lunedì 31 marzo 2008
Il Foglio. "Il silenzio e 28 diritti negati"
Storia di una lettera, di uno sciopero e di decine di uomini e di donne in stato vegetativo che lottano, che chiedono di essere curati e che minacciano di morire per continuare a vivere. I casi Crisafulli e l’esempio di Sarkozy
Dieci giorni dopo non ci sono le veglie in difesa, non ci sono le marce in piazza, non ci sono gli appelli in prima pagina, non ci sono i ministri al tiggì, non ci sono le lettere dal Colle, non ci sono i conduttori in lacrime e non ci sono neppure i respiratori meccanici che pompano aria nei polmoni in diretta e in prima serata. Il segno invisibile di un diritto negato, di un diritto alla vita che sembra non poter essere uguale e contrario al diritto alla non vita, è tutto qui: è tutto in una lettera firmata il 15 marzo da cinque persone, cinque persone disabili, che – chi da mesi, chi da anni – si trovano a vivere nello scafandro immobile di un corpo paralizzato. Quelle persone sono diventate dieci, poi dodici, quindi venti e oggi sono ventotto e tutte chiedono di avere la possibilità di andare avanti; chiedono di poter ricevere le cure necessarie per non morire; chiedono che l’assistenza ai disabili diventi un punto importante di questa campagna elettorale; chiedono di non essere lasciati da soli; chiedono che qualcuno garantisca loro il diritto alla vita; e chiedono che lo stato non si limiti a pensare a loro solo quelle due volte al giorno in cui un infermiere apre la porta di casa, ti misura la pressione, ti dà una pulitina e ci mette più tempo a compilare tre moduli piuttosto che a pensare a come farti vivere un giorno di più.
Cento chilometri, uno scafandro e una farfalla
Il più famoso tra i firmatari dell’appello si chiama Salvatore Crisafulli, ha 43 anni, ha quattro figli, vive a Catania e la sua Vespa si è schiantata contro un furgoncino di gelati l’11 settembre del 2003; Salvatore è finito in coma, si è risvegliato miracolosamente due anni fa, comunica con un computer equipaggiato con software a scansione, ha una gran voglia di vivere, ha già cercato di convincere Piero Welby a non staccare la spina (“Ti supplico, Piero, non chiedere la morte, ma combatti per la vita”, scrisse due anni fa) e oggi, insieme con gli altri 27 disabili in stato vegetativo (e con i loro parenti), ha deciso di sospendere la sua alimentazione per far sì che qualcuno si accorga di quella che lui stesso ha chiamato “l’eutanasia passiva dello stato italiano”. Salvatore ha una voglia matta di lottare, ha già raccontato la sua incredibile storia in un libro che si chiama “Con gli occhi sbarrati”, il suo “sciopero” dura ormai da quasi due settimane e oggi come oggi, racconta il fratello Pietro, si ritrova con un’autonomia di vita di appena sette giorni. Certo, c’è chi dice che i parenti di una persona che si trova in uno stato vegetativo non dovrebbero imporre un digiuno potenzialmente letale per i loro cari. Ma le ombre di una storia fatta di uomini e donne che lottano per un diritto alla vita, che non vale solo dal concepimento ma vale anche fino alla morte naturale – ricorda qualcosa? –, sono però superati dalla realtà di un silenzio assordante che ha nascosto una bellissima e drammatica battaglia. “Se veramente esiste il diritto alla vita e il diritto alla sua dignità – dice al Foglio Pietro Crisafulli – noi preghiamo tutte le forze politiche perché qualcuno intervenga immediatamente e perché qualcuno assicuri tempestivamente, prima della formazione del nuovo governo, un’assistenza dignitosa a chi per vivere non chiede altro che applicare una legge e a chi chiede che lo stato garantisca, nei fatti, le cure gratuite agli indigenti. Ecco, forse non è corretto definire la storia di mio fratello come quella di un anti Welby: si tratta, in fondo, di due diritti uguali e contrari, però se qui ci si interessa così tanto del diritto alla morte qualcuno deve spiegarmi perché non ci si deve interessare anche al diritto alla vita. Vede, mio fratello fino a qualche tempo fa ripeteva sempre che se lo stato non ha pietà di me, se lo stato non sa ascoltare la mia voce, non sarà nemmeno capace di ascoltare la tua. Oggi mi accorgo che aveva ragione lui: lui che per protesta minaccia di morire per poter vivere e lui che si sente abbandonato da quello stato che non ascolta la sua voce e che purtroppo oggi non ascolta neppure la mia”.
Sono storie incredibili quelle di Salvatore Crisafulli, di Carmelo Spataro, di Carmela Galeota, di Gabriella Villari e di Emanuela Lia, i primi cinque firmatari dell’appello di dieci giorni fa; sono storie di uomini e donne in coma vegetativo da quindici, da sei, da dieci anni; chi per un incidente stradale, chi per un incidente di lavoro e chi per una malattia congenita; sono storie di persone che, come diceva Welby, vogliono avere il diritto di scegliere; e sono storie che, allo stesso tempo, sembrano uscite fuori dalla straordinaria voglia di vivere di Jean-Dominique Bauby, il protagonista vero di un film, “Le scaphandre et le papillon” (Lo scafandro e la farfalla) ispirato alla storia del redattore capo della rivista francese Elle: morto il 9 marzo del 1997, sopravvissuto a un ictus cerebrale e risvegliatosi dopo venti giorni di coma in un corpo che lui chiamava scafandro, di cui poteva controllare solo il battito di una palpebra e grazie al quale però (con l’aiuto di una bellissima ortofonista) guardando il mondo dal suo occhio sinistro è riuscito a scrivere quel libro che poi ispirerà il suo film. Un film che vincerà due Golden globe, che contiene nel suo cuore la stessa incontenibile voglia di vivere che potrebbe avere una Juno, che potrebbe avere una Little Miss Sunshine e che racconta una realtà più vera di quella triste e rozza sceneggiatura da reality italiano dove un protagonista che apre gli occhi sul diritto alla vita vale meno di uno che li spalanca sul diritto alla morte. Perché si tratta di questo, con Crisafulli e con gli altri ventisette disabili che comunicano con il mondo (anche) con un software e con uno sguardo, e che si sforzano di aprire gli occhi del regista collettivo per spiegare che una vita maltrattata di cui nessuno si accorge vale esattamente come una pena di morte. “Le marce, i girotondi, le veglie, le fiaccolate siano fatte per invocare la vita e non per sentenziare la morte, per potenziare e sensibilizzare la sanità e la ricerca scientifica, per rendere sopportabile la sofferenza, anche quella terminale, non per giustificare i più disperati e soli con il macabro inganno in una morte dolce, dietro cui si nasconde solo cinismo e utilitarismo”, scriveva qualche tempo fa Salvatore. E oggi Salvatore ha un fratello che dice così, che dice “lui mi sente, soffre con me, mi incita a vincere la sua impotenza e mi spinge a comunicare al mondo la sua voglia di vivere e il suo bisogno di aiuto”. Un fratello che non ha certo alcuna voglia di staccare la spina e che ora aspetta davvero solo un cenno da un ministro, una parola da un capo di stato (un po’ come fatto ieri da Sarkozy che ha promesso di aumenatre del 5 per cento i sussidi statali per i disabili), o un impegno da uno come il Cav. o da uno come W. Quello stesso W che ieri è arrivato in Sicilia, che oggi arriverà a Ragusa e che piuttosto che togliere la vita dalla campagna elettorale potrebbe prendere il suo pullman e salire su da Salvatore: da Ragusa a Catania, in fondo, sono poco più di cento chilometri.
Claudio Cerasa
26/03/08
Dieci giorni dopo non ci sono le veglie in difesa, non ci sono le marce in piazza, non ci sono gli appelli in prima pagina, non ci sono i ministri al tiggì, non ci sono le lettere dal Colle, non ci sono i conduttori in lacrime e non ci sono neppure i respiratori meccanici che pompano aria nei polmoni in diretta e in prima serata. Il segno invisibile di un diritto negato, di un diritto alla vita che sembra non poter essere uguale e contrario al diritto alla non vita, è tutto qui: è tutto in una lettera firmata il 15 marzo da cinque persone, cinque persone disabili, che – chi da mesi, chi da anni – si trovano a vivere nello scafandro immobile di un corpo paralizzato. Quelle persone sono diventate dieci, poi dodici, quindi venti e oggi sono ventotto e tutte chiedono di avere la possibilità di andare avanti; chiedono di poter ricevere le cure necessarie per non morire; chiedono che l’assistenza ai disabili diventi un punto importante di questa campagna elettorale; chiedono di non essere lasciati da soli; chiedono che qualcuno garantisca loro il diritto alla vita; e chiedono che lo stato non si limiti a pensare a loro solo quelle due volte al giorno in cui un infermiere apre la porta di casa, ti misura la pressione, ti dà una pulitina e ci mette più tempo a compilare tre moduli piuttosto che a pensare a come farti vivere un giorno di più.
Cento chilometri, uno scafandro e una farfalla
Il più famoso tra i firmatari dell’appello si chiama Salvatore Crisafulli, ha 43 anni, ha quattro figli, vive a Catania e la sua Vespa si è schiantata contro un furgoncino di gelati l’11 settembre del 2003; Salvatore è finito in coma, si è risvegliato miracolosamente due anni fa, comunica con un computer equipaggiato con software a scansione, ha una gran voglia di vivere, ha già cercato di convincere Piero Welby a non staccare la spina (“Ti supplico, Piero, non chiedere la morte, ma combatti per la vita”, scrisse due anni fa) e oggi, insieme con gli altri 27 disabili in stato vegetativo (e con i loro parenti), ha deciso di sospendere la sua alimentazione per far sì che qualcuno si accorga di quella che lui stesso ha chiamato “l’eutanasia passiva dello stato italiano”. Salvatore ha una voglia matta di lottare, ha già raccontato la sua incredibile storia in un libro che si chiama “Con gli occhi sbarrati”, il suo “sciopero” dura ormai da quasi due settimane e oggi come oggi, racconta il fratello Pietro, si ritrova con un’autonomia di vita di appena sette giorni. Certo, c’è chi dice che i parenti di una persona che si trova in uno stato vegetativo non dovrebbero imporre un digiuno potenzialmente letale per i loro cari. Ma le ombre di una storia fatta di uomini e donne che lottano per un diritto alla vita, che non vale solo dal concepimento ma vale anche fino alla morte naturale – ricorda qualcosa? –, sono però superati dalla realtà di un silenzio assordante che ha nascosto una bellissima e drammatica battaglia. “Se veramente esiste il diritto alla vita e il diritto alla sua dignità – dice al Foglio Pietro Crisafulli – noi preghiamo tutte le forze politiche perché qualcuno intervenga immediatamente e perché qualcuno assicuri tempestivamente, prima della formazione del nuovo governo, un’assistenza dignitosa a chi per vivere non chiede altro che applicare una legge e a chi chiede che lo stato garantisca, nei fatti, le cure gratuite agli indigenti. Ecco, forse non è corretto definire la storia di mio fratello come quella di un anti Welby: si tratta, in fondo, di due diritti uguali e contrari, però se qui ci si interessa così tanto del diritto alla morte qualcuno deve spiegarmi perché non ci si deve interessare anche al diritto alla vita. Vede, mio fratello fino a qualche tempo fa ripeteva sempre che se lo stato non ha pietà di me, se lo stato non sa ascoltare la mia voce, non sarà nemmeno capace di ascoltare la tua. Oggi mi accorgo che aveva ragione lui: lui che per protesta minaccia di morire per poter vivere e lui che si sente abbandonato da quello stato che non ascolta la sua voce e che purtroppo oggi non ascolta neppure la mia”.
Sono storie incredibili quelle di Salvatore Crisafulli, di Carmelo Spataro, di Carmela Galeota, di Gabriella Villari e di Emanuela Lia, i primi cinque firmatari dell’appello di dieci giorni fa; sono storie di uomini e donne in coma vegetativo da quindici, da sei, da dieci anni; chi per un incidente stradale, chi per un incidente di lavoro e chi per una malattia congenita; sono storie di persone che, come diceva Welby, vogliono avere il diritto di scegliere; e sono storie che, allo stesso tempo, sembrano uscite fuori dalla straordinaria voglia di vivere di Jean-Dominique Bauby, il protagonista vero di un film, “Le scaphandre et le papillon” (Lo scafandro e la farfalla) ispirato alla storia del redattore capo della rivista francese Elle: morto il 9 marzo del 1997, sopravvissuto a un ictus cerebrale e risvegliatosi dopo venti giorni di coma in un corpo che lui chiamava scafandro, di cui poteva controllare solo il battito di una palpebra e grazie al quale però (con l’aiuto di una bellissima ortofonista) guardando il mondo dal suo occhio sinistro è riuscito a scrivere quel libro che poi ispirerà il suo film. Un film che vincerà due Golden globe, che contiene nel suo cuore la stessa incontenibile voglia di vivere che potrebbe avere una Juno, che potrebbe avere una Little Miss Sunshine e che racconta una realtà più vera di quella triste e rozza sceneggiatura da reality italiano dove un protagonista che apre gli occhi sul diritto alla vita vale meno di uno che li spalanca sul diritto alla morte. Perché si tratta di questo, con Crisafulli e con gli altri ventisette disabili che comunicano con il mondo (anche) con un software e con uno sguardo, e che si sforzano di aprire gli occhi del regista collettivo per spiegare che una vita maltrattata di cui nessuno si accorge vale esattamente come una pena di morte. “Le marce, i girotondi, le veglie, le fiaccolate siano fatte per invocare la vita e non per sentenziare la morte, per potenziare e sensibilizzare la sanità e la ricerca scientifica, per rendere sopportabile la sofferenza, anche quella terminale, non per giustificare i più disperati e soli con il macabro inganno in una morte dolce, dietro cui si nasconde solo cinismo e utilitarismo”, scriveva qualche tempo fa Salvatore. E oggi Salvatore ha un fratello che dice così, che dice “lui mi sente, soffre con me, mi incita a vincere la sua impotenza e mi spinge a comunicare al mondo la sua voglia di vivere e il suo bisogno di aiuto”. Un fratello che non ha certo alcuna voglia di staccare la spina e che ora aspetta davvero solo un cenno da un ministro, una parola da un capo di stato (un po’ come fatto ieri da Sarkozy che ha promesso di aumenatre del 5 per cento i sussidi statali per i disabili), o un impegno da uno come il Cav. o da uno come W. Quello stesso W che ieri è arrivato in Sicilia, che oggi arriverà a Ragusa e che piuttosto che togliere la vita dalla campagna elettorale potrebbe prendere il suo pullman e salire su da Salvatore: da Ragusa a Catania, in fondo, sono poco più di cento chilometri.
Claudio Cerasa
26/03/08
sabato 29 marzo 2008
Il Foglio. "Io non sono un carciofo. Storia di Salvatore Crisafulli"
“Le marce, i girotondi, le veglie, le fiaccolate siano fatte per invocare la vita e non per sentenziare la morte, per potenziare e sensibilizzare la sanità e la ricerca scientifica, per rendere sopportabile la sofferenza, anche quella terminale, non per giustificare i più disperati e soli con il macabro inganno in una morte dolce, dietro a cui si nasconde solo cinismo e utilitarismo”. (Salvatore Crisafulli, settembre 2006) Oggi meglio. Andare. Fuori. Gelato. Pietà. Piango. Disperato. Bello. Rido. Notte. Basta. Sciopero. Vivo. Contatta. Mare. Catania. Mascara. Stadio. Mandorla. “Mam-ma”. Salvatore sorride scrivendo con gli occhi su un piccolo schermo a cristalli liquidi, sceglie le parole su una tastiera bianca nella sua camera da letto, sfiora con la mandibola un bottone nero poggiato pochi centimetri sopra la spalla e sposta un cursore giallo con un’oscillazione morbida del collo che trasforma in voce scritta il suo corpo immobile: un corpo che tre anni fa doveva essere finito e che oggi respira, tossisce, piange, mangia, russa, sciopera, la domenica va allo stadio, a ferragosto va ad Augusta e ogni tanto balbetta in catanese quando la mamma si avvicina e di nascosto gli passa un goccio di caffè. Salvatore Crisafulli si è risvegliato tre anni fa su un lettino dell’ospedale di Arezzo, respirando con un tubo infilato nel collo, una piaga profonda sei centimetri sul sacrale, le braccia ricostruite in sala operatoria, un coma di quarto grado, un’insufficienza respiratoria, una frattura alla colonna vertebrale, un’emorragia cerebrale e i medici che dicevano di non toccarlo, perché suo figlio è in coma, signora: questo è uno stato vegetativo permanente; lui non può capire, non può sentire non può parlare; se alza la testa, se abbassa le palpebre e se muove gli occhi le assicuro che, purtroppo, sono gesti non volontari. Non lo fa apposta; signora, suo figlio non è cosciente. Salvatore si è risvegliato dopo due anni di coma, dopo due anni di uno stato vegetativo che doveva essere permanente. Oggi vive a Catania con la madre, con due fratelli, con due sorelle, con quattro figli e con una moglie che però si è allontanata. Tre giorni fa ha interrotto uno sciopero della fame cominciato il 15 marzo insieme con altri cinque disabili in stato vegetativo; che in pochi giorni sono diventati 28 e che infine sono diventati poco più di 40. E’ stato Salvatore stesso a chiedere lo sciopero; lo ha chiesto al fratello Pietro – “Pe-trù” come provò a sibilare la mattina di un anno fa; l’ha chiesto balbettando sul suo computer a scansione ottica quel comunicato che Petrù ha inviato a tutti gli indirizzi importanti che gli venivano in mente – il presidente della Repubblica, il sindaco di Catania, il presidente del Consiglio, gli assessori comunali, gli assessori regionali, i ministri, i sottosegretari e i candidati premier – per chiedere non di interrompere una sofferenza, non di staccare una spina, non di ricevere il diritto a morire. No. Ha scritto per vivere, Salvatore. Ha scritto un appello spostando il cursore sullo schermo a cristalli liquidi – e rischiando di morire per continuare a vivere – solo per reclamare quelle cure che la legge prevede e che Salvatore non riceve; ha scritto per chiedere di rispettare la sua vita; per chiedere di avere il diritto a vivere anche con una disfunzione neurologica irreversibile; per chiedere che il suo corpo fino ieri intubato e oggi paralizzato, non sia trattato come quel carciofo che un giornale pubblicò in prima pagina due anni fa, chiedendo se questa è davvero vita. Salvatore, guardando quella foto sul Manifesto, sorrise involontariamente e poggiando il collo sul pulsante nero scrisse con il cursore la parola “piango”. Crisafulli lavorava in una delle tre Asl di Catania, si occupava di disabili, studiava i piani di recupero per uomini e donne con handicap e lavorava dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17 guadagnando poco più di 900 euro al mese. La mattina dell’incidente era un 11 settembre, Salvatore aveva appena visto al tg immagini di repertorio con due torri, due aerei e molte persone che morivano; era uscito dal suo appartamento nel quartiere di San Giorgio, alle 8 e 20, per accompagnare a scuola il figlio di 9 anni, Antonio. Era salito sulla Vespa, aveva superato Porta Garibaldi e poco prima di arrivare a scuola un’Ape che vendeva gelati, tagliando la strada al motorino con una inversione a u, aveva lanciato Salvatore contro il furgoncino. Venne raccolto a terra venti minuti dopo. Aveva braccia, spalle, tibie e femori spezzati. Il figlio era svenuto in mezzo alla strada. Antonio e Salvatore vennero intubati sul posto, furono trasportati in due ospedali diversi, rimasero in clinica il primo 6 e il secondo 53 giorni. Poi il Crisafulli più grande fu trasferito a Messina, tornò a Catania, andò ad Arezzo e sulla cartella clinica il primario continuava a scrivere sempre la stessa cosa, in maiuscolo. “SV”, stato vegetativo. Salvatore si è risvegliato il 25 ottobre del 2005 strozzando un colpo di tosse in un lettino di Arezzo. Si è risvegliato poche settimane dopo aver lasciato quella clinica di Messina dove era stato lasciato immobilizzato per quasi due settimane con un’infezione alla fine della schiena e con una piaga di sangue che gli aveva scavato un foro di 5 centimetri sotto l’osso sacro dentro cui si erano posate le feci degli ultimi giorni. Salvatore aprì gli occhi e cominciò a raccontare. Raccontò che per mesi – lui che non si muoveva e lui che non apriva le palpebre – era in grado di ascoltare, di capire e di ricordare praticamente tutto: i medici, le diagnosi, i fratelli, i figli, la moglie e poi il sogno; il ricordo di un aereo che si schiantava contro quel palazzo che Salvatore credeva fosse proprio quello dove abitava lui. Nel 2005 il primario diagnosticò una sindrome parzialmente assimilabile al Locked-in: una malattia che comporta la paralisi della maggior parte dei muscoli del corpo; che non provoca la perdita delle funzioni cerebrali; e che permette ai pazienti di essere perfettamente vigili e consapevoli della propria condizione. Il paziente non si muove, ma capisce tutto. Oggi Salvatore ha 43 anni, apre gli occhi spontaneamente, segue gli ospiti con lo sguardo, sposta la testa a destra e a sinistra, muove la bocca, parla con una tastiera a scansione, tiene la testa dritta senza sostegni, si alimenta dalla bocca e per dirti sì oppure no gli basta uno sguardo. La mattina, Salvatore si sveglia alle 7 e mezza, fa colazione con i biscotti plasmon, pranza con omogeneizzati alla carne, al pesce o al vitello, ascolta poca musica, guarda molti tg, ama i film western, adora il gelato alla mandorla, a luglio passa le mattine al mare, ad Augusta, a 47 chilometri da Catania, e la domenica, quando è possibile, Pietro e Marcello portano il fratello in tribuna, allo stadio Massimino, dove Salvatore impazzisce per quel folletto di Giuseppe Mascara. Dalla regione, dallo stato e dalla Asl, Salvatore dovrebbe ricevere un’assistenza domiciliare integrata da 18 ore al giorno; dovrebbe ricevere 2 ore quotidiane di fisioterapia; un’ora al giorno di logopedia; un nutrizionista, un neurologo e uno specialista una volta alla settimana. Il giorno in cui ha cominciato lo sciopero della fame, Salvatore riceveva la visita di un infermiere due volte al dì: tre quarti d’ora la mattina, tre quarti d’ora il pomeriggio. L’infermiere misurava la pressione, puliva Salvatore, lo girava da un lato e poi dall’altro, parlava un po’ con lui, firmava un paio di moduli e andava via. L’ultima volta che Salvatore ha visto una logopedista, un nutrizionista, un neurologo, un ortopedico e uno specialista è stato due anni e mezzo fa. La fisioterapia, gli esercizi con lo spazzolino sulla lingua per stimolare le corde vocali e la ginnastica per le gambe ricostruite in ospedale, Salvatore le fa con i fratelli e le sorelle. A parte una pensione da 800 euro, Salvatore non riceve nient’altro. L’apparecchio a scansione ottica, quel computer che gli permette di scrivere sullo schermo selezionando le lettere con il movimento della pupilla – e con cui, come dice Pietro, quando lo usa Totò “agghiurna” – lo riceve dalla regione una volta ogni 15 giorni. Alla Asl, i fratelli Crisafulli hanno già scritto 6 telegrammi, uno ogni 6 mesi, chiedendo di ripristinare i servizi che Salvatore aveva ricevuto solo nei mesi in cui si interessò al caso l’ex ministro della Salute Francesco Storace (nel 2005). Chiede di vivere, Salvatore. Chiede le stesse cose che chiedeva piangendo un anno e mezzo fa: quando Piero Welby scriveva al presidente della Repubblica, chiedendo di morire, e quando il presidente della Repubblica faceva quello che per Salvatore non ha ancora fatto: rispondere. In quelle settimane, Welby e Crisafulli si misero in contatto. Salvatore scrisse a Welby questa lettera: “Sono come te, Piero. Sono Salvatore Crisafulli e sono stato in coma e in stato vegetativo permanente per tanto tempo, per mesi ho vissuto in un incubo, vivevo nell’orrore, i medici dicevano che non capivo nulla ma invece sentivo e capivo tutto. Oggi sono come te, non posso muovermi, parlo attraverso un computer, la mia condizione è sempre gravissima, sono imprigionato nel mio stesso corpo, mi sento come murato vivo, e vivo in un abisso, ma voglio vivere. Caro Welby rispetto la tua volontà, ma vorrei che tu cambiassi idea, decidendo di lottare fino alla fine, non chiedere la morte ma combatti per la vita. Sto soffrendo tantissimo per te, ma ti supplico di cambiare idea, perché la vita è un bene prezioso, anche se si soffre. Non chiedere l’eutanasia, unisciti a noi per vivere meglio. Se avessimo un’assistenza adeguata ad hoc, ed alleviando le sofferenze nostre e dei nostri familiari, sono convinto che nessuno chiederebbe di morire. Ti supplico di non chiedere la morte, ma di combattere per la vita”. La situazione di Salvatore oggi non è semplice: lo sciopero della fame è stato sospeso, dopo la lettera inviata a questo giornale dal ministro Livia Turco, ieri i fratelli Crisafulli hanno concordato con la Asl un nuovo progetto sanitario. Ieri, prima di pranzare, Salvatore ha scritto questo messaggio sul suo computer. “Vivo angoscia. Vivo infinito incubo. Disperazione. Non credo stato. Credo scienza. Invito stato pietà noi. Rinchiuso in gabbia infernale. Oggi felice. Infelice società. Però aggrappo a vita. Ciao”.
Claudio Cerasa
29/03/08
Claudio Cerasa
29/03/08
giovedì 27 marzo 2008
Il Foglio. Intervista a Dario Franceschini
L'intervista extra large al vice di W. Tutto quello che non leggerete sul Foglio di carta
Tra tutti i temi della campagna elettorale, qual è quello che Dario Franceschini sente come proprio: "Il punto più importante di questa campagna elettorale, quello in cui mi riconosco più degli altri, è quello che si ha quando, girando per le province italiane, si incontrano quelle persone che noi definiremmo 'ceto medio': anziani, giovani, famiglie. Tutte persone che si trovano in quella fascia sociale che non riesce ad arrivare a fine mese. Vede, qui non parliamo di fasce di povertà. Qui parliamo di famiglie assolutamente normali, con due stipendi, due figli che studiano e che però ci vengono a dire che proprio non ci riescono; e che passano le giornate a dirci che purtroppo non ce la fanno. Il partito democratico deve essere una forza riformista che deve lavorare, anche per questo, senza vecchie preclusioni ideologiche. E deve farlo per lo sviluppo, per aiutare le imprese ma contemporaneamente deve anche sapere quali sono le altre priorità. E in questo momento, le priorità sono esattamente quelle persone cui non puoi dire 'aspettando che arrivi la crescita e che arrivi lo sviluppo' intanto arrangiatevi come potete".
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martedì 25 marzo 2008
Il Foglio. "Il Pd fa due conti nel Lazio e decide di “commissariare Marrazzo”
Dopo Prodi e Bassolino, W cancella dall’agenda anche il nome del governatore. E’ arrivato Montino, anche per il caso Alitalia
Roma. Nel formidabile ingranaggio a vocazione maggioritaria del modello Roma, che in quindici anni ha portato due sindaci al Campidoglio, un presidente alla provincia, un governatore alla regione e un segretario al Loft, c’è un nome preciso che la dirigenza del Pd, negli ultimi mesi, ha cercato di nascondere con cura sotto l’agenda democratica delle prossime elezioni. C’è molto imbarazzo, in effetti, quando la nuova stagione di Walter Veltroni (candidato premier), di Francesco Rutelli (candidato a sindaco della capitale) e di Nicola Zingaretti (candidato alla provincia di Roma) sente annunciare il nome di uno dei politici più sexy d’Italia (il settimo, secondo un recente sondaggio dell’associazione donne e qualità della vita); lo stesso che da tre anni governa in quella che sarà una delle regioni decisive nella composizione del prossimo Senato; lo stesso che non si vede e non si vedrà mai sui pullman del Pd; che non si è ancora visto in nessun palco con Rutelli; che ha evitato i fund raising con Zingaretti; e che l’ultima volta che ha stretto in pubblico la mano del segretario del Pd è stato solo quando, ai Fori imperiali, partiva la maratona di Roma. Il punto è che, però, Piero Marrazzo non è un governatore come tutti gli altri: Veltroni e Bettini, infatti, hanno puntato molte fiches sul nome dell’ex conduttore di “Mi manda Raitre”; grazie a lui il modello Roma, appena tre anni fa, ha riconquistato la regione governata da Storace e fino a pochi mesi fa era lo stesso W a parlare ancora, orgoglioso, di “grande collaborazione” tra comune e regione. Poi però è cambiato qualcosa e da qualche tempo il nome di Marrazzo al loft viene visto quasi con lo stesso timore che si ha quando a piazza Santa Anastasia vengono sussurrate le parole “Prodi” e “Bassolino”.
Il fatto, poi, è che il 13 aprile il Lazio di Marrazzo sarà uno dei nodi chiave per il Senato. Ma con un governatore il cui gradimento non è mai stato così basso (meno 4 punti nell’ultimo anno soprattutto per problemi legati alla gestione della Sanità) nella mente dei veltroniani Marrazzo rischia di essere una delle ragioni per cui il Lazio potrebbe finire ancora una volta in mano al centrodestra. I conti fatti al Loft sono semplici: perché due anni fa la Cdl al Senato ha vinto con il 50,2 per cento dei voti – nonostante regione, provincia e comune fossero già in mano all’Ulivo – ma con il modello Roma candidato a Palazzo Chigi e con due nomi pesanti che il 13 e il 14 aprile compariranno nei seggi a fianco di Veltroni (Zingaretti alle ultime europee a Roma prese tanti voti quasi quanto il Cav.; Rutelli è stato già per due volte sindaco a Roma) in cuor suo W crede davvero, in questo modo, di poter rimontare lo svantaggio ereditato. E se i sondaggi molto generosi che giravano venerdì scorso al loft registravano uno 0,5 per cento di scarto con il Pdl, nello staff veltroniano sembra chiaro che per provare a ridurre lo svantaggio è meglio però non nominare troppo il nome del governatore del Lazio. E’ anche per questo che pochi giorni fa il Pd, per evitare problemi, ha affiancato a Marrazzo, come vicepresidente della regione, il veltroniano Esterino Montino. “Di fatto – racconta uno dei candidati del Pd nel Lazio – così la regione è stata commissariata da Veltroni. Il problema è che al loft non è stato gradito il fallimento del governatore nel farsi mediatore dell’intesa tra Pd e socialisti. Marrazzo, che si è messo in competizione con Ottaviano Del Turco, voleva rappresentare nella fase costituente l’area socialista ma come è noto non è andata bene; nel Pd parte della colpa è stata attribuita proprio a lui. Certo, il governatore, che ha scelto di costruirsi un profilo indipendente, non è un politico che ha in dote chissà quali voti; però, questo è il ragionamento che si fa, se parla troppo potrebbe anche far perdere consensi. E in effetti fa anche un po’ impressione, nella partita attorno al caso Alitalia, sentire da una parte un governatore come Formigoni che si spende ogni giorno per rilanciare la Lombardia e Malpensa e un governatore come Marrazzo che fino a poco tempo fa sosteneva, con forza, che ‘Fiumicino deve essere il vero hub del Mediterraneo’ e che oggi, invece, con un’offerta conveniente per il Lazio come quella di Air France, pensa soprattutto al traffico sulla Tiberina e la Salaria”.
Claudio Cerasa
25/03/08
Roma. Nel formidabile ingranaggio a vocazione maggioritaria del modello Roma, che in quindici anni ha portato due sindaci al Campidoglio, un presidente alla provincia, un governatore alla regione e un segretario al Loft, c’è un nome preciso che la dirigenza del Pd, negli ultimi mesi, ha cercato di nascondere con cura sotto l’agenda democratica delle prossime elezioni. C’è molto imbarazzo, in effetti, quando la nuova stagione di Walter Veltroni (candidato premier), di Francesco Rutelli (candidato a sindaco della capitale) e di Nicola Zingaretti (candidato alla provincia di Roma) sente annunciare il nome di uno dei politici più sexy d’Italia (il settimo, secondo un recente sondaggio dell’associazione donne e qualità della vita); lo stesso che da tre anni governa in quella che sarà una delle regioni decisive nella composizione del prossimo Senato; lo stesso che non si vede e non si vedrà mai sui pullman del Pd; che non si è ancora visto in nessun palco con Rutelli; che ha evitato i fund raising con Zingaretti; e che l’ultima volta che ha stretto in pubblico la mano del segretario del Pd è stato solo quando, ai Fori imperiali, partiva la maratona di Roma. Il punto è che, però, Piero Marrazzo non è un governatore come tutti gli altri: Veltroni e Bettini, infatti, hanno puntato molte fiches sul nome dell’ex conduttore di “Mi manda Raitre”; grazie a lui il modello Roma, appena tre anni fa, ha riconquistato la regione governata da Storace e fino a pochi mesi fa era lo stesso W a parlare ancora, orgoglioso, di “grande collaborazione” tra comune e regione. Poi però è cambiato qualcosa e da qualche tempo il nome di Marrazzo al loft viene visto quasi con lo stesso timore che si ha quando a piazza Santa Anastasia vengono sussurrate le parole “Prodi” e “Bassolino”.
Il fatto, poi, è che il 13 aprile il Lazio di Marrazzo sarà uno dei nodi chiave per il Senato. Ma con un governatore il cui gradimento non è mai stato così basso (meno 4 punti nell’ultimo anno soprattutto per problemi legati alla gestione della Sanità) nella mente dei veltroniani Marrazzo rischia di essere una delle ragioni per cui il Lazio potrebbe finire ancora una volta in mano al centrodestra. I conti fatti al Loft sono semplici: perché due anni fa la Cdl al Senato ha vinto con il 50,2 per cento dei voti – nonostante regione, provincia e comune fossero già in mano all’Ulivo – ma con il modello Roma candidato a Palazzo Chigi e con due nomi pesanti che il 13 e il 14 aprile compariranno nei seggi a fianco di Veltroni (Zingaretti alle ultime europee a Roma prese tanti voti quasi quanto il Cav.; Rutelli è stato già per due volte sindaco a Roma) in cuor suo W crede davvero, in questo modo, di poter rimontare lo svantaggio ereditato. E se i sondaggi molto generosi che giravano venerdì scorso al loft registravano uno 0,5 per cento di scarto con il Pdl, nello staff veltroniano sembra chiaro che per provare a ridurre lo svantaggio è meglio però non nominare troppo il nome del governatore del Lazio. E’ anche per questo che pochi giorni fa il Pd, per evitare problemi, ha affiancato a Marrazzo, come vicepresidente della regione, il veltroniano Esterino Montino. “Di fatto – racconta uno dei candidati del Pd nel Lazio – così la regione è stata commissariata da Veltroni. Il problema è che al loft non è stato gradito il fallimento del governatore nel farsi mediatore dell’intesa tra Pd e socialisti. Marrazzo, che si è messo in competizione con Ottaviano Del Turco, voleva rappresentare nella fase costituente l’area socialista ma come è noto non è andata bene; nel Pd parte della colpa è stata attribuita proprio a lui. Certo, il governatore, che ha scelto di costruirsi un profilo indipendente, non è un politico che ha in dote chissà quali voti; però, questo è il ragionamento che si fa, se parla troppo potrebbe anche far perdere consensi. E in effetti fa anche un po’ impressione, nella partita attorno al caso Alitalia, sentire da una parte un governatore come Formigoni che si spende ogni giorno per rilanciare la Lombardia e Malpensa e un governatore come Marrazzo che fino a poco tempo fa sosteneva, con forza, che ‘Fiumicino deve essere il vero hub del Mediterraneo’ e che oggi, invece, con un’offerta conveniente per il Lazio come quella di Air France, pensa soprattutto al traffico sulla Tiberina e la Salaria”.
Claudio Cerasa
25/03/08
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lunedì 24 marzo 2008
Il Foglio. "Decida, lei ha il cinquanta per cento di possibilita’
Diagnosi, ecografia, parto e terapia intensiva. Storia di una bimba “preoccupante” nata anche se la statistica diceva che era meglio di no
Alle dieci e mezza lei alzò il telefono e lo chiamò piangendo. Era maggio, era una giornata molto bella, lui era ad Alessandria, lavorava al Giro d’Italia, faceva previsioni meteorologiche e aveva appena visto in Brianza, a Lissone, a ventisei chilometri da Milano, lo scatto sui pedali di Alessandro Petacchi e la magnifica volata vinta poche ore prima contro Erik Zabel e Paolo Bettini. Quel giorno, Gianluca era pronto per la diretta dell’ultima tappa – quella che passava da Alessandria e che arrivava fino a La Thuile, in Val d’Aosta – e la diretta, come ogni giorno, era prevista per le dodici in punto: lui controllò la carta meteorologica, verificò quello che gli esperti chiamano “configurazione barica”, sentì vibrare il cellulare, infilò la mano in tasca e dopo tre squilli rispose al telefono. Sabrina, sua moglie, era al terzo mese di gravidanza ed era rimasta sdraiata sul lettino del ginecologo per quasi venticinque minuti; fu un’ecografia molto lunga, quella: lei aveva visto sullo schermo molti puntini neri e molti puntini bianchi ma ricorda che non aveva capito granché. “E dunque?”, chiese Sabrina al dottore mentre si riallacciava gli ultimi due bottoni della camicetta. “Mi dica, cosa si vede?”. Il medico, appoggiando la montatura degli occhiali sopra una cartellina a righe e strappando via un foglio di carta dal blocchetto del ricettario, le spiegò che c’era qualcosa che non andava e le fissò un nuovo appuntamento dopo quattro settimane. Sabrina alzò il telefono, chiamò Gianluca, cominciò a piangere e gli disse che c’erano dei problemi: il dottore non riusciva a capire che cosa aveva la bambina e quella macchietta, che sembrava un piccolo neo al centro dello stomaco, effettivamente era “molto deformata”. La situazione, continuò il medico, sembrava preoccupante: quella macchia che si dilatava poteva essere uno stomaco cresciuto in maniera abnorme; poteva essere il sintomo, non ancora ben definito, di una malattia cardiovascolare; poteva essere una non grave fibrosi cistica; poteva essere, inoltre, un più grave problema di origine genetico. Solo che così, da quello schermetto verde grande la metà di una pagina di giornale, ancora non si capiva di cosa diavolo si trattasse. Le dissero che servivano altri esami, altre ecografie e che naturalmente servivano altre visite. La diagnosi, come si dice in questi casi, sembrava seria ma non preoccupante.
La prima visita fu a maggio, la seconda a giugno, la terza a luglio, la quarta ad agosto. Come primo esame, Sabrina si sottopose a una villocentesi: il dottore infilò un ago fino a toccarle la placenta e prelevò quei villi coliari grazie ai quali sarebbe stato possibile avere tutte le informazioni genetiche necessarie e verificare, dunque, se quelli che fino a quel momento erano stati identificati come generici “problemi genetici” avessero anche un nome preciso. Così, i medici verificarono se quella macchia fosse una cistite, cercarono di scoprire se quella fosse una patologia legata alla milza, ma i risultati erano ancora un po’ troppo contraddittori. Poi, ad agosto, quando Sabrina e Gianluca avevano appena festeggiato il loro quindicesimo anno di matrimonio e quando avevano ormai capito che molto era cambiato rispetto a quelle ecografie che “evidenziavano un quadro più o meno sotto controllo”, tutti e due, intuirono che le cose erano un po’ più serie di ciò che credevano. E questo, proprio nel momento in cui, a pochi giorni da settembre, al termine dell’ennesima ecografia, il medico disse che non si capiva dove si trovava il cuore. “Non si capisce? Mi scusi, dottore, ma che significa?”, chiese Gianluca, molto spaventato. “Semplicemente non si capisce”, rispose il medico accarezzando la pancia della mamma con la sondina ecografica e aggiungendo, poi, quelle parole che lì sul momento – Sabrina e suo marito – proprio non potevano capire: perché, signora, il diaframma non funziona, si tratta di un’ernia, la situazione è molto preoccupante, mi spiace, lo so, è dura.
Sentì dire “ernia”, e Gianluca – pensando a quella che si andava a poco a poco a configurare nella sua mente come una semplice ernietta – in realtà si sentì quasi sollevato. Il quadro clinico della bambina era però terribile: perché in quelle condizioni – al quarto mese, con una malformazione multipla congenita, con il cuore all’altezza della spalla, lo stomaco dentro il torace, la milza al posto di un bronco, un polmone piccolo come una noce e un altro, quello di sinistra, che proprio non funzionava – la situazione sembrava impossibile da recuperare. E in effetti era proprio così.
Tornati a casa, arrivati al chilometro trentacinque della Cassia, nel cuore silenzioso di Trevignano Romano, Gianluca fece quello che non andrebbe mai fatto quando un medico appunta su un foglietto bianco del ricettario quelle che, a livello clinico, sono le “esatte terminologie della diagnosi” e quelle che per te, invece, non possono essere altro che semplici scarabocchi di una diagnosi, lì per lì, incomprensibile. Così, Gianluca scese dalla macchina, baciò Sabrina, salutò la figlia di tre anni, Livia, salì una rampa di scale, aprì la porta dello studio, accese il portatile della Apple, si collegò alla rete e dopo aver estratto dalla tasca dei jeans un appunto con la definizione esatta della malattia che il medico aveva utilizzato pochi minuti prima in clinica, lui cliccò su Google, battè sulla la tastiera la parola “ernia”, aggiunse un “+”, fece seguire “diaframmatica” e poi lesse i primi risultati: “Malattia congenita”, “Sindrome malformativa multipla”; “Mancata o incompleta formazione del diaframma”; “Fuoriuscita di viscere dall’addome”; “Protrusione del contenuto addominale nel torace”; “Grave difetto del diaframma”; “Passaggio di una porzione dello stomaco dall’addome al torace”; “Migrazione di uno o più visceri addominali nella cavità toracica”, e molto altro. A quel punto, Gianluca chiamò un suo amico, gli raccontò la storia e gli chiese cosa significasse, davvero, “difetto del diaframma”; gli chiese cosa significasse “fuoriuscita di viscere dall’addome”; gli chiese quanto tempo la moglie avrebbe dovuto passare in ospedale; quante possibilità di sopravvivenza avrebbe avuto quella gravidanza; se quella bambina sarebbe potuta crescere normalmente; se sarebbe stata in grado di respirare da sola, di parlare come gli altri, di sorridere con gli amici e se, crescendo, avrebbe avuto la forza di frequentare tranquillamente anche l’asilo a pochi metri da casa. Quel giorno, però, lui scoprì solo che sua figlia aveva il cinquanta per cento di possibilità; Gianluca sapeva che di fronte a un problema così grande, con una bambina che aveva lo stomaco spostato nel torace, la milza al posto del polmone e il cuore più vicino alla spalla che allo sterno, sarebbe potuto accadere di tutto: che la bambina morisse soffocata nel pancione, che morisse subito dopo essere nata o che magari, una volta partorita, non riuscisse a respirare per più di quattro giorni. Gianluca, poi, continuerà a informarsi: scoprirà che per ogni nato con ernia diaframmatica che sopravvive fino a quattro anni la qualità della vita è nella maggior parte dei casi “scarsa”; che, di casi come questi, sette su dieci nascono vivi; che sette su cento nascono morti; e che tre bambini su dieci, con questa patologia, vengono regolarmente abortiti. E poi c’erano gli amici, che avevano detto a Sabrina di non fare cazzate, di non essere egoista, di non ragionare solo per sé stessa, di pensare alla bambina, di pensare a quanto avrebbe sofferto e di pensare che sarebbe stato davvero ‘irresponsabile’ decidere di mettere al mondo una figlia così. “Sabrina”, le dissero quando lei era ancora in tempo per interrompere la gravidanza, “ma che senso ha? Che stai facendo? Sei sicura che non stai facendo una stronzata?”. Lei però era sicura; e le bastarono poco più di trenta secondi per decidere, insieme con Gianluca, che cosa fare.
Cosa facciamo? Tu che dici? Io la voglio. La voglio anch’io. Ti piace Agnese. Mi piace molto. Ti amo, andiamo avanti. Io a questa bambina ci tengo davvero.
Così spiegarono agli amici che avrebbero portato avanti la gravidanza; dissero che avrebbero voluto tenerla, Agnese; che non sarebbero stati certo loro a non dare l’opportunità di nascere alla loro figlia; e che se ci fosse stata anche una sola piccola possibilità di vita avrebbero voluto dargliela, alla loro bimba. Gianluca e Sabrina avevano semplicemente bisogno che tutto filasse via per il meglio, che la gravidanza arrivasse al termine senza problemi, che i polmoncini si sviluppassero nel migliore dei modi e che il feto continuasse a nutrirsi e a ossigenarsi fino al nono mese. Due settimane dopo, però, Sabrina era già in ospedale: era la trentaseiesima settimana, le contrazioni erano cominciate da diversi giorni, l’infermiera spiegò che la situazione era ancora più a rischio di quella che potevano immaginare e che la bambina, una volta nata, sarebbe stata rapidamente sedata e quindi trasferita nel reparto di terapia intensiva neonatatale dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma; lo stesso ospedale dove Sabrina era arrivata da poche ore e dove l’infermiera, come da prassi, avrebbe accompagnato il papà proprio nel reparto dove, appena nata, sarebbe stata trasportata la piccola Agnese. Gianluca ricorda il corridoio con i lettini, gli ultrasuoni, i ginecologi vestiti di bianco, tutti gli elettrodi, le incubatrici, le ventilazioni meccaniche e gli orari di visita scritti con un pennarello nero sul retro della porta di ingresso. Pochi giorni dopo, Agnese sarebbe arrivata qui: sarebbe nata alle dieci e quaranta minuti del 21 novembre; sarebbe nata con un parto cesareo alla trentanovesima settimana, con un corpicino di circa tre chili e trecento grammi, con una pressione venosa molto alta, con i battiti del cuore fuori controllo e – circondata da un’equipe di quattordici medici – appena partorita, l’ostetrica la prese, le infilò tre tubi dentro la gola e senza darle neppure il tempo di piangere la portò nel reparto di terapia intensiva. Agnese non stava bene, però: quarantotto ore dopo i medici per preacauzione chiesero se papà e mamma fossero credenti e se, prima che fosse troppo tardi, volessero battezzare la bimba. Loro dissero di sì.
Passati tre giorni, i dottori decisero quindi di operarla d’urgenza. Quella notte, Gianluca rimase fuori dall’ospedale, passeggiò su e giù per un’ora e mezza lungo il ponte Sublicio; pensò alle parole della moglie, pensò che quella bimba la voleva, che la voleva amare, che la voleva a ogni costo, che la voleva curare e pensò che non stava facendo affatto una stronzata; pensò solo che lui voleva dare alla bimba l’unica possibilità che aveva. L’intervento, però, a quel punto era qualcosa in più che decisivo: si trattava di un’incisione nella parete muscolare dell’addome; si trattava di chiudere la parete dopo aver riordinato le “viscere” I medici, poi, avrebbero dovuto aspettare per un paio di giorni. “E’ come se il bambino, dopo aver cominciato ad allenarsi, dopo essersi improvvisamente stancato, chiedesse un sostegno esterno per respirare un po’ da solo”, spiegò un infermiere a Gianluca – il quale sapeva perfettamente che in quelle ore Agnese rischiava di morire. L’intervento si concluse alle ventitré e cinquanta minuti del tre dicembre: le condizioni di Agnese erano ancora mediocri, la pressione del ventricolo destro era molto alta, i tubicini le sarebbero stati tolti solo poche ore dopo e l’alimentazione sarebbe stata sospesa solo dopo tre giorni. Gli esami ecocardiaci, però, erano in netto miglioramento, la bimba iniziava lentamente a respirare da sola, rimase ancora qualche giorno in ospedale, trascorse, con qualche difficoltà i primi due mesi di vita, cominciò a crescere piuttosto velocemente, poi cominciò a camminare, iniziò a dire prima papà e poi mamma, uscì dall’ospedale, arrivò a Trevignano; e oggi è una bambina bellissima, ha due anni, i suoi genitori hanno fondato un’associazione che ogni anno salva decine di bambini che non dovevano nascere (si chiama Fabed), la sua storia è diventata un caso di studio in tutto il mondo, e lei respira con un po’ di difficoltà, tossisce spesso e quando qualcuno chiede a Sabrina e a Gianluca la piccola che problemi ha, loro dicono che c’è un polmone che funziona e un altro invece non tanto; che a volte Agnese piange, che a volte tossisce, e che oggi sorride, urla, mangia, respira, ha dei lunghissimi capelli biondi e che quella bambina che non doveva crescere e che sarebbe stato opportuno non far nascere, l’anno prossimo si iscriverà al primo anno di asilo.
Claudio Cerasa
23/03/08
Questa è la tua canzone Marinella/ che sei volata in cielo su una stella/ e come tutte le più belle cose/ vivesti solo un giorno come le rose
Fabrizio De André, la canzone di Marinella
Fabrizio De André, la canzone di Marinella
Alle dieci e mezza lei alzò il telefono e lo chiamò piangendo. Era maggio, era una giornata molto bella, lui era ad Alessandria, lavorava al Giro d’Italia, faceva previsioni meteorologiche e aveva appena visto in Brianza, a Lissone, a ventisei chilometri da Milano, lo scatto sui pedali di Alessandro Petacchi e la magnifica volata vinta poche ore prima contro Erik Zabel e Paolo Bettini. Quel giorno, Gianluca era pronto per la diretta dell’ultima tappa – quella che passava da Alessandria e che arrivava fino a La Thuile, in Val d’Aosta – e la diretta, come ogni giorno, era prevista per le dodici in punto: lui controllò la carta meteorologica, verificò quello che gli esperti chiamano “configurazione barica”, sentì vibrare il cellulare, infilò la mano in tasca e dopo tre squilli rispose al telefono. Sabrina, sua moglie, era al terzo mese di gravidanza ed era rimasta sdraiata sul lettino del ginecologo per quasi venticinque minuti; fu un’ecografia molto lunga, quella: lei aveva visto sullo schermo molti puntini neri e molti puntini bianchi ma ricorda che non aveva capito granché. “E dunque?”, chiese Sabrina al dottore mentre si riallacciava gli ultimi due bottoni della camicetta. “Mi dica, cosa si vede?”. Il medico, appoggiando la montatura degli occhiali sopra una cartellina a righe e strappando via un foglio di carta dal blocchetto del ricettario, le spiegò che c’era qualcosa che non andava e le fissò un nuovo appuntamento dopo quattro settimane. Sabrina alzò il telefono, chiamò Gianluca, cominciò a piangere e gli disse che c’erano dei problemi: il dottore non riusciva a capire che cosa aveva la bambina e quella macchietta, che sembrava un piccolo neo al centro dello stomaco, effettivamente era “molto deformata”. La situazione, continuò il medico, sembrava preoccupante: quella macchia che si dilatava poteva essere uno stomaco cresciuto in maniera abnorme; poteva essere il sintomo, non ancora ben definito, di una malattia cardiovascolare; poteva essere una non grave fibrosi cistica; poteva essere, inoltre, un più grave problema di origine genetico. Solo che così, da quello schermetto verde grande la metà di una pagina di giornale, ancora non si capiva di cosa diavolo si trattasse. Le dissero che servivano altri esami, altre ecografie e che naturalmente servivano altre visite. La diagnosi, come si dice in questi casi, sembrava seria ma non preoccupante.
La prima visita fu a maggio, la seconda a giugno, la terza a luglio, la quarta ad agosto. Come primo esame, Sabrina si sottopose a una villocentesi: il dottore infilò un ago fino a toccarle la placenta e prelevò quei villi coliari grazie ai quali sarebbe stato possibile avere tutte le informazioni genetiche necessarie e verificare, dunque, se quelli che fino a quel momento erano stati identificati come generici “problemi genetici” avessero anche un nome preciso. Così, i medici verificarono se quella macchia fosse una cistite, cercarono di scoprire se quella fosse una patologia legata alla milza, ma i risultati erano ancora un po’ troppo contraddittori. Poi, ad agosto, quando Sabrina e Gianluca avevano appena festeggiato il loro quindicesimo anno di matrimonio e quando avevano ormai capito che molto era cambiato rispetto a quelle ecografie che “evidenziavano un quadro più o meno sotto controllo”, tutti e due, intuirono che le cose erano un po’ più serie di ciò che credevano. E questo, proprio nel momento in cui, a pochi giorni da settembre, al termine dell’ennesima ecografia, il medico disse che non si capiva dove si trovava il cuore. “Non si capisce? Mi scusi, dottore, ma che significa?”, chiese Gianluca, molto spaventato. “Semplicemente non si capisce”, rispose il medico accarezzando la pancia della mamma con la sondina ecografica e aggiungendo, poi, quelle parole che lì sul momento – Sabrina e suo marito – proprio non potevano capire: perché, signora, il diaframma non funziona, si tratta di un’ernia, la situazione è molto preoccupante, mi spiace, lo so, è dura.
Sentì dire “ernia”, e Gianluca – pensando a quella che si andava a poco a poco a configurare nella sua mente come una semplice ernietta – in realtà si sentì quasi sollevato. Il quadro clinico della bambina era però terribile: perché in quelle condizioni – al quarto mese, con una malformazione multipla congenita, con il cuore all’altezza della spalla, lo stomaco dentro il torace, la milza al posto di un bronco, un polmone piccolo come una noce e un altro, quello di sinistra, che proprio non funzionava – la situazione sembrava impossibile da recuperare. E in effetti era proprio così.
Tornati a casa, arrivati al chilometro trentacinque della Cassia, nel cuore silenzioso di Trevignano Romano, Gianluca fece quello che non andrebbe mai fatto quando un medico appunta su un foglietto bianco del ricettario quelle che, a livello clinico, sono le “esatte terminologie della diagnosi” e quelle che per te, invece, non possono essere altro che semplici scarabocchi di una diagnosi, lì per lì, incomprensibile. Così, Gianluca scese dalla macchina, baciò Sabrina, salutò la figlia di tre anni, Livia, salì una rampa di scale, aprì la porta dello studio, accese il portatile della Apple, si collegò alla rete e dopo aver estratto dalla tasca dei jeans un appunto con la definizione esatta della malattia che il medico aveva utilizzato pochi minuti prima in clinica, lui cliccò su Google, battè sulla la tastiera la parola “ernia”, aggiunse un “+”, fece seguire “diaframmatica” e poi lesse i primi risultati: “Malattia congenita”, “Sindrome malformativa multipla”; “Mancata o incompleta formazione del diaframma”; “Fuoriuscita di viscere dall’addome”; “Protrusione del contenuto addominale nel torace”; “Grave difetto del diaframma”; “Passaggio di una porzione dello stomaco dall’addome al torace”; “Migrazione di uno o più visceri addominali nella cavità toracica”, e molto altro. A quel punto, Gianluca chiamò un suo amico, gli raccontò la storia e gli chiese cosa significasse, davvero, “difetto del diaframma”; gli chiese cosa significasse “fuoriuscita di viscere dall’addome”; gli chiese quanto tempo la moglie avrebbe dovuto passare in ospedale; quante possibilità di sopravvivenza avrebbe avuto quella gravidanza; se quella bambina sarebbe potuta crescere normalmente; se sarebbe stata in grado di respirare da sola, di parlare come gli altri, di sorridere con gli amici e se, crescendo, avrebbe avuto la forza di frequentare tranquillamente anche l’asilo a pochi metri da casa. Quel giorno, però, lui scoprì solo che sua figlia aveva il cinquanta per cento di possibilità; Gianluca sapeva che di fronte a un problema così grande, con una bambina che aveva lo stomaco spostato nel torace, la milza al posto del polmone e il cuore più vicino alla spalla che allo sterno, sarebbe potuto accadere di tutto: che la bambina morisse soffocata nel pancione, che morisse subito dopo essere nata o che magari, una volta partorita, non riuscisse a respirare per più di quattro giorni. Gianluca, poi, continuerà a informarsi: scoprirà che per ogni nato con ernia diaframmatica che sopravvive fino a quattro anni la qualità della vita è nella maggior parte dei casi “scarsa”; che, di casi come questi, sette su dieci nascono vivi; che sette su cento nascono morti; e che tre bambini su dieci, con questa patologia, vengono regolarmente abortiti. E poi c’erano gli amici, che avevano detto a Sabrina di non fare cazzate, di non essere egoista, di non ragionare solo per sé stessa, di pensare alla bambina, di pensare a quanto avrebbe sofferto e di pensare che sarebbe stato davvero ‘irresponsabile’ decidere di mettere al mondo una figlia così. “Sabrina”, le dissero quando lei era ancora in tempo per interrompere la gravidanza, “ma che senso ha? Che stai facendo? Sei sicura che non stai facendo una stronzata?”. Lei però era sicura; e le bastarono poco più di trenta secondi per decidere, insieme con Gianluca, che cosa fare.
Cosa facciamo? Tu che dici? Io la voglio. La voglio anch’io. Ti piace Agnese. Mi piace molto. Ti amo, andiamo avanti. Io a questa bambina ci tengo davvero.
Così spiegarono agli amici che avrebbero portato avanti la gravidanza; dissero che avrebbero voluto tenerla, Agnese; che non sarebbero stati certo loro a non dare l’opportunità di nascere alla loro figlia; e che se ci fosse stata anche una sola piccola possibilità di vita avrebbero voluto dargliela, alla loro bimba. Gianluca e Sabrina avevano semplicemente bisogno che tutto filasse via per il meglio, che la gravidanza arrivasse al termine senza problemi, che i polmoncini si sviluppassero nel migliore dei modi e che il feto continuasse a nutrirsi e a ossigenarsi fino al nono mese. Due settimane dopo, però, Sabrina era già in ospedale: era la trentaseiesima settimana, le contrazioni erano cominciate da diversi giorni, l’infermiera spiegò che la situazione era ancora più a rischio di quella che potevano immaginare e che la bambina, una volta nata, sarebbe stata rapidamente sedata e quindi trasferita nel reparto di terapia intensiva neonatatale dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma; lo stesso ospedale dove Sabrina era arrivata da poche ore e dove l’infermiera, come da prassi, avrebbe accompagnato il papà proprio nel reparto dove, appena nata, sarebbe stata trasportata la piccola Agnese. Gianluca ricorda il corridoio con i lettini, gli ultrasuoni, i ginecologi vestiti di bianco, tutti gli elettrodi, le incubatrici, le ventilazioni meccaniche e gli orari di visita scritti con un pennarello nero sul retro della porta di ingresso. Pochi giorni dopo, Agnese sarebbe arrivata qui: sarebbe nata alle dieci e quaranta minuti del 21 novembre; sarebbe nata con un parto cesareo alla trentanovesima settimana, con un corpicino di circa tre chili e trecento grammi, con una pressione venosa molto alta, con i battiti del cuore fuori controllo e – circondata da un’equipe di quattordici medici – appena partorita, l’ostetrica la prese, le infilò tre tubi dentro la gola e senza darle neppure il tempo di piangere la portò nel reparto di terapia intensiva. Agnese non stava bene, però: quarantotto ore dopo i medici per preacauzione chiesero se papà e mamma fossero credenti e se, prima che fosse troppo tardi, volessero battezzare la bimba. Loro dissero di sì.
Passati tre giorni, i dottori decisero quindi di operarla d’urgenza. Quella notte, Gianluca rimase fuori dall’ospedale, passeggiò su e giù per un’ora e mezza lungo il ponte Sublicio; pensò alle parole della moglie, pensò che quella bimba la voleva, che la voleva amare, che la voleva a ogni costo, che la voleva curare e pensò che non stava facendo affatto una stronzata; pensò solo che lui voleva dare alla bimba l’unica possibilità che aveva. L’intervento, però, a quel punto era qualcosa in più che decisivo: si trattava di un’incisione nella parete muscolare dell’addome; si trattava di chiudere la parete dopo aver riordinato le “viscere” I medici, poi, avrebbero dovuto aspettare per un paio di giorni. “E’ come se il bambino, dopo aver cominciato ad allenarsi, dopo essersi improvvisamente stancato, chiedesse un sostegno esterno per respirare un po’ da solo”, spiegò un infermiere a Gianluca – il quale sapeva perfettamente che in quelle ore Agnese rischiava di morire. L’intervento si concluse alle ventitré e cinquanta minuti del tre dicembre: le condizioni di Agnese erano ancora mediocri, la pressione del ventricolo destro era molto alta, i tubicini le sarebbero stati tolti solo poche ore dopo e l’alimentazione sarebbe stata sospesa solo dopo tre giorni. Gli esami ecocardiaci, però, erano in netto miglioramento, la bimba iniziava lentamente a respirare da sola, rimase ancora qualche giorno in ospedale, trascorse, con qualche difficoltà i primi due mesi di vita, cominciò a crescere piuttosto velocemente, poi cominciò a camminare, iniziò a dire prima papà e poi mamma, uscì dall’ospedale, arrivò a Trevignano; e oggi è una bambina bellissima, ha due anni, i suoi genitori hanno fondato un’associazione che ogni anno salva decine di bambini che non dovevano nascere (si chiama Fabed), la sua storia è diventata un caso di studio in tutto il mondo, e lei respira con un po’ di difficoltà, tossisce spesso e quando qualcuno chiede a Sabrina e a Gianluca la piccola che problemi ha, loro dicono che c’è un polmone che funziona e un altro invece non tanto; che a volte Agnese piange, che a volte tossisce, e che oggi sorride, urla, mangia, respira, ha dei lunghissimi capelli biondi e che quella bambina che non doveva crescere e che sarebbe stato opportuno non far nascere, l’anno prossimo si iscriverà al primo anno di asilo.
Claudio Cerasa
23/03/08
martedì 18 marzo 2008
lunedì 17 marzo 2008
Il Foglio. "Le mamme di Rignano al Senato, l’ultimo ammanettamento elettorale del Pd"
Roma. Le nuove stagioni democratiche, che si apparentano con i tintinnii spensierati delle manette dei valori, passano anche dall’asilo di Rignano Flaminio e candidano al Senato una simpatica mamma con i capelli rossi – già attrice, già autrice, già scrittrice, già coordinatrice dell’associazione dei genitori di Rignano – che porterà in Parlamento, leggiamo le sue parole, la “tutela dei minori”; che testimonierà alle Camere la “paura di prendere posizioni su temi così spinosi come la pedofilia”; e che avrebbe già presentato tre proposte di legge per “inasprire le pene contro i pedofili”. Niente di strano: il tema della lotta dura contro la pedofilia scorre già da tempo nel cuore della campagna elettorale del Pd; al loft, e non solo lì, non è stato così difficile comprendere, da subito, che razza di formidabile strumento di consenso elettorale sia questa tolleranza zero a prezzi stracciati; e in fondo, non era stato lo stesso W, rispondendo a Fini che aveva già risposto di suo a Calderoli, a confessare di non poter proprio escludere, in futuro, la castrazione chimica per il pedofilo? Ma certo che sì! Il problema, però, è questo: è inesatto, davvero inappropriato, dire che le Rignano in Parlamento “rappresentano il diritto delle famiglie di mettere il proprio figlio in una scuola senza temere che finisca in un giro di pedofili”. Perché la nuova stagione che mette in lista, in settima posizione, il simbolo forte di tutte quelle prime pagine, tutte quelle didascalie e tutti quei titoli caduti a peso morto – per mesi e mesi – sulle vite di uomini e donne accusati, e arrestati, per i peggiori reati di questo mondo (e indagati ancora oggi senza che sia stato trovato uno straccio di prova certa); se c’è una nuova stagione, che non solo giustifica ma candida con allegria le espressioni pop di quella scorretta inclinazione alla caccia alle streghe; ecco, tutto questo mette un po’ paura; e non può che spaventarti quel tipo di idea politica che non resiste alla seduzione dei tesoretti elettorali fatti di manette e di colpevoli inchiostri preventivi.
Parliamo di Rignano; parliamo di Garlasco; parliamo di Perugia; parliamo di Gravina; parliamo di tutte quelle terribili culture del sospetto senza presunzioni di innocenza, così asfissianti, oggi, da colpire anche chi in passato aveva chiuso un occhio sì e l’altro pure. “C’è la sgradevole sensazione di trovarsi alle prese con una magistratura che indispettita dai suoi errori non riesce a correggere sé stessa”, aveva, infine, scritto due giorni fa Giuseppe D’Avanzo su Repubblica. Qui, ovviamente, non c’è nulla contro la candidata dell’Idv, Roberta Lerici: quella mamma, molto gentile, che per mesi, a pochi chilometri da Rignano, accoglieva nella sua casa tantissimi giornalisti e che già nel maggio del 2007 accompagnava in conferenza stampa a Montecitorio l’onorevole Stefano Pedica (oggi candidato numero uno in Senato, nel Lazio, per l’Idv). Il punto è che, come scritto ieri da Filippo Facci, sarebbe stato magnifico se con la candidata mamma ci fosse stata anche la candidata maestra di Rignano; sarebbe stato splendido se la corrente, oggi un po’ fiacchina, della nuova stagione, insieme con quella mamma – che giustamente combatte perché si comprenda cosa è successo a Rignano (che è cosa però diversa dal dirti che, senza dubbio, “quei bambini sono stati deflorati”) – avesse proposto anche, non so, il candidato in quota “maestra di Rignano” o il candidato in quota “ingiustamente arrestato”, come il Patrick Lumumba di Perugia. In fondo, parlando con questo giornale, era stato proprio W a dire che non si sarebbe mai fatto accecare dalle cacce alle streghe; ed era stato proprio lui, parlando degli anni Novanta, a dire che “quella (del giustizialismo) è una stagione che non andrebbe ripetuta, nel senso dell’uso di strumenti giudiziari secondo me sproporzionati rispetto alla situazione data”. Ecco: è davvero un peccato, dunque che, qui a sinistra, tra tutti i Calearo, le Madia e gli ammanettamenti dei valori, non ci sia stato nessuno che abbia deciso di metterti in lista quelle semplici presunzioni di innocenza che evidentemente, anche se tanto evidente non lo è, andrebbero garantite a tutti quegli elettori che non hanno la fortuna di potersi permettere l’assistenza dei grandi principi del foro.
Claudio Cerasa
14/03/08
Parliamo di Rignano; parliamo di Garlasco; parliamo di Perugia; parliamo di Gravina; parliamo di tutte quelle terribili culture del sospetto senza presunzioni di innocenza, così asfissianti, oggi, da colpire anche chi in passato aveva chiuso un occhio sì e l’altro pure. “C’è la sgradevole sensazione di trovarsi alle prese con una magistratura che indispettita dai suoi errori non riesce a correggere sé stessa”, aveva, infine, scritto due giorni fa Giuseppe D’Avanzo su Repubblica. Qui, ovviamente, non c’è nulla contro la candidata dell’Idv, Roberta Lerici: quella mamma, molto gentile, che per mesi, a pochi chilometri da Rignano, accoglieva nella sua casa tantissimi giornalisti e che già nel maggio del 2007 accompagnava in conferenza stampa a Montecitorio l’onorevole Stefano Pedica (oggi candidato numero uno in Senato, nel Lazio, per l’Idv). Il punto è che, come scritto ieri da Filippo Facci, sarebbe stato magnifico se con la candidata mamma ci fosse stata anche la candidata maestra di Rignano; sarebbe stato splendido se la corrente, oggi un po’ fiacchina, della nuova stagione, insieme con quella mamma – che giustamente combatte perché si comprenda cosa è successo a Rignano (che è cosa però diversa dal dirti che, senza dubbio, “quei bambini sono stati deflorati”) – avesse proposto anche, non so, il candidato in quota “maestra di Rignano” o il candidato in quota “ingiustamente arrestato”, come il Patrick Lumumba di Perugia. In fondo, parlando con questo giornale, era stato proprio W a dire che non si sarebbe mai fatto accecare dalle cacce alle streghe; ed era stato proprio lui, parlando degli anni Novanta, a dire che “quella (del giustizialismo) è una stagione che non andrebbe ripetuta, nel senso dell’uso di strumenti giudiziari secondo me sproporzionati rispetto alla situazione data”. Ecco: è davvero un peccato, dunque che, qui a sinistra, tra tutti i Calearo, le Madia e gli ammanettamenti dei valori, non ci sia stato nessuno che abbia deciso di metterti in lista quelle semplici presunzioni di innocenza che evidentemente, anche se tanto evidente non lo è, andrebbero garantite a tutti quegli elettori che non hanno la fortuna di potersi permettere l’assistenza dei grandi principi del foro.
Claudio Cerasa
14/03/08
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Il Foglio. "A Genova cronisti di Repubblica smontano la montatura"
Genova. Il senso di una notizia, che a Napoli aveva già indossato la maschera trasparente di un blitz che non era mai stato un blitz, è arrivato ieri mattina, con un po’ di sanissima malignità, sulle prime pagine di tutti quei giornali che avevano già pronto il colpo in canna per raccontare una verità impossibile ma da dimostrare a ogni costo. La testimonianza cronistica della tentata manipolazione di una storia drammatica come quella di Genova – dove lunedì scorso si è suicidato un ginecologo che aveva appena scoperto di essere indagato per violazione dell’articolo 19 della legge 194 – è tutta qui; è tutta nelle semplici e terribili parole di una delle donne che avrebbe interrotto la propria gravidanza nello studio privato del ginecologo genovese; una donna, già protagonista di un reality show, che avrebbe abortito perché un bambino “in questo momento potrebbe compromettere la mia vita professionale”; che avrebbe scelto la via clandestina all’aborto perché non voleva “che trapelasse la notizia”; che, dice lei, oggi non prova “nessun dolore, nessun rimorso”; perché in fondo, spiega, la scelta non può che essere quella quando si è “un personaggio pubblico”, quando si ha “il terrore che si sappia in giro” e quando, poi, tu proprio “non credevi di commettere un reato”.
Ma anche in questo caso, così come già successo al Policlinico Federico II di Napoli, non era poi così difficile mettere insieme il filo logico della storia genovese e capire quanto sia grottesco dire cose così; dire che questa non è altro che la “dimostrazione ulteriore del fatto che non si può giocare con le parole e con le leggi, salvo lasciare le persone sole ed esposte a pericoli” (Barbara Pollastrini); che questa è la prova provata che “campagne politiche di criminalizzazione dell’aborto hanno fatto una vittima” (Bobo Craxi); che il ginecologo, che si chiamava Ernesto Rossi, è una “vittima dell’ipocrisia di chi ha relegato gli aborti ai margini della sanità e di chi affronta il tema solo per porre ulteriori ostacoli alle donne”.
Perché a Genova è andata in un altro modo: è andata che un ginecologo dell’ospedale Gaslini (dove le interruzioni di gravidanza sono consentite a partire dal novantesimo giorno) era indagato e intercettato già da tempo, dai primi di ottobre, in seguito a una segnalazione anonima ricevuta dai Nas; è andata che, secondo l’accusa, il ginecologo avrebbe permesso a molte donne di eseguire aborti clandestini nei suoi studi privati; è andata che decine di signore avrebbero pagato fino a cinquecento euro per aspirare via il proprio bimbo; è andata che il ginecologo è stato interrogato, che il suo studio è stato perquisito e che Rossi abbia deciso, poi, di buttarsi giù dall’undicesimo piano del suo studio di Rapallo. Tutto questo, mentre scopri che oggi a Genova c’è un sindaco molto preoccupato di come, negli ospedali che fanno interruzioni di gravidanza, sia impressionante la “lunghezza delle liste di attesa”; un sindaco che però – con lo stesso riflesso che ha chi, per risolvere gli affollamenti nelle carceri, propone semplicemente di farne di più, di carceri – sembra non comprendere fino in fondo che forse il problema è proprio quello: non che non ci sia più spazio per fare aborti, ma che in un’indifferenza assordante le liste sono diventate un po’ troppo lunghe.
C’è di più però: perché nel tentativo decisamente goffo di dimostrare che quelle donne, tra Genova e Rapallo, avrebbero abortito in nome di un’autoderminazione che sarebbe consentita pienamente, in certi casi, solo da una semplice espulsione clandestina, ecco, in tutto questo, le parole delle testimoni, purtroppo volontarie, della storiaccia di Genova sono la metafora perfetta non solo di una legge tradita nel suo cuore, ma anche di una certa freddezza e impassibilità morale nell’interruzione di quella che in fondo non era altro che una vita e che, per legge, va punita con una multa di cinquantuno euro. “Non mi sentivo di affrontare tutta la trafila che impone la legge, né di andare in ospedale”; “Dover rispondere a delle domande, spiegare il perché si fa una cosa così è un’umiliazione”; “Avevo paura che qualcuno cercasse di convincermi a non fare una cosa che io dovevo assolutamente fare”; “Avevo un fidanzato”, “ero rimasta incinta. Sono stati giorni duri, tormentati. Non è stato facile, ma alla fine ho deciso che quel figlio non lo volevo, e mi sono rivolta al ginecologo”; “Avrei dovuto sottopormi a una procedura umiliante, fatta di test, domande, colloqui”; “Volevo fare presto, come desiderano tutte le donne nelle mie condizioni, per cercare poi di dimenticare e andare avanti”.
Domande, test e colloqui. Come se un consultorio avesse davvero, nei fatti, la possibilità di dire no a una donna che vuole interrompere la sua gravidanza. “Balle – dice il ginecologo modenese Matteo Crotti, di cui pubblichiamo nell’inserto I uno studio interessante sugli aborti in Italia – Sono balle perché qui il ‘no’ non esiste. Perché una donna può venire in consultorio e abortire per la quarta volta in due anni; anche per il motivo più futile che possa esistere al mondo. E non esiste nessuna circostanza in cui un dottore dica ‘signora, mi spiace, lei non può interrompere la gravidanza’, visto che in quel caso, pensateci, il dottore si vedrebbe rivoltare contro tutti gli abortisti e magari verrebbe pure denunciato. Perché in consultorio capitano anche cose di questo tipo; e capita, come è successo a me la scorsa settimana, che una donna possa arrivare dal ginecologo e dirgli così: dottore, guardi, non posso andare avanti; devo abortire subito. Con questa nausea non ce la posso fare. Perché, vede, la prossima settimana dovrei andare in vacanza alle Seychelles”.
Claudio Cerasa
14/03/08
Ma anche in questo caso, così come già successo al Policlinico Federico II di Napoli, non era poi così difficile mettere insieme il filo logico della storia genovese e capire quanto sia grottesco dire cose così; dire che questa non è altro che la “dimostrazione ulteriore del fatto che non si può giocare con le parole e con le leggi, salvo lasciare le persone sole ed esposte a pericoli” (Barbara Pollastrini); che questa è la prova provata che “campagne politiche di criminalizzazione dell’aborto hanno fatto una vittima” (Bobo Craxi); che il ginecologo, che si chiamava Ernesto Rossi, è una “vittima dell’ipocrisia di chi ha relegato gli aborti ai margini della sanità e di chi affronta il tema solo per porre ulteriori ostacoli alle donne”.
Perché a Genova è andata in un altro modo: è andata che un ginecologo dell’ospedale Gaslini (dove le interruzioni di gravidanza sono consentite a partire dal novantesimo giorno) era indagato e intercettato già da tempo, dai primi di ottobre, in seguito a una segnalazione anonima ricevuta dai Nas; è andata che, secondo l’accusa, il ginecologo avrebbe permesso a molte donne di eseguire aborti clandestini nei suoi studi privati; è andata che decine di signore avrebbero pagato fino a cinquecento euro per aspirare via il proprio bimbo; è andata che il ginecologo è stato interrogato, che il suo studio è stato perquisito e che Rossi abbia deciso, poi, di buttarsi giù dall’undicesimo piano del suo studio di Rapallo. Tutto questo, mentre scopri che oggi a Genova c’è un sindaco molto preoccupato di come, negli ospedali che fanno interruzioni di gravidanza, sia impressionante la “lunghezza delle liste di attesa”; un sindaco che però – con lo stesso riflesso che ha chi, per risolvere gli affollamenti nelle carceri, propone semplicemente di farne di più, di carceri – sembra non comprendere fino in fondo che forse il problema è proprio quello: non che non ci sia più spazio per fare aborti, ma che in un’indifferenza assordante le liste sono diventate un po’ troppo lunghe.
C’è di più però: perché nel tentativo decisamente goffo di dimostrare che quelle donne, tra Genova e Rapallo, avrebbero abortito in nome di un’autoderminazione che sarebbe consentita pienamente, in certi casi, solo da una semplice espulsione clandestina, ecco, in tutto questo, le parole delle testimoni, purtroppo volontarie, della storiaccia di Genova sono la metafora perfetta non solo di una legge tradita nel suo cuore, ma anche di una certa freddezza e impassibilità morale nell’interruzione di quella che in fondo non era altro che una vita e che, per legge, va punita con una multa di cinquantuno euro. “Non mi sentivo di affrontare tutta la trafila che impone la legge, né di andare in ospedale”; “Dover rispondere a delle domande, spiegare il perché si fa una cosa così è un’umiliazione”; “Avevo paura che qualcuno cercasse di convincermi a non fare una cosa che io dovevo assolutamente fare”; “Avevo un fidanzato”, “ero rimasta incinta. Sono stati giorni duri, tormentati. Non è stato facile, ma alla fine ho deciso che quel figlio non lo volevo, e mi sono rivolta al ginecologo”; “Avrei dovuto sottopormi a una procedura umiliante, fatta di test, domande, colloqui”; “Volevo fare presto, come desiderano tutte le donne nelle mie condizioni, per cercare poi di dimenticare e andare avanti”.
Domande, test e colloqui. Come se un consultorio avesse davvero, nei fatti, la possibilità di dire no a una donna che vuole interrompere la sua gravidanza. “Balle – dice il ginecologo modenese Matteo Crotti, di cui pubblichiamo nell’inserto I uno studio interessante sugli aborti in Italia – Sono balle perché qui il ‘no’ non esiste. Perché una donna può venire in consultorio e abortire per la quarta volta in due anni; anche per il motivo più futile che possa esistere al mondo. E non esiste nessuna circostanza in cui un dottore dica ‘signora, mi spiace, lei non può interrompere la gravidanza’, visto che in quel caso, pensateci, il dottore si vedrebbe rivoltare contro tutti gli abortisti e magari verrebbe pure denunciato. Perché in consultorio capitano anche cose di questo tipo; e capita, come è successo a me la scorsa settimana, che una donna possa arrivare dal ginecologo e dirgli così: dottore, guardi, non posso andare avanti; devo abortire subito. Con questa nausea non ce la posso fare. Perché, vede, la prossima settimana dovrei andare in vacanza alle Seychelles”.
Claudio Cerasa
14/03/08
giovedì 13 marzo 2008
Il Foglio. "Clandestinità triste. Il caso di Genova (ancora indecidibile) ci ridice solo l’orrore dell’aborto"
Neppure quando si parla di storie terribili, come quella del ginecologo indagato per violazione della legge 194 (e suicida lunedì scorso a Rapallo), neppure in questi casi il giornalista collettivo riesce a controllare il suo istinto pavloviano di raccontare una notizia ricostruendola su pericolosissimi e insinceri castelli di sabbia. Non era difficile, per politici in fondo esperti come Bobo Craxi, capire in tempo quanto possa essere poco sensato dire che oggi “campagne politiche di criminalizzazione dell’aborto hanno fatto una vittima”; non era così complicato spiegare, subito e con chiarezza, che quella di Genova non è un’indagine nata oggi ma nell’ottobre 2007, prima di ogni idea di moratoria; e che la storia del ginecologo suicida (innocente fino a prova contraria) fa parte, purtroppo, di tutti quei capitoli che accrescono ogni giorno l’orrore nei confronti dell’aborto. Detto questo, chi in maniera un po’ goffa cerca di strumentalizzare anche casi come quello di Genova è davvero come se, a tutti i costi, cercasse di chiudere la bocca a quella battaglia limpida, trasparente e superpolitica ingaggiata in difesa di una strage moralmente indifferente. Dunque, mette i brividi dover ricordare anche oggi, a medici come Silvio Viale, che le soluzioni al veleno proposte per eliminare gli aborti clandestini – la Ru486 – sono le stesse che rischiano di far ricadere la donna nella solitudine dell’aborto fatto in casa, che camufferebbe la sua ritrovata clandestinità con la forma falsamente innocua di una piccola pillola bianca.
Claudio Cerasa
14/03/08
Claudio Cerasa
14/03/08
mercoledì 12 marzo 2008
Vada pure, Mancini
Capire che la Coppa Campioni non è la Coppa Italia dopo aver perso agli ottavi di finale prima col Valencia, poi col Villareal (Villa che?) e ora col Liverpool, che tra undici sdentati in campo aveva solo un fenomeno e dieci formidabili esecutori, credo sia una ragione sufficiente per capire, per il Mancio, che quando tutte le squadre partono alla pari in una competizione (senza penalizzazioni, senza squalificati, senza frizzi e senza cazzi) l’ex capitano della Samp si dimostra quello che è: un ottimo, ex, centrocampista fantasista di ripartenza offensiva. In campionato si vincerà, si spera, anche quest'anno: anche se Siniša Mihajlović dovesse arrivare in panchina. Ma il dubbio che Mancini sia una specie di Hector Cuper – che per fortuna è già occupato a Parma – solo con la riga in mezzo in più; il rischio che il Mancio sia uno che capisca di pallone solo qualcosina in più del mai sufficientemente contemplato Orrico, il rischio, per uno che fa giocare a centrocampo quella pippa di Viera, che mette a sinistra quella pippa di Burdisso, che fa entrare un terzo attaccante solo a venti minuti dalla fine, che si ritrova davanti due torri spaventose come Cruz e Ibra e che in tutta la stagione avrà fatto fare sì e no due o tre cross a partita, il rischio che sia a/ rincoglionito. b/ incompetente. c/vittima di un complotto organizzato nello spogliatoio da Roy Hodgson, francamente, un po' c'è. E poi: ho già detto che da quando Roy Hodgson è arrivato all’Inter la cosa più carina che è capitata a San Siro è stata non vedere Georgatos il giorno del centenario? Ma lo sa Roy Hodgson che dire "io sono l'addeto ai rapporti internazionali dell'Inter" sarebbe come se Veltroni avesse nominato De Mita "Adetto ai rapporti democratici del Partito democratico?". Detto questo: Mancini vuole andare via? Magnifico, vada pure. Tanto – qui la lista completa di Camillo – uno tra Bianchi, Castellini, Lippi, Lucescu, Simoni, Suarez, Tardelli, Verdelli e Zaccheroni, mi volete dire che non sia ancora sotto contratto dell’Inter. Ma va là.
Il Foglio. "Mi scusi signora, suo figlio era ancora vivo"
Tre ecografie, una diagnosi, un processo e una sentenza in arrivo. Storia di una mamma convintasi ad abortire su consiglio medico
Tre ecografie, pochi minuti di “revisione”, una diagnosi già formulata, un processo in corso e una sentenza che arriverà in queste ore, sei anni dopo quella notte passata in ospedale. “E’ sicuro?”, chiese Alessandra mentre lui la guardava con la sondina stretta nel pugno della mano destra e mentre il sangue continuava a gocciolare sul lettino, lungo il rotolo bianco di carta usa e getta, proprio nella stanza dove il dottore aveva appena spiegato cosa significava, esattamente, quella dannata ecografia. Cosa significava, esattamente, quella dannata metroraggia. Alessandra era arrivata in ospedale pochi minuti dopo le ventitré, con una “grave perdita ematica”, con il sangue che ancora le scendeva tra le gambe e con quel pancino di sei settimane che lei aspettava da due anni e mezzo e che ventiquattrore dopo sarebbe diventato un ammasso di “cellule senza vita”. “Signora – le aveva detto il medico di guardia tracciando un cerchio con il dito sull’immagine dello schermo ecografico – mi ascolti: con perdite di questa natura non ci sono altre possibilità. Questa, purtroppo, è una metrorragia; questo, purtroppo, è un aborto già in atto”.
L’appuntamento era stato fissato per il giorno dopo: Alessandra uscì dall’ospedale, tornò a casa in macchina, si distese – disperata – sul letto matrimoniale abbracciando il marito e piangendo tutta la notte. Le avevano spiegato che sarebbe stato un intervento molto semplice, che “revisione” significava “raschiamento”, che il “raschiamento” era routine e che la routine voleva dire cinque, dieci minuti al massimo sdraiata sul lettino, con un’anestesia locale, una dilatazione del canale cervicale e una curette che avrebbe eliminato, molto rapidamente, tutti i “residui placentari”; tutto il “materiale non strutturato”, tutto il “tessuto fetale”, tutto l’“abbozzo placentare”. Così fu: Alessandra arrivò in ospedale in tarda mattinata, si sentì ripetere la diagnosi già fatta il giorno precedente, le dissero, ancora una volta, che quello era un “aborto spontaneo”; lei firmò l’anamnesi, si sdraiò sul letto e il medico le dilatò il collo uterino con un cono di Hegar numero otto, da quattro millimetri, trattenendola in ospedale per tutto il pomeriggio e lasciando trascorrere ventiquattrore; prima di scoprire se quella che il ginecologo continuava a chiamare “revisione” era andata bene oppure no. Il ginecologo avrebbe detto di sì; lei, però, avrebbe scoperto perché in realtà quello non era altro che un “no”.
Fu tutto molto veloce, in quei giorni: Alessandra era ritornata in ospedale già la mattina dopo, era entrata nella stessa saletta dove era arrivata due sere prima, aveva parlato con lo stesso medico di guardia che le aveva cerchiato con il dito un embrioncino “già morto” e quindi, una volta completata l’ultima ecografia, il dottore aveva individuato la “presenza di alcuni residui in utero” e aveva deciso di prescriverle un farmaco; che di lì a pochi giorni le avrebbe stimolato una serie di contrazioni, permettendo così un’“espulsione completa”. Il farmaco si chiamava Methergin e, come si legge all’interno della confezione sulle due pagine di foglietto illustrativo, il farmaco viene prescritto “quando è necessario arrestare una emorragia uterina con una rapida ed energica contrazione dell’utero”. Semplice, ma con il passare dei giorni Alessandra proprio non capiva. Perché, si chiedeva, sono ancora così debole? Perché il Methergin non fa effetto? Perché le perdite aumentano invece che diminuire? Perché tra ecografie, revisioni, raschiamenti nessuno ha pensato a farmi una sola analisi del sangue? Perché, poi, tutta quella fretta? A poco a poco, Alessandra capirà. Capirà due giorni dopo, quando un’infermiera dell’ospedale di Novara le lascerà un messaggio in segreteria e quando la stessa infermiera la inviterà ad andare subito in ospedale per ritirare l’esame istologico appena effettuato sull’embrione; le avevano detto che quello era un “coagulo”, le avevano detto che quella gravidanza non sarebbe mai andata avanti, le avevano detto che il suo bimbo era ormai morto e le avevano spiegato poi, che, a parte qualche residuo, l’intervento era riuscito perfettamente. Non era così.
“Signora – le dissero in ospedale pochi minuti prima che un’infermiera le prelevasse due siringhe di sangue – c’è stato un errore: l’embrione non è stato espulso, non c’era materiale embrionale in quel che abbiamo asportato, l’aborto è ancora in atto e l’intervento va dunque ripetuto”. Niente di strano, le spiegarono: non capita spesso, ma comunque capita, ogni tanto, che un raschiamento finisca con un piccolo errore. Un caso ogni dieci, dicono le statistiche; e lei era uno dei dieci.
Tre giorni dopo il primo intervento, Alessandra aveva fissato due appuntamenti: la mattina sarebbe andata dal suo ginecologo di Milano, il pomeriggio, invece, sarebbe tornata in ospedale a Novara per la seconda “revisione”. A Milano, però, Alessandra ricevette una telefonata dall’infermiera che il giorno prima le aveva prelevato il sangue; l’infermiera la chiamerà verso ora di pranzo, le dirà beta hcg 22.199 e le spiegherà che qui, l’ormone della gravidanza, era davvero molto, ma molto alto: “Mio Dio, signora: ma lei è ancora incinta!”. Una volta a Milano, dopo aver finito la conversazione con l’infermiera di Novara, Alessandra arriva dal suo ginecologo, chiede di poter fare un’ecografia, osserva con la coda dell’occhio lo schermetto ecografico e scopre che quello che pochi giorni prima era un “grumo di sangue senza vita”, in realtà era ancora un embrione vivo; quasi di sette settimane. Le avevano detto “aborto in corso”, le avevano spiegato che quella era una “metroraggia” e che con tutti quei dolori addominali, quelle perdite e quello stato di “grave urgenza” per il bambino “non c’era più nulla da fare”. Invece non era così; invece l’embrione era vivo, era scappato via da un raschiamento, aveva sopportato le contrazioni causate dai farmaci, aveva resistito a settancinque gocce al giorno di Methergin e qualche ora dopo, alle 16.50 del 26 gennaio, avrebbe cominciato a far sentire, al ginecologo, il battito del cuore. Solo per pochi giorni però: perché due settimane dopo la prima diagnosi, due settimane dopo il primo intervento, due settimane dopo le prime tre ecografie e dopo le settantacinque gocce al giorno, ecco: tutte quelle perdite non si erano ancora bloccate; e proprio per questo, il sei febbraio, alle 18 e dieci minuti, Alessandra entrò nella sala operatoria dell’ospedale San Paolo di Milano, si sdraiò ancora una volta sul lettino del ginecologo, osservò la sondina passare, piano piano, sul pancione e ascoltò le parole del dottore: “Signora, ha perso il bambino”. L’ultimo raschiamento, il secondo in due settimane, durò poco meno di diciotto minuti. Dopo di che, Alessandra decide di andare in tribunale; perché, diceva, il mio embrione non ha avuto il diritto di vivere; perché quella è stata una vita negata, quella è stata una diagnosi sbagliata, qualcuno mi ha costretto ad abortire e in quasi due mesi di gravidanza non c’è stato nessuno – nessun infermiere, nessun medico, nessun ostetrico, nessun ginecologo, nessun neonatologo – che mi aveva garantito semplicemente il diritto di non farlo.
“Io – spiega Alessandra – trovo sia terribile che una cosa così piccola e così indifesa non abbia, sostanzialmente, proprio alcun diritto. Ditemi: è possibile che un embrione possa essere eliminato al primo dubbio? E’ possibile che nessuno sanzioni chi ha fatto un errore del genere? E’ possibile che la vita dei figli sia difesa solo fuori e non dentro il pancione?”. Il Tribunale di Novara, tre anni fa, aveva ammesso che in effetti in quell’ospedale c’erano state due diagnosi sbagliate e un raschiamento non riuscito; aveva ammesso che qualcuno aveva prescritto dei farmaci che non andavano prescritti e che due ginecologi, per “superficialità, negligenza e imperizia”, avevano detto che nella pancia di Alessandra c’era un embrione morto che invece era vivo. Tutto vero, tutto accertato. Con un però: secondo il giudice, se non è riuscito, un raschiamento non è “causa sufficiente per provocare un aborto successivo”. Il fatto, dunque, “non sussiste”: perché, anche di fronte a diagnosi errate, anche di fronte a ecografie sbagliate, se il feto sopravvive a tutto questo non ci può essere un “nesso causale tra l’intervento effettuato e la morte di un embrione”. Così, tecnicamente, se un embrione abortito sopravvive e poco dopo muore la colpa non è dell’interruzione di gravidanza. Semplice. Alessandra, però, ha fatto qualcosa in più: ha provato a far ricorso in appello alla sentenza di primo grado, ha trasformato gli ultimi suoi tre anni di vita in una piccola battaglia legale, ha chiesto a un giudice di difendere, letteralmente, il diritto di non abortire e ha cercato di dimostrare in tribunale perché, e in che senso, la vita dei figli va sempre difesa anche quando quella vita la si vede solo su uno schermetto verde. Ieri, il Tribunale di Torino ha depositato la sentenza. Niente di nuovo, il “nesso non c’è”.
Dice Alessandra: “Riassumo. Questa è la storia di un bimbo fortemente desiderato, anche se inaspettatamente concepito; un bambino dichiarato morto da due medici, sottoposto, prima, a raschiamento meccanico e poi all’azione di un farmaco che doveva strapparlo via dall’utero; un bambino che nonostante tutto era sopravvissuto a ogni aggressione, prima di morire dopo pochi giorni di inutili speranze. Ecco, io credo che nessuno abbia protetto davvero né me né il mio bambino. E se oggi, tecnicamente, un medico può liberamente sbagliare e sottoporre a raschiamento una donna che desidera un figlio, senza rischiare assolutamente nulla, credo sia molto pericoloso. Perché, cito testualmente la vecchia sentenza, ‘l’omissione di una corretta diagnosi, dovuta a negligenza e imperizia, non ha causato l’evento contestato’; e dunque, se l’embrione sopravvive anche per poche ore a un aborto sbagliato, formalmente quel tentativo di aborto non viene considerato un vero aborto. ‘Non c’è nesso causale’. Che sarebbe un po’ come dire che se ti puntano una pistola al petto, premono il grilletto, sparano un proiettile, il proiettile ti colpisce il cuore di striscio e tu non muori sul colpo, ma muori qualche giorno dopo, per la legge è come se non ti avessero mai sparato. Perché, semplicemente, almeno nel mio caso, questo non è dimostrabile”. Prosegue Alessandra: “La verità, perdonate l’espressione, è che non gliene frega niente a nessuno del mio embrione. Perché quello che io consideravo un figlio gli altri lo consideravano come un grumo di cellule privo, per di più, di ogni tutela legale; e privo, tra l’altro, del diritto di essere curato adeguatamente come qualunque essere umano. E’ evidente che un embrione che muore non fa notizia, ma qualcuno può negare che non mi sia stato concesso il diritto di non abortire? Qualcuno può negare che le leggi, oggi, proteggono molto bene una donna che intende abortire mentre non tutelano affatto il diritto di una donna che desidera proseguire una gravidanza? E’ possibile che un embrione di poche settimane non sia, davvero, qualcosa per cui lottare con tutte le forze che si hanno?”. Ieri pomeriggio la Corte d’Appello di Torino ha così confermato la sentenza di primo grado, spiegando nuovamente ad Alessandra che certo, è tutto vero: ci sono stati gli errori, la negligenza e la superficialità; il “nesso” però non c’è. I medici, in casi come questi, non hanno alcuna responsabilità. Conclude Alessandra: “Capitano spesso storie come le mie. Capita spesso che una donna abortisca per una diagnosi sbagliata e che i giudici poi ti spieghino che quelle macchie, quelle perdite ematiche, erano causate da un probabile difetto genico che avrebbe comunque portato a un’interruzione di gravidanza. Ecco, come giustificazione quel ‘probabile’ non può proprio convincermi: perché, per quanto mi riguarda, sono rimasta incinta altre volte; perché ho avuto altre gravidanze a rischio; perché, per due volte, ho perso sangue mentre ero incinta; e perché, nel giro di pochi mesi, quelle che i medici chiamano ‘difetti genici’ oggi si chiamano una Giorgia e l’altra Vittoria”.
Claudio Cerasa
12/03/08
Tre ecografie, pochi minuti di “revisione”, una diagnosi già formulata, un processo in corso e una sentenza che arriverà in queste ore, sei anni dopo quella notte passata in ospedale. “E’ sicuro?”, chiese Alessandra mentre lui la guardava con la sondina stretta nel pugno della mano destra e mentre il sangue continuava a gocciolare sul lettino, lungo il rotolo bianco di carta usa e getta, proprio nella stanza dove il dottore aveva appena spiegato cosa significava, esattamente, quella dannata ecografia. Cosa significava, esattamente, quella dannata metroraggia. Alessandra era arrivata in ospedale pochi minuti dopo le ventitré, con una “grave perdita ematica”, con il sangue che ancora le scendeva tra le gambe e con quel pancino di sei settimane che lei aspettava da due anni e mezzo e che ventiquattrore dopo sarebbe diventato un ammasso di “cellule senza vita”. “Signora – le aveva detto il medico di guardia tracciando un cerchio con il dito sull’immagine dello schermo ecografico – mi ascolti: con perdite di questa natura non ci sono altre possibilità. Questa, purtroppo, è una metrorragia; questo, purtroppo, è un aborto già in atto”.
L’appuntamento era stato fissato per il giorno dopo: Alessandra uscì dall’ospedale, tornò a casa in macchina, si distese – disperata – sul letto matrimoniale abbracciando il marito e piangendo tutta la notte. Le avevano spiegato che sarebbe stato un intervento molto semplice, che “revisione” significava “raschiamento”, che il “raschiamento” era routine e che la routine voleva dire cinque, dieci minuti al massimo sdraiata sul lettino, con un’anestesia locale, una dilatazione del canale cervicale e una curette che avrebbe eliminato, molto rapidamente, tutti i “residui placentari”; tutto il “materiale non strutturato”, tutto il “tessuto fetale”, tutto l’“abbozzo placentare”. Così fu: Alessandra arrivò in ospedale in tarda mattinata, si sentì ripetere la diagnosi già fatta il giorno precedente, le dissero, ancora una volta, che quello era un “aborto spontaneo”; lei firmò l’anamnesi, si sdraiò sul letto e il medico le dilatò il collo uterino con un cono di Hegar numero otto, da quattro millimetri, trattenendola in ospedale per tutto il pomeriggio e lasciando trascorrere ventiquattrore; prima di scoprire se quella che il ginecologo continuava a chiamare “revisione” era andata bene oppure no. Il ginecologo avrebbe detto di sì; lei, però, avrebbe scoperto perché in realtà quello non era altro che un “no”.
Fu tutto molto veloce, in quei giorni: Alessandra era ritornata in ospedale già la mattina dopo, era entrata nella stessa saletta dove era arrivata due sere prima, aveva parlato con lo stesso medico di guardia che le aveva cerchiato con il dito un embrioncino “già morto” e quindi, una volta completata l’ultima ecografia, il dottore aveva individuato la “presenza di alcuni residui in utero” e aveva deciso di prescriverle un farmaco; che di lì a pochi giorni le avrebbe stimolato una serie di contrazioni, permettendo così un’“espulsione completa”. Il farmaco si chiamava Methergin e, come si legge all’interno della confezione sulle due pagine di foglietto illustrativo, il farmaco viene prescritto “quando è necessario arrestare una emorragia uterina con una rapida ed energica contrazione dell’utero”. Semplice, ma con il passare dei giorni Alessandra proprio non capiva. Perché, si chiedeva, sono ancora così debole? Perché il Methergin non fa effetto? Perché le perdite aumentano invece che diminuire? Perché tra ecografie, revisioni, raschiamenti nessuno ha pensato a farmi una sola analisi del sangue? Perché, poi, tutta quella fretta? A poco a poco, Alessandra capirà. Capirà due giorni dopo, quando un’infermiera dell’ospedale di Novara le lascerà un messaggio in segreteria e quando la stessa infermiera la inviterà ad andare subito in ospedale per ritirare l’esame istologico appena effettuato sull’embrione; le avevano detto che quello era un “coagulo”, le avevano detto che quella gravidanza non sarebbe mai andata avanti, le avevano detto che il suo bimbo era ormai morto e le avevano spiegato poi, che, a parte qualche residuo, l’intervento era riuscito perfettamente. Non era così.
“Signora – le dissero in ospedale pochi minuti prima che un’infermiera le prelevasse due siringhe di sangue – c’è stato un errore: l’embrione non è stato espulso, non c’era materiale embrionale in quel che abbiamo asportato, l’aborto è ancora in atto e l’intervento va dunque ripetuto”. Niente di strano, le spiegarono: non capita spesso, ma comunque capita, ogni tanto, che un raschiamento finisca con un piccolo errore. Un caso ogni dieci, dicono le statistiche; e lei era uno dei dieci.
Tre giorni dopo il primo intervento, Alessandra aveva fissato due appuntamenti: la mattina sarebbe andata dal suo ginecologo di Milano, il pomeriggio, invece, sarebbe tornata in ospedale a Novara per la seconda “revisione”. A Milano, però, Alessandra ricevette una telefonata dall’infermiera che il giorno prima le aveva prelevato il sangue; l’infermiera la chiamerà verso ora di pranzo, le dirà beta hcg 22.199 e le spiegherà che qui, l’ormone della gravidanza, era davvero molto, ma molto alto: “Mio Dio, signora: ma lei è ancora incinta!”. Una volta a Milano, dopo aver finito la conversazione con l’infermiera di Novara, Alessandra arriva dal suo ginecologo, chiede di poter fare un’ecografia, osserva con la coda dell’occhio lo schermetto ecografico e scopre che quello che pochi giorni prima era un “grumo di sangue senza vita”, in realtà era ancora un embrione vivo; quasi di sette settimane. Le avevano detto “aborto in corso”, le avevano spiegato che quella era una “metroraggia” e che con tutti quei dolori addominali, quelle perdite e quello stato di “grave urgenza” per il bambino “non c’era più nulla da fare”. Invece non era così; invece l’embrione era vivo, era scappato via da un raschiamento, aveva sopportato le contrazioni causate dai farmaci, aveva resistito a settancinque gocce al giorno di Methergin e qualche ora dopo, alle 16.50 del 26 gennaio, avrebbe cominciato a far sentire, al ginecologo, il battito del cuore. Solo per pochi giorni però: perché due settimane dopo la prima diagnosi, due settimane dopo il primo intervento, due settimane dopo le prime tre ecografie e dopo le settantacinque gocce al giorno, ecco: tutte quelle perdite non si erano ancora bloccate; e proprio per questo, il sei febbraio, alle 18 e dieci minuti, Alessandra entrò nella sala operatoria dell’ospedale San Paolo di Milano, si sdraiò ancora una volta sul lettino del ginecologo, osservò la sondina passare, piano piano, sul pancione e ascoltò le parole del dottore: “Signora, ha perso il bambino”. L’ultimo raschiamento, il secondo in due settimane, durò poco meno di diciotto minuti. Dopo di che, Alessandra decide di andare in tribunale; perché, diceva, il mio embrione non ha avuto il diritto di vivere; perché quella è stata una vita negata, quella è stata una diagnosi sbagliata, qualcuno mi ha costretto ad abortire e in quasi due mesi di gravidanza non c’è stato nessuno – nessun infermiere, nessun medico, nessun ostetrico, nessun ginecologo, nessun neonatologo – che mi aveva garantito semplicemente il diritto di non farlo.
“Io – spiega Alessandra – trovo sia terribile che una cosa così piccola e così indifesa non abbia, sostanzialmente, proprio alcun diritto. Ditemi: è possibile che un embrione possa essere eliminato al primo dubbio? E’ possibile che nessuno sanzioni chi ha fatto un errore del genere? E’ possibile che la vita dei figli sia difesa solo fuori e non dentro il pancione?”. Il Tribunale di Novara, tre anni fa, aveva ammesso che in effetti in quell’ospedale c’erano state due diagnosi sbagliate e un raschiamento non riuscito; aveva ammesso che qualcuno aveva prescritto dei farmaci che non andavano prescritti e che due ginecologi, per “superficialità, negligenza e imperizia”, avevano detto che nella pancia di Alessandra c’era un embrione morto che invece era vivo. Tutto vero, tutto accertato. Con un però: secondo il giudice, se non è riuscito, un raschiamento non è “causa sufficiente per provocare un aborto successivo”. Il fatto, dunque, “non sussiste”: perché, anche di fronte a diagnosi errate, anche di fronte a ecografie sbagliate, se il feto sopravvive a tutto questo non ci può essere un “nesso causale tra l’intervento effettuato e la morte di un embrione”. Così, tecnicamente, se un embrione abortito sopravvive e poco dopo muore la colpa non è dell’interruzione di gravidanza. Semplice. Alessandra, però, ha fatto qualcosa in più: ha provato a far ricorso in appello alla sentenza di primo grado, ha trasformato gli ultimi suoi tre anni di vita in una piccola battaglia legale, ha chiesto a un giudice di difendere, letteralmente, il diritto di non abortire e ha cercato di dimostrare in tribunale perché, e in che senso, la vita dei figli va sempre difesa anche quando quella vita la si vede solo su uno schermetto verde. Ieri, il Tribunale di Torino ha depositato la sentenza. Niente di nuovo, il “nesso non c’è”.
Dice Alessandra: “Riassumo. Questa è la storia di un bimbo fortemente desiderato, anche se inaspettatamente concepito; un bambino dichiarato morto da due medici, sottoposto, prima, a raschiamento meccanico e poi all’azione di un farmaco che doveva strapparlo via dall’utero; un bambino che nonostante tutto era sopravvissuto a ogni aggressione, prima di morire dopo pochi giorni di inutili speranze. Ecco, io credo che nessuno abbia protetto davvero né me né il mio bambino. E se oggi, tecnicamente, un medico può liberamente sbagliare e sottoporre a raschiamento una donna che desidera un figlio, senza rischiare assolutamente nulla, credo sia molto pericoloso. Perché, cito testualmente la vecchia sentenza, ‘l’omissione di una corretta diagnosi, dovuta a negligenza e imperizia, non ha causato l’evento contestato’; e dunque, se l’embrione sopravvive anche per poche ore a un aborto sbagliato, formalmente quel tentativo di aborto non viene considerato un vero aborto. ‘Non c’è nesso causale’. Che sarebbe un po’ come dire che se ti puntano una pistola al petto, premono il grilletto, sparano un proiettile, il proiettile ti colpisce il cuore di striscio e tu non muori sul colpo, ma muori qualche giorno dopo, per la legge è come se non ti avessero mai sparato. Perché, semplicemente, almeno nel mio caso, questo non è dimostrabile”. Prosegue Alessandra: “La verità, perdonate l’espressione, è che non gliene frega niente a nessuno del mio embrione. Perché quello che io consideravo un figlio gli altri lo consideravano come un grumo di cellule privo, per di più, di ogni tutela legale; e privo, tra l’altro, del diritto di essere curato adeguatamente come qualunque essere umano. E’ evidente che un embrione che muore non fa notizia, ma qualcuno può negare che non mi sia stato concesso il diritto di non abortire? Qualcuno può negare che le leggi, oggi, proteggono molto bene una donna che intende abortire mentre non tutelano affatto il diritto di una donna che desidera proseguire una gravidanza? E’ possibile che un embrione di poche settimane non sia, davvero, qualcosa per cui lottare con tutte le forze che si hanno?”. Ieri pomeriggio la Corte d’Appello di Torino ha così confermato la sentenza di primo grado, spiegando nuovamente ad Alessandra che certo, è tutto vero: ci sono stati gli errori, la negligenza e la superficialità; il “nesso” però non c’è. I medici, in casi come questi, non hanno alcuna responsabilità. Conclude Alessandra: “Capitano spesso storie come le mie. Capita spesso che una donna abortisca per una diagnosi sbagliata e che i giudici poi ti spieghino che quelle macchie, quelle perdite ematiche, erano causate da un probabile difetto genico che avrebbe comunque portato a un’interruzione di gravidanza. Ecco, come giustificazione quel ‘probabile’ non può proprio convincermi: perché, per quanto mi riguarda, sono rimasta incinta altre volte; perché ho avuto altre gravidanze a rischio; perché, per due volte, ho perso sangue mentre ero incinta; e perché, nel giro di pochi mesi, quelle che i medici chiamano ‘difetti genici’ oggi si chiamano una Giorgia e l’altra Vittoria”.
Claudio Cerasa
12/03/08
Il Foglio. "Maggioritari, ma senza farsi male"
Nelle oasi locali l’Unione e la Cdl esistono ancora, e governano pure
Maggioritari a Roma, certo, ma senza esagerare altrove. Non c’è scandalo e non c’è imbarazzo se il partito che ha dipinto la sua bella stagione con i colori della vocazione maggioritaria, a un mese esatto dalle elezioni, ha deciso che con questa storia del “nuovo conio” e con questa storia del “correre da soli” forse è meglio non esagerare troppo. Basta dare uno sguardo giù dal loft del Pd per capire come molti candidati con mandato veltroniano oggi si riservino con fermezza il diritto di contraddirsi un poco. Prendiamo la Sicilia, dove Anna Finocchiaro ha deciso di competere per la presidenza della regione non da sola, ma alleata con quella che fu l’antica Unione prodiana. Prendiamo poi Roma, dove Rutelli ha iniziato la sua non impossibile corsa per il Campidoglio nella stessa corsia elettorale di Diliberto, Giordano, Salvi e Pecoraro Scanio. Che sia una clamorosa contraddizione? Sì e no. Perché un conto sono le campagne e le traballanti vocazioni elettorali di carattere nazionale. Un conto sono invece quelle formule a elezione diretta abbracciate nelle province, nelle regioni e nei comuni di tutto il paese. Laddove una legge dei primi anni Novanta garantisce un bagno plebiscitario per sindaci e governatori d’Italia e permette a schieramenti politici di ogni colore di trasformare, via via, i partiti in solide liste elettorali a prova di bombe e a prova di rifiuti rimasti quindici anni in strada.
Certo, si dirà che in questi casi il Pd ha dato ragione a Pierluigi Bersani. Negli stessi giorni in cui Veltroni giurava che il suo Pd avrebbe resistito alla tentazione di mettersi in tasca ramoscelli d’Ulivo; e negli stessi giorni in cui W medesimo spiegava come si doveva “rompere unilateralmente con la sinistra, per non essere condizionati dalla litigiosità di coalizioni eterogenee come quelle di Romano Prodi”, Bersani spiegava perché nel corpaccione ancora debole dei democratici italiani gli strappi con il prodismo semplicemente non servono. Perché lontani da Roma è possibile e a volte necessario mettere insieme continuità e discontinuità. Oltretutto è quel che fa la Cdl vecchio stile sopravvissuta in alcune regioni (vedi Sicilia e Friuli, dove si vota ad aprile). Che sia o meno un’amnesia politicistica la vocazione maggioritaria del Pd/Pdl resta confinata in un perimetro di là dal quale, più che la Cdl o l’Ulivo, domina la giusta legge dell’opportunismo.
Claudio Cerasa
12/03/08
Maggioritari a Roma, certo, ma senza esagerare altrove. Non c’è scandalo e non c’è imbarazzo se il partito che ha dipinto la sua bella stagione con i colori della vocazione maggioritaria, a un mese esatto dalle elezioni, ha deciso che con questa storia del “nuovo conio” e con questa storia del “correre da soli” forse è meglio non esagerare troppo. Basta dare uno sguardo giù dal loft del Pd per capire come molti candidati con mandato veltroniano oggi si riservino con fermezza il diritto di contraddirsi un poco. Prendiamo la Sicilia, dove Anna Finocchiaro ha deciso di competere per la presidenza della regione non da sola, ma alleata con quella che fu l’antica Unione prodiana. Prendiamo poi Roma, dove Rutelli ha iniziato la sua non impossibile corsa per il Campidoglio nella stessa corsia elettorale di Diliberto, Giordano, Salvi e Pecoraro Scanio. Che sia una clamorosa contraddizione? Sì e no. Perché un conto sono le campagne e le traballanti vocazioni elettorali di carattere nazionale. Un conto sono invece quelle formule a elezione diretta abbracciate nelle province, nelle regioni e nei comuni di tutto il paese. Laddove una legge dei primi anni Novanta garantisce un bagno plebiscitario per sindaci e governatori d’Italia e permette a schieramenti politici di ogni colore di trasformare, via via, i partiti in solide liste elettorali a prova di bombe e a prova di rifiuti rimasti quindici anni in strada.
Certo, si dirà che in questi casi il Pd ha dato ragione a Pierluigi Bersani. Negli stessi giorni in cui Veltroni giurava che il suo Pd avrebbe resistito alla tentazione di mettersi in tasca ramoscelli d’Ulivo; e negli stessi giorni in cui W medesimo spiegava come si doveva “rompere unilateralmente con la sinistra, per non essere condizionati dalla litigiosità di coalizioni eterogenee come quelle di Romano Prodi”, Bersani spiegava perché nel corpaccione ancora debole dei democratici italiani gli strappi con il prodismo semplicemente non servono. Perché lontani da Roma è possibile e a volte necessario mettere insieme continuità e discontinuità. Oltretutto è quel che fa la Cdl vecchio stile sopravvissuta in alcune regioni (vedi Sicilia e Friuli, dove si vota ad aprile). Che sia o meno un’amnesia politicistica la vocazione maggioritaria del Pd/Pdl resta confinata in un perimetro di là dal quale, più che la Cdl o l’Ulivo, domina la giusta legge dell’opportunismo.
Claudio Cerasa
12/03/08
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venerdì 7 marzo 2008
Il Foglio. "Ventuno settimane e mezzo"
Diagnosi, certificati e i 4 mila casi l’anno. L’aborto terapeutico raccontato da due medici che lo fanno
Sono due professori molto famosi, insegnano all’università romana della Sapienza, dirigono, insieme, il dipartimento di Ostetricia del Policlinico Umberto Primo e quando dicono due virgola sette, quando dicono diagnosi, certificato, ovulo, dilatazione, inserzione, contrazione ed espulsione, vogliono dire semplicemente quello: “a. t.”, aborto terapeutico. Bisogna parlare con loro, salire al primo piano di via del Policlinico 155, superare un corridoio non molto lungo, entrare in una stanzetta di venti metri quadri e sedersi di fronte a due poltroncine nere per capire, a poco a poco, cosa sia quel “due virgola sette”, cosa siano quelle 3.888 interruzioni di gravidanza, non volontarie, fatte dopo la dodicesima settimana e che cosa ci sia, clinicamente, culturalmente e giuridicamente, dietro a quello che fino a due anni fa, prima di una storica sentenza della Corte di Cassazione, oltre che “aborto terapeutico” si chiamava ancora, letteralmente, “aborto eugenetico”. Parlano di “vitalità”, parlano di rianimazione, parlano dell’uso poco controllato della diagnosi prenatale, parlano del senso, non solo clinico, del “fallimento riproduttivo” e parlano con l’esperienza degli “abortion doctor”, come li chiamerebbe Garson Romalis (il famoso ginecologo di Vancouver, recentemente minacciato di morte, che appena un mese fa aveva spiegato sul National Post in che senso “he is honoured”, onorato, di essere un medico abortista: “I can take a woman, in the biggest trouble she has ever experienced in her life, and by performing a five-minute operation, in comfort and dignity, I can give her back her life”; “posso salvare una donna nel momento più difficile della sua vita e con un intervento di cinque minuti posso rimetterla in vita”). Rispetto alla stragrande maggioranza delle interruzioni di gravidanza, quelle effettuate dopo il novantesimo giorno, previste dall’articolo sei della legge 194, sono una piccola frazione, sono il due virgola sette per cento di quelle totali, sono meno di quattromila all’anno (circa dieci al giorno) e la maggior parte di queste, il 2 per cento, vengono registrate tra la tredicesima e la ventesima settimana; un numero, dunque, ben inferiore rispetto alle 144 mila interruzioni di gravidanza fatte ogni anno in Italia; ma per quanto questo sia un numero piccolo, i casi di aborti più discussi sono proprio questi; sono casi come quello, recente, della signora napoletana che ha abortito un bimbo con sindrome di klinefelter; e sono casi, meno recenti, come quello del bimbo abortito vivo a Firenze, all’ospedale Careggi; casi rari, ma molto significativi. Anche perché, a cavallo tra la ventunesima e la ventiduesima settimana, il feto non è più quello che i ginecologi chiamano “materiale non strutturato”, “tessuto fetale”, “grumo di sangue”, “abbozzo placentare”, e si capisce perché non è così semplice per un abortion doctor parlare dell’argomento, spiegare cosa significa essere un medico abortista e spiegare cosa significa interrompere una gravidanza con un feto “maturo”. Non è semplice, ma il professor Maurizi e il professor Bernardi – seppur con due pseudonimi – invece lo fanno; ne parlano a lungo; riconoscono che i problemi ci sono, eccome; riflettono su quali possono essere i dettagli più importanti per capire di cosa stiamo parlando; e, in un’ora buona di conversazione, provano a spiegarsi così.
“Ecco, appunto: di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di quei quattromila casi all’anno di interruzioni di gravidanza effettuate dopo il novantesimo giorno, quando l’interruzione perde completamente il suo carattere di volontarietà diretta e quando non può più essere la donna a dire ‘questa gravidanza io non voglio più portarla avanti’. Ora, il primo punto su cui si dovrebbe riflettere è questo. Cosa succede prima di un’interruzione? Cosa succede con la diagnosi prenatale? Cosa succede con l’amniocentesi? Io credo che a questo punto della gravidanza, tra la dodicesima e la ventiduesima settimana – probabilmente a causa di una strana forma mentis sbocciata all’interno della nostra cultura – è piuttosto evidente che la donna si senta ormai come investita dalla responsabilità sanitaria del proprio figlio. E’ come se una donna incinta ‘deve’ fare una serie di analisi. Dico ‘deve’ perché, anche se nessuno la obbliga, la ‘società’, perdonate la parola, sembra che stia lì a pressare la donna chiedendole scusa perché non hai ancora fatto quell’esame? Perché non hai ancora fatto quelle analisi? Perché non hai ancora fatto quell’accertamento? Certo, non va dimenticato che la diagnostica prenatale ha permesso a molti genitori di affrontare la gravidanza in maniera più consapevole; che ha dato, per altro, la possibilità alle coppie di avere tutto il tempo per pensare alle giuste cure per un possibile bambino malato; e che senza diagnosi prenatale le mamme un po’ più grandi della media non avrebbero forse neanche il coraggio di affrontarla, una gravidanza. Mi è un po’ difficile, però, negare che negli ultimi anni questo tipo di diagnostica sia stata percepita come una chance per aver garantita la possibilità, per non dire il dovere, di avere un figlio ‘sano’”. Il professor Maurizi continua il suo ragionamento. “Funziona così. Subito dopo una diagnosi, tu, medico, hai il dovere di comunicare alla paziente tutte le conseguenze che potrebbero essere legate a un determinato difetto genetico. A quel punto, devi essere certo che la paziente sia pronta a comprendere, e possibilmente ad accettare, quel tipo di difetto; che possa capire perché, molto spesso, il problema diagnosticato può essere curato dopo la nascita; e che sia chiaro, per lei, che se un figlio nasce con un problema, non è detto che questo sia irreparabilmente malato. Attenzione, però. Stiamo attenti quando medici e pazienti utilizzano la parola ‘sano’. Che cosa si intende per ‘sano’? Ecco: non dimentichiamo che circa il tre o il cinque per cento dei nati presenta una malformazione più o meno grave, e che il tre o il cinque per cento, in questi casi, significa che su 50 mila neonati all’anno 1.500 sono malformati. Questo si chiama rischio di specie; e per quanto esista lo spettro del ‘bambino malformato’ e per quanto sia una realtà, ormai, che 95 casi su 100 di interruzioni di gravidanza dopo il novantesimo giorno siano legati a ‘gravi’ malformazioni cromosomiche, non si può certo pensare che questo rischio di specie possa scendere a quota zero”. Per “gravi malformazioni cromosomiche”, spiega il professor Maurizi, si intendono quei casi di disordine cromosomico conosciuti con la definizione di “trisomie” e che, a seconda della gravità del disordine, sono più o meno vicini alla sindrome di down o a quella di Edwards. Il professor Bernardi non usa la parola eugenetica, ma – spiega – il mito del figlio perfetto è difficile dire che non esista. “Certo, siamo noi stessi ad accorgercene: non si tratta di volere un figlio bello, alto, biondo, con gli occhi azzurri. E’ semplicemente la pretesa, direi culturale, di un bimbo perfetto, di una diagnosi perfetta, di una gravidanza perfetta. Ecco – continua il professore – questa per i medici è una pressione non da poco: con che coraggio, oggi, un dottore troverà le parole giuste per dire a un genitore guardi, suo figlio potrebbe avere un disordine”. I due professori, a questo punto, affrontano un discorso molto delicato. Ricordate? Poche settimane fa, la signora Silvana – la donna napoletana che ha abortito alla ventunesima settimana un bambino con sindrome di klinefelter – rispondeva così al cronista che le chiedeva se fosse stata proprio la scoperta della patologia a farle decidere di abortire: “Non c’era altra scelta. Appena mi hanno comunicato che mio figlio sarebbe stato un malato per tutta la sua vita, non ho avuto dubbi. Ho deciso al momento, d’istinto: abortisco”. Può sembrare strano, ma superato il novantesimo giorno, tecnicamente una donna non può, e non deve, decidere nulla. L’interruzione, come detto, dopo novanta giorni non si chiama più volontaria, si chiama terapeutica; e, seppur d’istinto, il “non avere altra scelta” dovrebbe avere come soggetto un medico, non una mamma. “Il fatto – spiega il professor Maurizi – è che la parola terapeutica è una parola impropria, perché l’essenza ‘terapeutica’ dell’interruzione non ha, in realtà, nulla a che vedere con il feto, visto che quell’aggettivo si riferisce non al pancione ma alla salute della madre. Faccio un esempio. Mettiamo che arrivi una signora rimasta incinta, mettiamo che al suo feto sia diagnosticata una malattia, magari non così poco grave come quella del kilinefelter; e mettiamo che questa signora impazzisca e che, una volta venuta a conoscenza delle possibili problematiche, tenti il suicidio. Chiariamo: è giusto far di tutto per spiegare a una donna quali siano le cure, quali siano le soluzioni, quali siano le opportunità; ma il problema, formalmente, non è il klinefelter; il problema, per un medico, è il disagio psichico della donna. E’ per questo che qui si parla di salvaguardia della salute ‘psichica e fisica’ materna. Certo, va anche detto che oggi una gravidanza il cui prolungamento comporterebbe un rischio vero per la vita della madre è molto difficile trovarla; e in media, infatti, qui in ospedale ci troviamo di fronte a casi simili poche volte all’anno: parliamo di tre donne ogni cento. Ma – si scalda il professore – avendo sentito una carrellata di stronzate sull’argomento, è importante dire che dopo il novantesimo giorno tutto è nelle mani del medico, e la donna non può e non deve scegliere nulla. Semplicemente perché il medico non le dà alcuna scelta; e anche se questa signora arriva e comincia a sbattere la testa contro il muro e mi comincia a urlare voglio interrompere, voglio interrompere voglio interrompere, io medico non posso dire è la ‘tua’ scelta. Non so se il discorso è chiaro: per interrompere una gravidanza non è sufficiente avere una malformazione, deve essere a rischio la salute psichica della madre”. Il professore fa un’altra riflessione e prende spunto da un editoriale comparso due anni e mezzo fa sul British Medical Journal, “Why are the doctors so unhappy?”. “Guardi – prosegue Maurizi – io non sono credente: faccio un ragionamento, diciamo, da laico. Oggi la situazione è questa: la paziente non conosce più né la cultura della sofferenza né la cultura della morte. Può sembrare strano, ma in effetti è sempre più difficile spiegare ai pazienti che esiste la malattia, che esiste il decesso, che esiste il dolore e che, in fondo, l’accuratezza diagnostica non potrà mai essere del cento per cento”. L’accuratezza diagnostica è un tema che i due professori consigliano di non sottovalutare. Su questo aspetto, i dati più indicativi sono quelli che vengono raccolti ogni anno dalla Sieog, la società italiana di ecografia ostetrico ginecologica, che proprio in una delle ultime copie della sua rivista ufficiale riporta un passaggio significativo, spiegando come “l’eccessiva medicalizzazione della gravidanza abbia portato in assoluto a un eccessivo uso di esami di screening e di test diagnostici”; tanto che “non solo il 78,8 per cento delle donne italiane ha eseguito un numero maggiore di ecografie rispetto a quelle raccomandate dal protocollo nazionale ma il 29 per cento ne ha fatte più del doppio, sette”. E qui il commento a questi dati, da parte della Sieog, è simile a quello fatto dei due professori: “E’ difficile considerare tutto questo come un miglioramento della qualità dei livelli assistenziali rispetto al passato”.
Con un piccolo salto indietro, arrivando alla prima metà di febbraio, il professor Maurizi spiega un po’ meglio il significato di quel famoso testo sulla rianimazione dei grandi prematuri e sulla rianimazione, dunque, anche di quei feti abortiti vivi a cavallo tra la ventunesima e la ventiduesima settimana (“una crudele pratica insensata”, secondo il ministro della Salute Livia Turco; “un oggetto di un crudele accanimento terapeutico e di nuove sperimentazioni”, secondo l’editorialista di Repubblica, Miriam Mafai); un testo, quello, ripreso pochi giorni fa anche dal vicepresidente del Comitato Nazionale di bioetica, Lorenzo D’Avack; in un suo intervento, D’Avack aveva infatti spiegato così perché, se vitale, il feto deve essere sempre rianimato. “Non è eticamente accettabile porre dei paletti temporali per fissare a partire da quale età gestazionale si debba o meno procedere alla rianimazione del feto; e anche se è chiaro che è sempre opportuno cercare una linea condivisa con i genitori (…) nella eventualità che, in presenza di feto vitale fortemente prematuro, non si giunga ad una posizione condivisa, allora deve essere prevalente la decisione del medico a favore della rianimazione”. Quel testo il professor Maurizi lo ha firmato ed è stato, tra l’altro, anche l’unico ginecologo non obiettore ad averlo fatto. Anche per questo è piuttosto interessante seguire come il prof articoli il suo ragionamento, per capire in che senso, per un abortion doctor, un feto si dice vitale e per comprendere perché l’aborto è in realtà un’espressione che i dottori non usano più da tempo. “In effetti il termine ‘aborto’ è tecnicamente un termine improprio, se vogliamo ‘convenzionale’, dato che dopo i novanta giorni sarebbe più corretto parlare di interruzione di un processo evolutivo della gravidanza. Credo sia un nodo chiave, questo. Vi siete mai chiesti qual è il limite tra un’interruzione e un parto prematuro? Spiego meglio. Fino a qualche anno fa, l’aborto era solo una terminologia giuridica che si collegava a un limen, a un limite giuridico: prima dei 180 giorni di gravidanza si diceva aborto, dopo i 180 giorni si parlava di parto prematuro. Ecco, oggi, se uno studente all’esame mi dice che tra aborto e parto il limite è il 180° giorno, io lo prendo, lo boccio e poi gli dico che i giorni non c’entrano nulla, e che il limite da considerare è quello della sopravvivenza del feto. (Anche se c’è chi come l’International statistical classification of diseases, tuttora considera il peso come unità di misura della vita: 500 grammi è vita. 499 invece no)”. Il professore va nel dettaglio: “Facciamo un esempio: in nessuna casistica, in nessuna parte del mondo, un feto può vivere a ventuno settimane. In quel caso, la sopravvivenza è uguale a zero e qualsiasi cosa tu faccia rischia di diventare accanimento terapeutico. Se invece hai anche la minima possibilità che quel feto possa sopravvivere, tu devi comunque assisterlo. Punto. Per questo credo sia assurdo dire che un feto di ventuno settimane viva ugualmente. A ventuno settimane e zero giorni un feto non può sopravvivere, anche per motivi anatomici: tu puoi ventilarlo e puoi anche incubarlo, ma il polmone del feto è così immaturo che l’ossigeno non entra e l’anidride carbonica semplicemente non esce. Dunque, il feto che viene espulso, ma che in realtà viene partorito, è un feto già morto”. Il punto è in effetti molto delicato, perché i professori spiegano che al novantanove per cento, alla ventunesima settimana, il feto non viene abortito, viene “partorito”; e che nel momento stesso in cui viene partorito, il feto non avrebbe ancora un organismo pronto per sopportare un travaglio, restando, un istante dopo l’ultima contrazione, sostanzialmente senza ossigeno. E qui, c’è chi dice “strozzato da un’indotta morte naturale”; e c’è chi, come i professori, parla piuttosto di una “morte consequenziale”.
Dopo la ventiduesima settimana, però, il discorso si fa molto diverso. Anche se in linea di massima sarebbe più o meno vietato, a volte capita che una donna chieda un’interruzione di gravidanza ben oltre i 180 giorni di gestazione. Quando dunque il feto – come ricorda lo stesso celebre ginecologo abortista, Carlo Flamigni – è “cosciente, consapevole e capace di memoria”, e quando è “lontano dall’essere un ospite inerte e svolge un ruolo attivo nell’andamento della gravidanza, controllando vari aspetti del suo sviluppo e rispondendo a vari stimoli uditivi, visivi e tattili provenienti dall’ambiente esterno”. Quando, in altre parole, il feto è qualcosa in più che vitale. Non capita spesso, ma capita. “Succede quando una paziente salta qualche controllo, quando fa un’ecografia che aveva dimenticato di fare o quando, magari, scopre di avere una malattia non più ‘compatibile’ con la gravidanza. Funziona così. Se io interrompo una gestazione dopo la ventiduesima settimana non la interrompo per ‘uccidere il feto’ – spiega il professor Bernardi – Io, tecnicamente, sto solo interrompendo quella gravidanza per salvaguardare la madre: per questo devo predisporre tutto per la sopravvivenza di quel bambino. Spero sia chiaro che nell’interruzione di gravidanza il problema del feto è, e deve essere, disgiunto da quello della madre. Non si abortisce per far morire un feto. Si abortisce per far stare bene la mamma. E dunque, credo sia non solo logico ma anche scontato dire che se il feto viene abortito, ed è vivo, il feto deve vivere. Perché è un dovere rianimarlo ed è un dovere farlo anche se la mamma non vuole. Lo dice la legge, e chi non lo fa ovviamente commette un reato”.
Qualche volta però non funziona così; qualche volta, spiegano gli stessi professori, capita anche dell’altro; capita (ma non nel loro ospedale) che ci sia una diagnosi sbagliata; capita che il feto abortito nasca vivo e non venga fatto vivere, capita che un feto che non respira ancora ma che ha già il battito cardiaco non venga rianimato perché considerato “non vitale”. E questo capita perché l’interpretazione della parola “vitale”, in molti casi, rischia di essere molto arbitraria. Ecco, ma cosa succede esattamente in un’interruzione di gravidanza dopo la dodicesima settimana? Spiega Maurizi: “Dunque, nel caso in cui ci siano i ‘presupposti’ fisici o psichici perché una donna abortisca, la donna riceve il certificato che riscontra una malattia, ritorna nella struttura pubblica, ritira la relazione di diagnosi prenatale, chiede il ricovero nel reparto di patologia ostetrica, viene ricoverata in ospedale e nel giro di dodici o di ventiquattro ore comincia tutta la procedura”. Che funziona così. “Si decide se proseguire ‘l’espletamento’ per via vaginale o per via addominale con un taglio cesareo; il più delle volte, si opta per la prima procedura (i casi di cesario capitano circa una volta ogni cinque anni); poi si inseriscono nella vagina tre ovuli (cioè due o tre pillole, contenenti delle prostaglandine, grosse più o meno la metà di un’aspirina) e nel giro di ventiquattro ore, l’ottanta o il novanta per cento delle donne ha partorito il bimbo (il novantanove per cento lo espelle, invece, dopo settantadue ore). Il feto, dunque, viene poggiato all’interno di un contenitore di materiale biologico, viene trasporato, a mano, in anatomia patologica, e quindi, a seconda della patologia precedentemente riscontrata, viene fatto passare sotto i raggi di una risonanza magnetica o di una radiografia: per confermare così la diagnosi, o magari per smentirla. Fuori dall’Italia, in alcuni stati, c’è però anche un passaggio in più. (Un passaggio che fino a qualche anno fa era previsto anche dall’ordine dei ginecologi e degli ostetrici inglesi). In quei casi, prima di espellere il feto e dopo aver inserito nella vagina la prima capsula, l’ostetrico pizzica il corpo del bimbo con la punta di una siringa e inietta una soluzione chimica di cloruro di potassio; la stessa soluzione, solo in una dose leggermente inferiore, applicata nelle lethal injection per esempio in Florida, per esempio in Texas, per esempio in Cina: con lo stesso cloruro di potassio che, una volta in corpo, entra rapidamente in circolo e quando arriva al cuore, il cuore si ferma e non batte più.
Claudio Cerasa
7/3/08
Sono due professori molto famosi, insegnano all’università romana della Sapienza, dirigono, insieme, il dipartimento di Ostetricia del Policlinico Umberto Primo e quando dicono due virgola sette, quando dicono diagnosi, certificato, ovulo, dilatazione, inserzione, contrazione ed espulsione, vogliono dire semplicemente quello: “a. t.”, aborto terapeutico. Bisogna parlare con loro, salire al primo piano di via del Policlinico 155, superare un corridoio non molto lungo, entrare in una stanzetta di venti metri quadri e sedersi di fronte a due poltroncine nere per capire, a poco a poco, cosa sia quel “due virgola sette”, cosa siano quelle 3.888 interruzioni di gravidanza, non volontarie, fatte dopo la dodicesima settimana e che cosa ci sia, clinicamente, culturalmente e giuridicamente, dietro a quello che fino a due anni fa, prima di una storica sentenza della Corte di Cassazione, oltre che “aborto terapeutico” si chiamava ancora, letteralmente, “aborto eugenetico”. Parlano di “vitalità”, parlano di rianimazione, parlano dell’uso poco controllato della diagnosi prenatale, parlano del senso, non solo clinico, del “fallimento riproduttivo” e parlano con l’esperienza degli “abortion doctor”, come li chiamerebbe Garson Romalis (il famoso ginecologo di Vancouver, recentemente minacciato di morte, che appena un mese fa aveva spiegato sul National Post in che senso “he is honoured”, onorato, di essere un medico abortista: “I can take a woman, in the biggest trouble she has ever experienced in her life, and by performing a five-minute operation, in comfort and dignity, I can give her back her life”; “posso salvare una donna nel momento più difficile della sua vita e con un intervento di cinque minuti posso rimetterla in vita”). Rispetto alla stragrande maggioranza delle interruzioni di gravidanza, quelle effettuate dopo il novantesimo giorno, previste dall’articolo sei della legge 194, sono una piccola frazione, sono il due virgola sette per cento di quelle totali, sono meno di quattromila all’anno (circa dieci al giorno) e la maggior parte di queste, il 2 per cento, vengono registrate tra la tredicesima e la ventesima settimana; un numero, dunque, ben inferiore rispetto alle 144 mila interruzioni di gravidanza fatte ogni anno in Italia; ma per quanto questo sia un numero piccolo, i casi di aborti più discussi sono proprio questi; sono casi come quello, recente, della signora napoletana che ha abortito un bimbo con sindrome di klinefelter; e sono casi, meno recenti, come quello del bimbo abortito vivo a Firenze, all’ospedale Careggi; casi rari, ma molto significativi. Anche perché, a cavallo tra la ventunesima e la ventiduesima settimana, il feto non è più quello che i ginecologi chiamano “materiale non strutturato”, “tessuto fetale”, “grumo di sangue”, “abbozzo placentare”, e si capisce perché non è così semplice per un abortion doctor parlare dell’argomento, spiegare cosa significa essere un medico abortista e spiegare cosa significa interrompere una gravidanza con un feto “maturo”. Non è semplice, ma il professor Maurizi e il professor Bernardi – seppur con due pseudonimi – invece lo fanno; ne parlano a lungo; riconoscono che i problemi ci sono, eccome; riflettono su quali possono essere i dettagli più importanti per capire di cosa stiamo parlando; e, in un’ora buona di conversazione, provano a spiegarsi così.
“Ecco, appunto: di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di quei quattromila casi all’anno di interruzioni di gravidanza effettuate dopo il novantesimo giorno, quando l’interruzione perde completamente il suo carattere di volontarietà diretta e quando non può più essere la donna a dire ‘questa gravidanza io non voglio più portarla avanti’. Ora, il primo punto su cui si dovrebbe riflettere è questo. Cosa succede prima di un’interruzione? Cosa succede con la diagnosi prenatale? Cosa succede con l’amniocentesi? Io credo che a questo punto della gravidanza, tra la dodicesima e la ventiduesima settimana – probabilmente a causa di una strana forma mentis sbocciata all’interno della nostra cultura – è piuttosto evidente che la donna si senta ormai come investita dalla responsabilità sanitaria del proprio figlio. E’ come se una donna incinta ‘deve’ fare una serie di analisi. Dico ‘deve’ perché, anche se nessuno la obbliga, la ‘società’, perdonate la parola, sembra che stia lì a pressare la donna chiedendole scusa perché non hai ancora fatto quell’esame? Perché non hai ancora fatto quelle analisi? Perché non hai ancora fatto quell’accertamento? Certo, non va dimenticato che la diagnostica prenatale ha permesso a molti genitori di affrontare la gravidanza in maniera più consapevole; che ha dato, per altro, la possibilità alle coppie di avere tutto il tempo per pensare alle giuste cure per un possibile bambino malato; e che senza diagnosi prenatale le mamme un po’ più grandi della media non avrebbero forse neanche il coraggio di affrontarla, una gravidanza. Mi è un po’ difficile, però, negare che negli ultimi anni questo tipo di diagnostica sia stata percepita come una chance per aver garantita la possibilità, per non dire il dovere, di avere un figlio ‘sano’”. Il professor Maurizi continua il suo ragionamento. “Funziona così. Subito dopo una diagnosi, tu, medico, hai il dovere di comunicare alla paziente tutte le conseguenze che potrebbero essere legate a un determinato difetto genetico. A quel punto, devi essere certo che la paziente sia pronta a comprendere, e possibilmente ad accettare, quel tipo di difetto; che possa capire perché, molto spesso, il problema diagnosticato può essere curato dopo la nascita; e che sia chiaro, per lei, che se un figlio nasce con un problema, non è detto che questo sia irreparabilmente malato. Attenzione, però. Stiamo attenti quando medici e pazienti utilizzano la parola ‘sano’. Che cosa si intende per ‘sano’? Ecco: non dimentichiamo che circa il tre o il cinque per cento dei nati presenta una malformazione più o meno grave, e che il tre o il cinque per cento, in questi casi, significa che su 50 mila neonati all’anno 1.500 sono malformati. Questo si chiama rischio di specie; e per quanto esista lo spettro del ‘bambino malformato’ e per quanto sia una realtà, ormai, che 95 casi su 100 di interruzioni di gravidanza dopo il novantesimo giorno siano legati a ‘gravi’ malformazioni cromosomiche, non si può certo pensare che questo rischio di specie possa scendere a quota zero”. Per “gravi malformazioni cromosomiche”, spiega il professor Maurizi, si intendono quei casi di disordine cromosomico conosciuti con la definizione di “trisomie” e che, a seconda della gravità del disordine, sono più o meno vicini alla sindrome di down o a quella di Edwards. Il professor Bernardi non usa la parola eugenetica, ma – spiega – il mito del figlio perfetto è difficile dire che non esista. “Certo, siamo noi stessi ad accorgercene: non si tratta di volere un figlio bello, alto, biondo, con gli occhi azzurri. E’ semplicemente la pretesa, direi culturale, di un bimbo perfetto, di una diagnosi perfetta, di una gravidanza perfetta. Ecco – continua il professore – questa per i medici è una pressione non da poco: con che coraggio, oggi, un dottore troverà le parole giuste per dire a un genitore guardi, suo figlio potrebbe avere un disordine”. I due professori, a questo punto, affrontano un discorso molto delicato. Ricordate? Poche settimane fa, la signora Silvana – la donna napoletana che ha abortito alla ventunesima settimana un bambino con sindrome di klinefelter – rispondeva così al cronista che le chiedeva se fosse stata proprio la scoperta della patologia a farle decidere di abortire: “Non c’era altra scelta. Appena mi hanno comunicato che mio figlio sarebbe stato un malato per tutta la sua vita, non ho avuto dubbi. Ho deciso al momento, d’istinto: abortisco”. Può sembrare strano, ma superato il novantesimo giorno, tecnicamente una donna non può, e non deve, decidere nulla. L’interruzione, come detto, dopo novanta giorni non si chiama più volontaria, si chiama terapeutica; e, seppur d’istinto, il “non avere altra scelta” dovrebbe avere come soggetto un medico, non una mamma. “Il fatto – spiega il professor Maurizi – è che la parola terapeutica è una parola impropria, perché l’essenza ‘terapeutica’ dell’interruzione non ha, in realtà, nulla a che vedere con il feto, visto che quell’aggettivo si riferisce non al pancione ma alla salute della madre. Faccio un esempio. Mettiamo che arrivi una signora rimasta incinta, mettiamo che al suo feto sia diagnosticata una malattia, magari non così poco grave come quella del kilinefelter; e mettiamo che questa signora impazzisca e che, una volta venuta a conoscenza delle possibili problematiche, tenti il suicidio. Chiariamo: è giusto far di tutto per spiegare a una donna quali siano le cure, quali siano le soluzioni, quali siano le opportunità; ma il problema, formalmente, non è il klinefelter; il problema, per un medico, è il disagio psichico della donna. E’ per questo che qui si parla di salvaguardia della salute ‘psichica e fisica’ materna. Certo, va anche detto che oggi una gravidanza il cui prolungamento comporterebbe un rischio vero per la vita della madre è molto difficile trovarla; e in media, infatti, qui in ospedale ci troviamo di fronte a casi simili poche volte all’anno: parliamo di tre donne ogni cento. Ma – si scalda il professore – avendo sentito una carrellata di stronzate sull’argomento, è importante dire che dopo il novantesimo giorno tutto è nelle mani del medico, e la donna non può e non deve scegliere nulla. Semplicemente perché il medico non le dà alcuna scelta; e anche se questa signora arriva e comincia a sbattere la testa contro il muro e mi comincia a urlare voglio interrompere, voglio interrompere voglio interrompere, io medico non posso dire è la ‘tua’ scelta. Non so se il discorso è chiaro: per interrompere una gravidanza non è sufficiente avere una malformazione, deve essere a rischio la salute psichica della madre”. Il professore fa un’altra riflessione e prende spunto da un editoriale comparso due anni e mezzo fa sul British Medical Journal, “Why are the doctors so unhappy?”. “Guardi – prosegue Maurizi – io non sono credente: faccio un ragionamento, diciamo, da laico. Oggi la situazione è questa: la paziente non conosce più né la cultura della sofferenza né la cultura della morte. Può sembrare strano, ma in effetti è sempre più difficile spiegare ai pazienti che esiste la malattia, che esiste il decesso, che esiste il dolore e che, in fondo, l’accuratezza diagnostica non potrà mai essere del cento per cento”. L’accuratezza diagnostica è un tema che i due professori consigliano di non sottovalutare. Su questo aspetto, i dati più indicativi sono quelli che vengono raccolti ogni anno dalla Sieog, la società italiana di ecografia ostetrico ginecologica, che proprio in una delle ultime copie della sua rivista ufficiale riporta un passaggio significativo, spiegando come “l’eccessiva medicalizzazione della gravidanza abbia portato in assoluto a un eccessivo uso di esami di screening e di test diagnostici”; tanto che “non solo il 78,8 per cento delle donne italiane ha eseguito un numero maggiore di ecografie rispetto a quelle raccomandate dal protocollo nazionale ma il 29 per cento ne ha fatte più del doppio, sette”. E qui il commento a questi dati, da parte della Sieog, è simile a quello fatto dei due professori: “E’ difficile considerare tutto questo come un miglioramento della qualità dei livelli assistenziali rispetto al passato”.
Con un piccolo salto indietro, arrivando alla prima metà di febbraio, il professor Maurizi spiega un po’ meglio il significato di quel famoso testo sulla rianimazione dei grandi prematuri e sulla rianimazione, dunque, anche di quei feti abortiti vivi a cavallo tra la ventunesima e la ventiduesima settimana (“una crudele pratica insensata”, secondo il ministro della Salute Livia Turco; “un oggetto di un crudele accanimento terapeutico e di nuove sperimentazioni”, secondo l’editorialista di Repubblica, Miriam Mafai); un testo, quello, ripreso pochi giorni fa anche dal vicepresidente del Comitato Nazionale di bioetica, Lorenzo D’Avack; in un suo intervento, D’Avack aveva infatti spiegato così perché, se vitale, il feto deve essere sempre rianimato. “Non è eticamente accettabile porre dei paletti temporali per fissare a partire da quale età gestazionale si debba o meno procedere alla rianimazione del feto; e anche se è chiaro che è sempre opportuno cercare una linea condivisa con i genitori (…) nella eventualità che, in presenza di feto vitale fortemente prematuro, non si giunga ad una posizione condivisa, allora deve essere prevalente la decisione del medico a favore della rianimazione”. Quel testo il professor Maurizi lo ha firmato ed è stato, tra l’altro, anche l’unico ginecologo non obiettore ad averlo fatto. Anche per questo è piuttosto interessante seguire come il prof articoli il suo ragionamento, per capire in che senso, per un abortion doctor, un feto si dice vitale e per comprendere perché l’aborto è in realtà un’espressione che i dottori non usano più da tempo. “In effetti il termine ‘aborto’ è tecnicamente un termine improprio, se vogliamo ‘convenzionale’, dato che dopo i novanta giorni sarebbe più corretto parlare di interruzione di un processo evolutivo della gravidanza. Credo sia un nodo chiave, questo. Vi siete mai chiesti qual è il limite tra un’interruzione e un parto prematuro? Spiego meglio. Fino a qualche anno fa, l’aborto era solo una terminologia giuridica che si collegava a un limen, a un limite giuridico: prima dei 180 giorni di gravidanza si diceva aborto, dopo i 180 giorni si parlava di parto prematuro. Ecco, oggi, se uno studente all’esame mi dice che tra aborto e parto il limite è il 180° giorno, io lo prendo, lo boccio e poi gli dico che i giorni non c’entrano nulla, e che il limite da considerare è quello della sopravvivenza del feto. (Anche se c’è chi come l’International statistical classification of diseases, tuttora considera il peso come unità di misura della vita: 500 grammi è vita. 499 invece no)”. Il professore va nel dettaglio: “Facciamo un esempio: in nessuna casistica, in nessuna parte del mondo, un feto può vivere a ventuno settimane. In quel caso, la sopravvivenza è uguale a zero e qualsiasi cosa tu faccia rischia di diventare accanimento terapeutico. Se invece hai anche la minima possibilità che quel feto possa sopravvivere, tu devi comunque assisterlo. Punto. Per questo credo sia assurdo dire che un feto di ventuno settimane viva ugualmente. A ventuno settimane e zero giorni un feto non può sopravvivere, anche per motivi anatomici: tu puoi ventilarlo e puoi anche incubarlo, ma il polmone del feto è così immaturo che l’ossigeno non entra e l’anidride carbonica semplicemente non esce. Dunque, il feto che viene espulso, ma che in realtà viene partorito, è un feto già morto”. Il punto è in effetti molto delicato, perché i professori spiegano che al novantanove per cento, alla ventunesima settimana, il feto non viene abortito, viene “partorito”; e che nel momento stesso in cui viene partorito, il feto non avrebbe ancora un organismo pronto per sopportare un travaglio, restando, un istante dopo l’ultima contrazione, sostanzialmente senza ossigeno. E qui, c’è chi dice “strozzato da un’indotta morte naturale”; e c’è chi, come i professori, parla piuttosto di una “morte consequenziale”.
Dopo la ventiduesima settimana, però, il discorso si fa molto diverso. Anche se in linea di massima sarebbe più o meno vietato, a volte capita che una donna chieda un’interruzione di gravidanza ben oltre i 180 giorni di gestazione. Quando dunque il feto – come ricorda lo stesso celebre ginecologo abortista, Carlo Flamigni – è “cosciente, consapevole e capace di memoria”, e quando è “lontano dall’essere un ospite inerte e svolge un ruolo attivo nell’andamento della gravidanza, controllando vari aspetti del suo sviluppo e rispondendo a vari stimoli uditivi, visivi e tattili provenienti dall’ambiente esterno”. Quando, in altre parole, il feto è qualcosa in più che vitale. Non capita spesso, ma capita. “Succede quando una paziente salta qualche controllo, quando fa un’ecografia che aveva dimenticato di fare o quando, magari, scopre di avere una malattia non più ‘compatibile’ con la gravidanza. Funziona così. Se io interrompo una gestazione dopo la ventiduesima settimana non la interrompo per ‘uccidere il feto’ – spiega il professor Bernardi – Io, tecnicamente, sto solo interrompendo quella gravidanza per salvaguardare la madre: per questo devo predisporre tutto per la sopravvivenza di quel bambino. Spero sia chiaro che nell’interruzione di gravidanza il problema del feto è, e deve essere, disgiunto da quello della madre. Non si abortisce per far morire un feto. Si abortisce per far stare bene la mamma. E dunque, credo sia non solo logico ma anche scontato dire che se il feto viene abortito, ed è vivo, il feto deve vivere. Perché è un dovere rianimarlo ed è un dovere farlo anche se la mamma non vuole. Lo dice la legge, e chi non lo fa ovviamente commette un reato”.
Qualche volta però non funziona così; qualche volta, spiegano gli stessi professori, capita anche dell’altro; capita (ma non nel loro ospedale) che ci sia una diagnosi sbagliata; capita che il feto abortito nasca vivo e non venga fatto vivere, capita che un feto che non respira ancora ma che ha già il battito cardiaco non venga rianimato perché considerato “non vitale”. E questo capita perché l’interpretazione della parola “vitale”, in molti casi, rischia di essere molto arbitraria. Ecco, ma cosa succede esattamente in un’interruzione di gravidanza dopo la dodicesima settimana? Spiega Maurizi: “Dunque, nel caso in cui ci siano i ‘presupposti’ fisici o psichici perché una donna abortisca, la donna riceve il certificato che riscontra una malattia, ritorna nella struttura pubblica, ritira la relazione di diagnosi prenatale, chiede il ricovero nel reparto di patologia ostetrica, viene ricoverata in ospedale e nel giro di dodici o di ventiquattro ore comincia tutta la procedura”. Che funziona così. “Si decide se proseguire ‘l’espletamento’ per via vaginale o per via addominale con un taglio cesareo; il più delle volte, si opta per la prima procedura (i casi di cesario capitano circa una volta ogni cinque anni); poi si inseriscono nella vagina tre ovuli (cioè due o tre pillole, contenenti delle prostaglandine, grosse più o meno la metà di un’aspirina) e nel giro di ventiquattro ore, l’ottanta o il novanta per cento delle donne ha partorito il bimbo (il novantanove per cento lo espelle, invece, dopo settantadue ore). Il feto, dunque, viene poggiato all’interno di un contenitore di materiale biologico, viene trasporato, a mano, in anatomia patologica, e quindi, a seconda della patologia precedentemente riscontrata, viene fatto passare sotto i raggi di una risonanza magnetica o di una radiografia: per confermare così la diagnosi, o magari per smentirla. Fuori dall’Italia, in alcuni stati, c’è però anche un passaggio in più. (Un passaggio che fino a qualche anno fa era previsto anche dall’ordine dei ginecologi e degli ostetrici inglesi). In quei casi, prima di espellere il feto e dopo aver inserito nella vagina la prima capsula, l’ostetrico pizzica il corpo del bimbo con la punta di una siringa e inietta una soluzione chimica di cloruro di potassio; la stessa soluzione, solo in una dose leggermente inferiore, applicata nelle lethal injection per esempio in Florida, per esempio in Texas, per esempio in Cina: con lo stesso cloruro di potassio che, una volta in corpo, entra rapidamente in circolo e quando arriva al cuore, il cuore si ferma e non batte più.
Claudio Cerasa
7/3/08
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