Giorgio Napolitano, nella convivenza impossibile tra segretario e presidente del Pd (presidente che fino a oggi è andato alla sede di partito una sola volta, in quasi tre mesi), Veltroni ora, spiegano dal loft, “sarebbe ben contento anche di un governo prodiano ma ‘de facto’ tecnico, e controllato via loft. Ma non solo: per mettere in piedi la sua vocazione maggioritaria, in realtà ora Walter si troverà nelle condizioni ideali, essendo ‘costretto’ ad accentrare ancor di più i suoi poteri per trasformarsi da semplice segretario a commissario straordinario del Pd”. Perché il controbunker del loft W ha deciso di costruirlo così: con un patto di non belligeranza con D’Alema, senza contraddire apertamente Prodi e senza però stargli neppure troppo vicino, al Prof bolognese (ieri pomeriggio, mentre Prodi parlava in Senato, W si occupava al comune della nuova sede della Lazio). Certo è che, se il Pd dovesse andare al voto con una legge elettorale come la Calderoli, il controbunker sarà costretto a definire la sua vocazione maggioritaria in modo un po’ più elastico. Perché c’è chi crede che oggi il “centrodestra si ricompatterà, e perdere per perdere, a questo punto almeno conviene salvare l’onore”. Ma c’è anche chi dice perché oggi il “tutti soli alle elezioni” di W andrebbe letto così. “Di questo principio se n’è parlato quando votare col Porcellum era ipotesi irrealistica – spiega al Foglio la Responsabile istituzioni del Pd, Federica Mogherini. Non per questo quell’idea non è attuale oggi. Il punto è che invertire l’ordine logico significa che se il Partito democratico fa un suo programma, e non ci sono tentennamenti sulle virgole, se qualcuno ci sta, ben venga”.
Claudio Cerasa
25/01/08
Roma. Sono le quattordici e due minuti quando il vicesegretario del Pd, Dario Franceschini, scende dal Campidoglio, arriva al Senato e dopo cinquantaquattro minuti di colloquio con Walter Veltroni spiega perché l’agonizzante serietà al governo non poteva che essere, ieri, l’unica scelta possibile per il loft del Pd. “Il voto di fiducia renderà trasparente di fronte a tutti la scelta di chi, come noi, mantiene il patto con gli italiani e il sostegno a Prodi e chi per un motivo o un altro, ha cambiato idea e tradito il patto”, raccontava ieri pomeriggio Franceschini, prima che i centessantuno senatori sfiduciassero Prodi a Palazzo Madama; prima che Prodi parlasse a Palazzo Madama di “ritocchi alla squadra di governo” e di “urgenti riforme istituzionali”; prima che la vocazione maggioritaria del Pd fosse costretta a caricare il suo terzo colpo in canna per sopravvivere al bunker ulivista, e ora sfiduciato, di Romano Prodi.
Fino a ieri pomeriggio, la posizione del Pd veltroniano era quella pianificata lunedì sera insieme con i parlamentari del loft: “Le elezioni sono la scelta peggiore per il paese”. Un modo gentile, questo, per togliere qualsiasi alibi a chiunque avesse voluto collocare il Pd sulla scena del delitto prodiano; ma anche un modo come un altro per far capire che, se è vero che il Pd considera le elezioni come la scelta peggiore, dall’altra parte al loft c’è qualcuno che già da tempo aveva cominciato a riflettere sul modo migliore per arrivare al voto. Con un governo Prodi, ufficialmente; con un esecutivo tecnico – e “super partes”, come direbbe Mario Monti – nella realtà. E fino a ieri mattina, i conti tornavano pure: Rutelli, D’Alema, Casini, Bertinotti, Marini, Napolitano, Pisanu, governo tecnico, voto a maggio o referendum. Perché come priorità per il Pd, come scritto ieri sull’Unità dal costituzionalista veltroniano Stefano Ceccanti, ci sarebbe un “governo con mandato più ristretto possibile che accompagni anche la celebrazione del referendum e che ne perfezioni l’esito”. L’idea non è certo stata cancellata dall’agenda del controbunker veltroniano: al loft si sono accorti che nel pallottoliere del governo tecnico mancherebbe il bussolotto dell’Udc, ieri Goffredo Bettini chiedeva a Berlusconi di far “fare un passo avanti storico all’Italia” con un governo delle riforme, ma il dato di fatto è che W ha capito che il carrozzone liquido del Pd per evitare di schiantarsi contro il palo della serietà al governo da ora in poi deve fare corsa a sé. Anche rispetto al bunker ormai affondato di Prodi.
Qualsiasi decisione prenderà in queste ore Giorgio Napolitano, nella convivenza impossibile tra segretario e presidente del Pd (presidente che fino a oggi è andato alla sede di partito una sola volta, in quasi tre mesi), Veltroni ora, spiegano dal loft, “sarebbe ben contento anche di un governo prodiano ma ‘de facto’ tecnico, e controllato via loft. Ma non solo: per mettere in piedi la sua vocazione maggioritaria, in realtà ora Walter si troverà nelle condizioni ideali, essendo ‘costretto’ ad accentrare ancor di più i suoi poteri per trasformarsi da semplice segretario a commissario straordinario del Pd”. Perché il controbunker del loft W ha deciso di costruirlo così: con un patto di non belligeranza con D’Alema, senza contraddire apertamente Prodi e senza però stargli neppure troppo vicino, al Prof bolognese (ieri pomeriggio, mentre Prodi parlava in Senato, W si occupava al comune della nuova sede della Lazio). Certo è che, se il Pd dovesse andare al voto con una legge elettorale come la Calderoli, il controbunker sarà costretto a definire la sua vocazione maggioritaria in modo un po’ più elastico. Perché c’è chi crede che oggi il “centrodestra si ricompatterà, e perdere per perdere, a questo punto almeno conviene salvare l’onore”. Ma c’è anche chi dice perché oggi il “tutti soli alle elezioni” di W andrebbe letto così. “Di questo principio se n’è parlato quando votare col Porcellum era ipotesi irrealistica – spiega al Foglio la Responsabile istituzioni del Pd, Federica Mogherini. Non per questo quell’idea non è attuale oggi. Il punto è che invertire l’ordine logico significa che se il Partito democratico fa un suo programma, e non ci sono tentennamenti sulle virgole, se qualcuno ci sta, ben venga”.
Claudio Cerasa
25/01/08
lunedì 14 gennaio 2008
Il Foglio. "C’è un anello mancante tra Cav. e Ing."
Un americano a Roma (e a Ivrea). Ha visto molto da vicino Kissinger, Bernabé, Guido Rossi, Bazoli, Bernheim, Mastella. Si chiama James, James Hansen
Apre e chiude. Centosettanta chilometri e quarantotto ore: dall’Ingegnere al Cavaliere è una porta che si chiude a Ivrea e si riapre a Milano. Apre e chiude, James. Tra l’Ing. e il Cav. c’è un americano di cinquantotto anni che, in poco tempo, ha messo su una rete, fatta di contatti, che parte da Carlo De Benedetti, passa per Silvio Berlusconi e arriva fino ad Antoine Bernheim, Giovanni Bazoli e Paolo Scaroni. Press office, dice il bigliettino da visita. Public relation, dice il curriculum. E quindi Olivetti, Fininvest, Stet, Telecom e ora Economist e Wall Street Journal. Ma c’è dell’altro, qui; e dieci anni dopo l’ultimo anno passato alla Telecom, nell’incredibile storia di James Hansen c’è anche un piccolo giallo. Un libro, un editore, una scalata, parecchi soldi.
James Hansen poggiò i due fogli scritti a mano sulla scrivania al terzo piano del numero settantasette di via Jervis, a Ivrea, alla sede della Olivetti; fece due passi in avanti, ringraziò l’Ingegnere, lo salutò e poi, James, se ne andò davvero: scese per Novara, si lasciò alle spalle Rho e quarantotto ore dopo, la voce che fino a quel giorno era stata dell’Ingegnere – Carlo De Benedetti – sarebbe diventata per i successivi quattro anni quella del Cavaliere, Silvio Berlusconi. Tutto in una notte, tutto in quel weekend; e senza macchina da scrivere. Era il 27 ottobre, l’anno il 1989. Doveva essere così, la lettera: scritta a penna, con la firma ben visibile sul margine basso dell’ultimo foglio, sul lato destro; e poi due, al massimo tre pagine di motivazioni. Dovevano essere dimissioni “olografiche”, quelle; perché se te ne andavi da lì, se te ne andavi dall’Olivetti, dalla “culla della managerialità” del vecchio Palazzo Uffici (dove per diventare “dirigente” dovevi aver lavorato almeno dodici mesi come operaio); se te ne andavi da Ivrea, da quell’azienda che filantropicamente faceva in Italia quello che l’Apple fa oggi in America, ecco: qualcosa di strano doveva esserci; e proprio per questo, dicevano, se tu molli tutto noi vogliamo essere sicuri che non sia uno scherzo, e che tu non stia giocando con i nostri giocattoli, e con le nostre tastierine. E’ la solita storia, pensava l’Ing: trattative. Prendevi il pezzo di carta, ci scarabocchiavi su, salivi dall’head office e poi te ne andavi: ma solo perché in realtà tu volevi rimanere lì, con qualche soldo in più. Capisco, disse l’ingegnere: arrivederci. Arrivederci, rispose lui. James non scherzava affatto; ma Carlo De Benedetti non lo sapeva: e dopo averlo salutato, dopo aver fatto su e giù con la testa, Cdb guardò l’orologio, fece i calcoli e pensò: tornerà. Era così, De Benedetti; è Hansen che lo ricorda: raziocinante, silloggista: e lo capivi subito, come ragionava: “a” sta “a” come “b” sta “b”, e dopo “a” c’è sempre “b” e dopo “b” c’è sempre “c”. Semplice. Il ragionamento filava, e di fronte a chiunque gli stesse accanto, o magari di fronte – come James – ogni volta che incontrava qualcuno, lui faceva così: proiettava se stesso verso gli altri e si comportava con il suo interlocutore allo stesso modo di come lui si sarebbe comportato con se stesso. E via. E invece no, quel giorno andò in maniera diversa; e, come dire, l’Ing. si arrabbiò parecchio. La sua “voce” se ne era andata ed era diventata quella del suo miglior nemico, e lui ancora non lo sapeva. Apre e chiude, James. Dall’Ing. al Cav. è una porta che si chiude a Ivrea e che si riapre a Milano. Era un venerdì, quello. Silvio Berlusconi cercava qualcuno che gli desse una mano; qualcuno che, assieme a lui, cominciasse a occuparsi un po’ di economia e qualcuno che di finanze, di parole e di giornali ne capisse davvero: aveva pensato a James, lo chiamò, lo contattò, gli promise qualche zero in più e James arrivò. Il Cav., per lui, aveva preparato una stanza al primo piano di Segrate: una saletta senza computer e senza scrivania da cui James sarebbe partito per diventare, dal 1989 al 1994, il primo vero, silenzioso, alter ego – e portavoce – del Cav.: prima che il Cav. scendesse in campo. Ecco, James finì lì; finì tra il Milan di Maldini, la Mondadori di Segrate, la Fininvest di Confalonieri e la Standa, “casa degli italiani” con accento piuttosto americano.
In quei giorni di ottobre, a centosettanta chilometri da Via Jervis, nel palazzo di nove piani al numero uno di Segrate, era cominciata la “battaglia”: da una parte la Fininvest (e Silvio Berlusconi), dall’altra l’Espresso (e Carlo De Benedetti), al centro la Mondadori; era la battaglia di Segrate, e scoppiò tutto in quel weekend, quando la voce che per cinque anni era stata dell’Ing. aveva prestato il suo accento americano a quella del Cav.; e con James che appena arrivato chiamava Carlo Silvio e Cavaliere l’Ingegnere. Comprensibile, lui che dal 1985 al 1989 aveva accompagnato Cdb come portavoce e capo ufficio stampa dell’Olivetti e che per i successivi cinque anni sarebbe stato anche direttore della comunicazione di Silvio Berlusconi, prima di esserlo della Stet e della Telecom. E, soprattutto, prima che arrivasse il libro. Scrisse quelle pagine, James, dopo aver lavorato con tutti gli ultimi super manager Telecom: con Gianmario Rossignolo, con Ernesto Pascale, con Biagio Agnes, con Guido Rossi, con Tomaso Tommasi di Vignano e con Franco Bernabé. Era il 1998, sembra già il 2008: il Cav, Prodi, la Telecom, Bertinotti, Draghi e Bernabé. E poi, James: nell’anno in cui alla Telecom arrivò l’ex amministratore delegato dell’Eni, Bernabé, James andò via, arrivò in Brasile e partecipò alla privatizzazione del vecchio monopolio delle telecomunicazioni brasiliane, Telebras; poi aprì il computer e scrisse. Si chiamava “Banda larga”, era un libro che tra la fine del 1998 e il 1999 avrebbe raccontato una delle privatizzazioni più importanti della storia italiana (quando l’Olivetti di Colaninno lanciò l’Opas in Telecom): che James guardò un po’ da fuori e un po’ da dentro. Ricorda, Hansen, perché i capitani coraggiosi bussarono prima a Torino, in Corso Inghilterra, e poi a Roma, in via Salaria; perché la Telecom era diventata uno dei principali centri di potere del paese e perché, in poco tempo, si era invece trasformata “improvvisamente in terra di nessuno”; ricorda come venne combattuta quella “phony war”: quella guerra silenziosa dichiarata senza che nessuno fosse ancora sceso in campo; e spiega perché, allora, le azioni cominciarono a essere sempre più pesate, non più contate. Quelle pagine erano pronte nel 1999. Ma si sa come funziona in questi casi: e tra una cosa e l’altra un modo per non far uscire il libro spesso lo si trova. E Hansen, da uomo di mondo, lo ricorda; e ci scherza su.
Certo, ne ha viste James. Lui che a ventisei anni arrivò in Italia nella prima settimana del luglio del 1975, subito dopo aver lavorato per un paio di anni a Washington, nello staff dell’ex segretario di stato Henry Kissinger. Lui, che da viceconsole americano, in quei mesi scoprì la “borghesia comunista napoletana”, come ancora la chiama James, “affascinata com’era dal sogno americano e dal peccaminoso contatto con il ‘nemico’ americano, e con tutti quei giovani comunisti che in quegli anni pensavano di trasformare l’Italia in California, provando a riesumare lo spirito stalinista”, ridacchia James. E Hansen, da diplomatico americano, come primo incarico arrivò a Napoli per portare i regards, le congratulazioni della Casa Bianca per due giovani parlamentari appena eletti in Campania: si chiamavano Paolo Cirino Pomicino e Clemente Mastella, e in America piacevano molto.
James Hansen oggi custodisce i segreti dei più famosi imprenditori italiani in un formidabile network, che va da uno studio di consulenza (Hansen Worldwide) a un portale di informazione (corrispondenti.net) a cui fanno riferimento i quasi seicento corrispondenti stranieri che lavorano in Italia. Occhio però alla rete: perché, in quello che a prima vista sembrerebbe un semplice strumento di informazione, basta dare una sbirciatina a chi lo appoggia, quel progetto, per capire di cosa stiamo parlando: Intesa Sanpaolo, Eni, Generali, Rcs, Telecom Italia, Autostrade (quindi Benetton) e poi, indirettamente, James ci mette dentro anche l’Economist, il Wall Street Journal (versione americana) e Intelligent Life, il trimestrale del settimanale inglese. Avete presente, no? Tutti i trafiletti con “dice l’Economist domani in edicola”, “spiega il Wall Street, in uscita dopodomani?”. Hansen, quei giornali, li rappresenta lui. Legge, e invia. Perché la notizia, per gli altri, è push, non pull: ti arriva, e tu neanche la cerchi. “E’ interessante notare come l’Italia ha bisogno più di molti altri paesi di potersi rispecchiare nella stampa estera: forse perché ha una limitata fiducia nell’indipendenza e nel giudizio della stampa nazionale”. Ricordate? “La dolce vita che diventa aspra” (New York Times), “Le fragilità economiche diventano sempre più evidenti” (Frankfurter Allgemeine Zeitung), “L’Italia in declino” (Time). Guardi all’estero, e pensi di capire come sei. “Ecco, ve ne sarete accorti, ma questo rapporto non è che sia reciproco: all’estero, purtroppo, devo dire che non muoiono per conoscere le opinioni della stampa italiana. Quando il Corriere della Sera o la Repubblica fulminano Bush per l’ultimo suo ‘malefatto’, o tentano di insegnare a Condoleezza Rice come stare al mondo, temo che negli States non se ne accorga nessuno”. Il gioiellino è però un esperimento: si chiama Essential News, è un sito che ogni giorno raccoglie quelle notizie che “essendo così ‘volgari’, normalmente non vengono riferite dal giornalismo italiano, troppo preso dalla sua missione pedagogica”, dice Hansen. Essential News è un sito incredibile: riceve trentamila visite al giorno, non costa un euro e chissà che presto non diventi un giornale vero. James fa una riflessione: “Credo sia chiaro come negli ultimi tempi il giornalismo latino arruoli d’ufficio i giornalisti dell’intellighenzia, cioè conferisce a se stesso, seppure come titolo di pura cortesia, la qualifica di ‘para-intellettuale’. Ciò comporta anche un ruolo sociale, d’impegno, ‘l’obbligo morale’ di migliorare il mondo e la mente dei lettori. Il giornalismo anglosassone allo stato brado – quello australiano di più e quello anglo-americano un po’ meno – ritiene invece che il giornalista sia socialmente un ‘artigiano’ della parola, non un intellettuale”. E il discorso lo capisci proprio con il portale di James. Attenzione, le notizie sono tutte vere. Due esempi. “L’indiano Mumbai Mirror dà notizia di una signora assai sbadata che dichiara di aver perso uno spazzolino da denti lungo sette centimetri nel proprio naso. Malgrado l’oggetto sia rimasto nella cavità nasale a lungo, causandole un dolore considerevole, la donna dice di non essere sicura di come ci sia arrivato: ‘Un paio di mesi fa stavo lavando i denti quando mio marito mi ha urtato. Mi è rimasta in mano la parte inferiore dello spazzolino ma non sono riuscita a trovare il resto’. Essendo in plastica, lo spazzolino non risultava ai raggi X. E’ stato finalmente trovato con una TAC e rimosso chirurgicamente”. E poi: “Il Times riferisce di un pavone di Brierley, Gloucestershire, che si è innamorato di una pompa di benzina. Ogni giorno lascia il trespolo e va fino a un distributore – distante circa 400 metri – dove passa la giornata a ‘pavoneggiare’ nella speranza di attirare l’attenzione dell’apparecchio. Secondo gli ornitologi inglesi, è probabilmente tratto in inganno dal ticchettio della pompa mentre eroga il carburante, simile al rumore emesso dalla femmina della sua specie mentre si prepara all’accoppiamento. Può darsi invece sia solo molto stupido. Secondo il giornale, un altro esemplare della stessa nidiata pare essersi preso una cotta per una gatta mentre un altro ancora è stato osservato mentre tentava di far l’amore con una lampada da giardino”.
Oggi che James Hansen è diventato il mastice, virtuale ma non solo, dei giornalisti stranieri in Italia (James stesso è stato corrispondente italiano di Daily Telegraph e Herald Tribune), quando i corrispondenti lo incontrano per la prima volta, la domanda spesso è sempre quella: scusa James, what is flessibility? E James. “Devo dire che in Italia c’è un uso strano della parola flessibilità. Quando me lo chiedono, cerco di spiegare in modo elegante che si tratta di un uso creativo dell’ambiguità per andare avanti. Un uso voluto, ci mancherebbe, e neanche criticabile: perché nella mediazione tra culture spesso in Italia si danno risposte che non dicono nulla a domande che vogliono sapere troppo”. E poi la laicità, la finanza, la politica: “Beh sì, finanza e politica italiana sono realtà completamente diverse da quelle americane. Io cerco di spiegare perché l’Eni vale più di un ministero degli Esteri, perché la Standa valeva come un sottosegretariato e perché Telecom, che vale qualcosa in più di un paio di ministri, è stata negli anni la vera banca in Italia: e fatturando più di Walt Disney e Coca Cola ed essendo la più grande inserzionista d’Italia, si capisce che spesso sia lei a decidere a chi vanno i soldi, e a chi no. La cosa più, diciamo, meno chiara sono poi quelle famose ‘call cold’ che da voi non esistono, vista quella passione tutta italiana per i contatti basati su rapporti personali: quando qui in Italia chiami qualcuno, per esempio in una banca, tu lo chiami solo se gli hai stretto la mano prima; non esiste che tu alzi il telefono e dici a un sottosegretario, hallo: ho un signore che è interessato a investire in Italia e ha sette miliardi di euro, quando lo volete ricevere”.
Nei quattro anni vissuti in Telecom, James Hansen seguì il passaggio dalla Stet alla stessa Telecom e, dopo il Cav. e dopo Cdb, si ritrovò a lavorare anche con Bernabé, proprio negli anni della grande privatizzazione: quando, come ricorda Hansen, gli advisor Telecom passeggiavano in via Salaria, sede romana dell’azienda, vestiti con abito scuro, un gessato delicatamente rigato per distinguerlo dall’abito scuro del becchino. I merchant bunker, li chiamava lui. Solo che in quegli anni, quando i manager saltavano come pop corn, nessun dirigente in Telecom rimase così tanto tempo come James, Possibile? Gianmario Rossignolo se lo chiedeva spesso, fece due conti e spiegò: “James è della Cia!!”. Lo disse prima in privato e lo ripeté poi pubblicamente su un aereo che nel 1998 accompagnava il consiglio di amministrazione della Telecom da Roma a Torino. Niente di più falso, naturalmente: è solo uno scherzo, chiarì poi l’ex numero uno Telecom; ma lo disse, Rossignolo, non prima che lo stesso James rispondesse al telefono a tutti i consiglieri del cda Telecom, che un po’ preoccupati lo erano, e che per questo, hai visto mai, volevano precisare. Pronto? Hey James. Che mattacchione Gianmario, eh? Sappi però che per qualsiasi
cosa puoi contare su di noi: siamo tutti filoamericani qui, disse il consigliere. Visto mai.
Claudio Cerasa
12/01/08
Apre e chiude. Centosettanta chilometri e quarantotto ore: dall’Ingegnere al Cavaliere è una porta che si chiude a Ivrea e si riapre a Milano. Apre e chiude, James. Tra l’Ing. e il Cav. c’è un americano di cinquantotto anni che, in poco tempo, ha messo su una rete, fatta di contatti, che parte da Carlo De Benedetti, passa per Silvio Berlusconi e arriva fino ad Antoine Bernheim, Giovanni Bazoli e Paolo Scaroni. Press office, dice il bigliettino da visita. Public relation, dice il curriculum. E quindi Olivetti, Fininvest, Stet, Telecom e ora Economist e Wall Street Journal. Ma c’è dell’altro, qui; e dieci anni dopo l’ultimo anno passato alla Telecom, nell’incredibile storia di James Hansen c’è anche un piccolo giallo. Un libro, un editore, una scalata, parecchi soldi.
James Hansen poggiò i due fogli scritti a mano sulla scrivania al terzo piano del numero settantasette di via Jervis, a Ivrea, alla sede della Olivetti; fece due passi in avanti, ringraziò l’Ingegnere, lo salutò e poi, James, se ne andò davvero: scese per Novara, si lasciò alle spalle Rho e quarantotto ore dopo, la voce che fino a quel giorno era stata dell’Ingegnere – Carlo De Benedetti – sarebbe diventata per i successivi quattro anni quella del Cavaliere, Silvio Berlusconi. Tutto in una notte, tutto in quel weekend; e senza macchina da scrivere. Era il 27 ottobre, l’anno il 1989. Doveva essere così, la lettera: scritta a penna, con la firma ben visibile sul margine basso dell’ultimo foglio, sul lato destro; e poi due, al massimo tre pagine di motivazioni. Dovevano essere dimissioni “olografiche”, quelle; perché se te ne andavi da lì, se te ne andavi dall’Olivetti, dalla “culla della managerialità” del vecchio Palazzo Uffici (dove per diventare “dirigente” dovevi aver lavorato almeno dodici mesi come operaio); se te ne andavi da Ivrea, da quell’azienda che filantropicamente faceva in Italia quello che l’Apple fa oggi in America, ecco: qualcosa di strano doveva esserci; e proprio per questo, dicevano, se tu molli tutto noi vogliamo essere sicuri che non sia uno scherzo, e che tu non stia giocando con i nostri giocattoli, e con le nostre tastierine. E’ la solita storia, pensava l’Ing: trattative. Prendevi il pezzo di carta, ci scarabocchiavi su, salivi dall’head office e poi te ne andavi: ma solo perché in realtà tu volevi rimanere lì, con qualche soldo in più. Capisco, disse l’ingegnere: arrivederci. Arrivederci, rispose lui. James non scherzava affatto; ma Carlo De Benedetti non lo sapeva: e dopo averlo salutato, dopo aver fatto su e giù con la testa, Cdb guardò l’orologio, fece i calcoli e pensò: tornerà. Era così, De Benedetti; è Hansen che lo ricorda: raziocinante, silloggista: e lo capivi subito, come ragionava: “a” sta “a” come “b” sta “b”, e dopo “a” c’è sempre “b” e dopo “b” c’è sempre “c”. Semplice. Il ragionamento filava, e di fronte a chiunque gli stesse accanto, o magari di fronte – come James – ogni volta che incontrava qualcuno, lui faceva così: proiettava se stesso verso gli altri e si comportava con il suo interlocutore allo stesso modo di come lui si sarebbe comportato con se stesso. E via. E invece no, quel giorno andò in maniera diversa; e, come dire, l’Ing. si arrabbiò parecchio. La sua “voce” se ne era andata ed era diventata quella del suo miglior nemico, e lui ancora non lo sapeva. Apre e chiude, James. Dall’Ing. al Cav. è una porta che si chiude a Ivrea e che si riapre a Milano. Era un venerdì, quello. Silvio Berlusconi cercava qualcuno che gli desse una mano; qualcuno che, assieme a lui, cominciasse a occuparsi un po’ di economia e qualcuno che di finanze, di parole e di giornali ne capisse davvero: aveva pensato a James, lo chiamò, lo contattò, gli promise qualche zero in più e James arrivò. Il Cav., per lui, aveva preparato una stanza al primo piano di Segrate: una saletta senza computer e senza scrivania da cui James sarebbe partito per diventare, dal 1989 al 1994, il primo vero, silenzioso, alter ego – e portavoce – del Cav.: prima che il Cav. scendesse in campo. Ecco, James finì lì; finì tra il Milan di Maldini, la Mondadori di Segrate, la Fininvest di Confalonieri e la Standa, “casa degli italiani” con accento piuttosto americano.
In quei giorni di ottobre, a centosettanta chilometri da Via Jervis, nel palazzo di nove piani al numero uno di Segrate, era cominciata la “battaglia”: da una parte la Fininvest (e Silvio Berlusconi), dall’altra l’Espresso (e Carlo De Benedetti), al centro la Mondadori; era la battaglia di Segrate, e scoppiò tutto in quel weekend, quando la voce che per cinque anni era stata dell’Ing. aveva prestato il suo accento americano a quella del Cav.; e con James che appena arrivato chiamava Carlo Silvio e Cavaliere l’Ingegnere. Comprensibile, lui che dal 1985 al 1989 aveva accompagnato Cdb come portavoce e capo ufficio stampa dell’Olivetti e che per i successivi cinque anni sarebbe stato anche direttore della comunicazione di Silvio Berlusconi, prima di esserlo della Stet e della Telecom. E, soprattutto, prima che arrivasse il libro. Scrisse quelle pagine, James, dopo aver lavorato con tutti gli ultimi super manager Telecom: con Gianmario Rossignolo, con Ernesto Pascale, con Biagio Agnes, con Guido Rossi, con Tomaso Tommasi di Vignano e con Franco Bernabé. Era il 1998, sembra già il 2008: il Cav, Prodi, la Telecom, Bertinotti, Draghi e Bernabé. E poi, James: nell’anno in cui alla Telecom arrivò l’ex amministratore delegato dell’Eni, Bernabé, James andò via, arrivò in Brasile e partecipò alla privatizzazione del vecchio monopolio delle telecomunicazioni brasiliane, Telebras; poi aprì il computer e scrisse. Si chiamava “Banda larga”, era un libro che tra la fine del 1998 e il 1999 avrebbe raccontato una delle privatizzazioni più importanti della storia italiana (quando l’Olivetti di Colaninno lanciò l’Opas in Telecom): che James guardò un po’ da fuori e un po’ da dentro. Ricorda, Hansen, perché i capitani coraggiosi bussarono prima a Torino, in Corso Inghilterra, e poi a Roma, in via Salaria; perché la Telecom era diventata uno dei principali centri di potere del paese e perché, in poco tempo, si era invece trasformata “improvvisamente in terra di nessuno”; ricorda come venne combattuta quella “phony war”: quella guerra silenziosa dichiarata senza che nessuno fosse ancora sceso in campo; e spiega perché, allora, le azioni cominciarono a essere sempre più pesate, non più contate. Quelle pagine erano pronte nel 1999. Ma si sa come funziona in questi casi: e tra una cosa e l’altra un modo per non far uscire il libro spesso lo si trova. E Hansen, da uomo di mondo, lo ricorda; e ci scherza su.
Certo, ne ha viste James. Lui che a ventisei anni arrivò in Italia nella prima settimana del luglio del 1975, subito dopo aver lavorato per un paio di anni a Washington, nello staff dell’ex segretario di stato Henry Kissinger. Lui, che da viceconsole americano, in quei mesi scoprì la “borghesia comunista napoletana”, come ancora la chiama James, “affascinata com’era dal sogno americano e dal peccaminoso contatto con il ‘nemico’ americano, e con tutti quei giovani comunisti che in quegli anni pensavano di trasformare l’Italia in California, provando a riesumare lo spirito stalinista”, ridacchia James. E Hansen, da diplomatico americano, come primo incarico arrivò a Napoli per portare i regards, le congratulazioni della Casa Bianca per due giovani parlamentari appena eletti in Campania: si chiamavano Paolo Cirino Pomicino e Clemente Mastella, e in America piacevano molto.
James Hansen oggi custodisce i segreti dei più famosi imprenditori italiani in un formidabile network, che va da uno studio di consulenza (Hansen Worldwide) a un portale di informazione (corrispondenti.net) a cui fanno riferimento i quasi seicento corrispondenti stranieri che lavorano in Italia. Occhio però alla rete: perché, in quello che a prima vista sembrerebbe un semplice strumento di informazione, basta dare una sbirciatina a chi lo appoggia, quel progetto, per capire di cosa stiamo parlando: Intesa Sanpaolo, Eni, Generali, Rcs, Telecom Italia, Autostrade (quindi Benetton) e poi, indirettamente, James ci mette dentro anche l’Economist, il Wall Street Journal (versione americana) e Intelligent Life, il trimestrale del settimanale inglese. Avete presente, no? Tutti i trafiletti con “dice l’Economist domani in edicola”, “spiega il Wall Street, in uscita dopodomani?”. Hansen, quei giornali, li rappresenta lui. Legge, e invia. Perché la notizia, per gli altri, è push, non pull: ti arriva, e tu neanche la cerchi. “E’ interessante notare come l’Italia ha bisogno più di molti altri paesi di potersi rispecchiare nella stampa estera: forse perché ha una limitata fiducia nell’indipendenza e nel giudizio della stampa nazionale”. Ricordate? “La dolce vita che diventa aspra” (New York Times), “Le fragilità economiche diventano sempre più evidenti” (Frankfurter Allgemeine Zeitung), “L’Italia in declino” (Time). Guardi all’estero, e pensi di capire come sei. “Ecco, ve ne sarete accorti, ma questo rapporto non è che sia reciproco: all’estero, purtroppo, devo dire che non muoiono per conoscere le opinioni della stampa italiana. Quando il Corriere della Sera o la Repubblica fulminano Bush per l’ultimo suo ‘malefatto’, o tentano di insegnare a Condoleezza Rice come stare al mondo, temo che negli States non se ne accorga nessuno”. Il gioiellino è però un esperimento: si chiama Essential News, è un sito che ogni giorno raccoglie quelle notizie che “essendo così ‘volgari’, normalmente non vengono riferite dal giornalismo italiano, troppo preso dalla sua missione pedagogica”, dice Hansen. Essential News è un sito incredibile: riceve trentamila visite al giorno, non costa un euro e chissà che presto non diventi un giornale vero. James fa una riflessione: “Credo sia chiaro come negli ultimi tempi il giornalismo latino arruoli d’ufficio i giornalisti dell’intellighenzia, cioè conferisce a se stesso, seppure come titolo di pura cortesia, la qualifica di ‘para-intellettuale’. Ciò comporta anche un ruolo sociale, d’impegno, ‘l’obbligo morale’ di migliorare il mondo e la mente dei lettori. Il giornalismo anglosassone allo stato brado – quello australiano di più e quello anglo-americano un po’ meno – ritiene invece che il giornalista sia socialmente un ‘artigiano’ della parola, non un intellettuale”. E il discorso lo capisci proprio con il portale di James. Attenzione, le notizie sono tutte vere. Due esempi. “L’indiano Mumbai Mirror dà notizia di una signora assai sbadata che dichiara di aver perso uno spazzolino da denti lungo sette centimetri nel proprio naso. Malgrado l’oggetto sia rimasto nella cavità nasale a lungo, causandole un dolore considerevole, la donna dice di non essere sicura di come ci sia arrivato: ‘Un paio di mesi fa stavo lavando i denti quando mio marito mi ha urtato. Mi è rimasta in mano la parte inferiore dello spazzolino ma non sono riuscita a trovare il resto’. Essendo in plastica, lo spazzolino non risultava ai raggi X. E’ stato finalmente trovato con una TAC e rimosso chirurgicamente”. E poi: “Il Times riferisce di un pavone di Brierley, Gloucestershire, che si è innamorato di una pompa di benzina. Ogni giorno lascia il trespolo e va fino a un distributore – distante circa 400 metri – dove passa la giornata a ‘pavoneggiare’ nella speranza di attirare l’attenzione dell’apparecchio. Secondo gli ornitologi inglesi, è probabilmente tratto in inganno dal ticchettio della pompa mentre eroga il carburante, simile al rumore emesso dalla femmina della sua specie mentre si prepara all’accoppiamento. Può darsi invece sia solo molto stupido. Secondo il giornale, un altro esemplare della stessa nidiata pare essersi preso una cotta per una gatta mentre un altro ancora è stato osservato mentre tentava di far l’amore con una lampada da giardino”.
Oggi che James Hansen è diventato il mastice, virtuale ma non solo, dei giornalisti stranieri in Italia (James stesso è stato corrispondente italiano di Daily Telegraph e Herald Tribune), quando i corrispondenti lo incontrano per la prima volta, la domanda spesso è sempre quella: scusa James, what is flessibility? E James. “Devo dire che in Italia c’è un uso strano della parola flessibilità. Quando me lo chiedono, cerco di spiegare in modo elegante che si tratta di un uso creativo dell’ambiguità per andare avanti. Un uso voluto, ci mancherebbe, e neanche criticabile: perché nella mediazione tra culture spesso in Italia si danno risposte che non dicono nulla a domande che vogliono sapere troppo”. E poi la laicità, la finanza, la politica: “Beh sì, finanza e politica italiana sono realtà completamente diverse da quelle americane. Io cerco di spiegare perché l’Eni vale più di un ministero degli Esteri, perché la Standa valeva come un sottosegretariato e perché Telecom, che vale qualcosa in più di un paio di ministri, è stata negli anni la vera banca in Italia: e fatturando più di Walt Disney e Coca Cola ed essendo la più grande inserzionista d’Italia, si capisce che spesso sia lei a decidere a chi vanno i soldi, e a chi no. La cosa più, diciamo, meno chiara sono poi quelle famose ‘call cold’ che da voi non esistono, vista quella passione tutta italiana per i contatti basati su rapporti personali: quando qui in Italia chiami qualcuno, per esempio in una banca, tu lo chiami solo se gli hai stretto la mano prima; non esiste che tu alzi il telefono e dici a un sottosegretario, hallo: ho un signore che è interessato a investire in Italia e ha sette miliardi di euro, quando lo volete ricevere”.
Nei quattro anni vissuti in Telecom, James Hansen seguì il passaggio dalla Stet alla stessa Telecom e, dopo il Cav. e dopo Cdb, si ritrovò a lavorare anche con Bernabé, proprio negli anni della grande privatizzazione: quando, come ricorda Hansen, gli advisor Telecom passeggiavano in via Salaria, sede romana dell’azienda, vestiti con abito scuro, un gessato delicatamente rigato per distinguerlo dall’abito scuro del becchino. I merchant bunker, li chiamava lui. Solo che in quegli anni, quando i manager saltavano come pop corn, nessun dirigente in Telecom rimase così tanto tempo come James, Possibile? Gianmario Rossignolo se lo chiedeva spesso, fece due conti e spiegò: “James è della Cia!!”. Lo disse prima in privato e lo ripeté poi pubblicamente su un aereo che nel 1998 accompagnava il consiglio di amministrazione della Telecom da Roma a Torino. Niente di più falso, naturalmente: è solo uno scherzo, chiarì poi l’ex numero uno Telecom; ma lo disse, Rossignolo, non prima che lo stesso James rispondesse al telefono a tutti i consiglieri del cda Telecom, che un po’ preoccupati lo erano, e che per questo, hai visto mai, volevano precisare. Pronto? Hey James. Che mattacchione Gianmario, eh? Sappi però che per qualsiasi
cosa puoi contare su di noi: siamo tutti filoamericani qui, disse il consigliere. Visto mai.
Claudio Cerasa
12/01/08
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giovedì 10 gennaio 2008
Ecco la spallatina prodiana ai proporzionalisti con i baffi
• Micheli lo scrive, Sircana lo conferma, Prodi lo pensa. Meglio ragionare sul francese che legarsi a dogmi tedeschi. Incombe la Consulta
Roma. Nel labirinto di bozze e di sistemi elettorali costruito a cavallo tra Palazzo Chigi e il loft del Pd, il sottilissimo filo che passa tra le mani di Romano Prodi, Massimo D’Alema e Francesco Rutelli è stato, ieri, un po’ indebolito da uno dei consiglieri più ascoltati, e vicini, al premier: Enrico Micheli. Con una dura lettera pubblicata da Repubblica, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha fatto fare a Palazzo Chigi un primo passo pubblico sul percorso della legge elettorale; ha difeso l’ouverture al sistema francese del vice di Veltroni (Dario Franceschini); ha dato uno strattone a chi continua ad aggrapparsi alla scialuppa del “dogma del sistema tedesco”: appoggiato dal leader Udc, Casini, e dai due vicepremier democratici, Rutelli e D’Alema. “Perché – scrive Micheli – uno come Franceschini non può azzardarsi a pronunciare la sua preferenza verso il doppio turno semipresidenziale alla francese, che è il sistema più efficace, insieme a quello inglese, per far sì che i cittadini abbiano le giuste e tempestive decisioni da parte del governo su cui confrontarsi al momento del voto?”.
Nulla di strano, si direbbe: il sistema francese – che con una mano il Pd ha rilanciato tramite Franceschini e con l’altra l’ha poi però di nuovo nascosto con W – per gli ulivisti puri come Parisi, Bindi e Prodi è sempre stato la prima scelta; ed era stato lo stesso Prodi, lo scorso dicembre, a confermare di sognarlo, il modello sarkozista (“Avessi io il potere che ha lui”, spiegò il premier davanti a Sarko). Di sospetto c’è però che la lettera inviata da Palazzo Chigi – che dà un bel colpo ai proporzionalisti e a chi oggi “ha il potere di paralizzare la politica” – arriva da un uomo chiave del prodismo, non solo di governo (Micheli era direttore generale dell’Iri ai tempi della presidenza Prodi). Di sospetto c’è anche la tempistica con cui la lettera arriva, e dato che mercoledì prossimo la Consulta deciderà se accendere oppure no la miccia referendaria (più sì che no) i tempi della sopravvivenza prodiana saranno scanditi dall’alleato che il Prof. considererà più utile per fissare i paletti del sistema elettorale. Per quanto possa essere spaventosa per il premier l’ipotesi di consegnarsi a una delle due metà del CaW (Cav + W) – che non aspetta altro se non ricevere campo libero dal governo – Prodi sembra però aver capito che la lingua su cui si può lavorare per sopravvivere non ha i baffi e neanche l’accento tedesco. “La vocazione maggioritaria e coalizionale del Pd sarebbe garantita più da un sistema francese o da un referendum che da un modello tedesco”, dice al Foglio il deputato ulivista e prodiano Franco Monaco.
Ecco, e Prodi? Silvio Sircana, portavoce del premier, conferma al Foglio perché non è un errore far coincidere il pensiero di Prodi con quello di Micheli: quella lettera – dice Sircana – il presidente “l’ha letta, e non gli è affatto dispiaciuta”; anche, naturalmente, nel passaggio in cui il super consigliere si fa questa domanda: “Perché nel momento in cui questo partito (il Pd, ndr) si espone, come deve, su taluni temi di rilevanza assoluta, il fuoco di sbarramento comincia dal suo interno prima che da fuori?”. Possibile che Micheli si riferisca a D’Alema? Certo è che l’apertura francese del ticket veltroniano, secondo il vicepremier doveva spezzare in due l’intesa tra Prodi e W; per questo, dopo l’ouverture di Franceschini, D’Alema disse che Prodi non sarebbe stato “per niente contento”. Sircana oggi dice il contrario, e se Prodi potesse scegliere quale lingua parlare nel suo nuovo tandem, tra una tendenza francese e un tedesco malaticcio non avrebbe dubbi: “Ricordate che siamo nati pensando in francese”.
Claudio Cerasa
10/01/08
Roma. Nel labirinto di bozze e di sistemi elettorali costruito a cavallo tra Palazzo Chigi e il loft del Pd, il sottilissimo filo che passa tra le mani di Romano Prodi, Massimo D’Alema e Francesco Rutelli è stato, ieri, un po’ indebolito da uno dei consiglieri più ascoltati, e vicini, al premier: Enrico Micheli. Con una dura lettera pubblicata da Repubblica, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha fatto fare a Palazzo Chigi un primo passo pubblico sul percorso della legge elettorale; ha difeso l’ouverture al sistema francese del vice di Veltroni (Dario Franceschini); ha dato uno strattone a chi continua ad aggrapparsi alla scialuppa del “dogma del sistema tedesco”: appoggiato dal leader Udc, Casini, e dai due vicepremier democratici, Rutelli e D’Alema. “Perché – scrive Micheli – uno come Franceschini non può azzardarsi a pronunciare la sua preferenza verso il doppio turno semipresidenziale alla francese, che è il sistema più efficace, insieme a quello inglese, per far sì che i cittadini abbiano le giuste e tempestive decisioni da parte del governo su cui confrontarsi al momento del voto?”.
Nulla di strano, si direbbe: il sistema francese – che con una mano il Pd ha rilanciato tramite Franceschini e con l’altra l’ha poi però di nuovo nascosto con W – per gli ulivisti puri come Parisi, Bindi e Prodi è sempre stato la prima scelta; ed era stato lo stesso Prodi, lo scorso dicembre, a confermare di sognarlo, il modello sarkozista (“Avessi io il potere che ha lui”, spiegò il premier davanti a Sarko). Di sospetto c’è però che la lettera inviata da Palazzo Chigi – che dà un bel colpo ai proporzionalisti e a chi oggi “ha il potere di paralizzare la politica” – arriva da un uomo chiave del prodismo, non solo di governo (Micheli era direttore generale dell’Iri ai tempi della presidenza Prodi). Di sospetto c’è anche la tempistica con cui la lettera arriva, e dato che mercoledì prossimo la Consulta deciderà se accendere oppure no la miccia referendaria (più sì che no) i tempi della sopravvivenza prodiana saranno scanditi dall’alleato che il Prof. considererà più utile per fissare i paletti del sistema elettorale. Per quanto possa essere spaventosa per il premier l’ipotesi di consegnarsi a una delle due metà del CaW (Cav + W) – che non aspetta altro se non ricevere campo libero dal governo – Prodi sembra però aver capito che la lingua su cui si può lavorare per sopravvivere non ha i baffi e neanche l’accento tedesco. “La vocazione maggioritaria e coalizionale del Pd sarebbe garantita più da un sistema francese o da un referendum che da un modello tedesco”, dice al Foglio il deputato ulivista e prodiano Franco Monaco.
Ecco, e Prodi? Silvio Sircana, portavoce del premier, conferma al Foglio perché non è un errore far coincidere il pensiero di Prodi con quello di Micheli: quella lettera – dice Sircana – il presidente “l’ha letta, e non gli è affatto dispiaciuta”; anche, naturalmente, nel passaggio in cui il super consigliere si fa questa domanda: “Perché nel momento in cui questo partito (il Pd, ndr) si espone, come deve, su taluni temi di rilevanza assoluta, il fuoco di sbarramento comincia dal suo interno prima che da fuori?”. Possibile che Micheli si riferisca a D’Alema? Certo è che l’apertura francese del ticket veltroniano, secondo il vicepremier doveva spezzare in due l’intesa tra Prodi e W; per questo, dopo l’ouverture di Franceschini, D’Alema disse che Prodi non sarebbe stato “per niente contento”. Sircana oggi dice il contrario, e se Prodi potesse scegliere quale lingua parlare nel suo nuovo tandem, tra una tendenza francese e un tedesco malaticcio non avrebbe dubbi: “Ricordate che siamo nati pensando in francese”.
Claudio Cerasa
10/01/08
mercoledì 9 gennaio 2008
Il Foglio. A Trento (non) nasce il Partito democratico a statuto speciale
Lassù c’è “una felice anomalia”. In Trentino il partito di W può sbocciare solo “manu militari” o come confederazione. Ecco perché
Roma. Nelle sei cartelle della bozza di statuto che il Pd tornerà a discutere sabato prossimo a via Santa Anastasia, tra gli articoli che disegneranno la spina dorsale del Partito democratico ce n’è uno – un po’ bavarese e un po’ catalano – che potrebbe essere molto utile per capire come nei prossimi mesi il Pd muoverà le sue pedine a nord del loft. Prima di stabilire se il Pd di W sarà un partito con o senza tessere, con o senza congresso, con o senza correnti, la commissione statuto presieduta da Salvatore Vassallo ha trovato un accordo su un articolo che, almeno a livello regionale, porta in seno quella grande coalizione già bocciata da W a livello nazionale, e che farebbe scivolare il Pd sullo stesso terreno su cui è fiorita l’esperienza tedesca dell’alleanza merkeliana tra i partiti della Cdu e del Psu; e questo proprio nell’unica provincia italiana dove il Pd non è ancora nato: Trento.
Lo scorso ottobre, infatti, i 23 mila elettori che hanno scelto 23 dei 2.800 membri della costituente nazionale hanno votato per un Pd che in Trentino, oltre a non avere né tessere né congressi, ancora non esiste; e visto che tra i partiti che si sarebbero dovuti stringere nel Pd uno dei due (la Margherita Civica, 25 per cento alle provinciali) non aveva – e non ha – alcuna voglia di sciogliersi, W ha dato un po’ di tempo in più per nascere e ha fissato una serie di ultimatum: l’ultimo dei quali, però, è scaduto a inizio dicembre. E’ “un’anomalia”, come ammesso dallo stesso Veltroni. Un’anomalia verso la quale nel corso dei mesi W ha via via corretto il suo giudizio, fino a inquadrare la situazione “anomala” sì, ma “felice”: tanto che, secondo W, sarà “di grande aiuto a tutto il Pd per radicarsi in questa decisiva parte del paese”, come ha spiegato in un’intervista al Corriere del Trentino, lo scorso ottobre. Per trasformare in un utile modello il pasticcio del Trentino (dove, allo stato attuale, il Pd sarebbe composto dai soli dirigenti dei Ds), la bozza finale della commissione statuto avrà un articolo dedicato al caso di Trento: un articolo in cui si stabilirà che quando sia presente un partito locale in grado di rappresentare “l’intero elettorato di orientamento democratico”, il Pd farà uno strappetto alla sua vocazione maggioritaria e stabilirà con quella realtà un rapporto “confederale”, ispirandosi al modello che corre tra la Csu bavarese e la Cdu tedesca. E quasi fischiano le orecchie a Umberto Bossi e Roberto Maroni, che da mesi ripetono che proprio il modello Cdu/Csu è quello “perfetto per noi”. E chissà a cosa si riferiva Maroni quando, parlando con il Foglio a novembre, spiegò che “la caratteristica di essere territoriali impone a partiti come il nostro alleanze con schieramenti di destra e di sinistra”. Certo è che dietro al laboratorio del Trentino qualcosa si muove: altrimenti un segretario del Pd non considererebbe come “anomalia felice” una provincia dove al Pd è stata concessa una deroga di qualche mese per nascere, dove uno dei candidati alla segreteria nazionale (Enrico Letta) è stato appoggiato da un presidente della provincia di Trento (Lorenzo Dellai) convinto che “in Trentino non nascerà il Partito democratico se non manu militari da parte di Roma”. Qualcosa sotto c’è, specie se Trento è la stessa provincia dove è stato eletto senatore Giorgio Tonini, uno dei consiglieri più ascoltati da W. “Credo che il Pd potrebbe arricchirsi con realtà ben radicate sul territorio com’è il caso della Margherita Civica a Trento”, dice Tonini al Foglio; che aggiunge: “Quello confederale potrebbe essere per il Pd un modello utile anche per quelle regione al nord dove il partito potrebbe avere qualche difficoltà”.
Claudio Cerasa
09/01/08
Roma. Nelle sei cartelle della bozza di statuto che il Pd tornerà a discutere sabato prossimo a via Santa Anastasia, tra gli articoli che disegneranno la spina dorsale del Partito democratico ce n’è uno – un po’ bavarese e un po’ catalano – che potrebbe essere molto utile per capire come nei prossimi mesi il Pd muoverà le sue pedine a nord del loft. Prima di stabilire se il Pd di W sarà un partito con o senza tessere, con o senza congresso, con o senza correnti, la commissione statuto presieduta da Salvatore Vassallo ha trovato un accordo su un articolo che, almeno a livello regionale, porta in seno quella grande coalizione già bocciata da W a livello nazionale, e che farebbe scivolare il Pd sullo stesso terreno su cui è fiorita l’esperienza tedesca dell’alleanza merkeliana tra i partiti della Cdu e del Psu; e questo proprio nell’unica provincia italiana dove il Pd non è ancora nato: Trento.
Lo scorso ottobre, infatti, i 23 mila elettori che hanno scelto 23 dei 2.800 membri della costituente nazionale hanno votato per un Pd che in Trentino, oltre a non avere né tessere né congressi, ancora non esiste; e visto che tra i partiti che si sarebbero dovuti stringere nel Pd uno dei due (la Margherita Civica, 25 per cento alle provinciali) non aveva – e non ha – alcuna voglia di sciogliersi, W ha dato un po’ di tempo in più per nascere e ha fissato una serie di ultimatum: l’ultimo dei quali, però, è scaduto a inizio dicembre. E’ “un’anomalia”, come ammesso dallo stesso Veltroni. Un’anomalia verso la quale nel corso dei mesi W ha via via corretto il suo giudizio, fino a inquadrare la situazione “anomala” sì, ma “felice”: tanto che, secondo W, sarà “di grande aiuto a tutto il Pd per radicarsi in questa decisiva parte del paese”, come ha spiegato in un’intervista al Corriere del Trentino, lo scorso ottobre. Per trasformare in un utile modello il pasticcio del Trentino (dove, allo stato attuale, il Pd sarebbe composto dai soli dirigenti dei Ds), la bozza finale della commissione statuto avrà un articolo dedicato al caso di Trento: un articolo in cui si stabilirà che quando sia presente un partito locale in grado di rappresentare “l’intero elettorato di orientamento democratico”, il Pd farà uno strappetto alla sua vocazione maggioritaria e stabilirà con quella realtà un rapporto “confederale”, ispirandosi al modello che corre tra la Csu bavarese e la Cdu tedesca. E quasi fischiano le orecchie a Umberto Bossi e Roberto Maroni, che da mesi ripetono che proprio il modello Cdu/Csu è quello “perfetto per noi”. E chissà a cosa si riferiva Maroni quando, parlando con il Foglio a novembre, spiegò che “la caratteristica di essere territoriali impone a partiti come il nostro alleanze con schieramenti di destra e di sinistra”. Certo è che dietro al laboratorio del Trentino qualcosa si muove: altrimenti un segretario del Pd non considererebbe come “anomalia felice” una provincia dove al Pd è stata concessa una deroga di qualche mese per nascere, dove uno dei candidati alla segreteria nazionale (Enrico Letta) è stato appoggiato da un presidente della provincia di Trento (Lorenzo Dellai) convinto che “in Trentino non nascerà il Partito democratico se non manu militari da parte di Roma”. Qualcosa sotto c’è, specie se Trento è la stessa provincia dove è stato eletto senatore Giorgio Tonini, uno dei consiglieri più ascoltati da W. “Credo che il Pd potrebbe arricchirsi con realtà ben radicate sul territorio com’è il caso della Margherita Civica a Trento”, dice Tonini al Foglio; che aggiunge: “Quello confederale potrebbe essere per il Pd un modello utile anche per quelle regione al nord dove il partito potrebbe avere qualche difficoltà”.
Claudio Cerasa
09/01/08
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