Attorno all’irresistibile potere chiodato che il governatore Raffaele Lombardo insedierà lunedì prossimo nella sede della regione siciliana, la resa dei conti nel Partito democratico è cominciata con un certo anticipo rispetto al resto del paese e, come spesso capita da queste parti, la Sicilia potrebbe anticipare gli effetti nazionali che l’eventuale sconfitta di Rutelli porterebbe nelle stanze romane del loft. Al di là dello Stretto non c’è stato nessun ballottaggio, non ci sono stati risultati in bilico e non c’è stato neppure lo spazio di una seconda tranche elettorale per posticipare gli effetti del ceffone incassato alle urne. Tra Palermo e Catania, il tappo che avrebbe dovuto arginare lo smarrimento del partito è saltato subito: il Pd ha reagito molto male, i dirigenti non hanno neppure organizzato una vera riunione per discutere del fallimento isolano e la prima a finire sotto processo è stata naturalmente Anna Finocchiaro (candidata alla presidenza della regione). Così, oggi c’è chi chiede di commissariare i vertici dell’isola, chi un’autocritica del loft, chi di rivoluzionare il progetto del Pd e persino le pagine locali della Repubblica non sono comprensive di fronte ai numeri del partito di Veltroni. In Sicilia, il Pd è andato tutt’altro che bene: il cartello di centrosinistra ha ottenuto 35 punti in meno rispetto al Pdl e, prendendo in considerazione la somma dei voti ottenuti da Ds e Margherita nelle penultime elezioni, il Pd ha perso il 7 per cento. Dunque, un mezzo disastro; e se si va ad affiancare a questo dato il margine complessivo con cui il Pdl ha staccato al sud il Pd (14 punti) si capisce perché al loft siano in molti a credere che con questi numeri prima di aprire l’ombrello del Pd al nord sarebbe meglio dare uno sguardo al nubifragio del sud. Certo, le radici del pasticcio siciliano vanno ricercate anche nello scarso peso che gli uomini forti del Pd sono riusciti a dare al partito isolano (oggi, tra l’altro, il Pd in Sicilia non ha ancora una sede) e sarebbe ingiusto attribuire tutte le colpe ad Anna Finocchiaro. Ma, così dicono anche alcuni dirigenti palermitani del Pd, il fatto è che ci sono parecchi aspetti della sconfitta che non vanno trascurati e che faranno riflettere anche quegli uomini di Veltroni piovuti dal nord (Causi, Martino, Carra, Bernardini, Levi) che hanno partecipato attivamente al crollo meridionale del Pd e che hanno visto clamorosamente risorgere il vero vincitore delle elezioni siciliane: quel Totò Cuffaro che ha portato l’Udc al 9,6 per cento delle preferenze regionali. Non c’è dubbio che aver catapultato dal loft un numero così elevato di candidati democrat – che la politica siciliana l’hanno conosciuta (e male) solo nelle settimane di campagna elettorale – non ha aiutato il Pd a sfondare nelle città più importanti dell’isola. Ma nelle elezioni che hanno dato una spallata alla costruzione propagandistica di una vecchia mitologia antimafia, è un fatto che nel Pd (e nei suoi apparentamenti) non hanno sfondato né i contenuti elettorali del capolista Giuseppe Lumia (ex presidente della commissione antimafia) né quelli dell’Italia dei valori di Antonio Di Pietro e Leoluca Orlando. Così, la candidatura di Lumia è finita sotto processo come quella di Anna Finocchiaro, l’Idv orlandiana ha preso 19 mila voti in meno rispetto al 2006. Forse perché la faccia nuova dell’antimafia sicula si identifica sempre più in Ivan Lo Bello, presidente della Confindustria siciliana e dal prossimo 29 aprile successore di Salvatore Mancuso al Banco di Sicilia.
E’ vero: in alcune città il Pd è persino cresciuto considerando le vecchie somme di Margherita e Ds (a Palermo, 6 punti). Ma un misero 20 per cento non può essere una scialuppa sufficiente per parlare di sconfitta onorevole. Anche per questo, i più brontoloni tra i democrat siciliani contestano ora ad Anna Finocchiaro sia una scarsa percezione esterna del suo radicamento nel territorio sia la scelta di optare per un seggio al Senato piuttosto che guidare la rimonta del Pd siciliano da capo dell’opposizione a Palazzo d’Orleans, cuore politico della regione. Pochi mesi fa, in effetti, era stata proprio la dirigente Pd a dire che in Sicilia avrebbe avuto “intenzione di restarci”. Solo che un conto è farlo a Palazzo d’Orleans, un altro è farlo da Palazzo Madama. Il discorso fatto per il Pd riguarda però anche quel che rimane della vecchia guardia del Popolo della liberta siciliano. Le geometrie tra Pdl e Mpa sono in fondo molto simili a quelle che legano al nord il Cav. e la Lega. Con la differenza che se il tentativo leghista di spostare a proprio favore il baricentro politico settentrionale è ancora un tentativo, in Sicilia, invece, per l’Mpa è un dato di fatto. Dopodomani si insedierà Lombardo e il nuovo presidente della Regione non sembra voler cedere molto potere al Pdl. Anche se il Pdl in termini di voti ha stravinto, resta una questione di equilibri. Saranno molti gli esclusi dalla nuova giunta ed è facile prevedere che gli esclusi prima o poi cominceranno ad agitarsi un po’. Già dalla prossima settimana – già si sentono i primi malumori – gli insoddisfatti di Forza Italia presenteranno il conto al coordinatore del partito, Angelino Alfano. Al quale molti riproverano di non aver avuto sufficiente coraggio quando gli si offrì la possibilità di candidarsi alla successione di Cuffaro (lo avrebbero sostenuto incondizionatamente tutti i partiti di centrodestra, a partire da Totò). Oggi invece, a conti fatti, il Pdl si ritrova a Palazzo d’Orleans con un alleato scomodo che non intende cedere un centimetro del suo irresistibile potere chiodato.
Claudio Cerasa
26/04/08
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