"Il sequestro del libro su Rignano? Un attacco alla libertà di stampa"
Giudici divisi sul testo che parla del caso Olga Rovere. L´editore Castelvecchi annuncia un ricorso
Ancora una volta i giudici si dividono su Rignano Flaminio. In questo caso non è in discussione
la correttezza o meno dell´inchiesta sui presunti abusi denunciati da diciannove bambini della
Olga Rovere ma la libertà di stampa e il sequestro di un libro. Il volume in questione è "Ho visto l´uomo nero" scritto dal giornalista de Il Foglio Claudio Cerasa, edito da Castelvecchi. E ora l´editore chiede il dissequestro: «Aver vietato la vendita di un libro è un attacco alla libertà di stampa».
Il volume, in appena tredici giorni, è stato oggetto di due sentenze di segno diametralmente opposto. Così succede che il 22 ottobre il giudice Alessandrina Tudino del Tribunale penale di Cassino nega il sequestro richiesto da quattro genitori di Rignano, e invece il successivo 5 dicembre un altro giudice, Marza Ienzi, del tribunale civile di Roma, sentenzia il contrario e ne proibisce la vendita.
«Quest´ultimo provvedimento ha tutti gli effetti di un sequestro e nel panorama editoriale è un fatto eccezionale» spiega il legale del giornalista Giovanna Corrias Lucente «Da oltre vent´anni non accadeva che la magistratura ritirasse un libro dagli scaffali». A richiedere il sequestro sono stati gli avvocati Antonio Cardamone e Franco Merlino, legali delle famiglie di quattro bambini che accusavano il testo di aver i nomi i battesimo dei genitori dei bambini, così da rendere possibile l´identificazione di alcuni dei minori vittime dei presunti abusi. Ma, oltre alla tutela della privacy dei minori, la vicenda solleva la questione della libertà di stampa. Non a caso il giudice Tudino nell´argomentare il rigetto del sequestro del libro di Claudio Cerasa parla esplicitamente di «salvaguardia della libertà di stampa» e soprattutto dell´articolo 21 della Costituzione che sancisce: «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure...». Considerazioni che non sono mai state prese in esame dal Tribunale civile che ha ammesso di non averne ricevuto documentazione. «Non condividiamo il provvedimento di Cassino che affronta la questione da un´ottica diversa dal giudice civile che ha inteso tutelare la riservatezza dei minori, interesse costituzionalmente garantito tanto quanto la libertà di stampa» replica Franco Merlino, avvocato delle quattro famiglie.
La pensano in modo completamente differente l´editore Alberto Castelvecchi e l´avvocato Corrias, che ieri hanno annunciato un´istanza per chiedere il dissequestro del volume. «Il libro - afferma la Corrias - non viola né il diritto alla privacy né quello alla riservatezza. L´identità dei genitori è tutelata con l´indicazione del solo nome di battesimo, quella dei bambini con l´indicazione della sola iniziale del nome. Una ben più ampia esposizione dell´identità è stata fatta in televisione, prima della pubblicazione del libro, in particolare in due trasmissioni di grande ascolto in seconda serata, il 14 e il 21 maggio scorso, dove i genitori sono stati presentati con le loro generalità complete. Ma nessuno di loro ha reclamato». E anche l´editore Castelvecchi sottolinea: «Il sequestro di un libro è un fatto gravissimo in un Paese democratico. Il testo non divulga particolari delle indagini più di quanto lo abbiano fatto altri media e non insulta nessuno. Cerca, invece, di documentare come possa nascere una moderna caccia alle streghe e quali risvolti mediatici possa avere. Insomma è un libro che risulta scomodo perché invita a ragionare». L´autore, Claudio Cerasa, invece puntualizza: «Ribadisco il profondo rispetto verso tutte le vittime di questa brutta vicenda a cominciare dai bambini, dai loro genitori fino alle maestre indagate che un giorno si sono ritrovate in carcere e sui giornali additate come mostri. Da subito mi sono posto il problema di difendere la loro privacy. Ma il mio libro è stato accusato di essere innocentista solo perché vuole essere garantista. Forse è questo l´aspetto che ha dato davvero fastidio».
Marino Bisso
21/12/07
venerdì 21 dicembre 2007
Ho Visto l'uomo nero su Liberazione
Sbatti la maestra in prima pagina. E se non lo fai, ti censurano
Claudio Cerasa del Foglio è autore di un istant book sull'inchiesta per pedofilia a Rignano Flaminio, "Ho visto l'uomo nero". E' un libro garantista. Ma il giudice ne ha vietato la diffusione perché violerebbe la privacy dei minori coinvolti nel caso.
Prendi tre maestre, una bidella, un addetto cingalese a una pompa di benzina e un autore televisivo. A dirla così sembra l’inizio di una barzelletta. E’ l’inizio, invece, di una grottesca tragedia, ambientata nell’ormai tristemente nota Rignano Flaminio. I sei, di cui ormai si sa tutto, sono stati arrestati il 24 aprile 2007 con l’accusa più infamante: violenza sessuale su minori. Pedofilia, reato odioso e insopportabile, ancor più se a perpetrarlo sono le persone a cui affidi i tuoi figli, all’asilo. Subito diventato “asilo degli orrori”. E i presunti colpevoli, “mostri”. Quasi da subito sono spariti condizionali, punti interrogativi, aggettivi dubitativi. Una tempesta mediatica si è abbattuta sugli indagati, gli organi di informazione (non tutti, ma troppi), l’immancabile Vespa in testa, hanno subito pronunciato sentenza, pena e scomunica. Pazienza se molte cose non quadrano e se tuttora- sia chiaro- la verità non è uscita fuori. Il tribunale del riesame di Roma il 10 maggio, ha fatto scarcerare cinque dei sei imputati, il recente responso dei RIS ha stabilito che alcuna traccia degli stessi è stata rinvenuta in luoghi, cose e case citate nelle testimonianze. Allo stesso tempo bambini, più o meno timidamente, continuano a raccontare di eventi orribili e giochi raccapriccianti. Il tutto è diventato una guerra: da una parte genitori preoccupati e organizzatissimi, che con assemblee e apparizioni pubbliche e persino un’associazione (l’Agerif, associazione genitori di Rignano Flaminio)hanno fatto sentire la loro voce, partecipato alle indagini e contribuito all’epurazione delle maestre. Il paesino è diviso, lacerato, ed è stato occupato da legioni di giornalisti in cerca di notizie. O forse solo scandali. In questo esercito c’è e c’era un giovane collaboratore del quotidiano “Il foglio”, Claudio Cerasa. Faccia da intellettuale, pignolo, giovane. Anche Giuliano Ferrara voleva occhi e orecchie a Rignano. Una collaborazione divenuta un libro: “Ho visto l’uomo nero- L’inchiesta sulla pedofilia a Rignano Flaminio fra dubbi, sospetti e caccia alle streghe”, edito da Castelvecchi. Editore irrequieto che tra alti e bassi ha pubblicato libri che altri neanche immaginano. “Nel rispetto dei rapporti civili- ci ha detto- abbiamo sempre cercato di illuminare gli aspetti inquietanti della nostra realtà”. Se state cercando il libro, fermatevi: non lo troverete. Perché Cerasa, come l’assonante Cederna di decenni fa, il suo libro l’ha visto censurato e sequestrato. Pardon, inibito. Non è possibile venderlo, né diffonderlo (persino gratuitamente). Un giudice civile del tribunale di Roma, Marta Ienzi, ha provveduto a bloccarne e impedirne la distribuzione accogliendo il ricorso di quattro famiglie di Rignano, “in quanto contenente dati che rendono agevole l’identificazione dei minori coinvolti con conseguente violazione del diritto alla riservatezza degli stessi”. Peccato che il gip di Cassino, Alessandrina Tudino, in sede penale, invocando l’art.21 della costituzione sulla libertà di stampa, avesse rigettato un ricorso preventivo in merito. E peccato che, come ricordano gli avvocati Marco Mastracci, legale della Castelvecchi editore, e l’agguerritissima avvocata del Cerasa, Giovanna Corrias Lucente, due dei quattro ricorrenti, abbiano partecipato a Porta a Porta, senza timore di mostrare le loro facce, con nome e cognome in sovraimpressione. “Io ho citato i soli nomi di battesimo dei genitori, salvo autorizzazione, e dei bambini c’è solo l’iniziale puntata- conferma Guido Cerasa, nella conferenza stampa di ieri-. E’ un doppio paradosso quello che mi sta accadendo: ho scritto questo libro per ribellarmi a quella caccia alle streghe acritica, per tutelare anche la privacy dei presunti colpevoli. E ora mi ritrovo a pagare per aver violato, dicono, quella delle presunte vittime. Mi chiedo, poi, soprattutto una cosa: se il libro non fosse stato garantista, sarebbe stato inibito?”. Quello che riesce meglio a Cerasa, da giornalista vecchio stampo, è fare domande. Il suo libro, nell’attacco della prima pagina ne fa una decina, e tutte dannatamente pertinenti. Non è il giornalista embedded che segue il gregge dei colpevolisti, né il bastian contrario innocentista. Con piglio garantista, con voglia di indagare e domandare, intervista, cerca, legge, scova e illumina un po’ di angoli bui, fino a settembre 2007. Un instant book, un reportage con talento investigativo pari a quello letterario. “Una democrazia di fatto e di diritto non può impedire al pubblico di farsi un’idea- riprende Castelvecchi-. Questo libro non insulta nessuno, mostra solo come nasce una caccia alle streghe, si indaga l’origine mediatica e antropologica di un mondo che per dirla alla Totò, è colpevolista e innocentista a prescindere e che porta persone in galera- non entro nel merito ma guardo i fatti- per prove per lo meno incoerenti. Ricordo che LeGoff un giorno disse di Woytila che era il Medio Evo unito alla tv. Ecco, quello che è successo a Rignano mi sembra una commistione molto simile”. Assordante è stato il silenzio degli organi d’informazione. Mentre scriviamo l’FNSI sta battendo un comunicato di solidarietà a Cerasa, che ha raccolto anche quella di Pierluigi Battista e del “suo” direttore Giuliano Ferrara. Difetto di informazione (la conferenza stampa è arrivata solo dopo il responso “innocentista” dei Ris) ma anche colpevole dimenticanza e negligenza. Accecati, magari, da censure altrettanto ingiuste ma più famose e urlate, trascuriamo colleghi che con lo stesso coraggio, ma meno mezzi, affrontano un sistema, mediatico e legale, distorto e perverso.
Boris Sollazzo
21/12/07
Claudio Cerasa del Foglio è autore di un istant book sull'inchiesta per pedofilia a Rignano Flaminio, "Ho visto l'uomo nero". E' un libro garantista. Ma il giudice ne ha vietato la diffusione perché violerebbe la privacy dei minori coinvolti nel caso.
Prendi tre maestre, una bidella, un addetto cingalese a una pompa di benzina e un autore televisivo. A dirla così sembra l’inizio di una barzelletta. E’ l’inizio, invece, di una grottesca tragedia, ambientata nell’ormai tristemente nota Rignano Flaminio. I sei, di cui ormai si sa tutto, sono stati arrestati il 24 aprile 2007 con l’accusa più infamante: violenza sessuale su minori. Pedofilia, reato odioso e insopportabile, ancor più se a perpetrarlo sono le persone a cui affidi i tuoi figli, all’asilo. Subito diventato “asilo degli orrori”. E i presunti colpevoli, “mostri”. Quasi da subito sono spariti condizionali, punti interrogativi, aggettivi dubitativi. Una tempesta mediatica si è abbattuta sugli indagati, gli organi di informazione (non tutti, ma troppi), l’immancabile Vespa in testa, hanno subito pronunciato sentenza, pena e scomunica. Pazienza se molte cose non quadrano e se tuttora- sia chiaro- la verità non è uscita fuori. Il tribunale del riesame di Roma il 10 maggio, ha fatto scarcerare cinque dei sei imputati, il recente responso dei RIS ha stabilito che alcuna traccia degli stessi è stata rinvenuta in luoghi, cose e case citate nelle testimonianze. Allo stesso tempo bambini, più o meno timidamente, continuano a raccontare di eventi orribili e giochi raccapriccianti. Il tutto è diventato una guerra: da una parte genitori preoccupati e organizzatissimi, che con assemblee e apparizioni pubbliche e persino un’associazione (l’Agerif, associazione genitori di Rignano Flaminio)hanno fatto sentire la loro voce, partecipato alle indagini e contribuito all’epurazione delle maestre. Il paesino è diviso, lacerato, ed è stato occupato da legioni di giornalisti in cerca di notizie. O forse solo scandali. In questo esercito c’è e c’era un giovane collaboratore del quotidiano “Il foglio”, Claudio Cerasa. Faccia da intellettuale, pignolo, giovane. Anche Giuliano Ferrara voleva occhi e orecchie a Rignano. Una collaborazione divenuta un libro: “Ho visto l’uomo nero- L’inchiesta sulla pedofilia a Rignano Flaminio fra dubbi, sospetti e caccia alle streghe”, edito da Castelvecchi. Editore irrequieto che tra alti e bassi ha pubblicato libri che altri neanche immaginano. “Nel rispetto dei rapporti civili- ci ha detto- abbiamo sempre cercato di illuminare gli aspetti inquietanti della nostra realtà”. Se state cercando il libro, fermatevi: non lo troverete. Perché Cerasa, come l’assonante Cederna di decenni fa, il suo libro l’ha visto censurato e sequestrato. Pardon, inibito. Non è possibile venderlo, né diffonderlo (persino gratuitamente). Un giudice civile del tribunale di Roma, Marta Ienzi, ha provveduto a bloccarne e impedirne la distribuzione accogliendo il ricorso di quattro famiglie di Rignano, “in quanto contenente dati che rendono agevole l’identificazione dei minori coinvolti con conseguente violazione del diritto alla riservatezza degli stessi”. Peccato che il gip di Cassino, Alessandrina Tudino, in sede penale, invocando l’art.21 della costituzione sulla libertà di stampa, avesse rigettato un ricorso preventivo in merito. E peccato che, come ricordano gli avvocati Marco Mastracci, legale della Castelvecchi editore, e l’agguerritissima avvocata del Cerasa, Giovanna Corrias Lucente, due dei quattro ricorrenti, abbiano partecipato a Porta a Porta, senza timore di mostrare le loro facce, con nome e cognome in sovraimpressione. “Io ho citato i soli nomi di battesimo dei genitori, salvo autorizzazione, e dei bambini c’è solo l’iniziale puntata- conferma Guido Cerasa, nella conferenza stampa di ieri-. E’ un doppio paradosso quello che mi sta accadendo: ho scritto questo libro per ribellarmi a quella caccia alle streghe acritica, per tutelare anche la privacy dei presunti colpevoli. E ora mi ritrovo a pagare per aver violato, dicono, quella delle presunte vittime. Mi chiedo, poi, soprattutto una cosa: se il libro non fosse stato garantista, sarebbe stato inibito?”. Quello che riesce meglio a Cerasa, da giornalista vecchio stampo, è fare domande. Il suo libro, nell’attacco della prima pagina ne fa una decina, e tutte dannatamente pertinenti. Non è il giornalista embedded che segue il gregge dei colpevolisti, né il bastian contrario innocentista. Con piglio garantista, con voglia di indagare e domandare, intervista, cerca, legge, scova e illumina un po’ di angoli bui, fino a settembre 2007. Un instant book, un reportage con talento investigativo pari a quello letterario. “Una democrazia di fatto e di diritto non può impedire al pubblico di farsi un’idea- riprende Castelvecchi-. Questo libro non insulta nessuno, mostra solo come nasce una caccia alle streghe, si indaga l’origine mediatica e antropologica di un mondo che per dirla alla Totò, è colpevolista e innocentista a prescindere e che porta persone in galera- non entro nel merito ma guardo i fatti- per prove per lo meno incoerenti. Ricordo che LeGoff un giorno disse di Woytila che era il Medio Evo unito alla tv. Ecco, quello che è successo a Rignano mi sembra una commistione molto simile”. Assordante è stato il silenzio degli organi d’informazione. Mentre scriviamo l’FNSI sta battendo un comunicato di solidarietà a Cerasa, che ha raccolto anche quella di Pierluigi Battista e del “suo” direttore Giuliano Ferrara. Difetto di informazione (la conferenza stampa è arrivata solo dopo il responso “innocentista” dei Ris) ma anche colpevole dimenticanza e negligenza. Accecati, magari, da censure altrettanto ingiuste ma più famose e urlate, trascuriamo colleghi che con lo stesso coraggio, ma meno mezzi, affrontano un sistema, mediatico e legale, distorto e perverso.
Boris Sollazzo
21/12/07
Etichette:
Cerasa,
Ho Visto l'Uomo Nero,
Liberazione,
Sollazzo
Ho Visto l'Uomo Nero su ePolis
La strenna di Natale dell’editore Castelvecchi è un libro introvabile, o quasi. Non lo ha stabilito il popolo dei lettori, ma il tribunale civile di Roma con una recente sentenza, inibendone la distribuzione e la ulteriore diffusione per violazione dei diritti della privacy dei minori citati (con accortezza a quanto pare insufficiente) nel reportage di Claudio Cerasa sui casi di presunta pedofilia alle porte di Roma.
Ho visto l’uomo nero, il libro del giovane redattore de Il Foglio che ha seguito per il quotidiano le vicende del caso e i suoi sviluppi mediatici è stato pubblicato a ridosso del 18 settembre, giorno in cui la Cassazione confermava la scarcerazione degli indagati per i presunti abusi sugli alunni dell'asilo di Rignano Flaminio. La sentenza recita così: "Allo stato delle investigazioni se vi sono state violenze, ipotesi non scartata dal Tribunale del riesame, esse sono state perpetrate con modalità differenti da quelle riferite nelle denunce".
L’inchiesta sulla vicenda giudiziaria “tra dubbi sospetti e caccia alle streghe”, come riporta il sottotitolo, ha avuto ovunque ottime recensioni Cerasa ha raccolto molte lodi per un’inchiesta giornalistica rigorosa e paziente, diario di un cronista che ha ricostruito le fasi dell’inchiesta mentre il caso andava creando mediaticamente una caccia alle streghe ingestibile.
Nel libro vengono passati al vaglio avvocati, genitori, riscontri giudiziari, testimonianze, perizie, interrogatori, comitati di difesa, assistenti sociali, talk show, tra le complessità istruttorie, i tanti paradossi dei resoconti e il filo rosso della sparizione dal lessico comune della parola presunto.
A ottobre però un’agenzia batte la denuncia di alcuni genitori nei riguardi del libro. Poche settimane dopo il 22 ottobre il Gip di Cassino rigetta la richiesta di sequestro preventivo presentata da quattro famiglie di Rignano, che sostengono che il testo avrebbe agevolato l’identificazione dei minori coinvolti nelle vicenda.
I legali di Cerasa e Castelvecchi fanno in tempo a segnalare alla stampa la notizia, ma la copia della certificazione della sentenza, come si è appreso ieri nella conferenza stampa indetta da Castelvecchi, non viene notificata per tempo al tribunale di Roma, chiamato in causa nel frattempo sempre dalle stesse famiglie. In assenza del documento di Cassino – che tirava in ballo l’articolo 21 della costituzione - il tribunale accetta il ricorso. Una questione di tempi, dunque, poteva evitare l’inibizione di un libro che paradossalmente proprio sulla difesa della privacy è stato minuziosamente costruito da Claudio Cerasa. E che volente o nolente, sta ricevendo una pubblicità inconsapevole ma notevolissima, in un periodo dell’anno in cui si sarebbe stato meglio pensare unicamente al Natale.
Stefano Ciavatta
21/12/07
Ho visto l’uomo nero, il libro del giovane redattore de Il Foglio che ha seguito per il quotidiano le vicende del caso e i suoi sviluppi mediatici è stato pubblicato a ridosso del 18 settembre, giorno in cui la Cassazione confermava la scarcerazione degli indagati per i presunti abusi sugli alunni dell'asilo di Rignano Flaminio. La sentenza recita così: "Allo stato delle investigazioni se vi sono state violenze, ipotesi non scartata dal Tribunale del riesame, esse sono state perpetrate con modalità differenti da quelle riferite nelle denunce".
L’inchiesta sulla vicenda giudiziaria “tra dubbi sospetti e caccia alle streghe”, come riporta il sottotitolo, ha avuto ovunque ottime recensioni Cerasa ha raccolto molte lodi per un’inchiesta giornalistica rigorosa e paziente, diario di un cronista che ha ricostruito le fasi dell’inchiesta mentre il caso andava creando mediaticamente una caccia alle streghe ingestibile.
Nel libro vengono passati al vaglio avvocati, genitori, riscontri giudiziari, testimonianze, perizie, interrogatori, comitati di difesa, assistenti sociali, talk show, tra le complessità istruttorie, i tanti paradossi dei resoconti e il filo rosso della sparizione dal lessico comune della parola presunto.
A ottobre però un’agenzia batte la denuncia di alcuni genitori nei riguardi del libro. Poche settimane dopo il 22 ottobre il Gip di Cassino rigetta la richiesta di sequestro preventivo presentata da quattro famiglie di Rignano, che sostengono che il testo avrebbe agevolato l’identificazione dei minori coinvolti nelle vicenda.
I legali di Cerasa e Castelvecchi fanno in tempo a segnalare alla stampa la notizia, ma la copia della certificazione della sentenza, come si è appreso ieri nella conferenza stampa indetta da Castelvecchi, non viene notificata per tempo al tribunale di Roma, chiamato in causa nel frattempo sempre dalle stesse famiglie. In assenza del documento di Cassino – che tirava in ballo l’articolo 21 della costituzione - il tribunale accetta il ricorso. Una questione di tempi, dunque, poteva evitare l’inibizione di un libro che paradossalmente proprio sulla difesa della privacy è stato minuziosamente costruito da Claudio Cerasa. E che volente o nolente, sta ricevendo una pubblicità inconsapevole ma notevolissima, in un periodo dell’anno in cui si sarebbe stato meglio pensare unicamente al Natale.
Stefano Ciavatta
21/12/07
Etichette:
Cerasa,
ciavatta,
epolis,
Ho Visto l'Uomo Nero,
Rignano Flaminio
giovedì 20 dicembre 2007
Ansa, Ho Visto L'Uomo Nero
(ANSA) - ROMA, 20 DIC - ''Il sequestro di un libro e' sempre
un atto molto grave, e' un vulnus alla liberta' di informazione.
E' tanto piu' grave quando si tratta del libro di un giornalista
che ricostruisce con equilibrio e con perfezione deontologica
una vicenda giudiziaria delicata qual e' quella di Rignano
Flaminio'', afferma Alberto Castelvecchi, della omonima casa
editrice romana, in una conferenza stampa convocata per chiedere
il dissequestro del volume di Claudio Cerasa, ''Ho visto l'uomo
nero'', ritirato dalle librerie nei giorni scorsi per ordine
della magistratura.
E' stato il giudice del tribunale civile di Roma, Marta
Ienzi, ad accogliere l'istanza di sequestro presentata da alcuni
genitori dei minori coinvolti come parte offesa nel
procedimento della magistratura di Tivoli e a disporre
l'inibizione della vendita, della distribuzione e della
ulteriore diffusione del libro.
L'editore Castelvecchi, con lui l'avvocato Lucente Giovanna
Corrias, che rappresenta Cerasa, giornalista del quotidiano ''Il
Foglio'', respingono la contestazione del fatto che nel testo
sono indicati dati che rendono agevole l'identificazione dei
piccoli, con conseguente violazione del diritto alla
riservatezza.
''Il libro - afferma l'avvocato Corrias - non viola ne' il
diritto alla privacy ne' quello alla riservatezza. L'identita'
dei genitori e' tutelata con l'indicazione del solo nome di
battesimo, quella dei bambini con l'indicazione della sola
iniziale del nome. Una ben piu' ampia esposizione
dell'identita' e' stata fatta in televisione, prima della
pubblicazione del libro, in particolare in due trasmissioni in
seconda serata, il 14 e il 21 maggio scorso, dove i genitori si
stati presentati con le loro generalita' complete''.
Anche Castelvecchi sottolinea questo punto: ''Il libro non
divulga i particolari delle indagini piu' di quanto lo abbiano
fatto altri media. Evidentemente la presentazione degli stessi
elementi in un libro risulta piu' scomoda perche' invita a
ragionare''.
Una richiesta formale di dissequestro sara' depositata nei
prossimi giorni.
un atto molto grave, e' un vulnus alla liberta' di informazione.
E' tanto piu' grave quando si tratta del libro di un giornalista
che ricostruisce con equilibrio e con perfezione deontologica
una vicenda giudiziaria delicata qual e' quella di Rignano
Flaminio'', afferma Alberto Castelvecchi, della omonima casa
editrice romana, in una conferenza stampa convocata per chiedere
il dissequestro del volume di Claudio Cerasa, ''Ho visto l'uomo
nero'', ritirato dalle librerie nei giorni scorsi per ordine
della magistratura.
E' stato il giudice del tribunale civile di Roma, Marta
Ienzi, ad accogliere l'istanza di sequestro presentata da alcuni
genitori dei minori coinvolti come parte offesa nel
procedimento della magistratura di Tivoli e a disporre
l'inibizione della vendita, della distribuzione e della
ulteriore diffusione del libro.
L'editore Castelvecchi, con lui l'avvocato Lucente Giovanna
Corrias, che rappresenta Cerasa, giornalista del quotidiano ''Il
Foglio'', respingono la contestazione del fatto che nel testo
sono indicati dati che rendono agevole l'identificazione dei
piccoli, con conseguente violazione del diritto alla
riservatezza.
''Il libro - afferma l'avvocato Corrias - non viola ne' il
diritto alla privacy ne' quello alla riservatezza. L'identita'
dei genitori e' tutelata con l'indicazione del solo nome di
battesimo, quella dei bambini con l'indicazione della sola
iniziale del nome. Una ben piu' ampia esposizione
dell'identita' e' stata fatta in televisione, prima della
pubblicazione del libro, in particolare in due trasmissioni in
seconda serata, il 14 e il 21 maggio scorso, dove i genitori si
stati presentati con le loro generalita' complete''.
Anche Castelvecchi sottolinea questo punto: ''Il libro non
divulga i particolari delle indagini piu' di quanto lo abbiano
fatto altri media. Evidentemente la presentazione degli stessi
elementi in un libro risulta piu' scomoda perche' invita a
ragionare''.
Una richiesta formale di dissequestro sara' depositata nei
prossimi giorni.
Ho visto l'uomo nero su Libero
«Com’è possibile che la Federazione nazionale della Stampa non abbia mosso neanche una virgola?». Alberto Castelvecchi, editore del libro “Ho visto l’uomo nero. L’inchiesta sulla pedofilia a Rignano Flaminio tra dubbi, sospetti e caccia alle streghe”, se la prende con la stampa e con il sindacato che la rappresenta. Il volume, scritto dal giornalista del Foglio Claudio Cerasa, è stato infatti ritirato dal commercio dieci giorni fa perché, secondo il giudice del tribunale civile di Roma Marta Ienzi, conterrebbe dati che rendono agevole l’identificazione delle presunte vittime, con conseguente violazione della privacy: «Iniziali e nomi dei genitori – spiega Castelvecchi – sono gli stessi resi noti sia dai quotidiani che dai telegiornali». E’ stato Pierluigi Battista a sollevare il caso ieri, dalle pagine del Corriere della Sera: «Sequestrano un libro, imbavagliano un giornalista, e nemmeno l’ombra di uno dei soliti, stentorei comunicanti della Federazione nazionale della stampa?». Il vicedirettore di via Solferino domanda: «Nemmeno una goccia di quell’oceano di sdegno che in altre occasioni ha accolto censure, intimidazioni, intimazioni al silenzio. Perché?». (abbastanza evidente il riferimento al caso “Decameron” di Luttazzi). Il problema, per Castelvecchi, è che «i giornalisti rispetto a certi argomenti si autocensurano: meglio fare informazione di carattere sensazionalistico, piuttosto che passare per innocentisti». Castelvecchi annuncia intanto una «battaglia di civiltà»: tanto per cominciare, chiederà il dissequestro de “Ho visto l’uomo nero”, nelle librerie dallo scorso settembre. Perché quello di Cerasa, sottolinea l’editore, «è un racconto aderente alla realtà, che mette in evidenza le storture che si sono create intorno alla vicenda di Rignano». Una vera e propria caccia alle streghe quindi, «un delirio collettivo. Tanto più che le indagini dei Ris hanno scagionato le maestre della scuola Olga Rovere, accusate di aver abusato dei piccoli alunni». Castelvecchi è già stato vittima di un episodio simile: dieci anni fa pubblicò “Lasciate che i bimbi. Pedofilia: un pretesto per la caccia alle streghe” di Luther Blisset, sul caso dei Bambini di Satana. «Marco Dimitri e la sua setta vennero accusati di pedofilia, ma l’inchiesta finì in un nulla di fatto» ricorda Castelevecchi, che specifica: «In quel caso l’autore accusava pesantemente il pm Lucia Musti, che ottenne la distruzione del libro. Il magistrato denunciò l’abuso di diritto di critica, “fomentata da una volontà persecutoria”». Ma, conclude Castelvecchi, “Ho visto l’uomo nero” non è un libro lesivo. Questa è una questione di libertà e civiltà».
Michele Bisceglia
19/12/07
Michele Bisceglia
19/12/07
Il Foglio. "Veltroniani di lotta".La convinzione che ci si possa fidare di Berlusconi
Roma. Giù dal fortino del loft, i proiettili indirizzati al CaW cominciano a tornare indietro. Le prossime due settimane, per Walter Veltroni saranno molto importanti per provare a disarmare i due alleati non troppo allineati con la sua idea di Partito democratico: da un lato Prodi, dall’altro il correntone dei resistenti del Pd. Due giorni fa, nell’intervista-manifesto rilasciata al Foglio, W aveva spiegato di voler correre da solo alle elezioni; per farlo, il sindaco di Roma – che anche ieri ha detto di essere affascinato dal sistema elettorale francese – è disposto a innescare contro i chiassosi piccoli partiti anche la miccia del referendum: vale a dire la stessa arma con cui, fino a pochi giorni fa, il “garante della coalizione”, Prodi, aveva promesso di difendere proprio i piccoli partiti dell’Unione; che ora si ritrovano puntato contro lo stesso mirino già calibrato sulle stanze del Pd. Ma per rilanciare l’idea forte di partito liquido, senza tessere, senza congresso e a vocazione maggioritaria, W sa bene che in questo momento disarmare Prodi aiuta, ma non basta. Anche se ieri i democratici veltroniani erano un po’ “incazzati” per come Palazzo Chigi aveva scaricato la colpa del disastro del decreto sicurezza sul Pd (“ma se al governo non conoscono la grammatica, noi che ci possiamo fare?”, si chiedevano al loft), più che preoccuparsi per il governo o per il dialogo con il Cav., è alla dimensione politica del suo fisic du rôle che W sta lavorando. C’è qualcuno, infatti, a cui non convince la definizione di “leadership calda” che Veltroni ha dato di se stesso. E’ anche per questo che, in quello che il democrat Peppino Caldarola definisce la “corrente dei resistenti”, sono in tanti a utilizzare per W la stessa definzione che in privato diede di Veltroni il ministro Giuseppe Fioroni: “Noi abbiamo aperto un cantiere e ora abbiamo individuato Walter come progettista e realizzatore di quest’opera”. Del CaW, Fioroni non si fida troppo. Ai veltroniani, invece, l’asse a vocazione maggioritaria piace sempre di più. Soprattutto ora che W vuole correre da solo. Ago e filo del CaW sono naturalmente nelle mani di Goffredo Bettini e di Gianni Letta (che durante le vacanze natalizie hanno già in calendario una serie di appuntamenti telefonici). Ma come ripeterà nei prossimi giorni il responsabile della comunicazione del Pd, Marco Follini, nel Partito democratico il problema oggi per W è simile a quello che il Cav. aveva nel governo: e una parola molto usata al loft è questa: “regicidio”. Spiega al Foglio l’ex sindaco di Bologna e membro del Pd Walter Vitali, ieri a colloquio per un’ora con Veltroni e Bettini: “Io sono d’accordo con il correre da soli. E personalmente mi fido molto di Berlusconi, perché i suoi interessi, in questo momento, coincidono con i nostri. Soltanto che nel Pd qualcuno dovrebbe capire che c’è in gioco qualcosa di più che i personalismi del gruppo dirigente”. A chi si riferisce Vitali ce lo spiega Peppino Caldarola. “E’ innegabile: c’è un correntone di democratici che resistono e che oggi non sono pienamente in sintonia con la leadership del Pd. Mi vengono in mente D’Alema, Brutti, Turco, Cuperlo, Bindi, Monaco, Parisi e naturalmente Prodi; che in nome di una religione del maggioritario o in nome del famoso ‘primato della sinistra’ sono determinati più di altri a resistere. Ma se volete capire qualcosa di più sui futuri equilibri del Pd attenzione a ciò che succederà sabato prossimo”; giorno in cui al loft si riunirà la commissione statuto. “Credo sia fisiologico che ci siano litigi forti all’interno del Pd, anche tra Veltroni e D’Alema – aggiunge Vitali – Anche se io penso sia fondamentale marciare tutti insieme senza perdere di vista l’obiettivo della legge elettorale”. Ieri però, nello stesso giorno in cui il Quirinale ha bocciato il ddl sicurezza su cui il Pd molto si è speso, l’idea di una spartizione di Alitalia tra Air France e Air One, anticipata da W al Foglio, ha trovato un primo inaspettato riscontro nelle valutazioni di mercato. E se oggi Prodi parlerà di aerei con Sarkozy (ma lui nega), sarà costretto ancora una volta a leggere sulla propria agenda la grafia sempre più minacciosa di Walter Veltroni.
Etichette:
Berlusconi,
D'Alema,
Foglio,
Veltroni
martedì 18 dicembre 2007
Il Foglio. Il manifesto politico di W. “Tutti da soli alle elezioni”. Intervista con Walter Veltroni
Roma. Su una poltroncina gialla nell’anticamera del suo ufficio da sindaco, al primo piano del Campidoglio, Walter Veltroni discute con il Foglio per un’ora di cosa intende quando parla di rottura (rupture) democratica. In una delle settimane più importanti per il governo di Prodi, per il Partito democratico e per il destino dell’asse tra il Cav. e W (Cav + W), Veltroni usa parole nuove per definire il suo rapporto tra religione e politica, dà un’interessante interpretazione della guerra in Iraq (che anche Donald Rumsfeld, probabilmente, condividerebbe), dice qualcosa di nuovo su Romano Prodi, su Silvio Berlusconi, sulla Prima Repubblica, su Tangentopoli, sui Pacs, sui Cus, sulla maggioranza, sul fund raising e anche su Alitalia (“La cosa che mi piacerebbe di più è che le proposte di Air France e Air One si incrociassero. Per garantire la forza di un soggetto come Air France e la forza di un soggetto finanziario come banca Intesa, e al tempo stesso però il radicamento nel paese di una compagnia nazionale. Conta l’offerta che viene fatta, contano le strategie industriali, conta sapere per il paese che esito avrà la sua compagnia nazionale”). Entrando nel cuore della sua idea di Partito democratico (la cui vocazione maggioritaria più che a Botteghe Oscure si ispira sempre di più alla filosofia senza tessera e senza congressi dei democrat americani), Veltroni parla in un modo nuovo anche di referendum elettorale: quel referendum fino a ieri “sostenuto ma non firmato” e su cui oggi, invece, Veltroni ammette che, a certe condizioni, potrebbe dire di sì: intravedendo una possibile tutela della “vocazione maggioritaria” nel testo su cui la Consulta darà un giudizio di costituzionalità entro la metà di gennaio.
Due mesi fa tre milioni di elettori scelsero W come leader del Pd; due settimane fa, al quinto piano del palazzo dei gruppi parlamentari, W ha incontrato il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi; tra poche settimane Romano Prodi dovrà affrontare quella verifica di governo di cui sabato Veltroni ha parlato con Romano Prodi: tra un’intervista alle 9.15, un matrimonio celebrato alle 11.30 e un compleanno centenario festeggiato alle 10.30 a casa della signora Broccolo. E’ un Veltroni un po’ meno spagnolo, sempre meno tedesco, molto americano ma pure un po’ francese. E’ un Veltroni che fa un paio di assist al Cav., che rilegge in modo curioso un aspetto dello strappo di Fausto Bertinotti con Prodi e che, quando si parla di religione e di politica, non ha nulla da ridire sulle parole di Obama (“I laici sbagliano a chiedere ai credenti che entrano in politica di lasciare da parte la religione”). W sorride leggendo la prima pagina del Foglio di sabato sui leader cristiani in corsa in America per la presidenza; e alla domanda: “Che cosa significa Cristo in politica?”, dà una risposta che farà insospettire chi crede che sia “molto difficile essere laici nel paese delle chiese” (Eugenio Scalfari, Repubblica 16 dicembre).
Spiega Veltroni: “Cristo in politica è giusto e legittimo che lo porti chi ha Cristo dentro di sé. E che lo porti e non lo lasci a casa. L’idea che qualche volta la politica ha avuto anzi, che spesso la politica ha, fa parte di una visione del mondo che io non condivido: che la laicità dello stato – che io considero come un valore assolutamente indiscutibile e indisponibile – presupponga una sorta di rinuncia alle identità di ciascuno. Qui dentro però io ci vedo una delle chiavi della possibile convivenza del nuovo millennio: il tema del rapporto tra identità e dialogo. E’ un tempo, questo, in cui di fronte alla paura delle grandi trasformazioni economiche e finanziarie, e della circolazione delle persone con la loro visione del mondo e la loro religione, sembra prevalere in ciascuno l’idea di arroccarsi in una dimensione identitaria: un po’ per conforto, un po’ per rassicurazione; ma con l’idea che questo possa essere l’antidoto al processo di melting pot in corso. Tutto questo lo si può affrontare in due modi: lo si può affrontare accettandolo passivamente. Ma il rischio dell’accettazione passiva è che si finisca con il legittimare anche le forme attraverso le quali questa identità figlia di divisioni culturali, religiose, di concezioni della comunità pubblica diversa dalle nostre, si fa integralista, fino ai rischi del fondamentalismo. Oppure lo si può accettare con l’idea che l’identità non sia uno straccio. E che l’identità sia figlia della storia, delle culture, delle radici, delle ragioni e che sia un valore. Perché se è vero che è necessario il dialogo, il dialogo ha senso se ci sono tante identità. E se qualcuno afferma e difende queste identità. La grandezza della cultura politica dovrebbe essere quella di far convivere la propria identità con la disponibilità all’apertura. Qui sta l’idea del rapporto tra stato laico e punto di vista religioso”.
Veltroni ora entra nel cuore del discorso: “Personalmente non sono credente e non avrebbe senso che io fossi considerato un christian leader, anche perché esiste una sfera che è assolutamente personale che mi dà fastidio dover usare quando c’è qualcosa che è pubblico (ho visto, a proposito del rapporto tra politica e religione, trasformazioni troppo repentine determinate dalle contingenze del momento). Però vorrei che la mia idea fosse chiara: a me ha sempre culturalmente affascinato la vocazione pastorale della chiesa mentre mi piace meno quella chiesa che ogni giorno sforna prescrizioni morali di comportamento: lo considero un po’ una riduzione della grandezza della missione e della funzione della stessa chiesa. Io sono stato molto affascinato da Giovanni Paolo II, l’ho conosciuto ho avuto modo di parlare con lui diverse volte, mi piaceva enormemente la coesistenza in lui di identità e dialogo. Mi piaceva il fatto che sulle questioni che attengono alla responsabilità della chiesa lui avesse le sue posizioni, che per altro misurava con grandissima sapienza. Ma non dimentichiamolo mai è stato il Papa delle invettive contro il capitalismo egoista, è stato il Papa che ha denunciato lo strazio dell’Africa, è stato il Papa più impegnato per la pace e il dialogo tra le religioni. Ecco: a me interessa che nel Partito democratico ci siano persone che portano il punto di vista, le esperienze, la cultura religiosa con la disponibilità a incontrarle laicamente. Come dice il Dalai Lama, ‘la religione deve in qualche misura sempre essere consapevole del carattere parziale, limitato della sua funzione’”.
Manca però, nel discorso di Veltroni, un concetto chiave: la libertà di coscienza. Quella libertà che, due settimane fa, ha portato la cattolica Paola Binetti a votare “no” alla fiducia di Romano Prodi sull’emendamento che a sinistra continuano a chiamare “antiomofobico” e in realtà riguarda l’identità di genere, cioè una formula ideologica. Omofobia è una parola che Veltroni conosce bene; e che, in un certo senso, ha affrontato anche ieri in consiglio comunale, dove è stato votato un testo presentato dal consigliere della Rosa nel Pugno Gianluca Quadrana sul tema del registro delle unioni civili. Veltroni la pensa così. “Su questo argomento, a Roma, abbiamo già fatto un grandissimo passo in avanti. Mi spiego: tutto ciò che è previsto nelle politiche sociali lo diamo attraverso la residenza anagrafica, per cui se due persone risiedono anagraficamente nello stesso posto hanno la possibilità di accedervi indipendentemente dalla natura della relazione che li ha portati a vivere sotto lo stesso tetto. Ecco, penso che quello che si sta facendo in Parlamento con i Cus sia una base abbastanza giusta; cioè l’idea di avere definizione in forma privata dell’identità di relazione che c’è e che può essere diversa da quella della famiglia tradizionale, anche se io sono perché la famiglia costituzionalmente prevista sia assolutamente garantita. Però i Cus sono una buona base su cui ragionare”. E il matrimonio tra omosessuali? “I Cus sono una buona base su cui ragionare”, ripete Veltroni. Che poi aggiunge: “Non mi piace tra i cattolici, tanto quanto non mi piace tra i laici, quando si utilizzano vicende di questa delicatezza a fini simbolici. Alla mia domanda ai presentatori della proposta del registro sulle coppie di fatto, ‘cosa cambia nella vita delle coppie di fatto delle quali parliamo’ la risposta è: ‘Nulla, ma ha un valore simbolico’. Ecco, a me piacciono le cose concrete. Mi piace costituirmi parte civile con il comune quando un omosessuale viene aggredito. Mi piace dedicare una strada a un omosessuale che è stato ucciso e che è vittima dell’omofobia. Mi piacciono le cose che abbiano una loro concretezza nella vita delle persone”.
Parlare però di libertà di coscienza è un’altra storia. Veltroni capisce quali possano essere state le perplessità di Paola Binetti, ne condivide lo spirito ma non ne accetta l’impatto politico. “Attenzione, sulle questioni etiche sono convinto che la libertà di coscienza non può essere compressa da nessuno. Ma la libertà di coscienza sul voto di fiducia è un’altra cosa. Perché altro è un giudizio politico, altro è un impegno di permanenza del governo. E’ chiaro che su questioni etiche, sulle questioni ‘veramente’ etiche – cioè quando si parla di questioni che chiamano in causa i valori fondamentali nei quali credere, che andrebbero però sempre affrontate con quella curiosità che devono avere i laici e devono avere i cattolici – nessuno può chiedere a nessuno di rinunciare alla propria coscienza. L’idea di trasformare la politica in una grande assemblea col clergyman non sarebbe né giusta né bella per nessuno. Ma detto questo io credo che nessuno può chiedere di lasciare a casa le proprie convinzioni, anche quando si concorre alla formazione e alla scrittura delle regole laiche dello stato. Ma la libertà di coscienza deve essere usata come una fonte feconda. Perché a me non piacciono gli integralismi. Non mi piacciono umanamente e non mi piacciono culturalmente. E se discutiamo dei temi della bioetica, o se discutiamo dei temi della famiglia, mi interessa che l’idea e il punto di vista religioso abitino in un contesto in cui si ricerchino delle soluzioni per uno stato laico che sia ampiamente condivisibile”.
Bioetica, dunque. Giovedì scorso, il filosofo della scienza Mauro Ceruti ha presentato al loft la prima bozza del manifesto dei valori del Pd. Una bozza che potrebbe essere però motivo di scandalo laico, visto il “riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica e non solo privata delle religioni e delle varie forme di spiritualità”.
Questa bozza a Veltroni non dispiace. Il leader del Pd, quando ci spiega la sua idea di “buona scienza”, è in sintonia con le stesse parole utilizzate da Joseph Ratzinger. Il discorso sulla bioetica di W comincia dalle cellule staminali, Veltroni, sfiora il suo pensiero sui pericoli dell’aborto (“Vanno rafforzati i consultori. La legge sull’aborto è una buona legge, ma l’obiettivo che si è proposta è quello ridurre il numero degli aborti: questo obiettivo va confermato. Per questo bisogna rafforzare tutta la parte di prevenzione per chi fa ricorso all’aborto.”). Prima di parlare del Pd, Veltroni dice un paio di cose che potrebbero aiutare a capire meglio come intende ragionare su politica, bioetica, scienza e religione. “Il mio pensiero sull’uso delle cellule staminali? Massimo di libertà scientifica e massimo di ricerca, perché la ricerca scientifica non può conoscere limiti. Attenzione però: sull’applicabilità della ricerca scientifica c’è un discorso delicato da fare. Perché è proprio qui che conta il punto di vista delle istituzioni democratiche. Per esempio, leggere che negli Stati Uniti c’è chi ha messo in cantiere la clonazione degli esseri umani mi fa pensare che c’è un limite al quale bisogna fermarsi”. E’ quindi giusto per Veltroni (“Assolutamente sì”, dice) sintetizzare l’idea di buona scienza così: “Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito”; quindi con le stesse frasi usate da Ceruti nella bozza del Pd, ma con la stesse parole che Veltroni potrebbe trovare nel documento della congregazione per la Dottrina della fede firmato il 22 febbraio 1987: quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger, per definire il suo pensiero sul “rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione” utilizzò gli stessi termini che oggi userebbe W: “Ciò che è tecnicamente possibile non è per ciò stesso moralmente ammissibile”.
Prima di parlare di riforme elettorali, di referendum, di Berlusconi e di Casini, Veltroni parla anche del modello americano del suo Pd e delle sue idee su quanto in questi mesi sta succedendo tra Washington, Teheran e Baghdad. E qui, cioè sull’Iraq, a Veltroni scappa l’unico “ma anche” dell’intervista. Un “ma anche”, però, per certi versi clamoroso: perché Veltroni, parlando di Iraq e di Petraeus usa parole nuove. “L’islamismo radicale è un vero pericolo e non è un’invenzione di Dick Cheney. Io non mi riconosco nell’unilateralismo. Credo però che non si possa avere un atteggiamento ideologico di contrapposizione all’idea che la democrazia possa nascere da un sostegno esterno, quando non nasce spontaneamente. Se mi si chiede cosa hanno fatto i soldati americani i cui corpi sono sepolti ad Anzio e a Nettuno, io risponderei così: ‘Hanno cercato di portare la libertà e la democrazia in un continente dove la libertà e la democrazia ce l’eravamo giocate’. Il problema, oggi, è che questo sia avvenuto in forma unilaterale. E questo a me non piace: non mi piace l’idea di Bush di regolare le contraddizioni del mondo attraverso una struttura unipolare: non è quello di cui c’è bisogno”. Arriva il “ma anche”. Perché se a Veltroni gli si chiede se in Iraq stiamo esportando o no la democrazia, e se in Iraq ci sia o no un successo del generale David G. Petraeus, Veltroni non parla di necessaria “accelerazione del cambiamento delle politiche degli Stati Uniti”, come fatto da Romano Prodi (8 novembre 2006), non parla di una “guerra in Iraq che doveva portare la fine del terrorismo, l’esportazione della democrazia e la pacificazione del medio oriente e ha portato all’esatto contrario” (Massimo D’Alema, 28 marzo 2004), di un “chi fa la guerra adesso lavora allo scontro di civiltà” (Fausto Bertinotti, 9 settembre 2004). Dice invece Veltroni: “Rispetto a Saddam Hussein sicuramente le cose stanno migliorando. Quando si vive sotto una dittatura è chiaro che quando la dittatura finisce le cose migliorano. Ma tra il migliorare la situazione e l’aver risolto tutte le contraddizioni c’è un abisso. E purtroppo il rosario quotidiano di morti ammazzati che ormai non finiscono neanche sui giornali ci dicono quanto ancora quell’area sia un’area che ha bisogno, certo di un intervento militare, ma anche di una grande intelligenza politica. E quella che è mancata nel corso di questi anni è stata l’intelligenza politica applicata alla prevenzione del conflitto”. Veltroni seguendo la scia arriva a discutere anche di Iran: lo aveva già fatto quest’estate parlando di giuste sanzioni all’Iran; e lo fa anche oggi, spiegando perché l’impostazione offerta al problema iraniano dal ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, è proprio quella giusta. “Il mondo deve prepararsi al peggio… cioè alla guerra”, aveva detto, provocatoriamente, il ministro di Nicolas Sarkozy. “Adesso con l’Iran – precisa W – il problema deve essere non quello di avere l’idea di un intervento militare; deve essere un altro, e cioè fare pressione. Negoziare, fare pressione e auspicare l’applicazione di ‘sanzioni’. Perché penso che con l’Iran l’idea di risolvere il problema con il bombardamento sia una tragica illusione. E’ uno di quei casi in cui bisogna usare lo strumento della forza come produttore di un negoziato. Per questo penso che le parole di Kouchner debbano essere seguite con attenzione”.
Il discorso di Walter Veltroni su islam e fondamentalismo si sposta su Hamas ed Hezbollah. Veltroni spiega perché si deve discutere, in certi casi, anche con gli estremisti. “Per cercare la pace, per fare la pace, si discute anche con chi si ritiene che non sia titolato da un punto di vista morale a poterlo fare. Faccio un esempio. Io penso che Ingrid Bétancourt vada liberata non con un intervento militare ma con una negoziazione. Dio solo sa se considero le Farc un interlocutore, avendo loro rapito tremila persone, ed essendo immerse nel narcotraffico. Però mi chiedo: cosa si può fare? O si decide che quelle migliaia di persone moriranno, oppure si decide di negoziare. La storia della democrazia è anche la storia della negoziazione. Ricordiamoci che a Yalta, accanto a Franklin Delano Roosevelt c’era Stalin”. Veltroni, dunque, concorda con le idee di Kouchner e con quelle parole “provocatorie”; fa capire che in America voterebbe Barack Obama, e anche se a gennaio, parlando di politica estera, Obama aveva detto: “Nessun presidente deve mai esitare a usare la forza, unilateralmente se è necessario, per proteggere noi stessi e i nostri interessi vitali”, Veltroni dice che “Obama è una persona che stimo moltissimo che ho conosciuto e le cui idee e la cui visione del mondo e la cui leadership calda mi piace”. W, a proposito di leadership calde (“Anche George W. Bush è una leadership calda, sicuramente lo è stato più di John Kerry, come lo sono Lula o la Bachelet”), dice di apprezzare il linguaggio di Nicolas Sarkozy (“Va oltre gli steccati della politica, e questa secondo me è la grande funzione della politica moderna”) e prende spunto dalla sarkoeconomics per ragionare su economia, salari e straordinari (“La detassazione degli straordinari va vista dentro un contesto di accordo sulla produttività. La questione, in Italia, è che il paese cresce poco e che i salari crescono poco. Oggi c’è bisogno di fare un grande accordo sociale fondato sulla produttività, che consenta, anche attraverso l’utilizzo dello strumento fiscale, la riduzione della pressione fiscale sul costo del lavoro e che permetta alle imprese di alleggerire il costo e agli operai di guadagnare di più”).
Veltroni comincia ora a parlare del Pd. Parla di leadership (“Noi abbiamo introdotto con le primarie un forte elemento di novità, tre milioni e mezzo di persone hanno partecipato e scelto: la leadership discende da quel voto, anche se, ovviamente, si confronta e collabora con un gruppo dirigente più largo, con intelligenza ed equilibrio. Il mandato delle primarie è fare un partito nuovo. A questo mi sento assolutamente legato”); parla della collocazione europea del Pd (“fino al 2009 resteremo nei gruppi parlamentari in cui siamo stati eletti. Ma da qui al 2009 stiamo lavorando con il Pse e con altri soggetti per cercare di creare costruzioni di un luogo del centrosinistra europeo. Sarebbe molto importante, se Pse e internazionale socialista cambiassero la loro denominazione. Perché non è vero che oggi è solo l’identità socialista che identifica il campo del centrosinistra in Europa. E, a mio avviso, se l’Internazionale socialista si chiamasse ‘internazionale dei socialisti e dei democratici’ sarebbe un enorme passo avanti in questa direzione; e la stessa cosa vale per il partito del socialismo europeo”).
Parla anche di cinema, W; Veltroni, qualche tempo fa, aveva detto che con il Pd sarebbe cominciato un nuovo film. Era una battuta; però il sindaco di Roma ora sta al gioco: e se dovesse pensare a un film per il Partito democratico, la prima pellicola che gli viene in mente è il noir di François Truffaut “Finalmente domenica”, tratto dal romanzo di Charles Williams “Morire d’amore”. E se dovesse pensare, invece, a un film per il governo di Prodi? Veltroni ci sta, e sorride: “Direi che il titolo che più si avvicina è ‘Staying alive’”: quel Rocky in versione musical di Sylvester Stallone, con John Travolta che balla vestito da Tony Manero. Torniamo al loft. Per quanto riguarda il Pd ci sono infatti due aspetti che spiega di voler ereditare dal Pd americano. Il primo è il modello (seppur con qualche ritocco) del finanziamento ai partiti, il secondo è il ruolo delle lobby e delle correnti. “Vorrei che ci fossero correnti di pensiero nel Pd, non correnti organizzate. Le correnti organizzate come strutture piramidali che si occupano poco di pensiero e molto di chi viene eletto qui e chi viene eletto là, non mi hanno mai affascinato. Tanto è vero che in vita mia non ho mai fatto parte di nessuna corrente, neanche di una corrente che facesse riferimento a me stesso. Vorrei che si sia scritto sulla mia lapide: non ha mai partecipato a una corrente”, dice Veltroni, scortato a destra da Luigi Coldagelli (dell’ufficio stampa del Comune) e da Roberto Roscani, portavoce del Pd e collega di W all’Unità. Veltroni continua: “A me piacciono le fondazioni culturali, i centri di elaborazione di pensiero, mi piace pensare a un partito più mobile”. Liquido, verrebbe da dire. “Nel Pd americano non ci sono le correnti. Ecco: non mi piace un tipo di leadership esclusiva, né una struttura correntizia di tipo italiano: quella fatta da gente per la quale nella politica conta ‘quanti dei miei ci stanno in questo o in quel consiglio regionale o nel cda di non so che cosa’. Per quanto riguarda il finanziamento e il modello di raccolta fondi americano, ecco, io vorrei che ci fosse una nuova legge che disciplini il finanziamento. Abbiamo bisogno di essere tutti più chiari su questo argomento e, se vogliamo, anche un po’ più contenuti nella macchina della politica. Abbiamo bisogno di alleggerire il numero dei parlamentari, abbiamo bisogno di alleggerire il fatto che si possano avere tanti gruppi parlamentari con tutti i privilegi dei gruppi parlamentari e lo stesso discorso vale anche per la stampa di partito. Cioè, come negli Stati Uniti, la politica deve essere più lieve”. Liquido e leggero. E possibilmente senza tessere e congressi. “Negli Stati Uniti non c’è una macchina organizzativa che dura tutti i giorni che lavora tutti i giorni attorno a quello che in Europa è la vecchia struttura del partito. Però, detto questo, io penso che per quanto riguarda il Pd dobbiamo pensare molto al finanziamento diretto. E’ importante. Noi, in questi giorni stiamo progettando un portale 2.0 del Pd, dove sarà assolutamente attiva una via di finanziamento diretta dei cittadini che vorranno sottoscrivere entro un certo tetto naturalmente. Io, da parte mia, moltiplicherò le cene e le occasioni di fund raising: ne farò già una questa settimana, poi ne farò un’altra subito dopo. Poi, sinceramente, sono anche perché ci sia (ma con attenzione perché noi non siamo gli Stati Uniti), il finanziamento da parte di imprenditori, entro certi limiti e con assoluti criteri di trasparenza”. E – forzando un po’ il link con l’argomento – se per D’Alema è inevitabile che la politica si interessi della finanza, Veltroni non è d’accordo: “L’ideale è che ci sia il massimo dell’autonomia nel mondo finanziario; anche se poi è chiaro che è significativo quello che fa Sarkozy in Francia con Air France ed Edf, perché promuove la Francia. Allo stesso modo tutti i capi di stato e i capi di governo forti promuovono il loro paese. Ma mantenendo quel livello di distanza e di autonomia che è necessario”.
Tornando al modello americano, W non ama il fatto che “si spendano tanti soldi per la politica, e che sulla base di quanti soldi hai raccolto le tue possibilità di essere eletto aumentano. Ma è anche vero che se una lobby deve finanziare il Pd deve farlo alla luce del sole, anche se in America, a mio avviso, gli stessi democratici e repubblicani cominciano a sentire un po’ troppo il peso delle lobby sulla vita politica: pensate a cosa succede quando si deve lavorare a una riforma sanitaria o a una sul controllo dell’uso delle armi”.
E’ pero il ragionamento sul sistema elettorale il cuore della novità politica di questi giorni per W. E le parole di Veltroni sul referendum potrebbero aprire un nuovo fronte di battaglia o di confronto. Più probabile il primo però. Il sindaco di Roma arriva al punto partendo da lontano; spiega come è possibile che in pochi anni sia passato dal criticare, anche in modo brusco, il sistema proporzionale a farne praticamente un elogio. “Sì al sistema proporzionale, no al premio di maggioranza per evitare coalizioni con alleanze fatte dopo il voto”, aveva detto a novembre. Ma a leggere gli editoriali scritti negli anni in cui W era direttore dell’Unità il cambiamento sembra però essere più pesante di quello che sembra. E in effetti un po’ lo è. “Stanno perfino trovando un capo, i nostalgici della proporzionale: Silvio Berlusconi. Il Cavaliere sa di non potercela fare a tornare al governo attraverso una battaglia in campo aperto, un bel confronto bipolare tra Ulivo e Polo. Si sta quindi convincendo che è meglio puntare sulla riesumazione della vecchia politica di accordo al centro, su una parodia della Prima Repubblica, da mandare in scena già in occasione della prossima elezione del capo dello stato. Si tratta di miasmi che vanno rapidamente spazzati via. L’Italia ha bisogno di andare avanti, non di tornare indietro”, scriveva Veltroni il 18 aprile del 1999 sull’Unità, concludendo con un: “Sì per più maggioritario e meno proporzionale. Sì per il doppio turno, sì per il bipolarismo, sì per le riforme”. La situazione ora è ribaltata. E Veltroni spiega senza imbarazzo perché. “Ma certo, non è che sono convinzioni ideologiche le leggi elettorali. Le leggi elettorali sono funzioni di ciò di cui un paese ha bisogno in un determinato momento storico. Noi abbiamo sperimentato un sistema maggioritario con il premio di coalizione; e non ha funzionato. Bisogna prenderne atto. Ovvio: se mi si chiede qual è la soluzione che preferisco è il sistema francese. Elezione diretta del presidente della Repubblica e sistema a doppio turno. Ma siccome sono un uomo politico, e so che bisogna fare i conti con la realtà, verifico che oggi la convergenza più elevata è sul sistema proporzionale: e quello che mi sforzo di fare è un sistema proporzionale che non butti a mare il bipolarismo e che non metta l’Italia nella condizione di ingovernabilità, che è il rischio di un sistema proporzionale non bipolarizzato; non per caso in tutti gli altri paesi europei vi sono partiti attorno al 35 per cento”. E proprio rispolverando le parole e i sistemi elettorali della Prima Repubblica, W accetta di parlare di Tangentopoli, anche in modo duro: “Sì, quegli anni sono stati degli anni terribili. Io facevo il direttore dell’Unità e penso di poter dire che abbiamo tenuto fuori il giornale dall’impazzimento giustizialista che c’era, andando contro anche all’arresto del fratello di Berlusconi; questo perché faccio fatica ad accettare la dilatazione della carcerazione preventiva per chi non ha compiuto atti contro altre persone. Sono convinto che vanno condannate in maniera forte la corruzione e l’utilizzo spregiudicato del potere: perché sì, in quegli anni i giudici sono andati oltre i loro confini, però poi c’è stata contro i magistrati una campagna inaccettabile; e per questo quella è una stagione che non andrebbe ripetuta, nel senso dell’uso di strumenti giudiziari (secondo me sproporzionati rispetto alla situazione data) e nel senso che non va neanche ripetuta quella soluzione di corruzione spaventosa che questo paese ha conosciuto e ha vissuto e che non so neanche dire se sia del tutto finito”. Come Fausto Bertinotti, il giudizio sulla “transizione dalla Prima Repubblica, per Walter Veltroni è lo stesso che il presidente della Camera ha usato dieci giorni fa, attaccando Prodi: “fallita”. “Io credo di essere tra le persone in Italia più angosciate dalla crisi della democrazia italiana: sento che il paese in questo momento è vicino a una crisi molto profonda. Sono convinto che, in questo senso, la democrazia italiana non è compiuta. Perché? Perché il paese non riesce a trovare un assetto di governo stabile. Cioè, un sistema istituzionale ed elettorale che dia ai cittadini la sensazione di essere governati. E dia a chi governa il potere per governare”. Un discorso che può tornare utile anche per comprendere meglio come il leader del Pd si stia muovendo per costruire una specie di nuova Prima Repubblica in grado di prescindere completamente dall’esperienza della Seconda. E su questi temi, il suo asse con il Cav. per il momento regge. E nel CaW, tra l’altro, c’è qualcosa che W ammette di condividere con il leader del Pdl: “Una certa tensione a un rapporto diretto con i cittadini”. E sarà anche per questo che Veltroni crede che con lui, con W, la destra stia facendo oggi lo “stesso errore che la sinistra ha fatto con Berlusconi”. W spiega perché: “L’errore è quello di dire che Veltroni è quello della Festa del cinema, così come si diceva ‘Berlusconi è quello della televisione’; senza capire che per formazione personale e per convinzione politica io ho un rapporto con la vita reale, con le persone, molto diverso da quello che in generale ha la vita politica italiana”. Ma dice di più Veltroni; e lo fa quando parla di quello che la sinistra, secondo lui, non ha capito del Cav. “Io considero quello di non aver capito Berlusconi un sottosistema di un problema più grande, cioè il fatto di non aver letto le trasformazioni della società. Berlusconi è stato in grado, per esempio, nel rapporto con l’imprenditoria di dare voce a un’Italia che voleva rompere un po’ di lacci sulla quale ha messo una cosa che a me non piace culturalmente, e cioè una visione del mondo egoista, se vogliamo, individualista della crescita sociale. Combattere la politica di Berlusconi è stato ed è giusto, ma l’errore della sinistra – insiste W – è stato naturalmente quello di demonizzarlo”.
Sul CaW Veltroni, da come parla, sembra puntarci davvero. E a questo proposito oggi è un giorno molto importante. Perché dopo aver discusso per giorni e giorni sulla bozza ispano-tedesca del Vassallum, la commissione Affari costituzionali del Senato esaminerà questo pomeriggio un’altra bozza elettorale: quella presentata dal senatore Enzo Bianco. Una bozza molto proporzionale che vorrebbe mettere d’accordo il Pd di Veltroni, il Pdl di Berlusconi, il Prc di Bertinotti, la Lega di Bossi e l’Udc di Casini. Della bozza Bianco, Veltroni ne ha parlato sabato con Prodi e venerdì con Clemente Mastella, ma nella discussione sulle riforme elettorali la novità oggi è questa: la vocazione maggioritaria del Pd Veltroni la vede anche nel referendum; un referendum, tra l’altro, su cui hanno lavorato anche due costituzionalisti che hanno ideato per W le cosiddette bozze Vassallum: Salvatore Vassallo e Stefano Ceccanti. Il discorso di Veltroni è questo: a prescindere dalla legge elettorale che ci sarà il Pd deve correre da solo. Sia che ci sia il tedesco, lo spagnolo, sia se ci sia il referendum, sia, se dall’altro lato, nascerà nuovamente la Casa delle libertà. Anche se, dice Veltroni, insieme alla Sinistra L’arcobaleno è “fisiologico” che nasca anche una Cosa bianca. E, se succederà, secondo W il merito sarà del Pd. “Sì, sono convinto che la vera novità nella politica italiana l’ha introdotta sia la nascita del Partito democratico che l’utilizzazione, da parte mia, di un’espressione: ‘un partito a vocazione maggioritaria’, tanto che il primo effetto è stata la fine della Cdl”. Parla ancora di unilateralismo Veltroni: ma questa volta, a differenza dell’Iraq, ne parla con entusiasmo. “La mia idea è che, anche unilateralmente e anche a prescindere dalla legge elettorale, si possa rompere il sistema di vincoli che sono discesi per tredici anni da quel modello di mondo politico separato dalle due contrapposizioni. Ed è per questo che noi siamo disposti ad andare da soli, proprio per segnare questo elemento di discontinuità che è necessario al paese. Certo – continua Veltroni – può darsi che si costituirà una forza di centro. Può essere una delle dinamiche che da un lato la riforma elettorale dall’altro la Casa delle libertà mettono in moto. Però, se devo essere sincero, io non so se ci sarà una Cosa bianca. Perché? Perché francamente ho dei dubbi sul fatto che la chiesa italiana che ha avuto come riferimento politico un grande partito come la Dc voglia avere come riferimento politico una forza dell’otto o del nove per cento”. Cioè un partito che, in percentuale, varrebbe tre o quattro volte in meno rispetto a quello che è nelle mani di W.
Con un po’ di acrobazie diplomatiche Veltroni parla anche del governo (“io sono perché Prodi non cada non solo perché ovviamente sono impegnato con quello che faccio oggi, ma perché oggi la permanenza del governo Prodi è la condizione per fare le riforme”), se gli si chiede cosa farà nel caso in cui Prodi dovesse cadere lui risponde con un “non esamino la subordinata”; se gli si domanda in cosa si sente diverso da Prodi e da D’Alema lui prima ride, poi dice che “la risposta è molto semplice: ciascuno è se stesso”, poi, incalzandolo un po’, ti dice “che ti potrei dire che sono diverso da diciotto persone, ma perché da Prodi e da D’Alema e non da Giolitti o da chessò?”; quindi, facendo un ultimo tentativo, alla fine parla un po’ di Prodi. “In cosa sono diverso? In mille cose. Perché siamo due persone diverse, abbiamo due caratteri diversi, abbiamo due formazioni culturali diverse, siamo di due generazioni diverse. Siamo tutti diversi per fortuna, l’uno dall’altro. Mentre siamo simili nel fatto che abbiamo creduto, anche quando tutti ci tiravano le torte addosso, che si sarebbe fatto il Partito democratico. E questa è la cosa che ci ha resi simili e uniti per tanti anni”. Ma se Veltroni dovesse poi pensare a un futuro in cui l’unica condizione per governare sia quella di un accordo tra il più grande partito di destra con quello di sinistra, Veltroni prova a cavarsela dicendo che “senza sapere con che legge elettorale si va a votare come si fa a dare una risposta a questo tema?”. Veltroni, però, dice anche qualcosa di più. Dice no, W. Per il momento dice no. “Comunque la mia risposta è no. Siamo alternativi, e il carattere netto e trasparente del nostro dialogo è proprio qui. Mi auguro che venga il tempo in cui in questo paese questa domanda non si debba porre. Perché il vero obiettivo deve essere un altro: che i poteri siano tutti riconoscibili perché decisi dagli elettori. Io non capisco quando sento dire in questi giorni da Fini o da altri ‘ma voi volete togliere potere agli elettori’. Ma dico? Ma guardate lo scenario che c’è. Ma sono forse gli elettori che in questo momento decidono o meno la stabilità del governo Prodi o la sua sorte? No, sono piccoli gruppi che si sono costituiti. Io invece vorrei veramente che ci fosse il potere degli elettori, però per avere la possibilità di dare il potere agli elettori bisogna che ci sia un sistema elettorale e istituzionale come quello francese”. Dunque Veltroni, tra un tedesco impuro, uno spagnolo bavarese, un mattarellum comunale, un vassallum democratico e un porcellum caldaroliano, conferma che il suo sogno, in realtà, è un sistema elettorale da Quinta Repubblica francese. Certo è che se oggi dovesse scegliere tra il referendum e il sistema elettorale tedesco puro (cioè quello che piace a Massimo D’Alema, a Francesco Rutelli, a Franco Marini, a Pier Ferdinando Casini e quello che fino a qualche tempo fa piaceva anche a Fausto Bertinotti), Veltroni non avrebbe alcun dubbio, e sceglierebbe il primo. “Qui entriamo in un ragionamento che può essere delicato ma molto interessante. Ecco, io credo che se i miei avversari dicessero, in presenza del referendum, ‘ciascuno di noi va da solo’, introducendo per virtù personale ciò che l’assetto non ci consentirebbe, questo sarebbe un fatto molto importante”, spiega Veltroni. “Io per parte mia – prosegue – dico che, noi, la nostra vocazione maggioritaria intendiamo coltivarla quale che sia il sistema elettorale. Ma se Forza Italia e Alleanza nazionale, in ragione delle differenze che sono emerse negli ultimi tempi, avessero l’onestà politica di dire ‘se c’è il referendum ciascuno di noi va per conto suo’ e nessuno rifà le alleanze, questo introdurrebbe nella politica italiana un forte elemento di discontinuità”. Discontinuità, dunque, e sì al referendum, ma a certe condizioni. Veltroni, che concorda con Giorgio Napolitano quando il presidente della Repubblica dice che si deve andare a votare solo con riforme istituzionali e con riforma elettorale fatta (“puoi fare la legge elettorale più bella del mondo, ma poi se non si è fatta la riforma dei regolamenti parlamentari, da una sola lista nascono diciotto gruppi parlamentari. E se non si è fatta la riforma istituzionale i meccanismi di decisione restano lenti e rischiosi”), sembra voler fare questo discorso; sembra voler dire che, se si dovesse arrivare al referendum e se la destra dovesse formare una nuova Cdl, in nome della vocazione maggioritaria il Pd potrebbe addirittura presentarsi da solo per sfruttare i bisticci della destra e puntare su una proposta unica come quella del Pd. Veltroni ci pensa, e il Cav. lo ascolterà; e chissà se Berlusconi comincerà a parlare un po’ in francese come fa W oggi. Ma all’impossibile modello del CaW, Walter Veltroni, oggi, sembra crederci un pochino. Cioè molto.
Claudio Cerasa
19/12/07
Due mesi fa tre milioni di elettori scelsero W come leader del Pd; due settimane fa, al quinto piano del palazzo dei gruppi parlamentari, W ha incontrato il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi; tra poche settimane Romano Prodi dovrà affrontare quella verifica di governo di cui sabato Veltroni ha parlato con Romano Prodi: tra un’intervista alle 9.15, un matrimonio celebrato alle 11.30 e un compleanno centenario festeggiato alle 10.30 a casa della signora Broccolo. E’ un Veltroni un po’ meno spagnolo, sempre meno tedesco, molto americano ma pure un po’ francese. E’ un Veltroni che fa un paio di assist al Cav., che rilegge in modo curioso un aspetto dello strappo di Fausto Bertinotti con Prodi e che, quando si parla di religione e di politica, non ha nulla da ridire sulle parole di Obama (“I laici sbagliano a chiedere ai credenti che entrano in politica di lasciare da parte la religione”). W sorride leggendo la prima pagina del Foglio di sabato sui leader cristiani in corsa in America per la presidenza; e alla domanda: “Che cosa significa Cristo in politica?”, dà una risposta che farà insospettire chi crede che sia “molto difficile essere laici nel paese delle chiese” (Eugenio Scalfari, Repubblica 16 dicembre).
Spiega Veltroni: “Cristo in politica è giusto e legittimo che lo porti chi ha Cristo dentro di sé. E che lo porti e non lo lasci a casa. L’idea che qualche volta la politica ha avuto anzi, che spesso la politica ha, fa parte di una visione del mondo che io non condivido: che la laicità dello stato – che io considero come un valore assolutamente indiscutibile e indisponibile – presupponga una sorta di rinuncia alle identità di ciascuno. Qui dentro però io ci vedo una delle chiavi della possibile convivenza del nuovo millennio: il tema del rapporto tra identità e dialogo. E’ un tempo, questo, in cui di fronte alla paura delle grandi trasformazioni economiche e finanziarie, e della circolazione delle persone con la loro visione del mondo e la loro religione, sembra prevalere in ciascuno l’idea di arroccarsi in una dimensione identitaria: un po’ per conforto, un po’ per rassicurazione; ma con l’idea che questo possa essere l’antidoto al processo di melting pot in corso. Tutto questo lo si può affrontare in due modi: lo si può affrontare accettandolo passivamente. Ma il rischio dell’accettazione passiva è che si finisca con il legittimare anche le forme attraverso le quali questa identità figlia di divisioni culturali, religiose, di concezioni della comunità pubblica diversa dalle nostre, si fa integralista, fino ai rischi del fondamentalismo. Oppure lo si può accettare con l’idea che l’identità non sia uno straccio. E che l’identità sia figlia della storia, delle culture, delle radici, delle ragioni e che sia un valore. Perché se è vero che è necessario il dialogo, il dialogo ha senso se ci sono tante identità. E se qualcuno afferma e difende queste identità. La grandezza della cultura politica dovrebbe essere quella di far convivere la propria identità con la disponibilità all’apertura. Qui sta l’idea del rapporto tra stato laico e punto di vista religioso”.
Veltroni ora entra nel cuore del discorso: “Personalmente non sono credente e non avrebbe senso che io fossi considerato un christian leader, anche perché esiste una sfera che è assolutamente personale che mi dà fastidio dover usare quando c’è qualcosa che è pubblico (ho visto, a proposito del rapporto tra politica e religione, trasformazioni troppo repentine determinate dalle contingenze del momento). Però vorrei che la mia idea fosse chiara: a me ha sempre culturalmente affascinato la vocazione pastorale della chiesa mentre mi piace meno quella chiesa che ogni giorno sforna prescrizioni morali di comportamento: lo considero un po’ una riduzione della grandezza della missione e della funzione della stessa chiesa. Io sono stato molto affascinato da Giovanni Paolo II, l’ho conosciuto ho avuto modo di parlare con lui diverse volte, mi piaceva enormemente la coesistenza in lui di identità e dialogo. Mi piaceva il fatto che sulle questioni che attengono alla responsabilità della chiesa lui avesse le sue posizioni, che per altro misurava con grandissima sapienza. Ma non dimentichiamolo mai è stato il Papa delle invettive contro il capitalismo egoista, è stato il Papa che ha denunciato lo strazio dell’Africa, è stato il Papa più impegnato per la pace e il dialogo tra le religioni. Ecco: a me interessa che nel Partito democratico ci siano persone che portano il punto di vista, le esperienze, la cultura religiosa con la disponibilità a incontrarle laicamente. Come dice il Dalai Lama, ‘la religione deve in qualche misura sempre essere consapevole del carattere parziale, limitato della sua funzione’”.
Manca però, nel discorso di Veltroni, un concetto chiave: la libertà di coscienza. Quella libertà che, due settimane fa, ha portato la cattolica Paola Binetti a votare “no” alla fiducia di Romano Prodi sull’emendamento che a sinistra continuano a chiamare “antiomofobico” e in realtà riguarda l’identità di genere, cioè una formula ideologica. Omofobia è una parola che Veltroni conosce bene; e che, in un certo senso, ha affrontato anche ieri in consiglio comunale, dove è stato votato un testo presentato dal consigliere della Rosa nel Pugno Gianluca Quadrana sul tema del registro delle unioni civili. Veltroni la pensa così. “Su questo argomento, a Roma, abbiamo già fatto un grandissimo passo in avanti. Mi spiego: tutto ciò che è previsto nelle politiche sociali lo diamo attraverso la residenza anagrafica, per cui se due persone risiedono anagraficamente nello stesso posto hanno la possibilità di accedervi indipendentemente dalla natura della relazione che li ha portati a vivere sotto lo stesso tetto. Ecco, penso che quello che si sta facendo in Parlamento con i Cus sia una base abbastanza giusta; cioè l’idea di avere definizione in forma privata dell’identità di relazione che c’è e che può essere diversa da quella della famiglia tradizionale, anche se io sono perché la famiglia costituzionalmente prevista sia assolutamente garantita. Però i Cus sono una buona base su cui ragionare”. E il matrimonio tra omosessuali? “I Cus sono una buona base su cui ragionare”, ripete Veltroni. Che poi aggiunge: “Non mi piace tra i cattolici, tanto quanto non mi piace tra i laici, quando si utilizzano vicende di questa delicatezza a fini simbolici. Alla mia domanda ai presentatori della proposta del registro sulle coppie di fatto, ‘cosa cambia nella vita delle coppie di fatto delle quali parliamo’ la risposta è: ‘Nulla, ma ha un valore simbolico’. Ecco, a me piacciono le cose concrete. Mi piace costituirmi parte civile con il comune quando un omosessuale viene aggredito. Mi piace dedicare una strada a un omosessuale che è stato ucciso e che è vittima dell’omofobia. Mi piacciono le cose che abbiano una loro concretezza nella vita delle persone”.
Parlare però di libertà di coscienza è un’altra storia. Veltroni capisce quali possano essere state le perplessità di Paola Binetti, ne condivide lo spirito ma non ne accetta l’impatto politico. “Attenzione, sulle questioni etiche sono convinto che la libertà di coscienza non può essere compressa da nessuno. Ma la libertà di coscienza sul voto di fiducia è un’altra cosa. Perché altro è un giudizio politico, altro è un impegno di permanenza del governo. E’ chiaro che su questioni etiche, sulle questioni ‘veramente’ etiche – cioè quando si parla di questioni che chiamano in causa i valori fondamentali nei quali credere, che andrebbero però sempre affrontate con quella curiosità che devono avere i laici e devono avere i cattolici – nessuno può chiedere a nessuno di rinunciare alla propria coscienza. L’idea di trasformare la politica in una grande assemblea col clergyman non sarebbe né giusta né bella per nessuno. Ma detto questo io credo che nessuno può chiedere di lasciare a casa le proprie convinzioni, anche quando si concorre alla formazione e alla scrittura delle regole laiche dello stato. Ma la libertà di coscienza deve essere usata come una fonte feconda. Perché a me non piacciono gli integralismi. Non mi piacciono umanamente e non mi piacciono culturalmente. E se discutiamo dei temi della bioetica, o se discutiamo dei temi della famiglia, mi interessa che l’idea e il punto di vista religioso abitino in un contesto in cui si ricerchino delle soluzioni per uno stato laico che sia ampiamente condivisibile”.
Bioetica, dunque. Giovedì scorso, il filosofo della scienza Mauro Ceruti ha presentato al loft la prima bozza del manifesto dei valori del Pd. Una bozza che potrebbe essere però motivo di scandalo laico, visto il “riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica e non solo privata delle religioni e delle varie forme di spiritualità”.
Questa bozza a Veltroni non dispiace. Il leader del Pd, quando ci spiega la sua idea di “buona scienza”, è in sintonia con le stesse parole utilizzate da Joseph Ratzinger. Il discorso sulla bioetica di W comincia dalle cellule staminali, Veltroni, sfiora il suo pensiero sui pericoli dell’aborto (“Vanno rafforzati i consultori. La legge sull’aborto è una buona legge, ma l’obiettivo che si è proposta è quello ridurre il numero degli aborti: questo obiettivo va confermato. Per questo bisogna rafforzare tutta la parte di prevenzione per chi fa ricorso all’aborto.”). Prima di parlare del Pd, Veltroni dice un paio di cose che potrebbero aiutare a capire meglio come intende ragionare su politica, bioetica, scienza e religione. “Il mio pensiero sull’uso delle cellule staminali? Massimo di libertà scientifica e massimo di ricerca, perché la ricerca scientifica non può conoscere limiti. Attenzione però: sull’applicabilità della ricerca scientifica c’è un discorso delicato da fare. Perché è proprio qui che conta il punto di vista delle istituzioni democratiche. Per esempio, leggere che negli Stati Uniti c’è chi ha messo in cantiere la clonazione degli esseri umani mi fa pensare che c’è un limite al quale bisogna fermarsi”. E’ quindi giusto per Veltroni (“Assolutamente sì”, dice) sintetizzare l’idea di buona scienza così: “Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito”; quindi con le stesse frasi usate da Ceruti nella bozza del Pd, ma con la stesse parole che Veltroni potrebbe trovare nel documento della congregazione per la Dottrina della fede firmato il 22 febbraio 1987: quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger, per definire il suo pensiero sul “rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione” utilizzò gli stessi termini che oggi userebbe W: “Ciò che è tecnicamente possibile non è per ciò stesso moralmente ammissibile”.
Prima di parlare di riforme elettorali, di referendum, di Berlusconi e di Casini, Veltroni parla anche del modello americano del suo Pd e delle sue idee su quanto in questi mesi sta succedendo tra Washington, Teheran e Baghdad. E qui, cioè sull’Iraq, a Veltroni scappa l’unico “ma anche” dell’intervista. Un “ma anche”, però, per certi versi clamoroso: perché Veltroni, parlando di Iraq e di Petraeus usa parole nuove. “L’islamismo radicale è un vero pericolo e non è un’invenzione di Dick Cheney. Io non mi riconosco nell’unilateralismo. Credo però che non si possa avere un atteggiamento ideologico di contrapposizione all’idea che la democrazia possa nascere da un sostegno esterno, quando non nasce spontaneamente. Se mi si chiede cosa hanno fatto i soldati americani i cui corpi sono sepolti ad Anzio e a Nettuno, io risponderei così: ‘Hanno cercato di portare la libertà e la democrazia in un continente dove la libertà e la democrazia ce l’eravamo giocate’. Il problema, oggi, è che questo sia avvenuto in forma unilaterale. E questo a me non piace: non mi piace l’idea di Bush di regolare le contraddizioni del mondo attraverso una struttura unipolare: non è quello di cui c’è bisogno”. Arriva il “ma anche”. Perché se a Veltroni gli si chiede se in Iraq stiamo esportando o no la democrazia, e se in Iraq ci sia o no un successo del generale David G. Petraeus, Veltroni non parla di necessaria “accelerazione del cambiamento delle politiche degli Stati Uniti”, come fatto da Romano Prodi (8 novembre 2006), non parla di una “guerra in Iraq che doveva portare la fine del terrorismo, l’esportazione della democrazia e la pacificazione del medio oriente e ha portato all’esatto contrario” (Massimo D’Alema, 28 marzo 2004), di un “chi fa la guerra adesso lavora allo scontro di civiltà” (Fausto Bertinotti, 9 settembre 2004). Dice invece Veltroni: “Rispetto a Saddam Hussein sicuramente le cose stanno migliorando. Quando si vive sotto una dittatura è chiaro che quando la dittatura finisce le cose migliorano. Ma tra il migliorare la situazione e l’aver risolto tutte le contraddizioni c’è un abisso. E purtroppo il rosario quotidiano di morti ammazzati che ormai non finiscono neanche sui giornali ci dicono quanto ancora quell’area sia un’area che ha bisogno, certo di un intervento militare, ma anche di una grande intelligenza politica. E quella che è mancata nel corso di questi anni è stata l’intelligenza politica applicata alla prevenzione del conflitto”. Veltroni seguendo la scia arriva a discutere anche di Iran: lo aveva già fatto quest’estate parlando di giuste sanzioni all’Iran; e lo fa anche oggi, spiegando perché l’impostazione offerta al problema iraniano dal ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, è proprio quella giusta. “Il mondo deve prepararsi al peggio… cioè alla guerra”, aveva detto, provocatoriamente, il ministro di Nicolas Sarkozy. “Adesso con l’Iran – precisa W – il problema deve essere non quello di avere l’idea di un intervento militare; deve essere un altro, e cioè fare pressione. Negoziare, fare pressione e auspicare l’applicazione di ‘sanzioni’. Perché penso che con l’Iran l’idea di risolvere il problema con il bombardamento sia una tragica illusione. E’ uno di quei casi in cui bisogna usare lo strumento della forza come produttore di un negoziato. Per questo penso che le parole di Kouchner debbano essere seguite con attenzione”.
Il discorso di Walter Veltroni su islam e fondamentalismo si sposta su Hamas ed Hezbollah. Veltroni spiega perché si deve discutere, in certi casi, anche con gli estremisti. “Per cercare la pace, per fare la pace, si discute anche con chi si ritiene che non sia titolato da un punto di vista morale a poterlo fare. Faccio un esempio. Io penso che Ingrid Bétancourt vada liberata non con un intervento militare ma con una negoziazione. Dio solo sa se considero le Farc un interlocutore, avendo loro rapito tremila persone, ed essendo immerse nel narcotraffico. Però mi chiedo: cosa si può fare? O si decide che quelle migliaia di persone moriranno, oppure si decide di negoziare. La storia della democrazia è anche la storia della negoziazione. Ricordiamoci che a Yalta, accanto a Franklin Delano Roosevelt c’era Stalin”. Veltroni, dunque, concorda con le idee di Kouchner e con quelle parole “provocatorie”; fa capire che in America voterebbe Barack Obama, e anche se a gennaio, parlando di politica estera, Obama aveva detto: “Nessun presidente deve mai esitare a usare la forza, unilateralmente se è necessario, per proteggere noi stessi e i nostri interessi vitali”, Veltroni dice che “Obama è una persona che stimo moltissimo che ho conosciuto e le cui idee e la cui visione del mondo e la cui leadership calda mi piace”. W, a proposito di leadership calde (“Anche George W. Bush è una leadership calda, sicuramente lo è stato più di John Kerry, come lo sono Lula o la Bachelet”), dice di apprezzare il linguaggio di Nicolas Sarkozy (“Va oltre gli steccati della politica, e questa secondo me è la grande funzione della politica moderna”) e prende spunto dalla sarkoeconomics per ragionare su economia, salari e straordinari (“La detassazione degli straordinari va vista dentro un contesto di accordo sulla produttività. La questione, in Italia, è che il paese cresce poco e che i salari crescono poco. Oggi c’è bisogno di fare un grande accordo sociale fondato sulla produttività, che consenta, anche attraverso l’utilizzo dello strumento fiscale, la riduzione della pressione fiscale sul costo del lavoro e che permetta alle imprese di alleggerire il costo e agli operai di guadagnare di più”).
Veltroni comincia ora a parlare del Pd. Parla di leadership (“Noi abbiamo introdotto con le primarie un forte elemento di novità, tre milioni e mezzo di persone hanno partecipato e scelto: la leadership discende da quel voto, anche se, ovviamente, si confronta e collabora con un gruppo dirigente più largo, con intelligenza ed equilibrio. Il mandato delle primarie è fare un partito nuovo. A questo mi sento assolutamente legato”); parla della collocazione europea del Pd (“fino al 2009 resteremo nei gruppi parlamentari in cui siamo stati eletti. Ma da qui al 2009 stiamo lavorando con il Pse e con altri soggetti per cercare di creare costruzioni di un luogo del centrosinistra europeo. Sarebbe molto importante, se Pse e internazionale socialista cambiassero la loro denominazione. Perché non è vero che oggi è solo l’identità socialista che identifica il campo del centrosinistra in Europa. E, a mio avviso, se l’Internazionale socialista si chiamasse ‘internazionale dei socialisti e dei democratici’ sarebbe un enorme passo avanti in questa direzione; e la stessa cosa vale per il partito del socialismo europeo”).
Parla anche di cinema, W; Veltroni, qualche tempo fa, aveva detto che con il Pd sarebbe cominciato un nuovo film. Era una battuta; però il sindaco di Roma ora sta al gioco: e se dovesse pensare a un film per il Partito democratico, la prima pellicola che gli viene in mente è il noir di François Truffaut “Finalmente domenica”, tratto dal romanzo di Charles Williams “Morire d’amore”. E se dovesse pensare, invece, a un film per il governo di Prodi? Veltroni ci sta, e sorride: “Direi che il titolo che più si avvicina è ‘Staying alive’”: quel Rocky in versione musical di Sylvester Stallone, con John Travolta che balla vestito da Tony Manero. Torniamo al loft. Per quanto riguarda il Pd ci sono infatti due aspetti che spiega di voler ereditare dal Pd americano. Il primo è il modello (seppur con qualche ritocco) del finanziamento ai partiti, il secondo è il ruolo delle lobby e delle correnti. “Vorrei che ci fossero correnti di pensiero nel Pd, non correnti organizzate. Le correnti organizzate come strutture piramidali che si occupano poco di pensiero e molto di chi viene eletto qui e chi viene eletto là, non mi hanno mai affascinato. Tanto è vero che in vita mia non ho mai fatto parte di nessuna corrente, neanche di una corrente che facesse riferimento a me stesso. Vorrei che si sia scritto sulla mia lapide: non ha mai partecipato a una corrente”, dice Veltroni, scortato a destra da Luigi Coldagelli (dell’ufficio stampa del Comune) e da Roberto Roscani, portavoce del Pd e collega di W all’Unità. Veltroni continua: “A me piacciono le fondazioni culturali, i centri di elaborazione di pensiero, mi piace pensare a un partito più mobile”. Liquido, verrebbe da dire. “Nel Pd americano non ci sono le correnti. Ecco: non mi piace un tipo di leadership esclusiva, né una struttura correntizia di tipo italiano: quella fatta da gente per la quale nella politica conta ‘quanti dei miei ci stanno in questo o in quel consiglio regionale o nel cda di non so che cosa’. Per quanto riguarda il finanziamento e il modello di raccolta fondi americano, ecco, io vorrei che ci fosse una nuova legge che disciplini il finanziamento. Abbiamo bisogno di essere tutti più chiari su questo argomento e, se vogliamo, anche un po’ più contenuti nella macchina della politica. Abbiamo bisogno di alleggerire il numero dei parlamentari, abbiamo bisogno di alleggerire il fatto che si possano avere tanti gruppi parlamentari con tutti i privilegi dei gruppi parlamentari e lo stesso discorso vale anche per la stampa di partito. Cioè, come negli Stati Uniti, la politica deve essere più lieve”. Liquido e leggero. E possibilmente senza tessere e congressi. “Negli Stati Uniti non c’è una macchina organizzativa che dura tutti i giorni che lavora tutti i giorni attorno a quello che in Europa è la vecchia struttura del partito. Però, detto questo, io penso che per quanto riguarda il Pd dobbiamo pensare molto al finanziamento diretto. E’ importante. Noi, in questi giorni stiamo progettando un portale 2.0 del Pd, dove sarà assolutamente attiva una via di finanziamento diretta dei cittadini che vorranno sottoscrivere entro un certo tetto naturalmente. Io, da parte mia, moltiplicherò le cene e le occasioni di fund raising: ne farò già una questa settimana, poi ne farò un’altra subito dopo. Poi, sinceramente, sono anche perché ci sia (ma con attenzione perché noi non siamo gli Stati Uniti), il finanziamento da parte di imprenditori, entro certi limiti e con assoluti criteri di trasparenza”. E – forzando un po’ il link con l’argomento – se per D’Alema è inevitabile che la politica si interessi della finanza, Veltroni non è d’accordo: “L’ideale è che ci sia il massimo dell’autonomia nel mondo finanziario; anche se poi è chiaro che è significativo quello che fa Sarkozy in Francia con Air France ed Edf, perché promuove la Francia. Allo stesso modo tutti i capi di stato e i capi di governo forti promuovono il loro paese. Ma mantenendo quel livello di distanza e di autonomia che è necessario”.
Tornando al modello americano, W non ama il fatto che “si spendano tanti soldi per la politica, e che sulla base di quanti soldi hai raccolto le tue possibilità di essere eletto aumentano. Ma è anche vero che se una lobby deve finanziare il Pd deve farlo alla luce del sole, anche se in America, a mio avviso, gli stessi democratici e repubblicani cominciano a sentire un po’ troppo il peso delle lobby sulla vita politica: pensate a cosa succede quando si deve lavorare a una riforma sanitaria o a una sul controllo dell’uso delle armi”.
E’ pero il ragionamento sul sistema elettorale il cuore della novità politica di questi giorni per W. E le parole di Veltroni sul referendum potrebbero aprire un nuovo fronte di battaglia o di confronto. Più probabile il primo però. Il sindaco di Roma arriva al punto partendo da lontano; spiega come è possibile che in pochi anni sia passato dal criticare, anche in modo brusco, il sistema proporzionale a farne praticamente un elogio. “Sì al sistema proporzionale, no al premio di maggioranza per evitare coalizioni con alleanze fatte dopo il voto”, aveva detto a novembre. Ma a leggere gli editoriali scritti negli anni in cui W era direttore dell’Unità il cambiamento sembra però essere più pesante di quello che sembra. E in effetti un po’ lo è. “Stanno perfino trovando un capo, i nostalgici della proporzionale: Silvio Berlusconi. Il Cavaliere sa di non potercela fare a tornare al governo attraverso una battaglia in campo aperto, un bel confronto bipolare tra Ulivo e Polo. Si sta quindi convincendo che è meglio puntare sulla riesumazione della vecchia politica di accordo al centro, su una parodia della Prima Repubblica, da mandare in scena già in occasione della prossima elezione del capo dello stato. Si tratta di miasmi che vanno rapidamente spazzati via. L’Italia ha bisogno di andare avanti, non di tornare indietro”, scriveva Veltroni il 18 aprile del 1999 sull’Unità, concludendo con un: “Sì per più maggioritario e meno proporzionale. Sì per il doppio turno, sì per il bipolarismo, sì per le riforme”. La situazione ora è ribaltata. E Veltroni spiega senza imbarazzo perché. “Ma certo, non è che sono convinzioni ideologiche le leggi elettorali. Le leggi elettorali sono funzioni di ciò di cui un paese ha bisogno in un determinato momento storico. Noi abbiamo sperimentato un sistema maggioritario con il premio di coalizione; e non ha funzionato. Bisogna prenderne atto. Ovvio: se mi si chiede qual è la soluzione che preferisco è il sistema francese. Elezione diretta del presidente della Repubblica e sistema a doppio turno. Ma siccome sono un uomo politico, e so che bisogna fare i conti con la realtà, verifico che oggi la convergenza più elevata è sul sistema proporzionale: e quello che mi sforzo di fare è un sistema proporzionale che non butti a mare il bipolarismo e che non metta l’Italia nella condizione di ingovernabilità, che è il rischio di un sistema proporzionale non bipolarizzato; non per caso in tutti gli altri paesi europei vi sono partiti attorno al 35 per cento”. E proprio rispolverando le parole e i sistemi elettorali della Prima Repubblica, W accetta di parlare di Tangentopoli, anche in modo duro: “Sì, quegli anni sono stati degli anni terribili. Io facevo il direttore dell’Unità e penso di poter dire che abbiamo tenuto fuori il giornale dall’impazzimento giustizialista che c’era, andando contro anche all’arresto del fratello di Berlusconi; questo perché faccio fatica ad accettare la dilatazione della carcerazione preventiva per chi non ha compiuto atti contro altre persone. Sono convinto che vanno condannate in maniera forte la corruzione e l’utilizzo spregiudicato del potere: perché sì, in quegli anni i giudici sono andati oltre i loro confini, però poi c’è stata contro i magistrati una campagna inaccettabile; e per questo quella è una stagione che non andrebbe ripetuta, nel senso dell’uso di strumenti giudiziari (secondo me sproporzionati rispetto alla situazione data) e nel senso che non va neanche ripetuta quella soluzione di corruzione spaventosa che questo paese ha conosciuto e ha vissuto e che non so neanche dire se sia del tutto finito”. Come Fausto Bertinotti, il giudizio sulla “transizione dalla Prima Repubblica, per Walter Veltroni è lo stesso che il presidente della Camera ha usato dieci giorni fa, attaccando Prodi: “fallita”. “Io credo di essere tra le persone in Italia più angosciate dalla crisi della democrazia italiana: sento che il paese in questo momento è vicino a una crisi molto profonda. Sono convinto che, in questo senso, la democrazia italiana non è compiuta. Perché? Perché il paese non riesce a trovare un assetto di governo stabile. Cioè, un sistema istituzionale ed elettorale che dia ai cittadini la sensazione di essere governati. E dia a chi governa il potere per governare”. Un discorso che può tornare utile anche per comprendere meglio come il leader del Pd si stia muovendo per costruire una specie di nuova Prima Repubblica in grado di prescindere completamente dall’esperienza della Seconda. E su questi temi, il suo asse con il Cav. per il momento regge. E nel CaW, tra l’altro, c’è qualcosa che W ammette di condividere con il leader del Pdl: “Una certa tensione a un rapporto diretto con i cittadini”. E sarà anche per questo che Veltroni crede che con lui, con W, la destra stia facendo oggi lo “stesso errore che la sinistra ha fatto con Berlusconi”. W spiega perché: “L’errore è quello di dire che Veltroni è quello della Festa del cinema, così come si diceva ‘Berlusconi è quello della televisione’; senza capire che per formazione personale e per convinzione politica io ho un rapporto con la vita reale, con le persone, molto diverso da quello che in generale ha la vita politica italiana”. Ma dice di più Veltroni; e lo fa quando parla di quello che la sinistra, secondo lui, non ha capito del Cav. “Io considero quello di non aver capito Berlusconi un sottosistema di un problema più grande, cioè il fatto di non aver letto le trasformazioni della società. Berlusconi è stato in grado, per esempio, nel rapporto con l’imprenditoria di dare voce a un’Italia che voleva rompere un po’ di lacci sulla quale ha messo una cosa che a me non piace culturalmente, e cioè una visione del mondo egoista, se vogliamo, individualista della crescita sociale. Combattere la politica di Berlusconi è stato ed è giusto, ma l’errore della sinistra – insiste W – è stato naturalmente quello di demonizzarlo”.
Sul CaW Veltroni, da come parla, sembra puntarci davvero. E a questo proposito oggi è un giorno molto importante. Perché dopo aver discusso per giorni e giorni sulla bozza ispano-tedesca del Vassallum, la commissione Affari costituzionali del Senato esaminerà questo pomeriggio un’altra bozza elettorale: quella presentata dal senatore Enzo Bianco. Una bozza molto proporzionale che vorrebbe mettere d’accordo il Pd di Veltroni, il Pdl di Berlusconi, il Prc di Bertinotti, la Lega di Bossi e l’Udc di Casini. Della bozza Bianco, Veltroni ne ha parlato sabato con Prodi e venerdì con Clemente Mastella, ma nella discussione sulle riforme elettorali la novità oggi è questa: la vocazione maggioritaria del Pd Veltroni la vede anche nel referendum; un referendum, tra l’altro, su cui hanno lavorato anche due costituzionalisti che hanno ideato per W le cosiddette bozze Vassallum: Salvatore Vassallo e Stefano Ceccanti. Il discorso di Veltroni è questo: a prescindere dalla legge elettorale che ci sarà il Pd deve correre da solo. Sia che ci sia il tedesco, lo spagnolo, sia se ci sia il referendum, sia, se dall’altro lato, nascerà nuovamente la Casa delle libertà. Anche se, dice Veltroni, insieme alla Sinistra L’arcobaleno è “fisiologico” che nasca anche una Cosa bianca. E, se succederà, secondo W il merito sarà del Pd. “Sì, sono convinto che la vera novità nella politica italiana l’ha introdotta sia la nascita del Partito democratico che l’utilizzazione, da parte mia, di un’espressione: ‘un partito a vocazione maggioritaria’, tanto che il primo effetto è stata la fine della Cdl”. Parla ancora di unilateralismo Veltroni: ma questa volta, a differenza dell’Iraq, ne parla con entusiasmo. “La mia idea è che, anche unilateralmente e anche a prescindere dalla legge elettorale, si possa rompere il sistema di vincoli che sono discesi per tredici anni da quel modello di mondo politico separato dalle due contrapposizioni. Ed è per questo che noi siamo disposti ad andare da soli, proprio per segnare questo elemento di discontinuità che è necessario al paese. Certo – continua Veltroni – può darsi che si costituirà una forza di centro. Può essere una delle dinamiche che da un lato la riforma elettorale dall’altro la Casa delle libertà mettono in moto. Però, se devo essere sincero, io non so se ci sarà una Cosa bianca. Perché? Perché francamente ho dei dubbi sul fatto che la chiesa italiana che ha avuto come riferimento politico un grande partito come la Dc voglia avere come riferimento politico una forza dell’otto o del nove per cento”. Cioè un partito che, in percentuale, varrebbe tre o quattro volte in meno rispetto a quello che è nelle mani di W.
Con un po’ di acrobazie diplomatiche Veltroni parla anche del governo (“io sono perché Prodi non cada non solo perché ovviamente sono impegnato con quello che faccio oggi, ma perché oggi la permanenza del governo Prodi è la condizione per fare le riforme”), se gli si chiede cosa farà nel caso in cui Prodi dovesse cadere lui risponde con un “non esamino la subordinata”; se gli si domanda in cosa si sente diverso da Prodi e da D’Alema lui prima ride, poi dice che “la risposta è molto semplice: ciascuno è se stesso”, poi, incalzandolo un po’, ti dice “che ti potrei dire che sono diverso da diciotto persone, ma perché da Prodi e da D’Alema e non da Giolitti o da chessò?”; quindi, facendo un ultimo tentativo, alla fine parla un po’ di Prodi. “In cosa sono diverso? In mille cose. Perché siamo due persone diverse, abbiamo due caratteri diversi, abbiamo due formazioni culturali diverse, siamo di due generazioni diverse. Siamo tutti diversi per fortuna, l’uno dall’altro. Mentre siamo simili nel fatto che abbiamo creduto, anche quando tutti ci tiravano le torte addosso, che si sarebbe fatto il Partito democratico. E questa è la cosa che ci ha resi simili e uniti per tanti anni”. Ma se Veltroni dovesse poi pensare a un futuro in cui l’unica condizione per governare sia quella di un accordo tra il più grande partito di destra con quello di sinistra, Veltroni prova a cavarsela dicendo che “senza sapere con che legge elettorale si va a votare come si fa a dare una risposta a questo tema?”. Veltroni, però, dice anche qualcosa di più. Dice no, W. Per il momento dice no. “Comunque la mia risposta è no. Siamo alternativi, e il carattere netto e trasparente del nostro dialogo è proprio qui. Mi auguro che venga il tempo in cui in questo paese questa domanda non si debba porre. Perché il vero obiettivo deve essere un altro: che i poteri siano tutti riconoscibili perché decisi dagli elettori. Io non capisco quando sento dire in questi giorni da Fini o da altri ‘ma voi volete togliere potere agli elettori’. Ma dico? Ma guardate lo scenario che c’è. Ma sono forse gli elettori che in questo momento decidono o meno la stabilità del governo Prodi o la sua sorte? No, sono piccoli gruppi che si sono costituiti. Io invece vorrei veramente che ci fosse il potere degli elettori, però per avere la possibilità di dare il potere agli elettori bisogna che ci sia un sistema elettorale e istituzionale come quello francese”. Dunque Veltroni, tra un tedesco impuro, uno spagnolo bavarese, un mattarellum comunale, un vassallum democratico e un porcellum caldaroliano, conferma che il suo sogno, in realtà, è un sistema elettorale da Quinta Repubblica francese. Certo è che se oggi dovesse scegliere tra il referendum e il sistema elettorale tedesco puro (cioè quello che piace a Massimo D’Alema, a Francesco Rutelli, a Franco Marini, a Pier Ferdinando Casini e quello che fino a qualche tempo fa piaceva anche a Fausto Bertinotti), Veltroni non avrebbe alcun dubbio, e sceglierebbe il primo. “Qui entriamo in un ragionamento che può essere delicato ma molto interessante. Ecco, io credo che se i miei avversari dicessero, in presenza del referendum, ‘ciascuno di noi va da solo’, introducendo per virtù personale ciò che l’assetto non ci consentirebbe, questo sarebbe un fatto molto importante”, spiega Veltroni. “Io per parte mia – prosegue – dico che, noi, la nostra vocazione maggioritaria intendiamo coltivarla quale che sia il sistema elettorale. Ma se Forza Italia e Alleanza nazionale, in ragione delle differenze che sono emerse negli ultimi tempi, avessero l’onestà politica di dire ‘se c’è il referendum ciascuno di noi va per conto suo’ e nessuno rifà le alleanze, questo introdurrebbe nella politica italiana un forte elemento di discontinuità”. Discontinuità, dunque, e sì al referendum, ma a certe condizioni. Veltroni, che concorda con Giorgio Napolitano quando il presidente della Repubblica dice che si deve andare a votare solo con riforme istituzionali e con riforma elettorale fatta (“puoi fare la legge elettorale più bella del mondo, ma poi se non si è fatta la riforma dei regolamenti parlamentari, da una sola lista nascono diciotto gruppi parlamentari. E se non si è fatta la riforma istituzionale i meccanismi di decisione restano lenti e rischiosi”), sembra voler fare questo discorso; sembra voler dire che, se si dovesse arrivare al referendum e se la destra dovesse formare una nuova Cdl, in nome della vocazione maggioritaria il Pd potrebbe addirittura presentarsi da solo per sfruttare i bisticci della destra e puntare su una proposta unica come quella del Pd. Veltroni ci pensa, e il Cav. lo ascolterà; e chissà se Berlusconi comincerà a parlare un po’ in francese come fa W oggi. Ma all’impossibile modello del CaW, Walter Veltroni, oggi, sembra crederci un pochino. Cioè molto.
Claudio Cerasa
19/12/07
lunedì 17 dicembre 2007
LIBERTA' di venerdì 14 dicembre 2007
di GIANFRANCO BETTIN
Dove sono i "castelli cattivissimi" di cui hanno parlato i bambini di Rignano Flaminio? Dove cercarli, ora che la perizia dei Ris ha accertato che nessun segno del loro Dna è stato rintracciato nelle case e nelle auto in cui hanno detto di essere stati abusati, perfino negli orsetti che sarebbero stati usati per coinvolgerli meglio? I difensori di parte civile dicono che le indagini, in particolare le perquisizioni, sono state fatte in modo maldestro, in grave ritardo, a sei mesi circa dalle prime segnalazioni. Anche la difesa degli accusati ha sostenuto spesso che l'indagine è nata male ed è proseguita peggio, con ampie concessioni allo spettacolo, alle suggestioni e al circo mediatico. In un libro recente, molto documentato e molto equilibrato, un giornalista, Claudio Cerasa, ha ricostruito l'intera, controversa vicenda. Il libro si intitola "Ho visto l'uomo nero. L'inchiesta sulla pedofilia a Rignano Flaminio tra dubbi, sospetti e caccia alle streghe" (Castelvecchi editore) e ripercorre sia la vicenda giudiziaria sia quella mediatica e, soprattutto, il loro incrociarsi a formare l'opinione pubblica, a nutrire i giudizi sommari, a farsi evento seriale, come già Cogne, e Novi Ligure, e Garlasco, e adesso Perugia.
Ma nel caso dei bambini della scuola di Rignano c'è stato subito dell'altro: i bambini, appunto, e la molteplicità delle voci accusatorie e il loro dichiarare di fondarsi sulle parole, sui racconti dei bambini medesimi (sul loro parlare infantile, in una lingua un po' magica e un po' aliena, un po' da decifrare come un oracolo e un po' da prendere alla lettera: insomma, una lingua straordinaria, che non parleranno mai più dopo che saranno usciti da quell'età oscura e incantata, disarmata come nessuna ma anche, come nessuna, priva di sotterfugi e di calcoli).
Questo essere, al tempo stesso, una storia che mette al centro i bambini, e un'intera comunità, che la trama schierava su fronti opposti dividendo e contrapponendo gli educatori genitori dagli educatori professionali, fatalmente coinvolgeva l'opinione pubblica come poche altre. In che mani rischiamo di mettere i nostri figli, ci si è chiesti.
Cosa rischiamo, quali atroci accuse dobbiamo temere di vederci rivolgere nel nostro lavoro, si chiedeva chiunque si immedesimasse negli insegnanti. Così, l'ansia della verità è stata sempre, in questa storia, più forte che in altre.
Ora la perizia dei Ris segna indubbiamente un punto per la difesa. Tutto, però, sta a indicare che non è affatto questa la parola finale. Si sa di altre accuse e di altri testimoni, di altri bambini, più grandi, che avrebbero raccontato altri abusi. Si annunciano contro perizie. Il confronto giudiziario e le polemiche, dunque, continueranno.
Continueremo a interrogarci su quei "castelli cattivissimi", a chiederci se sono cupi castelli in aria o ripugnanti castelli di sabbia, se una trama inconsapevole e ispirata dalla suggestione, dalla paura e dall'amore per quei bambini li ha costruiti nelle loro piccole menti o se invece una trama diversa, perversa, è stata sviluppata e non ha lasciato a quei bambini nient'altro che un'incerta possibilità di raccontarla usando parole fiabesche, improbabili perché derivate da un linguaggio naturalmente fantastico e naturalmente alieno da una consapevole malizia e, dunque, da una oggettiva capacità descrittiva.
Dove sono i "castelli cattivissimi" di cui hanno parlato i bambini di Rignano Flaminio? Dove cercarli, ora che la perizia dei Ris ha accertato che nessun segno del loro Dna è stato rintracciato nelle case e nelle auto in cui hanno detto di essere stati abusati, perfino negli orsetti che sarebbero stati usati per coinvolgerli meglio? I difensori di parte civile dicono che le indagini, in particolare le perquisizioni, sono state fatte in modo maldestro, in grave ritardo, a sei mesi circa dalle prime segnalazioni. Anche la difesa degli accusati ha sostenuto spesso che l'indagine è nata male ed è proseguita peggio, con ampie concessioni allo spettacolo, alle suggestioni e al circo mediatico. In un libro recente, molto documentato e molto equilibrato, un giornalista, Claudio Cerasa, ha ricostruito l'intera, controversa vicenda. Il libro si intitola "Ho visto l'uomo nero. L'inchiesta sulla pedofilia a Rignano Flaminio tra dubbi, sospetti e caccia alle streghe" (Castelvecchi editore) e ripercorre sia la vicenda giudiziaria sia quella mediatica e, soprattutto, il loro incrociarsi a formare l'opinione pubblica, a nutrire i giudizi sommari, a farsi evento seriale, come già Cogne, e Novi Ligure, e Garlasco, e adesso Perugia.
Ma nel caso dei bambini della scuola di Rignano c'è stato subito dell'altro: i bambini, appunto, e la molteplicità delle voci accusatorie e il loro dichiarare di fondarsi sulle parole, sui racconti dei bambini medesimi (sul loro parlare infantile, in una lingua un po' magica e un po' aliena, un po' da decifrare come un oracolo e un po' da prendere alla lettera: insomma, una lingua straordinaria, che non parleranno mai più dopo che saranno usciti da quell'età oscura e incantata, disarmata come nessuna ma anche, come nessuna, priva di sotterfugi e di calcoli).
Questo essere, al tempo stesso, una storia che mette al centro i bambini, e un'intera comunità, che la trama schierava su fronti opposti dividendo e contrapponendo gli educatori genitori dagli educatori professionali, fatalmente coinvolgeva l'opinione pubblica come poche altre. In che mani rischiamo di mettere i nostri figli, ci si è chiesti.
Cosa rischiamo, quali atroci accuse dobbiamo temere di vederci rivolgere nel nostro lavoro, si chiedeva chiunque si immedesimasse negli insegnanti. Così, l'ansia della verità è stata sempre, in questa storia, più forte che in altre.
Ora la perizia dei Ris segna indubbiamente un punto per la difesa. Tutto, però, sta a indicare che non è affatto questa la parola finale. Si sa di altre accuse e di altri testimoni, di altri bambini, più grandi, che avrebbero raccontato altri abusi. Si annunciano contro perizie. Il confronto giudiziario e le polemiche, dunque, continueranno.
Continueremo a interrogarci su quei "castelli cattivissimi", a chiederci se sono cupi castelli in aria o ripugnanti castelli di sabbia, se una trama inconsapevole e ispirata dalla suggestione, dalla paura e dall'amore per quei bambini li ha costruiti nelle loro piccole menti o se invece una trama diversa, perversa, è stata sviluppata e non ha lasciato a quei bambini nient'altro che un'incerta possibilità di raccontarla usando parole fiabesche, improbabili perché derivate da un linguaggio naturalmente fantastico e naturalmente alieno da una consapevole malizia e, dunque, da una oggettiva capacità descrittiva.
martedì 11 dicembre 2007
Il Foglio. "Fioroni ci spiega che il loft di W lo preoccupa più del governo"
Il ministro dell’Istruzione vuole il modello tedesco. Oggi ne parla con Pisanu. Il Pd ora non gli piace molto, del CaW si fida così così
Roma. Più che per l’esecutivo di Romano Prodi, il ministro Giuseppe Fioroni comincia a essere un po’ preoccupato per il loft di Walter Veltroni. I motivi sono tre e sono questi: il partito dei moderati di cui il ministro dell’Istruzione ha parlato a lungo quest’estate ancora non lo si vede, la legge elettorale rischia di fare una brutta fine e nell’asse che unisce Veltroni e il Cav. Fioroni vede un grande ostacolo di nome referendum. Il ministro spiega al Foglio perché: “A Berlusconi potrebbe fare comodo arrivarci, al referendum. Per quanto riguarda Veltroni, a livello personale non lo so, ma come segretario del Pd sa bene che il referendum è ritenuto dalla stragrande maggioranza dei democratici di questo paese un grave vulnus alla democrazia e alla libertà, visto che con quel sistema elettorale daremmo l’opportunità di non scegliere più né l’eletto né il partito, ma solo l’uomo della provvidenza”. Il modello elettorale che Fioroni ha in mente è lo stesso di cui parlerà oggi pomeriggio insieme con Giuseppe Pisanu, Marco Follini, Clemente Mastella e Mario Baccini nel corso del convegno “Quali partiti, quale legge elettorale” organizzato dalla Fondazione Formiche. “Io penso a un modello tedesco con sbarramento al 5 per cento e con sfiducia costruttiva. Resto convinto però che non si possa parlare di legge elettorale senza riforme istituzionali e regolamenti parlamentari, anche se credo sia importante ricordare che il paese ha una necessità di aggregare per convinzione e non per costrizione: i partiti non si costruiscono con la legge elettorale. Ma attenzione: dobbiamo stare molto attenti a non parlarne troppo di riforma elettorale, perché ho la sensazione che un modello al giorno finisca davvero per levarci la riforma di torno”. Fioroni dice che “Veltroni ha fatto bene ad aprire il dialogo con Berlusconi”, teme, riferendosi al Cav., che “chi ci ha fatto fermare alla crostata questa volta potrebbe farci fermare all’aperitivo” e, tornando al voto al Senato di giovedì scorso, da un lato dice di condividere le critiche fatte da Paola Binetti al ddl sulla sicurezza ma dall’altro ricorda che lui quel decreto e quella fiducia li avrebbe comunque votati. Ma c’è un punto su cui Fioroni vorrebbe far riflettere. Questo: “Voglio essere chiaro. Può l’appartenenza a un partito generare per iscrizione la concezione che ognuno di noi ha della vita e della morte? Vorrei ricordare che l’ultima volta che qualcuno lo ha fatto e che qualcuno ha introdotto il pensiero unico è stato un partito di cui nessuno di noi sente la mancanza”.
Il ministro ammette che nella maggioranza “c’è una situazione complessa e complicata e che ci sono i sintomi di una sofferenza”, spiega quali sono le sue paure nel futuro del partito (“per me un partito che invade tutto che si occupa di calcio, di banche, di economia, di finanza, di società civile, non può esistere”) e dice di non sentirsi affatto in minoranza dentro il Pd (“i cattolici democratici hanno le carte in regola per concorrere alla guida complessiva di questo partito”). Poi però conclude il suo ragionamento così. E più che un consiglio questa volta sembra un avvertimento: “Ecco, mi chiedo come si faccia a pensare che se questo governo cada non si vada immediatamente al voto. Mentre per quanto riguarda il Pd nel momento in cui il loft dovesse diventare una stanza vuota e spoglia, dove l’unica bussola che ciascuno di noi ha sono i desideri individuali, lì si tratterebbe di costruire qualcosa di diverso da quello che abbiamo in mente. Si tratterebbe di un partito radicale di massa. E a questo io francamente non sono proprio interessato”.
Claudio Cerasa
11/12/07
Roma. Più che per l’esecutivo di Romano Prodi, il ministro Giuseppe Fioroni comincia a essere un po’ preoccupato per il loft di Walter Veltroni. I motivi sono tre e sono questi: il partito dei moderati di cui il ministro dell’Istruzione ha parlato a lungo quest’estate ancora non lo si vede, la legge elettorale rischia di fare una brutta fine e nell’asse che unisce Veltroni e il Cav. Fioroni vede un grande ostacolo di nome referendum. Il ministro spiega al Foglio perché: “A Berlusconi potrebbe fare comodo arrivarci, al referendum. Per quanto riguarda Veltroni, a livello personale non lo so, ma come segretario del Pd sa bene che il referendum è ritenuto dalla stragrande maggioranza dei democratici di questo paese un grave vulnus alla democrazia e alla libertà, visto che con quel sistema elettorale daremmo l’opportunità di non scegliere più né l’eletto né il partito, ma solo l’uomo della provvidenza”. Il modello elettorale che Fioroni ha in mente è lo stesso di cui parlerà oggi pomeriggio insieme con Giuseppe Pisanu, Marco Follini, Clemente Mastella e Mario Baccini nel corso del convegno “Quali partiti, quale legge elettorale” organizzato dalla Fondazione Formiche. “Io penso a un modello tedesco con sbarramento al 5 per cento e con sfiducia costruttiva. Resto convinto però che non si possa parlare di legge elettorale senza riforme istituzionali e regolamenti parlamentari, anche se credo sia importante ricordare che il paese ha una necessità di aggregare per convinzione e non per costrizione: i partiti non si costruiscono con la legge elettorale. Ma attenzione: dobbiamo stare molto attenti a non parlarne troppo di riforma elettorale, perché ho la sensazione che un modello al giorno finisca davvero per levarci la riforma di torno”. Fioroni dice che “Veltroni ha fatto bene ad aprire il dialogo con Berlusconi”, teme, riferendosi al Cav., che “chi ci ha fatto fermare alla crostata questa volta potrebbe farci fermare all’aperitivo” e, tornando al voto al Senato di giovedì scorso, da un lato dice di condividere le critiche fatte da Paola Binetti al ddl sulla sicurezza ma dall’altro ricorda che lui quel decreto e quella fiducia li avrebbe comunque votati. Ma c’è un punto su cui Fioroni vorrebbe far riflettere. Questo: “Voglio essere chiaro. Può l’appartenenza a un partito generare per iscrizione la concezione che ognuno di noi ha della vita e della morte? Vorrei ricordare che l’ultima volta che qualcuno lo ha fatto e che qualcuno ha introdotto il pensiero unico è stato un partito di cui nessuno di noi sente la mancanza”.
Il ministro ammette che nella maggioranza “c’è una situazione complessa e complicata e che ci sono i sintomi di una sofferenza”, spiega quali sono le sue paure nel futuro del partito (“per me un partito che invade tutto che si occupa di calcio, di banche, di economia, di finanza, di società civile, non può esistere”) e dice di non sentirsi affatto in minoranza dentro il Pd (“i cattolici democratici hanno le carte in regola per concorrere alla guida complessiva di questo partito”). Poi però conclude il suo ragionamento così. E più che un consiglio questa volta sembra un avvertimento: “Ecco, mi chiedo come si faccia a pensare che se questo governo cada non si vada immediatamente al voto. Mentre per quanto riguarda il Pd nel momento in cui il loft dovesse diventare una stanza vuota e spoglia, dove l’unica bussola che ciascuno di noi ha sono i desideri individuali, lì si tratterebbe di costruire qualcosa di diverso da quello che abbiamo in mente. Si tratterebbe di un partito radicale di massa. E a questo io francamente non sono proprio interessato”.
Claudio Cerasa
11/12/07
venerdì 7 dicembre 2007
Il Foglio. "Quella sinistra tentazione di introdurre i reati di opinione"
Giocano con le parole, le scrivono tra virgolette, le depositano al Senato e poi te la mettono così: per “chiunque in qualsiasi modo diffonde idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi” anche “fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere” le pene previste sono tra i sei mesi e i quattro anni. Fino a ieri pomeriggio l’idea di Giovanni Russo Spena (Prc), Manuela Palermi (Pdci), Mauro Bulgarelli (Verdi) era molto semplice: era quella di introdurre nel già pasticciato disegno di legge sulla violenza sessuale (votato insieme con il decreto espulsioni) un emendamento che sostanzialmente prevedesse sanzioni durissime per “motivi fondati” sull’orientamento dei sessi. Era. Perché prima che il testo fosse assorbito nel maxiemendamento del Senato, con un po’ di buon senso l’idea dei senatori si è trasformata più che altro in un richiamo alle norme sulle pari opportunità del trattato di Amsterdam. Il fatto però resta; ed è un po’ preoccupante che ci sia qualcuno che dietro a “norme antidiscriminazione” proponga più che altro tentativi di introdurre reati di opinione. Dovrebbe però far riflettere anche gli stessi firmatari dell’emendamento pensare che ci possa essere una legge che dica questo si può dire e questo invece no, che possa servire un emendamento per far prevalere una propria idea su quella dell’altro, che si possa sanzionare – diciamolo: censurare – chi la pensa in maniera diversa, presentando un emendamento che da un lato si rifà a un articolo della Costituzione (il terzo: pari dignità sociale senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali) e dall’altro, sotto sotto, quasi nega la libertà di espressione. Perché può significare davvero un po’ di tutto legiferare su discriminazione e su idee di superiorità. E per questo, in effetti, è anche molto rischioso. E’ discriminatorio utilizzare la parola “frocio”? E’ pericoloso dire “negro”? Andrebbe forse punito chi non la pensa come Russo Spena sui matrimoni gay? Ecco, se il ragionamento contenuto nel testo presentato dai senatori della Cosa rossa non fosse stato ammortizzato, frasi come queste – lo nota lo storico Massimo Introvigne – sarebbero state proibite: “Vi sono ambiti nei quali non è ingiusta discriminazione tener conto della tendenza sessuale: per esempio nella collocazione di bambini per adozione o affido, nell’assunzione di insegnanti o allenatori di atletica, e nel servizio militare”. Si può essere d’accordo oppure no; e lo si può dire con un saggio su Micromega, con un intervento da Santoro o con una diretta a Primo Piano. Peccato però che nel modellino russospenapalermibulgarelli per frasi come queste ci sarebbe potuto essere il dubbio se considerarle non tanto idee ma “atti di discriminazione”. Anche se a scrivere quelle frasi fosse stato quindici anni fa un cardinale ora diventato Papa.
Claudio Cerasa
8/12/07
Claudio Cerasa
8/12/07
giovedì 6 dicembre 2007
Il Foglio. "Perché credo sia ingiusto il sequestro del mio libro su Rignano"
Il libro che ho scritto tre mesi fa sul caso di presunta pedofilia di Rignano Flaminio da ieri è sotto sequestro. Il giudice della prima sezione civile del tribunale di Roma ha deciso di “inibire la vendita, la distribuzione e la diffusione ulteriore del volume” poche settimane dopo che quattro famiglie di Rignano avevano richiesto il sequestro “d’urgenza”, sostendendo che le mie 170 pagine avrebbero agevolato l’identificazione dei minori coinvolti nelle vicenda e avrebbero anche “ripercorso la vicenda in modo fazioso e offensivo”, come spiegato ieri dagli avvocati di quei genitori. Devo dire che fa un po’ impressione sentir parlare di “libertà fondamentali e della dignità della persona e di privacy violata” per un libro nato proprio per denunciare una clamorosa violazione della privacy. Fa impressione sentir parlare di sequestro d’urgenza, visto che era stato un giudice di Cassino lo scorso 17 ottobre ad aver negato questo sequestro “per rispettare l’articolo 21 della Costituzione”. Fa impressione sentir parlare di privacy perché se davvero avessi voluto violarla, la privacy, avrei scritto nome e cognome dei genitori (non solo il nome) e li avrei accompagnati dal nome e cognome dei bambini (e non dall’iniziale seguita da un puntino). Ma fa un po’ impressione anche perché se un genitore va in televisione a difendere i propri figli in diretta tv, in seconda serata e con nome e cognome che compaiono nel sottopancia, forse dovrebbe pensarci un po’ prima di parlare di tutela della privacy. Il punto però è che il libro e gli articoli scritti su questo giornale su Rignano sono nati con l’idea di ripercorrere la vicenda in modo chiaro, senza conclusioni affrettate, senza commenti, con “informazioni precise e circostanziate” (come scritto dagli stessi avvocati dei genitori) per cercare di garantire al massimo le libertà di tutti: non solo dei bambini e dei loro genitori ma anche degli indagati. Per questo – ed è il motivo per cui farò appello – credo che il mio libro sia stato utile nel ricostruire giornalisticamente quel caso che lo scorso aprile aveva scatenatato pulsioni collettive pericolose e poco controllate. Credo che la mia inchiesta sia stata importante anche per spiegare quanto possa essere rischioso trasformare un caso delicato di presunta pedofilia (e ancora irrisolto) in un racconto psicotico della realtà. E per questo credo sia stato importante ricostruire il caso riportando le notizie così come sono, le voci dei genitori che hanno denunciato gli abusi e quelle delle persone arrestate e poi scarcerate, e spiegando le contraddizioni nelle indagini poi rilevate come tali anche dalla Corte di cassazione. E per questo credo che raccontare la vicenda senza essere faziosi, senza dare un giudizio a priori, senza forzature, senza dare più importanza a un’opinione piuttosto che a un’altra sia stato un modo onesto di fare il mio mestiere.
Claudio Cerasa
6/12/07
Claudio Cerasa
6/12/07
venerdì 30 novembre 2007
Il Foglio. "Nuovi Compagni di scuola"
Occhio a quello che sta succedendo tra gli studenti. Dopo le ultime elezioni, tra università e superiori c’è qualcosa che si muove, che non è di sinistra e che potrebbe mettere in imbarazzo pure il loft di W. Ecco perché
Roma. Walter Veltroni e Silvio Berlusconi dovrebbero dare una sbirciatina a quello che sta succedendo nelle scuole e nelle università italiane, visto che tra quei ragazzi di quattordici, di sedici, di diciotto e di vent’anni – che fino a ieri avevano messo in allarme sindaci e ministri per lo più in quota studenti che si picchiano nudi, al telefono e in diretta su YouTube – si trovano un paio di numeri che meriterebbero un po’ di attenzione, almeno quanto le asticelle che si abbassano e poi si rialzano dei sistemi elettorali. La notizia è che tra i seggi delle scuole italiane la sinistra non è mai stata in difficoltà come in questi giorni. Soprattutto in alcune sue città chiave. Ieri pomeriggio, nelle sedi dei movimenti giovanili di destra, di centro e di sinistra, sono arrivati i primi dati delle elezioni studentesche delle scuole superiori. Dati che fotografano, in piccolo, uno scenario che negli ultimi mesi potrebbe essersi nascosto dietro le tendine di quella camera oscura pronta a mettere a fuoco da un giorno all’altro il vero volto della maggioranza di governo. Parlare di trionfo o di sconfitta è sempre un po’ azzardato per realtà studentesche che da circa vent’anni hanno nel proprio codice genetico una rappresentanza complessiva mai legata davvero né a partiti di destra né di sinistra. Un dato però è molto chiaro: la gauche fa molti passi indietro, la destra fa molti passi avanti; e al contrario di quanto scritto dall’intellettuale francese Eric Brunet nel saggio “Il tabù della destra”, nelle scuole italiane la droit oggi vince dove non aveva mai vinto prima e oggi si conferma dove prima non si era mai confermata. Con alcuni risultati clamorosi, soprattutto per il modo in cui gli studenti di tutt’Italia hanno disegnato il nuovo quadro politico: oggi nelle Consulte provinciali (gli organi studenteschi più importanti degli istituti superiori) e ieri negli organi di rappresentanza universitaria. Si vince così tra gli studenti: si vince senza tessere plastificate, senza cerimonie congressuali e senza liturgia di memoria botanica; si vince con gli occhi di Chuck Norris (è successo a Milano, al liceo Berchet, dove una lista legata a Cl ha scelto di fare campagna con il volto severo dell’attore di “Walker Texas Ranger”), ma si vince soprattutto senza fascio, senza falce, senza martello, senza sigari del Che e con un bipolarismo con pochi pugni alzati e con poche braccia tese. Perché tra le province italiane che hanno votato negli ultimi giorni per eleggere gli organi di governo studenteschi, la destra ha in pugno un numero di presidenze notevolmente superiore a quello della sinistra: 27 ufficiali, di cui 23 riconducibili ad As, l’Azione studentesca legata ad An. Dall’altra parte, l’Uds (Unione degli studenti di sinistra) mentre ieri pomeriggio contava i suoi 14 presidenti, non può far altro che certificare quello che fino a qualche anno fa era impensabile per il movimento di An: sicuro oggi del suo 81 per cento di voti a Firenze, delle tre province su cinque in Campania, della vittoria a Palermo, a Perugia, a Torino (storico fortino della sinistra studentesca) e anche a Roma: dove la destra non vinceva da quasi dieci anni (anche se nella capitale la sinistra denuncia “violazioni del regolamento” e la destra risponde sostenendo che il voto sia stato ratificato dall’ufficio scolastico).
E il trend, vale per le scuole oggi e per le università ieri; perché anche qui il quadro è piuttosto chiaro: e dopo il boom di Cl lo scorso maggio al Politecnico di Milano (dove con gli schieramenti di destra prese 3.183 voti, mentre la sinistra 780), il massimo organo di rappresentanza universitaria (Cnsu) ha dato una spallata alla vecchia maggioranza: occupando 18 dei 30 seggi del consiglio e facendone perdere tre alla sinistra. E non può dunque sorprendere che nel meccanismo di ricomposizione politica studentesca, anche i sedicenni a cui Veltroni puntava in tempo di primarie (e che negli anni Novanta venivano invitati da Santoro a parlare di revolución studentesca) vogliono ora far rimbombare l’allarme dell’incazzatura di sinistra anche nelle stanze del loft. Per questo minacciano W più o meno così: “Il Pd nelle scuole non ci entrerà mai”.
Claudio Cerasa
30/11/07
Roma. Walter Veltroni e Silvio Berlusconi dovrebbero dare una sbirciatina a quello che sta succedendo nelle scuole e nelle università italiane, visto che tra quei ragazzi di quattordici, di sedici, di diciotto e di vent’anni – che fino a ieri avevano messo in allarme sindaci e ministri per lo più in quota studenti che si picchiano nudi, al telefono e in diretta su YouTube – si trovano un paio di numeri che meriterebbero un po’ di attenzione, almeno quanto le asticelle che si abbassano e poi si rialzano dei sistemi elettorali. La notizia è che tra i seggi delle scuole italiane la sinistra non è mai stata in difficoltà come in questi giorni. Soprattutto in alcune sue città chiave. Ieri pomeriggio, nelle sedi dei movimenti giovanili di destra, di centro e di sinistra, sono arrivati i primi dati delle elezioni studentesche delle scuole superiori. Dati che fotografano, in piccolo, uno scenario che negli ultimi mesi potrebbe essersi nascosto dietro le tendine di quella camera oscura pronta a mettere a fuoco da un giorno all’altro il vero volto della maggioranza di governo. Parlare di trionfo o di sconfitta è sempre un po’ azzardato per realtà studentesche che da circa vent’anni hanno nel proprio codice genetico una rappresentanza complessiva mai legata davvero né a partiti di destra né di sinistra. Un dato però è molto chiaro: la gauche fa molti passi indietro, la destra fa molti passi avanti; e al contrario di quanto scritto dall’intellettuale francese Eric Brunet nel saggio “Il tabù della destra”, nelle scuole italiane la droit oggi vince dove non aveva mai vinto prima e oggi si conferma dove prima non si era mai confermata. Con alcuni risultati clamorosi, soprattutto per il modo in cui gli studenti di tutt’Italia hanno disegnato il nuovo quadro politico: oggi nelle Consulte provinciali (gli organi studenteschi più importanti degli istituti superiori) e ieri negli organi di rappresentanza universitaria. Si vince così tra gli studenti: si vince senza tessere plastificate, senza cerimonie congressuali e senza liturgia di memoria botanica; si vince con gli occhi di Chuck Norris (è successo a Milano, al liceo Berchet, dove una lista legata a Cl ha scelto di fare campagna con il volto severo dell’attore di “Walker Texas Ranger”), ma si vince soprattutto senza fascio, senza falce, senza martello, senza sigari del Che e con un bipolarismo con pochi pugni alzati e con poche braccia tese. Perché tra le province italiane che hanno votato negli ultimi giorni per eleggere gli organi di governo studenteschi, la destra ha in pugno un numero di presidenze notevolmente superiore a quello della sinistra: 27 ufficiali, di cui 23 riconducibili ad As, l’Azione studentesca legata ad An. Dall’altra parte, l’Uds (Unione degli studenti di sinistra) mentre ieri pomeriggio contava i suoi 14 presidenti, non può far altro che certificare quello che fino a qualche anno fa era impensabile per il movimento di An: sicuro oggi del suo 81 per cento di voti a Firenze, delle tre province su cinque in Campania, della vittoria a Palermo, a Perugia, a Torino (storico fortino della sinistra studentesca) e anche a Roma: dove la destra non vinceva da quasi dieci anni (anche se nella capitale la sinistra denuncia “violazioni del regolamento” e la destra risponde sostenendo che il voto sia stato ratificato dall’ufficio scolastico).
E il trend, vale per le scuole oggi e per le università ieri; perché anche qui il quadro è piuttosto chiaro: e dopo il boom di Cl lo scorso maggio al Politecnico di Milano (dove con gli schieramenti di destra prese 3.183 voti, mentre la sinistra 780), il massimo organo di rappresentanza universitaria (Cnsu) ha dato una spallata alla vecchia maggioranza: occupando 18 dei 30 seggi del consiglio e facendone perdere tre alla sinistra. E non può dunque sorprendere che nel meccanismo di ricomposizione politica studentesca, anche i sedicenni a cui Veltroni puntava in tempo di primarie (e che negli anni Novanta venivano invitati da Santoro a parlare di revolución studentesca) vogliono ora far rimbombare l’allarme dell’incazzatura di sinistra anche nelle stanze del loft. Per questo minacciano W più o meno così: “Il Pd nelle scuole non ci entrerà mai”.
Claudio Cerasa
30/11/07
Etichette:
Berlusconi,
destra,
elezioni,
Studenti,
Veltroni
mercoledì 28 novembre 2007
Il Foglio. "Bicamera con vista". Maroni parla in tedesco del Cav bipartitico e ci spiega che cosa dirà domani a W sulla legge elettorale
Roma. Roberto Maroni domani mattina incontrerà al quinto piano del palazzo dei gruppi parlamentari il segretario del Partito democratico Walter Veltroni. Lo farà un giorno prima di Silvio Berlusconi, un giorno dopo Pier Ferdinando Casini e tre giorni dopo Gianfranco Fini. L’agenda dell’ex ministro del Welfare è però molto simile a quella del Cav. Così tanto che il colloquio leghista di domani sarà un passaggio niente male per capire davvero dove andranno piantati i paletti del dialogo tra il Cav. e W. Roberto Maroni, capogruppo della Lega a Montecitorio, dice al Foglio che “uno spirito bicamerale di Berlusconi che rispetti gli accordi di Gemonio sarebbe da elogiare”. Poi precisa che “l’unico argomento su cui si potrà discutere con Veltroni sarà però solo la legge elettorale. Punto”. Di riforme non se ne parla, almeno per ora. Proprio la stessa cosa che venerdì il Cav. dira a W. Da ieri mattina, però, Maroni ha in testa una certezza in più; un numero, il numero quattro: ovvero la quota a cui verrà appoggiata l’asticella del sistema elettorale di cui Berlusconi, Bossi, Calderoli e Maroni hanno parlato lunedì sera, ad Arcore. Quattro per cento. Significa, come spiegato ieri mattina da Paolo Bonaiuti (portavoce del Cav.), che con uno sbarramento di questo tipo la Lega entrerà “nel processo di riforma elettorale”. Ma c’è dell’altro. Perché dopo l’intervista freddina concessa da Bossi sabato a Repubblica (“Berlusconi in piazza non mi è piaciuto”, “Troppa demagogia”), la Lega comincia a raccogliere dal Cav. le garanzie che chiedeva da tempo: “Le asticelle vanno abbassate, non alzate”, ha spiegato ieri Bonaiuti. Come dire: nel dialogo sul sistema elettorale la Lega non corre pericoli. E anche per questo Maroni sarebbe contento di condividere in futuro la struttura di partito su cui ragiona il Cav. Funzionerà così.
Nel modello di grande partito popolare che il Cav. ha in mente da tempo, l’abbraccio tra la Lega e il Pdl dovrebbe essere simile a quello teutonico tra Cdu e Csu: i cui eletti, in Parlamento si trovano insieme in unico gruppo (Cdu/Csu) che pompa voti e seggi nel cuore grancoalizionista di Angela Merkel. “In effetti se dovessimo pensare a un modello perfetto con Berlusconi questo sarebbe l’ideale. Detto ciò – spiega Maroni – il sistema elettorale di cui parlerò con Veltroni (ma davvero esiste una proposta Veltroni?) è quello concordato a Gemonio con la Cdl: un sistema con uno sbarramento che tenga conto del forte radicamento territoriale”. Quindi proporzionale di sbarramento con indicazione del candidato premier. “Veltroni finora ha fatto parecchia filosofia sul sistema elettorale. Noi vogliamo però conoscere anche le virgole di questa proposta e a Veltroni chiederemo cosa ha da dire su governabilità e rappresentanza massima. Anche se alla Lega nessuno ha mai ricevuto nulla, neppure una bozza di Vassallum”. E Boniauti? “La sua proposta è molto interessante. Ed è un’idea di cui non avevamo parlato neppure lunedì. Ad Arcore, infatti, Bossi ha cercato di spiegare a Berlusconi che governare contro il mondo intero è più da superman che da Forza Italia; e l’unico punto su cui avevamo trovato un’intesa era il ‘no’ al referendum”. E’ il vero obiettivo di Veltroni, secondo Maroni: “Non credo che i due si siano già accordati sulla legge elettorale. Sono certo che Veltroni, più che al Vassallum, punti al referendum, visto che sembra fatto apposta per un partito come il suo. Attenzione però: il dialogo sulla legge elettorale non è un gioco. Lo spazio per determinare una direzione rispetto a un’altra c’è ancora e i vantaggi, in questa partita, alla Lega non mancano certo”. Maroni li spiega: “Siamo il partito di cui Berlusconi si fida di più, siamo un buon punto di appoggio per An e Udc, ma siamo anche una realtà a cui l’Unione guarda con grande interesse. Berlusconi deve ricordare che la caratteristica di essere territoriali impone a partiti come il nostro alleanze con schieramenti di destra e di sinistra. E che sì, siamo autonomi nella fedeltà, ma siamo anche pronti ad andarcene per i fatti nostri”.
Maroni è convinto che domani W non sarà in grado di sedurre la Lega su nessuno dei temi sottolineati con la matita blu sull’agenda padana; crede che “di riforme costituzionali si tornerà a discutere in Parlamento”, guarda con un po’ di preoccupazione in meno il nuovo partito del popolo, ma se pensa al giorno in cui la Consulta potrebbe mettere diesel nel motore referendario (15 gennaio), Maroni fa una pausa e si affida al proverbio. “Se passa il referendum la soluzione è semplice: ognuno per sé e Dio per tutti”.
Claudio Cerasa
Nel modello di grande partito popolare che il Cav. ha in mente da tempo, l’abbraccio tra la Lega e il Pdl dovrebbe essere simile a quello teutonico tra Cdu e Csu: i cui eletti, in Parlamento si trovano insieme in unico gruppo (Cdu/Csu) che pompa voti e seggi nel cuore grancoalizionista di Angela Merkel. “In effetti se dovessimo pensare a un modello perfetto con Berlusconi questo sarebbe l’ideale. Detto ciò – spiega Maroni – il sistema elettorale di cui parlerò con Veltroni (ma davvero esiste una proposta Veltroni?) è quello concordato a Gemonio con la Cdl: un sistema con uno sbarramento che tenga conto del forte radicamento territoriale”. Quindi proporzionale di sbarramento con indicazione del candidato premier. “Veltroni finora ha fatto parecchia filosofia sul sistema elettorale. Noi vogliamo però conoscere anche le virgole di questa proposta e a Veltroni chiederemo cosa ha da dire su governabilità e rappresentanza massima. Anche se alla Lega nessuno ha mai ricevuto nulla, neppure una bozza di Vassallum”. E Boniauti? “La sua proposta è molto interessante. Ed è un’idea di cui non avevamo parlato neppure lunedì. Ad Arcore, infatti, Bossi ha cercato di spiegare a Berlusconi che governare contro il mondo intero è più da superman che da Forza Italia; e l’unico punto su cui avevamo trovato un’intesa era il ‘no’ al referendum”. E’ il vero obiettivo di Veltroni, secondo Maroni: “Non credo che i due si siano già accordati sulla legge elettorale. Sono certo che Veltroni, più che al Vassallum, punti al referendum, visto che sembra fatto apposta per un partito come il suo. Attenzione però: il dialogo sulla legge elettorale non è un gioco. Lo spazio per determinare una direzione rispetto a un’altra c’è ancora e i vantaggi, in questa partita, alla Lega non mancano certo”. Maroni li spiega: “Siamo il partito di cui Berlusconi si fida di più, siamo un buon punto di appoggio per An e Udc, ma siamo anche una realtà a cui l’Unione guarda con grande interesse. Berlusconi deve ricordare che la caratteristica di essere territoriali impone a partiti come il nostro alleanze con schieramenti di destra e di sinistra. E che sì, siamo autonomi nella fedeltà, ma siamo anche pronti ad andarcene per i fatti nostri”.
Maroni è convinto che domani W non sarà in grado di sedurre la Lega su nessuno dei temi sottolineati con la matita blu sull’agenda padana; crede che “di riforme costituzionali si tornerà a discutere in Parlamento”, guarda con un po’ di preoccupazione in meno il nuovo partito del popolo, ma se pensa al giorno in cui la Consulta potrebbe mettere diesel nel motore referendario (15 gennaio), Maroni fa una pausa e si affida al proverbio. “Se passa il referendum la soluzione è semplice: ognuno per sé e Dio per tutti”.
Claudio Cerasa
Etichette:
Berlusconi,
Lega,
legge elettorale,
Maroni,
tedesco,
Veltroni
martedì 27 novembre 2007
Il Foglio. "Northern Rock ‘n’ Roll".
La banca inglese finita al tappeto per i subprime trova un salvatore. E’ Branson, il re della Virgin, delle mongolfiere e del bungee jumping. Tra aerei e Sex Pistols fa una cosa quasi inaudita da noi: mette i quattrini
Londra. L’ultima volta che aveva promesso di non farlo più, Richard Branson aveva quarantasette anni, aveva rischiato di morire due volte e aveva già trasformato il suo impero musicale della Virgin in un’azienda che dai dischi dei Sex Pistols arriva oggi fino agli sportelli della Northern Rock. E ogni volta, sir Branson, il grande colpo lo anticipa così: salendo in cielo con la mongolfiera, ieri; scendendo giù con il bungee jumping, oggi. E’ andata così negli anni Novanta, quando Branson, dopo aver fondato la sua casa discografica, annunciava i suoi affari con pomeriggi di sport estremo. E’ andata così oggi, con Branson che a 57 anni, dopo essersi lanciato giù da un palazzo di Los Angeles, è diventato il possibile salvatore della Northern Rock: la banca inglese che più di tutte ha rischiato di finire al tappeto dopo la crisi estiva dei subprime e dopo quel crollo del 39 per cento (18 settembre) che costrinse la Bank of England a prestarle 24 miliardi di sterline.
Ieri è stato il giorno della svolta: la banca inglese ha detto “sì” alla sua offerta. Branson controllerà il 55 per cento dell’istituto di credito, con un aumento di capitale previsto di 1,3 miliardi di sterline, e il titolo della Northern ha fatto un balzo del 38 per cento. Ha deciso il nuovo nome della banca (sarà assorbita da una sua società finanziaria, Virgin Money), il nuovo capo esecutivo (sarà Anne Gadhia, attuale vertice di VM) e invece che appoggi o garanzie politiche – come si farebbe da noi per entrare in una banca, per quanto semifallita – l’imprenditore inglese ha offerto agli azionisti della Northern l’unica cosa che le serviva davvero: quattrini.
Soldi che Branson ha cominciato a incassare oltre trent’anni fa, nel 1970, quando in un negozio di sessanta metri quadrati all’incrocio tra Oxford Street e Tottenham Court Road (a Londra) iniziò a vendere dischi per corrispondenza e cominciò a mettere da parte quelle sterline con cui, pochi anni dopo, fece la sua prima mossa, producendo il suo primo disco: Mike Oldfield, “Tubular Bells”, vendette cinque milioni di copie. Fu da quel giorno che decise di investire sul brand Virgin. E’ diventato uno degli inglesi più amati al mondo (qualcuno lo vorrebbe come sindaco di Londra), ha colorato di rosso Virgin treni, aerei, bibite, tv, sport center e soprattutto radio. E’ un tipo molto simpatico, Branson. Si finanzia da solo di solito. Prima di investire in una nuova operazione, lo dice lui, preferisce “vendere piuttosto che ricevere soldi in prestito” (la casa discografica la cedette, piangendo, nel 1992) e c’è chi continua a chiamarlo sia il capitalista hippy (per via dei capelli lunghi e per il suo passato un po’ ribelle, finì anche in carcere per una notte) sia lo Steve Jobs del megastore. Si fa intervistare con i calzini bucati (è successo con il Times), si fa accompagnare dai genitori alle conferenze stampa, vestito da uomo ragno, da cow-boy o da pirata. E’ legato ai labour da una vecchia conoscenza con Blair (si dice sia stato il primo ad arrivare alla festa quando divenne premier), ha conosciuto Brown, ha attaccato più volte Murdoch e il suo impero (“un pericolo per la democrazia”, lo definì un paio di anni fa). Luca Valotta, il direttore generale di Virgin Active Italia, racconta al Foglio che Branson, oltre ad aver creato una specie di merchant bank, “ha anticipato di parecchi anni sia il modello culturale del low cost di Ryan Air sia il modello un po’ friendly senza cravatta e senza camicia di Steve Jobs”. E Jobs, due anni fa per una campagna Apple che cercava l’identificazione con i volti più importanti del XX seolo, accanto al Mahatma Ganhdi, ad Albert Einstein e Martin Luther King scelse proprio la faccia un po’ a forma di brand di Richard Branson.
Claudio Cerasa
27/11/07
Londra. L’ultima volta che aveva promesso di non farlo più, Richard Branson aveva quarantasette anni, aveva rischiato di morire due volte e aveva già trasformato il suo impero musicale della Virgin in un’azienda che dai dischi dei Sex Pistols arriva oggi fino agli sportelli della Northern Rock. E ogni volta, sir Branson, il grande colpo lo anticipa così: salendo in cielo con la mongolfiera, ieri; scendendo giù con il bungee jumping, oggi. E’ andata così negli anni Novanta, quando Branson, dopo aver fondato la sua casa discografica, annunciava i suoi affari con pomeriggi di sport estremo. E’ andata così oggi, con Branson che a 57 anni, dopo essersi lanciato giù da un palazzo di Los Angeles, è diventato il possibile salvatore della Northern Rock: la banca inglese che più di tutte ha rischiato di finire al tappeto dopo la crisi estiva dei subprime e dopo quel crollo del 39 per cento (18 settembre) che costrinse la Bank of England a prestarle 24 miliardi di sterline.
Ieri è stato il giorno della svolta: la banca inglese ha detto “sì” alla sua offerta. Branson controllerà il 55 per cento dell’istituto di credito, con un aumento di capitale previsto di 1,3 miliardi di sterline, e il titolo della Northern ha fatto un balzo del 38 per cento. Ha deciso il nuovo nome della banca (sarà assorbita da una sua società finanziaria, Virgin Money), il nuovo capo esecutivo (sarà Anne Gadhia, attuale vertice di VM) e invece che appoggi o garanzie politiche – come si farebbe da noi per entrare in una banca, per quanto semifallita – l’imprenditore inglese ha offerto agli azionisti della Northern l’unica cosa che le serviva davvero: quattrini.
Soldi che Branson ha cominciato a incassare oltre trent’anni fa, nel 1970, quando in un negozio di sessanta metri quadrati all’incrocio tra Oxford Street e Tottenham Court Road (a Londra) iniziò a vendere dischi per corrispondenza e cominciò a mettere da parte quelle sterline con cui, pochi anni dopo, fece la sua prima mossa, producendo il suo primo disco: Mike Oldfield, “Tubular Bells”, vendette cinque milioni di copie. Fu da quel giorno che decise di investire sul brand Virgin. E’ diventato uno degli inglesi più amati al mondo (qualcuno lo vorrebbe come sindaco di Londra), ha colorato di rosso Virgin treni, aerei, bibite, tv, sport center e soprattutto radio. E’ un tipo molto simpatico, Branson. Si finanzia da solo di solito. Prima di investire in una nuova operazione, lo dice lui, preferisce “vendere piuttosto che ricevere soldi in prestito” (la casa discografica la cedette, piangendo, nel 1992) e c’è chi continua a chiamarlo sia il capitalista hippy (per via dei capelli lunghi e per il suo passato un po’ ribelle, finì anche in carcere per una notte) sia lo Steve Jobs del megastore. Si fa intervistare con i calzini bucati (è successo con il Times), si fa accompagnare dai genitori alle conferenze stampa, vestito da uomo ragno, da cow-boy o da pirata. E’ legato ai labour da una vecchia conoscenza con Blair (si dice sia stato il primo ad arrivare alla festa quando divenne premier), ha conosciuto Brown, ha attaccato più volte Murdoch e il suo impero (“un pericolo per la democrazia”, lo definì un paio di anni fa). Luca Valotta, il direttore generale di Virgin Active Italia, racconta al Foglio che Branson, oltre ad aver creato una specie di merchant bank, “ha anticipato di parecchi anni sia il modello culturale del low cost di Ryan Air sia il modello un po’ friendly senza cravatta e senza camicia di Steve Jobs”. E Jobs, due anni fa per una campagna Apple che cercava l’identificazione con i volti più importanti del XX seolo, accanto al Mahatma Ganhdi, ad Albert Einstein e Martin Luther King scelse proprio la faccia un po’ a forma di brand di Richard Branson.
Claudio Cerasa
27/11/07
domenica 25 novembre 2007
Il Foglio. "Le riforme viste dal taxi"
Ricordate il pacchetto delle liberalizzazioni? Sembrava l’anticamera di una rivoluzione per farmacie, mutui, treni, aerei. Cinquecento giorni dopo, il tassametro conferma che la rivoluzione è partita ma non è arrivata. E il tassinaro spiega perché
Fiumicino. Tredici novembre. Cinquecento
giorni dalle liberalizzazioni.
Cinquecento giorni dal decreto
che cambierà “la vita degli italiani”
(Romano Prodi), che diventerà un “terremoto”
per noi tutti (Francesco Rutelli),
che favorirà sia la “concorrenza
che la competitività” (Livia Turco) e
che rivoluzionerà professioni, negozi,
trasporti, farmacie, barbieri, benzinai,
parrucchieri, ferrovie, aerei, banche,
mutui, carburanti, imprese, commerci,
professioni, avvocati, farmacisti e naturalmente
tassisti. Tassisti. Più concorrenza,
più servizi, prezzi più bassi.
Semplice. Ore ventidue e cinquanta,
aeroporto Leonardo da Vinci, ventitré
chilometri da Roma: due vigili urbani,
sei trolley portati a mano, una valigetta
ventiquattrore, un volo Milano-Roma
(centoventitré euro, dieci minuti di
ritardo), una corsia verniciata di giallo,
due cartelli con scritta “Taxi”, quindici
passeggeri in fila, sette tassinari
abusivi (“cinquanta euro Roma Fiumicino-
Roma centro”), zero “Taxi” in corsia
e sedici minuti di attesa. Sedici minuti;
poi il primo: compagnia Samarcanda,
06.5511. Luigi, trentacinque anni,
capelli neri tipo Danilo Coppola,
felpa verde, Citroen C3, tredici anni di
licenza, 1.350 euro al mese e tassametro
bloccato. Tragitto: aeroporto Fiumicino-
Piazza Mazzini, Roma; fuori
dalle mura Aureliane, zona dove la tariffa
fissa semplicemente non si usa,
non è prevista. Il costo. Ieri, cinquecento
giorni fa, prima del “terremoto”
e prima della rivoluzione delle professioni,
della concorrenza e della competitività,
il costo era trentadue euro.
E oggi? E oggi le liberalizzazioni? E le
rivoluzioni annunciate? E la rivoluzione
delle farmacie, dei treni, dei taxi?
Che succede? Sono percepite? Ci sono.
Sì, oppure no?
Radio. Musica dei Black Sabbath, voce
di Ozzy Osbourne, tassametro spento,
tariffa fissa anche se fissa non dovrebbe
essere. Si parte. Sono le ventitré e sei
minuti, è il tredici novembre.
“Certo, li leggo i giornali: sapevo
quello che volevano da noi; sapevano
che volevano aumentare le macchine,
che volevano aumentare il numero delle
vetture in circolazione, che volevano
accumulare, o cumulare, come si dice?
Sì, ecco: ci volevano ‘liberalizzare’, volevano
darci il satellitare, volevano
metterci la doppia targa, volevano lasciarci
tutti per strada. Me lo ricordo.
Me lo ricordo cosa ci dicevano. ‘Ottimizzare
i turni’, ‘aumentare il numero di
vetture in circolazione’, ‘rilasciare permessi’,
‘localizzare autovetture’, ‘qualità
del servizio’. E invece no. E invece il
sindaco nostro c’ha fatto il regalo bello
bello. C’è venuto incontro, sì: ha capito
che dovevamo trattare tutti e che di liberalizzare,
o come si dice, non se ne
faceva nulla. Sì, è vero: ci sono 1.500 licenze
nuove, tassista più tassista meno;
ma non è cambiato nulla, perché doveva
già cambiare tutto da prima, e perché
quelle licenze erano previste già da
un po’. Quanto. Mah, da quattro, da cinque.
Da cinque anni, più o meno”. Anno
duemilauno, l’assessore alla Mobilità
a Roma si chiama Simone Gargano,
il Comune annuncia proprio 1.500 licenze
in più: arriveranno sei anni dopo;
le liberalizzazioni, con quelle licenze,
non c’entrano proprio nulla. “E noi certo
che lo sapevamo: certo che ci sono un
po’ di macchine in più, oggi: ma alla fine
siamo noi che abbiamo vinto. Perché?
Perché avevamo chiesto di aumentare
le tariffe, avevamo chiesto il 25
per cento in più, il Comune ci voleva
dare solo 12 per cento ma ora, tra 25 e
12 la media, su per giù, quant’è? Diciotto.
Diciotto per cento di tariffa in più.
Questa sarà la nostra vittoria. E si va
avanti. Perché il cinque dicembre siamo
tutti in piazza: e se proprio vogliono
mettere qualche macchina in più in giro
che aumentassero anche le tariffe e
che aumentassero anche i prezzi; semplice,
no?”. Semplice. Pochi taxi in più
e prezzi più alti. A Roma, ma anche a
Milano. I dati sono questi. Si parte dal
taxi e poi si arriva alla “rivoluzione”
annunciata ma non esattamente percepita.
Perché. Perché a Milano, per i
taxi, le tariffe sono aumentate del 12,9
per cento in un anno: e dal centro di
Milano, per raggiungere Malpensa, oggi
ci vogliono settanta euro; da Malpensa
per raggiungere la Fiera ci vogliono
cinquantacinque euro; da Linate alla
Fiera sono quaranta euro e, infine, da
Malpensa a Linate gli euro sono ottantacinque.
E a Roma? A Roma sono 1.450
le licenze in più; e in tutto, oggi, ne girano
7.450, di taxi. Più taxi, sì: ma a prezzi
più alti. Quindi esattamente il contrario
di quel “più libertà, più scelta e prezzi
più bassi e più opportunità di lavoro”,
di cui parlava Bersani, ministro per lo
Sviluppo, lo scorso luglio. Diceva così,
qualche mese fa, chi a Roma conosce
bene il problema e chi, per anni, ha lavorato
sia con Francesco Rutelli che
con Walter Veltroni: “Qui si parla di
turni, non di rivoluzione e non di liberalizzazione.
Perché qui viene tutto stabilito
così: con un’ordinanza, con una
decisione dall’alto; e questo non significa
liberalizzare; significa imporre
qualcosa; significa che ciascuno può fare
il turno che vuole: e questo, purtroppo,
vale per il taxi come per il resto.
Perché il taxi sarebbe la cosa più semplice
da rivoluzionare. E se vogliamo
entrare nel dettaglio, a Roma, così come
a Milano, l’unica cosa che la legge
può modificare è questa: è che il titolare
può mettere alla guida della sua
macchina un dipendente, ma solo nel
caso in cui ci sia un turno aggiuntivo;
qui però, per i taxi, si tratta semplicemente
di piccole aggiunte fatte ai turni
esistenti; turni che, tra l’altro, quasi sicuramente
verranno gestiti dai titolari
attuali. E cosa avrebbero liberalizzato
dunque?”. Così è andata. E i taxi sono
solo un esempio di rivoluzionaria liberalizzazione
annunciata e non percepita.
Del prezzi più alti e meno concorrenza.
E per di più, almeno a Roma,
l’aumento era stato già previsto, quasi
sei anni fa; così come era stato previsto
che più licenze sarebbero arrivate solo
con i prezzi un po’ più alti. Suona un po’
male, no? Certo, qualche vettura in più
c’è davvero: ma il rapporto tra numero
di vetture e numero di abitanti rimane
questo: 2,1 taxi per ogni mille romani e
1,6 taxi per ogni mille milanesi. E a
Londra? 8,3. E a Barcellona? 9,9. Liberalizzare,
si diceva. Più servizi, più concorrenza,
più libertà, più scelta, prezzi
più bassi, più opportunità di lavoro.
“Non si torna indietro”, spiegava Francesco
Rutelli a metà del 2006. E’ andata
davvero così? E’ stata percepita davvero
la “rivoluzione”?
Raccordo anulare, ventitré e dodici
minuti tassametro off, Rolling Stones,
“Exile On Main Street”: oggi tariffa fissa
40 euro, ieri tariffa non fissa, dieci
euro. Il taxi. Le liberalizzazioni. Riprende
Luigi. “Perché? Perché accanirsi
così su di noi, perché accanirsi
sul taxi? E il resto? E gli aeroporti, le
stazioni, le strade, i telefonini? Perché
tu scendi dal treno, accendi il telefonino,
prenoti un aereo, chiudi un conto
in banca, fai benzina e ti senti così: ti
senti come se un medico ti avesse promesso
un elisir di vita eterna e poi nella
boccettina ti ritrovi un po’ di cianuro.
Sì, ci sarebbe la storia del telefonino.
Certo, è solo un esempio ed è vero,
hanno tolto il costo della ricarica. Ma
poi? Ma poi succede che ti arriva un
sms sul cellulare. Succede che ti tagliano
i costi di ricarica, e poi? Poi così,
all’improvviso, il gestore ti informa
che ‘aumenteranno le tariffe’. Aumenteranno
le tariffe? E tu che fai? Cambi
gestore? Chiami il numero verde? Cerchi
un altro telefono? Fai causa al gestore?
No. Ti attacchi, è naturale”. Telefonini,
dunque. Dallo scorso cinque
marzo Tim, Wind, Vodafone e Tre sono
state costrette a eliminare il costo fisso
della ricarica. Il risparmio? Da uno
a cinque euro per ogni erogazione.
Con un ma. Il ma è che con “un preavviso
di trenta giorni” le compagnie
possono “attuare” una “modifica contrattuale
concedendo al cliente il solo
diritto di recesso”. Detto e naturalmente
fatto. Gli aumenti, tra tariffe,
collegamenti ai portali mobili, scatto
alla risposta, vanno dal dieci al venti
per cento. Impossibile prevederlo? Così
così. Ventotto gennaio del 2007, dichiarazione
del presidente dell’Antitrust
Antonio Catricalà: “Mi auguro
che le tariffe telefoniche, che un po’
saliranno, non aumentino così tanto da
sminuire il vantaggio”. Un po’ saliranno,
diceva Catricalà. E un po’, va detto,
erano davvero scesi i costi: del 14 per
cento secondo i dati Istat di giugno.
Poi, però, i costi sono saliti ancora. Ed
è andata così per i telefoni, così per i
taxi, così un po’ anche per le farmacie.
E il trucco, in fondo, si trova anche qui.
Perché i farmaci, finendo sui banchi
dei supermercati (“vendita dei medicinali
da banco al di fuori dalle farmacie”,
si legge nel decreto Bersani) potrebbero
portare a un risparmio totale
di 150 milioni di euro all’anno e a un
abbattimento dei costi del 20 per cento
circa. Ma quanti sono gli esercizi
commerciali dove si trovano i farmaci,
davvero? Millecentoquarantotto in
tutt’Italia, come scritto nell’ultimo rapporto
pubblicato a settembre dal ministero
dello Sviluppo economico. Meglio
di niente, ma non granché. Il problema
però si trova anche qui. Come
ricordato qualche mese fa in una lettera
a Repubblica dal deputato della
Rosa nel Pugno Sergio D’Elia, uno dei
punti più importanti in questa liberalizzazione
era ed è quella che si riferiva
ai farmaci “di fascia C”, cioè ai farmaci,
si chiamano così, “generici”. Doveva
funzionare in questo modo: i nomi
commerciali dei prodotti dovevano
sparire dalle ricette e i medici avrebbero
dovuto indicare, sulla ricetta, non
il farmaco ma il suo principio attivo; e
in questo modo i farmaci sarebbero
stati scelti non tanto per il nome, quanto
per il prezzo. Ecco, così non è andata,
sulle ricette troveremo ancora i nomi
dei soli farmaci, e la manifestazione
organizzata dai farmacisti lo scorso
lunedì – contro la liberalizzazione – è
stata dunque annullata. “Davvero un
paese che non riesce a liberalizzare la
distribuzione del farmaco, sarà in grado
di separare Snam da Eni o di privatizzare
le fondazioni bancarie”, si
chiede Alberto Mingardi dell’istituto
ultraliberista Bruno Leoni.
Raccordo anulare, uscita numero
uno, Aurelia-Città del Vaticano. Venti
euro ieri, quaranta oggi. Un tassista non
liberalizzato e le liberalizzazioni che in
fondo in fondo tanto liberalizzate non lo
sono state proprio. Sono le ventitré e
quindici minuti. “Non so, ma quando
guardi i giornali a volte non capisci. Ma
come è possibile che, in quanto?, tre,
quattro, cinque anni, lì sulla Manica
hanno fatto un buco dove passa un treno
che ti porta da Londra a Parigi in
due ore mentre qui, da dieci anni, si
parla di quella roba lì; della Tav, dei treni
lenti, dei ritardi, dei prezzi che salgono
e di quei cazzo di no Tav che non si
capisce che vogliono, lì in Piemonte. E
uno apre qui i giornali e che vede? Vede
i treni che arrivano in ritardo, vede i
treni che costano di più, vede i ponti
che non si fanno, vede gli intercity che
vanno più lenti dei taxi e vede i telefonini
che dovevano costare di meno e
che ora, invece, semplicemente costano
di più. E lo vedi, tu: perché parti dall’aeroporto,
arrivi alla stazione, viaggi in autostrada,
parli al telefonino e non te ne
frega nulla né di partiti, né di fusioni,
né di niente. Il partito lo voti una volta
ogni cinque anni, il telefonino lo usi
una volta ogni due ore, la macchina la
prendi una volta al giorno, il treno lo usi
una volta al mese. Cos’è più importante?
Cosa mi costa di più? Cosa mi interessa
di più? Parlare di un partito nuovo
o arrivare in due ore a Londra?”.
Due ore, cinque virgola nove miliardi di
sterline investite, 299 chilometri orari di
media. E qui invece la Tav. “L’obiettivo
è stato raggiunto”, spiegava qualche
giorno fa il ministro Antonio Di Pietro,
parlando di treni, di Tav e dei 671 milioni
stanziati dall’Unione Europea per finanziare
il progetto della Torino-Lione;
già presentato undici anni fa dal governo
di centrosinistra e che, se si farà, si
farà non oggi, non domani, ma tra quattro
anni: quindici anni per una ferrovia.
Semplice. Quando invece, nel pacchetto
Bersani, tra le tante cose, tu leggevi
anche questo: “Apertura al mercato del
settore ferroviario”, “separazione fra
autorità regolatrice e gestore della rete”,
“efficiente gestione della stessa rete”,
“allocazione non discriminatoria
della capacità di rete e dei terminali”.
Efficiente gestione della rete, dunque.
E poi, anche qui: i costi. Un esempio.
Dal prossimo nove dicembre le tariffe
sulle tratte regionali dei treni italiani
aumenteranno del dieci per cento. Il
quotidiano la Stampa ha fatto questi
calcoli: da Bologna a Bolzano, in prima
classe, si passerà dai 16,80 euro di oggi
ai 27,95 di domani. In seconda classe dai
12,90 di ieri si passerà ai 18,80 di domani.
Dieci per cento di aumenti oggi, il
dieci per cento in più già dallo scorso
gennaio e il cinque per cento di aumento
previsti tra il 2009 e il 2011: quando in
Germania i treni probabilmente faranno
concorrenza agli aerei e quando qui,
a Torino, si parlerà ancora di buchi nelle
montagne e quando l’Economist, come
fatto tre mesi fa, parlerà ancora di
una “new era of international rail travel”
dove Svizzera, Belgio, Germania,
Austria, Olanda e Francia si metteranno
lì a tavolino per disegnare il futuro
del trasporto ferroviario del continente
e per progettare un “high speed revolution”
con i treni che “faranno concorrenza
agli aerei” e le ferrovie che, privatizzate,
diventeranno sempre più low
cost: ecco, l’obiettivo – come dice Di Pietro
– sara stato pure “raggiunto”, ma l’Italia,
nella era of revolution, semplicemente
non c’è.
Chilometro numero diciannove, via
Baldo degli Ubaldi, tassametro off, 26
euro ieri, 40 euro oggi. Musica dei Planet
funk, voce di Dan Black. Treni, taxi,
farmacie, telefonini. Il tassametro è
bloccato. Luigi: “Cioè. So du anni che
me pare che ‘r gobbo vede la gobba dell’artri
gobbi, ma nun riesce mai a trovasse
la sua. I problemi sono sempre gli
altri: sono i tassisti i problemi, non i politici;
mai uno, chessò, che dica ‘abbiamo
sbagliato’. Certo, tu ci pensi un attimo
e un po’ ci fai caso; perché chi sale
qui in macchina capita spesso che ti
parla di queste cose e che si, magari a
telefono, magari ad alta voce, magari
con qualcuno a bordo, arriva si chiede
che fine ha fatto Telecom? Che fine ha
fatto Alitalia. Sì. Che hanno fatto?
L’hanno privatizzata? L’hanno vennuta?
E a chi va? E su che aerei viaggiamo?
Di chi sono? E ora: che succede? Scioperano,
non scioperano. Boh. E poi, altra
promessa: e il mutuo? Ecco, il mutuo.
Che storia è questa? ‘Trasportabilità’,
m’avevano detto, giusto? Trasportabilità
gratuita dei mutui, m’avevano
giurato. Bene: a me, per spostarlo, il
mutuo, me l’hanno fatto pagare. Rispondetemi.
Come mai?”.
Ad aprile, nella lenzuolata firmata
da Pierluigi Bersani, si legge anche
questo: “azzeramento dei costi per i
sottoscrittori dei mutui che vogliono
passare da una banca a un’altra per ottenere
migliori condizioni”. Lo scorso
cinque novembre è successo che l’Abi
– l’Associazione bancaria italiana – si è
rifiutata “di affrontare il problema dei
costi”. Ora, la stessa Abi, ha “suggerito
che i costi di portabilità dei mutui dovranno
essere a carico della banca subentrante”.
Si suggerisce. Si rimanda.
E si aspetta ancora un po’, per quella
rivoluzione per quel terremoto che
avrebbe travolto negozi, trasporti, farmacie,
barbieri, benzinai, parrucchieri,
ferrovie, aerei, banche, mutui, carburanti,
imprese, commerci, professioni,
avvocati, farmacisti e naturalmente
tassisti, quella rivoluzione che, come
spiegava Romano Prodi, avrebbe
“cambiato la vita degli italiani” e che
invece, cinquecento giorni dopo, se ne
va in giro con i taxi che costano di più,
con i treni che costano di più, con i farmaci
che un po’ ci sono e un po’ no e
con una tariffa, quella del taxi, che da
Fiumicino a Roma centro, prima della
rivoluzione, costava trentadue; e oggi
invece costa quaranta.
Claudio Cerasa
24/11/07
Fiumicino. Tredici novembre. Cinquecento
giorni dalle liberalizzazioni.
Cinquecento giorni dal decreto
che cambierà “la vita degli italiani”
(Romano Prodi), che diventerà un “terremoto”
per noi tutti (Francesco Rutelli),
che favorirà sia la “concorrenza
che la competitività” (Livia Turco) e
che rivoluzionerà professioni, negozi,
trasporti, farmacie, barbieri, benzinai,
parrucchieri, ferrovie, aerei, banche,
mutui, carburanti, imprese, commerci,
professioni, avvocati, farmacisti e naturalmente
tassisti. Tassisti. Più concorrenza,
più servizi, prezzi più bassi.
Semplice. Ore ventidue e cinquanta,
aeroporto Leonardo da Vinci, ventitré
chilometri da Roma: due vigili urbani,
sei trolley portati a mano, una valigetta
ventiquattrore, un volo Milano-Roma
(centoventitré euro, dieci minuti di
ritardo), una corsia verniciata di giallo,
due cartelli con scritta “Taxi”, quindici
passeggeri in fila, sette tassinari
abusivi (“cinquanta euro Roma Fiumicino-
Roma centro”), zero “Taxi” in corsia
e sedici minuti di attesa. Sedici minuti;
poi il primo: compagnia Samarcanda,
06.5511. Luigi, trentacinque anni,
capelli neri tipo Danilo Coppola,
felpa verde, Citroen C3, tredici anni di
licenza, 1.350 euro al mese e tassametro
bloccato. Tragitto: aeroporto Fiumicino-
Piazza Mazzini, Roma; fuori
dalle mura Aureliane, zona dove la tariffa
fissa semplicemente non si usa,
non è prevista. Il costo. Ieri, cinquecento
giorni fa, prima del “terremoto”
e prima della rivoluzione delle professioni,
della concorrenza e della competitività,
il costo era trentadue euro.
E oggi? E oggi le liberalizzazioni? E le
rivoluzioni annunciate? E la rivoluzione
delle farmacie, dei treni, dei taxi?
Che succede? Sono percepite? Ci sono.
Sì, oppure no?
Radio. Musica dei Black Sabbath, voce
di Ozzy Osbourne, tassametro spento,
tariffa fissa anche se fissa non dovrebbe
essere. Si parte. Sono le ventitré e sei
minuti, è il tredici novembre.
“Certo, li leggo i giornali: sapevo
quello che volevano da noi; sapevano
che volevano aumentare le macchine,
che volevano aumentare il numero delle
vetture in circolazione, che volevano
accumulare, o cumulare, come si dice?
Sì, ecco: ci volevano ‘liberalizzare’, volevano
darci il satellitare, volevano
metterci la doppia targa, volevano lasciarci
tutti per strada. Me lo ricordo.
Me lo ricordo cosa ci dicevano. ‘Ottimizzare
i turni’, ‘aumentare il numero di
vetture in circolazione’, ‘rilasciare permessi’,
‘localizzare autovetture’, ‘qualità
del servizio’. E invece no. E invece il
sindaco nostro c’ha fatto il regalo bello
bello. C’è venuto incontro, sì: ha capito
che dovevamo trattare tutti e che di liberalizzare,
o come si dice, non se ne
faceva nulla. Sì, è vero: ci sono 1.500 licenze
nuove, tassista più tassista meno;
ma non è cambiato nulla, perché doveva
già cambiare tutto da prima, e perché
quelle licenze erano previste già da
un po’. Quanto. Mah, da quattro, da cinque.
Da cinque anni, più o meno”. Anno
duemilauno, l’assessore alla Mobilità
a Roma si chiama Simone Gargano,
il Comune annuncia proprio 1.500 licenze
in più: arriveranno sei anni dopo;
le liberalizzazioni, con quelle licenze,
non c’entrano proprio nulla. “E noi certo
che lo sapevamo: certo che ci sono un
po’ di macchine in più, oggi: ma alla fine
siamo noi che abbiamo vinto. Perché?
Perché avevamo chiesto di aumentare
le tariffe, avevamo chiesto il 25
per cento in più, il Comune ci voleva
dare solo 12 per cento ma ora, tra 25 e
12 la media, su per giù, quant’è? Diciotto.
Diciotto per cento di tariffa in più.
Questa sarà la nostra vittoria. E si va
avanti. Perché il cinque dicembre siamo
tutti in piazza: e se proprio vogliono
mettere qualche macchina in più in giro
che aumentassero anche le tariffe e
che aumentassero anche i prezzi; semplice,
no?”. Semplice. Pochi taxi in più
e prezzi più alti. A Roma, ma anche a
Milano. I dati sono questi. Si parte dal
taxi e poi si arriva alla “rivoluzione”
annunciata ma non esattamente percepita.
Perché. Perché a Milano, per i
taxi, le tariffe sono aumentate del 12,9
per cento in un anno: e dal centro di
Milano, per raggiungere Malpensa, oggi
ci vogliono settanta euro; da Malpensa
per raggiungere la Fiera ci vogliono
cinquantacinque euro; da Linate alla
Fiera sono quaranta euro e, infine, da
Malpensa a Linate gli euro sono ottantacinque.
E a Roma? A Roma sono 1.450
le licenze in più; e in tutto, oggi, ne girano
7.450, di taxi. Più taxi, sì: ma a prezzi
più alti. Quindi esattamente il contrario
di quel “più libertà, più scelta e prezzi
più bassi e più opportunità di lavoro”,
di cui parlava Bersani, ministro per lo
Sviluppo, lo scorso luglio. Diceva così,
qualche mese fa, chi a Roma conosce
bene il problema e chi, per anni, ha lavorato
sia con Francesco Rutelli che
con Walter Veltroni: “Qui si parla di
turni, non di rivoluzione e non di liberalizzazione.
Perché qui viene tutto stabilito
così: con un’ordinanza, con una
decisione dall’alto; e questo non significa
liberalizzare; significa imporre
qualcosa; significa che ciascuno può fare
il turno che vuole: e questo, purtroppo,
vale per il taxi come per il resto.
Perché il taxi sarebbe la cosa più semplice
da rivoluzionare. E se vogliamo
entrare nel dettaglio, a Roma, così come
a Milano, l’unica cosa che la legge
può modificare è questa: è che il titolare
può mettere alla guida della sua
macchina un dipendente, ma solo nel
caso in cui ci sia un turno aggiuntivo;
qui però, per i taxi, si tratta semplicemente
di piccole aggiunte fatte ai turni
esistenti; turni che, tra l’altro, quasi sicuramente
verranno gestiti dai titolari
attuali. E cosa avrebbero liberalizzato
dunque?”. Così è andata. E i taxi sono
solo un esempio di rivoluzionaria liberalizzazione
annunciata e non percepita.
Del prezzi più alti e meno concorrenza.
E per di più, almeno a Roma,
l’aumento era stato già previsto, quasi
sei anni fa; così come era stato previsto
che più licenze sarebbero arrivate solo
con i prezzi un po’ più alti. Suona un po’
male, no? Certo, qualche vettura in più
c’è davvero: ma il rapporto tra numero
di vetture e numero di abitanti rimane
questo: 2,1 taxi per ogni mille romani e
1,6 taxi per ogni mille milanesi. E a
Londra? 8,3. E a Barcellona? 9,9. Liberalizzare,
si diceva. Più servizi, più concorrenza,
più libertà, più scelta, prezzi
più bassi, più opportunità di lavoro.
“Non si torna indietro”, spiegava Francesco
Rutelli a metà del 2006. E’ andata
davvero così? E’ stata percepita davvero
la “rivoluzione”?
Raccordo anulare, ventitré e dodici
minuti tassametro off, Rolling Stones,
“Exile On Main Street”: oggi tariffa fissa
40 euro, ieri tariffa non fissa, dieci
euro. Il taxi. Le liberalizzazioni. Riprende
Luigi. “Perché? Perché accanirsi
così su di noi, perché accanirsi
sul taxi? E il resto? E gli aeroporti, le
stazioni, le strade, i telefonini? Perché
tu scendi dal treno, accendi il telefonino,
prenoti un aereo, chiudi un conto
in banca, fai benzina e ti senti così: ti
senti come se un medico ti avesse promesso
un elisir di vita eterna e poi nella
boccettina ti ritrovi un po’ di cianuro.
Sì, ci sarebbe la storia del telefonino.
Certo, è solo un esempio ed è vero,
hanno tolto il costo della ricarica. Ma
poi? Ma poi succede che ti arriva un
sms sul cellulare. Succede che ti tagliano
i costi di ricarica, e poi? Poi così,
all’improvviso, il gestore ti informa
che ‘aumenteranno le tariffe’. Aumenteranno
le tariffe? E tu che fai? Cambi
gestore? Chiami il numero verde? Cerchi
un altro telefono? Fai causa al gestore?
No. Ti attacchi, è naturale”. Telefonini,
dunque. Dallo scorso cinque
marzo Tim, Wind, Vodafone e Tre sono
state costrette a eliminare il costo fisso
della ricarica. Il risparmio? Da uno
a cinque euro per ogni erogazione.
Con un ma. Il ma è che con “un preavviso
di trenta giorni” le compagnie
possono “attuare” una “modifica contrattuale
concedendo al cliente il solo
diritto di recesso”. Detto e naturalmente
fatto. Gli aumenti, tra tariffe,
collegamenti ai portali mobili, scatto
alla risposta, vanno dal dieci al venti
per cento. Impossibile prevederlo? Così
così. Ventotto gennaio del 2007, dichiarazione
del presidente dell’Antitrust
Antonio Catricalà: “Mi auguro
che le tariffe telefoniche, che un po’
saliranno, non aumentino così tanto da
sminuire il vantaggio”. Un po’ saliranno,
diceva Catricalà. E un po’, va detto,
erano davvero scesi i costi: del 14 per
cento secondo i dati Istat di giugno.
Poi, però, i costi sono saliti ancora. Ed
è andata così per i telefoni, così per i
taxi, così un po’ anche per le farmacie.
E il trucco, in fondo, si trova anche qui.
Perché i farmaci, finendo sui banchi
dei supermercati (“vendita dei medicinali
da banco al di fuori dalle farmacie”,
si legge nel decreto Bersani) potrebbero
portare a un risparmio totale
di 150 milioni di euro all’anno e a un
abbattimento dei costi del 20 per cento
circa. Ma quanti sono gli esercizi
commerciali dove si trovano i farmaci,
davvero? Millecentoquarantotto in
tutt’Italia, come scritto nell’ultimo rapporto
pubblicato a settembre dal ministero
dello Sviluppo economico. Meglio
di niente, ma non granché. Il problema
però si trova anche qui. Come
ricordato qualche mese fa in una lettera
a Repubblica dal deputato della
Rosa nel Pugno Sergio D’Elia, uno dei
punti più importanti in questa liberalizzazione
era ed è quella che si riferiva
ai farmaci “di fascia C”, cioè ai farmaci,
si chiamano così, “generici”. Doveva
funzionare in questo modo: i nomi
commerciali dei prodotti dovevano
sparire dalle ricette e i medici avrebbero
dovuto indicare, sulla ricetta, non
il farmaco ma il suo principio attivo; e
in questo modo i farmaci sarebbero
stati scelti non tanto per il nome, quanto
per il prezzo. Ecco, così non è andata,
sulle ricette troveremo ancora i nomi
dei soli farmaci, e la manifestazione
organizzata dai farmacisti lo scorso
lunedì – contro la liberalizzazione – è
stata dunque annullata. “Davvero un
paese che non riesce a liberalizzare la
distribuzione del farmaco, sarà in grado
di separare Snam da Eni o di privatizzare
le fondazioni bancarie”, si
chiede Alberto Mingardi dell’istituto
ultraliberista Bruno Leoni.
Raccordo anulare, uscita numero
uno, Aurelia-Città del Vaticano. Venti
euro ieri, quaranta oggi. Un tassista non
liberalizzato e le liberalizzazioni che in
fondo in fondo tanto liberalizzate non lo
sono state proprio. Sono le ventitré e
quindici minuti. “Non so, ma quando
guardi i giornali a volte non capisci. Ma
come è possibile che, in quanto?, tre,
quattro, cinque anni, lì sulla Manica
hanno fatto un buco dove passa un treno
che ti porta da Londra a Parigi in
due ore mentre qui, da dieci anni, si
parla di quella roba lì; della Tav, dei treni
lenti, dei ritardi, dei prezzi che salgono
e di quei cazzo di no Tav che non si
capisce che vogliono, lì in Piemonte. E
uno apre qui i giornali e che vede? Vede
i treni che arrivano in ritardo, vede i
treni che costano di più, vede i ponti
che non si fanno, vede gli intercity che
vanno più lenti dei taxi e vede i telefonini
che dovevano costare di meno e
che ora, invece, semplicemente costano
di più. E lo vedi, tu: perché parti dall’aeroporto,
arrivi alla stazione, viaggi in autostrada,
parli al telefonino e non te ne
frega nulla né di partiti, né di fusioni,
né di niente. Il partito lo voti una volta
ogni cinque anni, il telefonino lo usi
una volta ogni due ore, la macchina la
prendi una volta al giorno, il treno lo usi
una volta al mese. Cos’è più importante?
Cosa mi costa di più? Cosa mi interessa
di più? Parlare di un partito nuovo
o arrivare in due ore a Londra?”.
Due ore, cinque virgola nove miliardi di
sterline investite, 299 chilometri orari di
media. E qui invece la Tav. “L’obiettivo
è stato raggiunto”, spiegava qualche
giorno fa il ministro Antonio Di Pietro,
parlando di treni, di Tav e dei 671 milioni
stanziati dall’Unione Europea per finanziare
il progetto della Torino-Lione;
già presentato undici anni fa dal governo
di centrosinistra e che, se si farà, si
farà non oggi, non domani, ma tra quattro
anni: quindici anni per una ferrovia.
Semplice. Quando invece, nel pacchetto
Bersani, tra le tante cose, tu leggevi
anche questo: “Apertura al mercato del
settore ferroviario”, “separazione fra
autorità regolatrice e gestore della rete”,
“efficiente gestione della stessa rete”,
“allocazione non discriminatoria
della capacità di rete e dei terminali”.
Efficiente gestione della rete, dunque.
E poi, anche qui: i costi. Un esempio.
Dal prossimo nove dicembre le tariffe
sulle tratte regionali dei treni italiani
aumenteranno del dieci per cento. Il
quotidiano la Stampa ha fatto questi
calcoli: da Bologna a Bolzano, in prima
classe, si passerà dai 16,80 euro di oggi
ai 27,95 di domani. In seconda classe dai
12,90 di ieri si passerà ai 18,80 di domani.
Dieci per cento di aumenti oggi, il
dieci per cento in più già dallo scorso
gennaio e il cinque per cento di aumento
previsti tra il 2009 e il 2011: quando in
Germania i treni probabilmente faranno
concorrenza agli aerei e quando qui,
a Torino, si parlerà ancora di buchi nelle
montagne e quando l’Economist, come
fatto tre mesi fa, parlerà ancora di
una “new era of international rail travel”
dove Svizzera, Belgio, Germania,
Austria, Olanda e Francia si metteranno
lì a tavolino per disegnare il futuro
del trasporto ferroviario del continente
e per progettare un “high speed revolution”
con i treni che “faranno concorrenza
agli aerei” e le ferrovie che, privatizzate,
diventeranno sempre più low
cost: ecco, l’obiettivo – come dice Di Pietro
– sara stato pure “raggiunto”, ma l’Italia,
nella era of revolution, semplicemente
non c’è.
Chilometro numero diciannove, via
Baldo degli Ubaldi, tassametro off, 26
euro ieri, 40 euro oggi. Musica dei Planet
funk, voce di Dan Black. Treni, taxi,
farmacie, telefonini. Il tassametro è
bloccato. Luigi: “Cioè. So du anni che
me pare che ‘r gobbo vede la gobba dell’artri
gobbi, ma nun riesce mai a trovasse
la sua. I problemi sono sempre gli
altri: sono i tassisti i problemi, non i politici;
mai uno, chessò, che dica ‘abbiamo
sbagliato’. Certo, tu ci pensi un attimo
e un po’ ci fai caso; perché chi sale
qui in macchina capita spesso che ti
parla di queste cose e che si, magari a
telefono, magari ad alta voce, magari
con qualcuno a bordo, arriva si chiede
che fine ha fatto Telecom? Che fine ha
fatto Alitalia. Sì. Che hanno fatto?
L’hanno privatizzata? L’hanno vennuta?
E a chi va? E su che aerei viaggiamo?
Di chi sono? E ora: che succede? Scioperano,
non scioperano. Boh. E poi, altra
promessa: e il mutuo? Ecco, il mutuo.
Che storia è questa? ‘Trasportabilità’,
m’avevano detto, giusto? Trasportabilità
gratuita dei mutui, m’avevano
giurato. Bene: a me, per spostarlo, il
mutuo, me l’hanno fatto pagare. Rispondetemi.
Come mai?”.
Ad aprile, nella lenzuolata firmata
da Pierluigi Bersani, si legge anche
questo: “azzeramento dei costi per i
sottoscrittori dei mutui che vogliono
passare da una banca a un’altra per ottenere
migliori condizioni”. Lo scorso
cinque novembre è successo che l’Abi
– l’Associazione bancaria italiana – si è
rifiutata “di affrontare il problema dei
costi”. Ora, la stessa Abi, ha “suggerito
che i costi di portabilità dei mutui dovranno
essere a carico della banca subentrante”.
Si suggerisce. Si rimanda.
E si aspetta ancora un po’, per quella
rivoluzione per quel terremoto che
avrebbe travolto negozi, trasporti, farmacie,
barbieri, benzinai, parrucchieri,
ferrovie, aerei, banche, mutui, carburanti,
imprese, commerci, professioni,
avvocati, farmacisti e naturalmente
tassisti, quella rivoluzione che, come
spiegava Romano Prodi, avrebbe
“cambiato la vita degli italiani” e che
invece, cinquecento giorni dopo, se ne
va in giro con i taxi che costano di più,
con i treni che costano di più, con i farmaci
che un po’ ci sono e un po’ no e
con una tariffa, quella del taxi, che da
Fiumicino a Roma centro, prima della
rivoluzione, costava trentadue; e oggi
invece costa quaranta.
Claudio Cerasa
24/11/07
Iscriviti a:
Post (Atom)