lunedì 30 giugno 2008
Il Foglio. "Il volto meno noto di Unipol"
Reggio nell’Emilia. Lui è quello a sinistra: è quello con i baffi, con la camicia bianca, con la giacca nera, con la cravatta rossa e con il braccio che si sposta dall’alto verso il basso sfiorando i sei caratteri stampati sul muro accanto alla parola assicurazioni. Ivano Sacchetti è quello a sinistra, è quello che sorride con Consorte, è quello che ha trasformato una compagnia assicurativa in un piccolo gigante della finanza ed è quello senza cui oggi non si può parlare di Unipol, non si può parlare di Consorte, non si può parlare di Forleo, non si può parlare di coop, non si può parlare di Fassino, non si può parlare di D’Alema e non si può parlare neppure del rapporto che la sinistra ha costruito negli ultimi trent’anni con questa parte dell’Italia. L’Emilia, la Romagna, il nord e la Padania.
Sono passati tre anni dall’estate delle scalate bancarie di Gianpiero Fiorani, di Emilio Gnutti, di Giovanni Consorte, di Antonio Fazio, di Stefano Ricucci e sono stati scritti libri, sono state pubblicate sentenze e sono state sbobinate tonnellate di intercettazioni. Ma dai mesi centrali del 2005 a oggi c’è un persona che non è mai andata in televisione, che non ha mai parlato con i giornali, che non ha mai chiesto un interrogatorio e che non è mai stata raccontata nei giorni in cui degli altri, invece, si conosceva già tutto. Ivano Sacchetti, sessantaquattro anni, già vicepresidente di Unipol, assicuratore. E poi? Perché oggi se dici Unipol pensi a molte cose: pensi ai memoriali di Consorte, pensi alle parole di Piero Fassino, pensi alle frasi di Massimo D’Alema, pensi alla scalata – fallita – di tre estati fa e pensi soprattutto alle ordinanze del giudice Clementina Forleo. Arriverà a settembre il voto del Parlamento europeo sull’uso delle intercettazioni tra l’ex ministro degli Esteri e l’ex amministratore delegato di Unipol e si perderà ancora tempo a parlare di scalate, di insider trading, di aggiotaggio, di esondazioni e di giudici da rimuovere. Ma il punto è che non è possibile comprendere questa storia di politica, di finanza, di cooperative, di comunisti, di vecchi partigiani e di vecchi contadini senza conoscere la vita di Ivano Sacchetti e di tutta la sua incredibile famiglia. Perché non c’è solo la vecchia storia del ranch vicino a Reggio Emilia, non c’è solo la storia del papà che fu partigiano, non c’è solo la vicenda della parcella milionaria ricevuta da Emilio Gnutti. Non c’è solo la storia di un dirigente che ha visto trasformare il mondo delle cooperative in un mondo fatto anche di plusvalenze. C’è anche dell’altro. C’è la storia di un dirigente che ha rivoluzionato il mondo delle assicurazioni. C’è la storia della scalata a una banca (Bnl) di cui lo stesso Sacchetti sarebbe diventato presidente. C’è la storia di una regione dove per anni la politica ha significato Unipol e dove per anni la politica entrava in sezione solo dopo essere passata dagli uffici di una coop. C’è la storia di quel mondo dove oggi invece la Lega Nord arriva al 9 per cento, dove i leghisti entrano nelle cooperative e dove si trova un ex dirigente di Unipol come Sacchetti che a differenza della sua perfetta metà lavorativa, Consorte, ha scelto di non fondare merchant bank, ha scelto di non parlare della morte del padre, ha scelto di occuparsi solo dei processi, ha scelto di rimanere a Reggio, ha scelto di non scendere dalla sua bici per parlare con i cronisti ma riuscendo a essere, ancora oggi, la rappresentazione perfetta di quella terra (come scrive Edmondo Berselli) dove “si aggirano ancora vecchi comunisti pragmatici per i quali il socialismo è semplicemente il capitalismo fatto da noi”. E la storia di Sacchetti comincia proprio così. (continua)
Claudio Cerasa
29/06/08
sabato 28 giugno 2008
Il Foglio. "Premiata macelleria telefonica"
Arrivano su fogli di carta liscia, con le pagine raccolte in cartelline di plastica, con le conversazioni registrate in ordine cronologico e con le chiamate in entrata e in uscita ordinate una a una dentro lunghe griglie di documenti trascritti. Data, time, durata, chiamante, note, omissis, voci incomprensibili e lunghi tabulati. Arrivano così, le intercettazioni telefoniche: arrivano a casa, arrivano alla fine di un’indagine e arrivano quando l’intercettato ha ormai compreso che, fino a quel momento, ogni parola bisbigliata al microfono del telefono poteva davvero significare qualsiasi cosa dall’altra parte dell’apparecchio. Chi è stato intercettato almeno una volta lo sa: sa perfettamente che cosa vuol dire aprire quella cartellina con il timbro della questura della sua città, sa perfettamente che cosa vuol dire sfogliare quelle pagine fitte fitte con le sue parole registrate magari solo per un po’ di giorni o magari per un paio di mesi. Perché, se non sei così famoso e se le tue conversazioni sono una notizia solo per te e non per i giornali, quando ti arriva il brogliaccio tu lo prendi, lo scarti, lo sfogli e lo leggi e lo rileggi sul tavolino di casa, nella speranza di non aver mai alluso a nulla, di non aver mai parlato con gente sospetta e di non aver mai detto per nessuna ragione niente, neppure una cazzata. Solo che quando le trascrizioni non rimangono nel tuo cassetto, quando le tue parole arrivano prima sui quotidiani, si sa come funziona: per il lettore la voce su carta è una sentenza che non ha bisogno di prove aggiuntive e spesso basta l’intenzione per provare l’accusa e basta un equivoco per confermare il sospetto. Capita così per circa 124 mila utenze all’anno, capita così a circa 300 italiani al giorno e anche per questo non è affatto difficile riconoscere subito la persona che almeno una volta nella vita è stata intercettata. La riconosci subito, quella persona, perché al telefono più che parlare preferisce ascoltare, perché nei messaggi preferisce non alludere, perché ti dice che non si sa mai, che lo sai come funziona, che queste cose non si dicono, che certi discorsi è meglio farli a quattrocchi e che di questo, forse, è meglio parlarne un’altra volta. Quanto ti capita, quando scopri che un orecchio estraneo è stato incollato alla tua cornetta per chissà quanti giorni, il telefono si trasforma inevitabilmente in un potenziale microfono rivolto verso un pubblico di cui tu non sai nulla, che di te però vuole sapere tutto e che non aspetta altro che spulciare tra le registrazioni per ascoltare dal buco della serratura quelle telefonate che sembrano essere “incriminate” anche quando con il reato non c’entrano proprio nulla. I numeri li conoscete e cronisti di ogni genere si sono già ampiamente esercitati per giorni sui dati reali delle intercettazioni telefoniche. Qualcosa però è sfuggito, e per comprendere come funziona un’intercettazione e per capire quali sono, davvero, le vie dell’abuso, la strada giusta non è quella di insistere sui costi effettivi delle intercettazioni. Non basta dire che intercettare in Italia costa moltissimo e che costa più di qualsiasi altro paese europeo. Non basta dire che ogni tabulato telefonico costa allo stato circa 26 euro. Non basta dire che ogni procura spende quotidianamente circa 1,6 euro per intercettare un telefono fisso, 2 euro per un cellulare e 13 euro per un apparecchio satellitare e che ogni giorno il ministero della Giustizia spende circa 613 mila euro per tenere sotto controllo le utenze intercettate (in Francia e in Germania le aziende telefoniche sono invece costrette a offrire gratuitamente allo stato la linea telefonica). Per comprendere davvero tutte le degenerazioni possibili della rete delle intercettazioni, dunque, bisogna dare uno sguardo a cosa succede in questi giorni a Napoli – con il caso Rai, con il Cav., con Saccà e con l’incredibile numero di telefonate registrate (in tutto sono novemila) – e si deve comprendere il senso di quel che è successo pochi giorni fa nel Gargano – con quell’overdose di intercettazioni che, per l’impossibilità di sbobinarle in tempo, ha portato alla scarcerazione di tredici delinquenti – per capire che ancora oggi ci sono aspetti che non possono essere trascurati. Certo, è un errore considerare a priori la registrazione telefonica come un elemento sempre pericoloso per la nostra privacy, perché per legge l’attività investigativa viene sempre privilegiata rispetto alla tutela dei dati sensibili, perché il 95 per cento delle sbobinature che finiscono sui giornali sono intercettazioni non più segrete e perché in fondo in molti casi l’attività di intercettazione non sostituisce affatto l’indagine sul campo, ma semmai spesso la integra.
“Noi – dice un poliziotto famoso che chiede l’anonimato – abbiamo conosciuto un periodo in cui non si facevano intercettazioni perché c’erano i pentiti. Poi si disse che la polizia non sa fare indagini, che comanda tutto il magistrato, e che noi non sappiamo fare più niente. Ed era in parte anche vero, perché io vedevo gli uffici dell’arma dei carabinieri che si erano appiattiti sulle dichiarazioni del pentito. Il pentito era interrogato dal magistrato e il magistrato diventava in modo incontestabile dominus dell’indagine, mentre la polizia giudiziaria si riduceva a rango di ‘aiutante d’interrogatorio’. Ma bisogna fare attenzione. Tu all’intercettazione ci arrivi come momento corroborante dell’indagine. E’ una cosa che va abbinata al resto. Se io metto sotto controllo due trafficanti di droga della camorra, se tu non fai attività di osservazione sul posto e non vai con una telecamera o non nascondi persone in contenitori dell’immondizia, travestendoli da spazzini, da muratori o magari da puttane, le intercettazioni da sole non servono a nulla”.
Soprattutto ora che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, è pronto a portare in Parlamento il restrittivo disegno di legge che regolamenterà le intercettazioni telefoniche, c’è un aspetto che più degli altri va preso in considerazione: il vero problema non sono le registrazioni in sé, ma sono tutte le vie che rendono possibile la fuga di notizie e grazie alle quali, spesso, le intercettazioni arrivano sul desk dei cronisti prima ancora che sul tavolo degli indagati. Ecco, come è possibile? Quali sono i punti critici della rete delle intercettazioni? E come fa, davvero, un giornalista a ricevere prima dell’interessato queste registrazioni? Bene, qualsiasi cronista abbia avuto a che fare negli ultimi anni con la pubblicazione delle intercettazioni sa perfettamente che in fondo non è così difficile riuscire a entrare in possesso di quei “documenti riservati”. (Tecnicamente ancora oggi esiste una legge che prevede il divieto assoluto di pubblicazione delle intercettazioni protette dal segreto istruttorio, ma in realtà per chi pubblica le conversazioni non ci sono vere sanzioni: se le intercettazioni vengono riportate prima della fine delle indagini il cronista se la cava con una multa di 250 euro; se le conversazioni invece finiscono sui giornali quando si trovano ancora sotto segreto istruttorio la persona che commette reato è quella che ha lasciato uscire le carte dalla procura non quella che le riceve). Dall’altra parte, però, sarebbe ingenuo nascondere che molto spesso le intercettazioni sembra proprio siano fatte scientificamente uscire sul quotidiano giusto e nel momento giusto. E se qualcuno crede che non sia così, se qualcuno ancora crede che le intercettazioni non vengano fuori, come dire, “ad arte”, è sufficiente ascoltare quanto detto qualche mese fa dal sostituto procuratore romano Piero Saviotti, che, a proposito di fughe di notizie, rispondeva così alla commissione giustizia del Senato. “Per quanto riguarda l’individuazione della fonte della fuga di notizie – spiegava Saviotti – è difficile dare una spiegazione, anche perché gli interessi sono spesso diversi. Vi è sicuramente l’interesse del pubblico ministero a fare bella figura, a comparire sui giornali, e ciò è molto frequente; non ho prove, ma la mia percezione, di chi opera nel settore, me ne dà in molti casi la conferma. Vi è poi quella che io chiamo la sindrome de ‘I tre giorni del Condor’. Alla fine di quel film, il giornalista promotore dell’inchiesta si sente al sicuro quando riesce a trasmettere il dossier al giornale. A quel punto si sente protetto dalla collettività per cui ritiene di aver lavorato. Ebbene, vi assicuro che questo atteggiamento mentale costituisce una motivazione altrettanto rilevante del far bella figura e di apparire. Si tratta di blindare un’indagine a fronte di aggressioni prevedibili, supposte o semplicemente paventate da parte di quei poteri ai quali ci si vuole contrapporre. In altre parole, l’indagine giudiziaria che approda sulla carta stampata per colui che l’ha condotta in questo modo può essere più protetta, più sicura. Un magistrato – continua Saviotti – non fa carriera in senso tecnico con un’indagine andata a buon fine, ma un ufficiale di polizia giudiziaria sicuramente sì. Un risalto giornalistico dell’indagine può soddisfare inoltre anche il malinteso senso istituzionale di volere più risorse per il proprio ufficio. Il dirigente di un ufficio specializzato, di una sezione anticrimine del Ros, di una Dia o di una Digos, sa che se produce risultati visibili ha un potere contrattuale maggiore nei confronti dell’amministrazione per ottenere risorse”.
Un tempo – prima che gli atti giudiziari venissero registrati su dischetti duplicabili e quando ancora i magistrati non ospitavano in vacanza i giornalisti per consegnare loro i cd con i verbali utili – il vecchio trucco era semplice e funzionava più o meno in questo modo: il giornalista entrava nel palazzo di giustizia, bussava nell’ufficio del magistrato, il magistrato apriva la porta, faceva sedere il giornalista di fronte a un tavolo e, nel dare una spolveratina alla coscienza allontanandosi “solo per un attimo” dall’ufficio, lasciava lì sul tavolo il verbale o l’intercettazione di fronte al cronista. Il quale, ringraziando, consultava rapidamente prima che il magistrato ritornasse in ufficio. Oggi invece le vie di fuga sono praticamente infinite, e basta ricostruire la vita di una registrazione per capire i passaggi nel corso dei quali la voce dell’intercettato, invece che passare da un ufficio giudiziario a un altro, arriva nelle mani curiose di chi con le indagini non c’entra proprio nulla.
Comincia così un’intercettazione telefonica, comincia con un ufficiale di polizia giudiziaria (dunque polizia di stato, carabinieri o guardia di finanza) che chiede al magistrato di poter intercettare. Il magistrato richiede l’autorizzazione al giudice per le indagini preliminari, il gip valuta se esistono le condizioni per mettere un “bersaglio” sotto controllo (non si può intercettare su tutto: occorrono gravi indizi e, fino a oggi, occorre che il reato preveda una pena non inferiore ai cinque anni). Se le condizioni esistono, il magistrato autorizza la polizia a mettere sotto controllo una serie di utenze telefoniche. (Le uniche intercettazioni che per legge possono essere effettuate preventivamente, cioè basate non necessariamente su indizi, sono quelle fatte dai servizi segreti e sono poco più di cento ogni anno). Così, la polizia giudiziaria invia un fax all’azienda telefonica e chiede di mettere a disposizione i suoi servizi per intercettare l’utente. La durata massima di un’intercettazione, oggi, è di un anno – tranne per i reati di mafia per i quali sono previsti dodici mesi in più. A questo punto l’azienda telefonica crea un ponte, un filo virtuale che arriva fino alla sala d’ascolto della procura e che permette alla polizia di ascoltare le telefonate delle utenze richieste. La sala d’ascolto è una piccola stanza che si trova all’ultimo piano di ciascuna delle 165 procure d’Italia, nella cosiddetta “piccionaia”. Qui, con una cuffia collegata al computer, gli ufficiali di polizia ascoltano le conversazioni su un monitor, grande quattro volte questa pagina di giornale, in grado di gestire contemporaneamente fino a trecento numeri di telefoni. Il computer ha un programma che condensa insieme le telefonate (i poliziotti la chiamano “lavatrice”) e segnala con un colore rosso l’utenza che squilla in quel determinato momento. Tecnicamente, per intercettare un telefono, basta conoscere il codice genetico di ogni apparecchio (si chiama “Imei”). Quel codice lancia un segnale radio che viene registrato da ogni celletta presente in città (attraverso le quali i telefonini sono connessi alla rete) che permette alla polizia non solo di ascoltare le parole dell’intercettato ma anche di conoscere esattamente la posizione sul territorio. Esistono solo due tipi di conversazioni che oggi vengono intercettate con difficoltà: la prima è quella che passa attraverso i telefoni satellitari (che si appoggiano ad alcune celle che spesso superano i confini del territorio italiano), la seconda è quella che passa attraverso lo scambio di dati su Skype, il programma di messaggistica istantanea più famoso del mondo per il quale ancora oggi gli inquirenti hanno difficoltà a decrittarne i contenuti. Al termine di un’indagine, infine, le conversazioni considerate più interessanti vengono trascritte su alcuni brogliacci e vengono caricate su supporti magnetici. Ogni cd viene inserito in una custodia sigillata, viene catalogato con un numero di repertorio ma, anche se la traccia del cd non è in via ipotetica modificabile, le duplicazioni purtroppo non mancano. (In un’audizione di due anni fa, il senatore Roberto Castelli sostenne senza ironia che esiste un solo modo per blindare il contenuto delle intercettazioni, “il sistema di attivazione delle bombe atomiche nucleari”).
Teoricamente, ancora oggi, fino al decreto di archiviazione o prima del dibattimento, sarebbe vietato pubblicare qualsiasi tipo di intercettazione. Ci sono casi in cui le conversazioni sbobinate possono però imboccare strade piuttosto diverse da quelle previste dalla legge. Sono molte e tutte lasciano intendere come sia possibile che all’improvviso i brogliacci si materializzino sui giornali prima ancora che questi siano arrivati all’esame della magistratura. In questi casi, con una perifrasi magnifica, i giornali parlano di “intercettazioni finite nella disponibilità dei giornalisti”. Ecco, ci sono occasioni concrete in cui queste “disponibilità” si possono verificare. Spesso, come spiegato con l’esempio dei “Tre giorni del Condor”, capita che sia lo stesso magistrato a fare uscire i verbali. Spesso però capita anche che il giornalista conosca perfettamente quali sono le falle del sistema. Non si tratta solo di voler tirare in ballo tutti i potenziali “casi Tavaroli”, cioè tutti quei casi in cui la figura dello spione potrebbe coincidere con quella degli uomini che si occupano di “business security” all’interno delle aziende telefoniche. Non c’è solo questo, naturalmente. Tanto per fare un esempio, al termine di un’intercettazione il magistrato è obbligato a distruggere tutte quelle registrazioni di cui è stato deciso di vietare l’utilizzo (intercettazioni come quelle tra Piero Fassino e Giovanni Consorte e intercettazioni come quelle che riguardano le ragazze coinvolte nell’inchiesta sul caso Rai). Che succede, però. Succede che in caso di mancata distruzione non è difficile farla franca, perché non esistono procedimenti punitivi per chi non stralcia quei documenti. Non solo: va anche detto che le sale d’ascolto non sempre hanno le stesse garanzie previste per i luoghi dove i dati vengono trascritti materialmente e che le procure affidano a società esterne (le più famose tra queste si chiamano Resi, I&S, Sio, Radio Trevisan, Area e Rcs – nulla a che vedere con il gruppo Rizzoli – e rappresentano circa l’80 per cento dei costi complessivi che lo stato spende per le intercettazioni). Per quanto riguarda il problema della conservazione dei documenti, invece, vi è una questione doppia, perché da una parte ogni dato di traffico deve essere conservato per almeno cinque anni (l’Italia è il paese a livello europeo dove si conservano di più – in Unione europea è previsto un termine ordinario di due anni) ma dall’altro lato in alcune aziende spesso vengono conservate a lungo anche alcune copie di quei documenti: le aziende, per dimostrare di aver erogato una certa prestazione, devono mantenere le carte fino all’incasso della fattura e le richieste di liquidazione, come ammesso dagli stessi dirigenti delle aziende telefoniche nel corso dell’ultima indagine conoscitiva sul fenomeno delle intercettazioni, spesso vanno misteriosamente smarrite.
Per quanto riguarda la questione degli avvocati, invece, vi sarebbe tutto un capitoletto da aprire a parte. Qui i problemi sono piuttosto seri, perché ogni legale ha diritto al deposito e alla copia di ciascuna intercettazione e ogni legale ha anche diritto a ricevere su cd rom tutto il materiale prodotto nel corso delle indagini. Il punto è che quando il giudice dispone la distruzione delle telefonate, dispone la distruzione di quelle custodite in procura. Mentre non prevede alcuna distruzione forzata di tutte le copie che sono state lasciate ai difensori. Il risultato è che qualsiasi cronista non ha grandi difficoltà a chiedere agli avvocati di fotocopiare questo o quel documento prima ancora che l’inchiesta sia arrivata al dibattimento. Ma non basta. C’è un altro aspetto che non può essere trascurato. Si dirà: come è possibile che i giornali possano pubblicare tutti quei pettegolezzi, tutte quelle voci sbobinate che non hanno nulla a che vedere con l’indagine e che però attirano l’attenzione del lettore più che un reato di insider trading? Lo spiega ancora una volta il sostituto procuratore Piero Saviotti. “Non credo che se escono sul giornale i pettegolezzi relativi alla vita privata, sentimentale e sessuale dell’indagato X vi sia un interesse di chi ha fornito la notizia a travasare anche quel pettegolezzo. Sicuramente lì c’è il valore aggiunto che bisogna dare alla notizia sulla carta stampata per renderla appetibile, perché naturalmente i lettori si sentono più attratti da queste curiosità piuttosto che dalla rilevanza penale della singola condotta”. In altre parole significa che l’intercettazione va sempre a ruba, che le conversazioni sbobinate stuzzicano comunque il lettore e che però tra una data, un time, una nota e un omissis, un po’ di gnocca e un po’ di vizietti tirano sempre più di una turbativa di mercato.
Claudio Cerasa
28/06/08
sabato 21 giugno 2008
Il Foglio. "W. rimane senza colpi in canna e senza il Cav. Il Pd non lo difende più"
“Siamo interessati all’Udc”
L’ex ministro della Difesa, invece, non è arrivato a chiedere le dimissioni di W, ma dopo aver ascoltato Veltroni mentre diceva che il Pd di oggi è “il compimento perfetto dell’Ulivo del 1996” Parisi non ha resistito, è salito sul palco dell’assemblea e l’ha messa così: “Per noi il progetto dell’Ulivo aveva come obiettivo un bipolarismo a vocazione bipartitica ma che si facesse carico di unificare tutto il centrosinistra. Questa non è una assemblea democratica”. Poi l’ex ministro della Difesa ha continuato il suo scontro personale con il segretario fino a dire al Foglio che il Pd è arrivato alla “decomposizione”. Il punto è che il Veltroni di oggi è molto lontano da quello che aveva provato a indossare l’abito da Obama italiano. E’ anche vero che dopo due mesi Veltroni è riuscito finalmente a nominare la parola “sconfitta” e che su alcuni punti il segretario del Pd è stato chiaro. Per esempio sulle alleanze (“Siamo interessati al dialogo con l’Udc e con i socialisti”) e per esempio sull’effettivo peso che avranno nel Pd fondazioni e correnti (“Bisogna mescolare le culture diverse del Pd senza riprodurre le vecchie correnti dei vecchi partiti”). Ma il fatto è che oggi è difficile trovare qualcuno nel Pd pronto ad appoggiare in modo incondizionato il segretario. Quasi tutti ieri hanno condiviso la relazione di Veltroni ma non c’è stato nessuno pronto a spendere una parola a difesa della sua leadership. Pronto a dire semplicemente: “Scusate ma Veltroni non si tocca”. E ci sarà un motivo, dunque, se l’unica standing ovation della giornata è arrivata solo quando Veltroni ha nominato Prodi.
Claudio Cerasa
21/06/08
venerdì 20 giugno 2008
Il Foglio. "Marini pensa a come allontanarsi da W., ma il CaW non è finito"
europea, più che il dibattito sull’effettivo peso di correnti
e fondazioni, e più che tutti i retroscena sul possibile
successore di Romano Prodi (la cui scelta potrebbe slittare
a fine anno), c’è un aspetto che più di ogni altro rischia di
dare un contributo notevole al logoramento della leadership
di Walter Veltroni. Così, nelle ore precedenti alla convocazione
odierna dell’Assemblea nazionale del partito, tra
i segnali minacciosi registrati dal segretario del Pd quello
più pericoloso riguarda senz’altro Franco Marini. Racconta
un parlamentare del Pd che da qualche settimana l’ex presidente
del Senato considera quella di Veltroni “un’esperienza
destinata a volgere al termine”. Il punto è che il filo
che fino a qualche tempo fa legava il triangolo formato dagli
ex Popolari non è più così unito come un tempo: Giuseppe
Fioroni e Dario Franceschini continuano a investire sulla
“nuova stagione” e per non perdere capacità d’azione da
tempo provano a trasformare Marini in semplice padre nobile
del partito. Dall’altro lato, però, Marini (che difficilmente
sarà presidente del Pd) è intenzionato a non farsi mettere
da parte e per non trovarsi impreparato alla possibile
successione del segretario ha scelto di intensificare i sui
rapporti con Massimo D’Alema. Anche per questo, l’onorevole
Nicodemo Oliviero, uomo fidato di Marini, è presente
nelle liste dei parlamentari iscritti alla Fondazione ItalianiEuropei
e non è un mistero che il dialogo con l’ex ministro
sarà favorito anche grazie alle idee condivise a proposito
di riforma elettorale. Marini e D’Alema la vogliono riscrivere
in tedesco e W. invece no. Ma nella dolce rottura tra
gli azionisti di maggioranza del Pd c’è dell’altro ed è anche
qualcosa in più che una coincidenza: perché nella stessa sera
in cui gli ex Ppi del Pd si preparavano per l’Assemblea
di oggi e domani, Marini era invece da tutt’altra parte, a cena
con Francesco Rutelli a discutere di Europa. Sarebbe
sbagliato parlare di vera rupture, ma come spiega un senatore
del Pd “tra gli alleati più fedeli alla linea del segretario
oggi c’è qualcuno come Marini disposto a non difendere
più Veltroni in modo incondizionato ”.
Movimenti del CaW. E’ vero: pochi giorni fa era stato Walter
Veltroni a spiegare con toni definitivi che con Silvio Berlusconi
“il dialogo è finito”. Non c’è dubbio che nelle prossime
settimane il segretario del Pd farà la parte di quello duro
nei confronti del leader della maggioranza, ma dall’altra
parte è difficile contestare che il motore del CaW abbia ormai
innescato una serie di processi per certi versi irreversibili.
E non saranno pochi i casi in cui ci si ritroverà di fronte
a inevitabili parlamentari inguacchioni. In fondo, dopo
aver ricevuto tra martedì e mercoledì al Quirinale sia Veltroni
sia Berlusconi, il presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano ha lanciato un messaggio chiaro ai leader della
maggioranza e dell’opposizione e ha chiesto di non tradire
quel clima nuovo di dialogo parlamentare costruttivo. Su che
cosa? Il CaW proverà a ricompattarsi partendo dalla Rai e
molto dipenderà dalla disponibilità che il centrodestra offrirà
sulle nomine della presidenza, del cda e della Vigilanza
(ieri la maggioranza ha però respinto la candidatura di
Leoluca Orlando dell’Italia dei valori). Per il resto, come
spiega al Foglio Ermete Realacci ministro ombra del Pd, “ci
sono dei terreni su cui un rapporto tra maggioranza e opposizione
è indispensabile quali che siano i rapporti e le condizioni
del dialogo. Posso dire che il Pd avrà un atteggiamento
costruttivo non soltanto sulle riforme istituzionali, ma anche
sulla riforma elettorale europea, sulla questione dei rifiuti
e sulla sicurezza. L’opposizione non avrà uno stile ispirato
al tafazzismo e non diremo di no a tutte quelle leggi che
negli ultimi mesi abbiamo dimostrato di condividere”. Sulla
Finanziaria, dice Realacci, “dovremo valutare punto per
punto un testo che ancora non conosciamo”. Ma chissà che
anche per il pacchetto Tremonti non valgano le parole usate
da W. due giorni fa: “Faremo un’opposizione dura ma non
torneremo al passato”.
Claudio Cerasa
20/06/08
martedì 17 giugno 2008
Il Foglio. "Al tintinnar delle manette anche il cronista non di sinistra frena il Cav."
“Nel mio paese ideale – dice Filippo Facci, giornalista Mediaset ed editorialista del Giornale – questo ddl ci starebbe benissimo, perché ripristina il concetto base del codice penale del 1989 secondo il quale le indagini sono segrete, il processo è pubblico e le notizie sono quelle che scaturiscono durante un processo. Detto questo si è passati da un eccesso all’altro e ci sono dei particolari sconcertanti che in un testo del genere non ci dovrebbero essere. E’ giusto limitare la registrazione delle telefonate e non è vero che non si potrebbe fare più cronaca giudiziaria con una legge del genere, perché le intercettazioni non corrispondono sempre a notizie. Anzi. Ma non ha alcun senso invece costringere il cronista a pubblicare prima della fase istruttoria solo il nome della persona e il reato. Le notizie vere vanno sempre pubblicate, non c’è dubbio. Però non venitemi a parlare di ‘galera’, perché non ci finirà comunque mai nessuno: anche oggi resterebbe proibito riportare verbali e virgolettati ma la giurisprudenza ha via via tradotto la violazione in una ridicola oblazione. Chissà, la stessa giurisprudenza come potrebbe trasformare una legge come questa”.
Claudio Cerasa
17/06/08
sabato 14 giugno 2008
Il Foglio. "Veltroni cerca un presidente per non essere commissariato"
Roma. Ci si potrebbe chiedere perché mai considerare come tema non secondario il dibattito – non proprio appassionante – sulla presidenza del Partito democratico e ci si potrebbe anche insospettire riguardo al peso effettivo che la carica avrà all’interno del Pd (spiega un parlamentare malinconico che “nel nostro statuto non esiste alcuna specifica modalità di elezione del presidente e allo stato attuale per quel ruolo non c’è ancora alcun candidato ufficiale. Incredibile!”). Eppure, quando la prossima settimana l’Assemblea nazionale si riunirà a Milano (20, 21 giugno), alla nomina del presidente del Pd andranno inevitabilmente legati due aspetti non secondari: la solidità della leadership di Walter Veltroni e gli ultimi movimenti tra le truppe popolari del partito. Semmai ci fossero ancora dubbi, i 2.800 delegati dell’ex organo costituente chiederanno al professore di ritirare quelle dimissioni “irrevocabili” ufficializzate appena 48 ore dopo la sconfitta elettorale del 14 aprile. Prodi è consapevole del fatto che tra cinque anni il candidato alla presidenza della Repubblica del Pd potrebbe coincidere con la carica di presidente del partito. Ma nonostante ciò nelle ultime ore il professore – che sabato non sarà a Milano – ha chiesto di essere considerato “un semplice tesserato”. Opinione condivisa dal suo ex portavoce Silvio Sircana, oggi deputato del Pd. “Ho ragione di temere – dice al Foglio – che non c’è alcuna speranza che Prodi ritiri le sue dimissioni. Certo, la politica mi ha insegnato a essere sempre molto prudente ma direi che per il momento non se ne parla. Come avremmo detto da giovani, il professore ha deciso per ‘un altro percorso di vita’. Deve essere chiaro però che Prodi non è alla ricerca di un cappello istituzionale: a me sembra invece che lui voglia tornare a essere uno studioso e un pensatore. E per farlo non è necessario essere presidente di qualcosa”. Solo che da quando Giuseppe Fioroni, intervistato da questo giornale, ha spiazzato un po’ tutti sostenendo che per quel ruolo il candidato migliore non è Franco Marini ma Romano Prodi, la linea del Pd è diventata trasparente ed è la stessa che si legge in controluce dietro le parole di Giorgio Tonini: “Il profilo che dovrà avere il presidente – dice il senatore del Pd al Foglio – è solo uno ed è quello che oggi ha il fondatore del Partito democratico, Prodi”. Non a caso, dunque, prima del 20 giugno, W. proverà a convincere di persona l’ex presidente del Consiglio (ieri è stato prima annunciato e poi smentito un incontro). Ma il tentativo del segretario va al di là della semplice formalità. Veltroni sa che in questo momento potrebbe essere pericoloso ritrovarsi dietro le spalle un presidente smaliziato, ambizioso e con una linea politica oltremodo autonoma. “Il punto è che Veltroni – spiega un senatore del Pd – non gradirebbe affatto un presidente ‘contundente’. Per dirlo in poche parole, il segretario oggi non vuole correre il rischio di essere ‘commissariato’ come capitò nella Margherita a Francesco Rutelli con Franco Marini”. Non può sorprendere che tra i candidati possibili alla presidenza del partito (Franco Marini, Rosy Bindi, Anna Finocchiaro, Arturo Parisi) il segretario del Pd voglia una nomina di “garanzia” come quella di Prodi. Ma non deve neppure sorprendere che il nome dell’ex premier ancor più di quello di Franco Marini sia gradito a due mariniani come Beppe Fioroni (responsabile organizzazione) e Dario Franceschini (vice segretario). Un uomo di peso come l’ex presidente del Senato alla presidenza del Pd toglierebbe infatti capacità d’azione ai due popolari che nella “nuova stagione” hanno raggiunto i galloni più alti. Per evitare che il Pd possa diventare un partito “presidenziale”, Franceschini, Fioroni eW. sono disposti ad adottare tutti i mezzi diplomatici possibili. Il ragionamento è che Prodi deve essere il presidente anche a costo di far slittare l’elezione a fine anno. Per questo, l’assemblea potrebbe limitarsi a respingere le dimissioni del Prof. Ipotesi remota? Secondo Tonini non troppo. “Un’assemblea senza presidente qualche problema potrebbe crearlo. Ma non è un mistero che questa nomina in fondo non è una questione né dirimente né così urgente”.
Claudio Cerasa
14/06/08
venerdì 13 giugno 2008
Il Foglio. "L’Economist attacca il CaW e Veltroni prova a fare quello duro"
Ma per comprendere lo stato di salute effettivo del Pd ci sono due ulteriori aspetti da non trascurare. Come spiegato ieri dal dalemiano Nicola Latorre, il congresso che rinnoverà gli organi dirigenti sarà quello del 2009 e non del 2008 (“In questo momento – ha detto senza ironia Latorre – su Veltroni c’è un consenso altissimo”). Dall’altra parte, invece, non è difficile immaginare che nelle prossime ore il dibattito sulla collocazione europea del Pd (lunedì potrebbe arrivare una decisione ufficiale) lascerà spazio a quello sulla presidenza del partito. L’elezione avverrà il 21 giugno ma allo stato dei fatti per quel ruolo non esiste alcun candidato ufficiale. Franco Marini sostiene di essere “troppo grande di età” e il presidente dimissionario (Romano Prodi) chissà se farà marcia indietro. Sarà difficile ma non impossibile, perché – come spiegano dal partito – “il Pd lascerà le porte aperte all’ex premier fino al 21”. In alternativa le soluzioni sono queste: la prima è quella di una “nomina di garanzia” (e per quel ruolo nel Pd vedrebbero bene Oscar Luigi Scalfaro) la seconda quella di un presidente rosa come Rosy Bindi o magari Anna Finocchiaro.
Claudio Cerasa
13/06/08
giovedì 12 giugno 2008
Il Foglio. "Prodi presidente, in Europa da soli e W non si tocca. Fioroni svela la vera tattica del Pd"
Claudio Cerasa
12/06/08
mercoledì 11 giugno 2008
Il Foglio. "Ecco perché sarà molto difficile vivere senza iPhone"
Ma per capire cosa significa davvero l’arrivo del cellulare Apple in Italia in fondo basterebbe dare una sbirciatina a tutti quei formidabili dati che negli ultimi mesi sono arrivati dagli Stati Uniti. Sono pochi ma fanno ugualmente impressione perché in un anno, e ci sarà un motivo, l’iPhone si è mangiato il tre per cento del mercato dei telefonini americani, in tre giorni dall’uscità del primo esemplare (un anno fa) sono stati venduti 520 mila apparecchi (6 milioni in un anno) e come se non bastasse a New York da un mese gli iPhone non si trovano più. Finiti, sold out. Certo, da queste parti si dice che il problema principale del gioiellino sarà quello relativo al capitolo costi ma il problema sembra facile da superare perché nei ventidue stati in cui l’11 luglio arriverà l’iPhone (in Italia arriva grazie al lavoro di Luca Luciani, il simpatico manager Telecom che un mesetto fa illustrò il trionfo d Napoleone a Waterloo) varrà questa regola: se compri l’iPhone senza cambiare scheda paghi solo il traffico sul tuo nuovo telefono, se compri l’iPhone e vuoi mantenere il tuo vecchio contratto devi pagare qualcosina in più. Il modello iPhone è però un modello pazzesco non solo perché con l’Apple vi è una regola impossibile da superare (facciamo cose sempre più fiche e le vendiamo sempre a meno) ma anche per un’altra serie di ragioni che in qualche modo giustificano gli inconfessabili esodi registrati negli ultimi mesi dall’Italia a New York di quelle persone che con la scusa del “dollaro basso” sono arrivati in America per entrare in un Apple store e mettersi in saccoccia un magnifico iPhone (da marzo, da Roma e Milano a New York i voli Alitalia sono aumentate di tre frequenze a settimana). E così, se fino a pochi mesi fa gli smanettoni si dividevano tra chi aveva Microsoft e chi aveva Apple, Jobs è ora riuscito a divedere il mondo in due nuove semplici e devastanti categorie. Chi ha l’iPhone, chi va in barca a leggere il New York Times, chi invia mail in qualsiasi parte del mondo senza dover cercare disperatamente il telefono di un bar a cui collegare lo spinotto del computer e chi invece perde tempo senza averne uno. Forse sembrerà banale, ma una delle conseguenze che porterà l’iPhone sarà anche una grande e storica rivoluzione lessicale. Perché tra pochi mesi quella i piccola seguita da un P maiuscola andrà a dare una spallata alla parola telefonino così come un po’ di tempo fa fece il “Billy” con il succo di frutta e la “Vespa” con il motorino. Si dirà iPhone, non più telefono. Si potrebbero dire altre cose e si potrebbe scendere nel tecnicisimo parlando di capacità di riproduzione e connettività e si potrebbe dire che l’iPhone farà schizzare in alto il traffico su Internet. Ma in questi interminabili 31 giorni il discorso da fare è uno, scegliere tra un fornelletto a gas da campo e un forno a micronde che oltre a scaldare i pasti li cucina e li condisce come se fosse Heinz Beck. E qui, sinceramente, oltre che essere pro-life oggi siamo parecchio ma parecchio pro-iPhone.
Claudio Cerasa
11/06/08
Il Foglio. "Investigare senza sbobinare? Si può". Per Mantovano e Ghedini l’auricolare impigrisce e penalizza le indagini
(segue dalla prima pagina) Dice Mantovano: “A fronte di reati gravi devono essere utilizzati tutti gli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziara, nessuno escluso e senza pregiudizi. L’intercettazione va benissimo, ma l’investigatore non può rinunciare a priori a misure efficaci come i pedinamenti, gli appostamenti, i sequestri e la ricerca di testimoni. In passato le indagini si sono adagiate sulle dichiarazioni dei pentiti e lo stesso capita oggi con le registrazioni telefoniche. Il paradosso è che ci troviamo con uno strumento importante come quello delle intercettazioni che si ritorce contro chi lo utilizza. Per questo, se nel 2001 vi erano tempi maturi per riformare la legge sui pentiti oggi una simile situazione la si può riscontrare per quanto riguarda le intercettazioni”. “E’ errato – secondo il senatore Berselli – credere che la bontà delle indagini sia legata alla sbobinatura delle telefonate. Intercettare deve essere l’eccezione rispetto alla regola e invece oggi non lo è. Il mio parere è che le intercettazioni deresponsabilizzano il pm, perché gli danno un risultato apparentemente immediato che spesso al riscontro processuale non regge. Non è un mistero che negli ultimi cinque anni la giustizia abbia speso un miliardo e 150 milioni per registrare conversazioni (che tra l’altro, per il novanta per cento dei casi non portano a nessun risultato). Solo che oggi servono più pedinamenti, più interrogatori, più controllo del territorio e più agenti infiltrati. E per questo concentrare quel numero spaventoso di energie dietro un telefono spesso è più dannoso di quello che si potrebbe immaginare.
Claudio Cerasa
10/06/08
venerdì 6 giugno 2008
Il Foglio. "Rutelli agita i cattolici del Pd"
Il Foglio. "Rutelli agita i cattolici del Pd"
Ma Rutelli sa anche che all’interno del loft esistono ancora spazi per provare a far squadra attorno a una certa linea politica. E a questo proposito, sono due gli argomenti con i quali il senatore (da ieri anche consigliere comunale di Roma) proverà a imporre la propria agenda su quella del partito Il primo punto è il nuovo manifesto dei coraggiosi che presenterà entro la metà di luglio. Il secondo è la collocazione europea. Rutelli, che è cofondatore e copresidente del Pde (che fa parte dell’Alde), sa che in questo momento la linea del Pd, e la linea di Veltroni, a proposito di Europa non è ancora coincidente con quella dei cattolici del partito. Il segretario vorrebbe creare un contenitore come il Pd anche a livello europeo ma come riassume un collaboratore di fiducia di W. l’approdo più immediato per il Pd in Europa oggi “è quello di una sorta di apparentamento del partito nel gruppo del Pse”. Non è difficile da comprendere, dunque, che per i cattolici del Pd “diventare socialisti” non è in cima nella lista dei desideri e anche per questo c’è da scommettere che la battaglia di Rutelli contro la formula “Pse-Pd” sarà presto appoggiata anche dagli ex Ppi (due giorni fa Pierluigi Castagnetti, ex segretario Ppi, ha già scritto su Europa un articolo preoccupato sull’argomento). Solo che gli ex popolari di fronte all’affondo di Rutelli potrebbero anche essere in difficoltà. “Il tema del partito europeo – spiega un ex Ppi presente ieri pomeriggio alla Gregoriana – non è un tema etico su cui vale la libertà di coscienza. Se Veltroni non la pensa come noi, rischiamo per la prima volta di trovarci seriamente in disaccordo con il segretario”. C’è poi un appuntamento che potrebbe incuriosire i parlamentari cattolici del Pd. Domani Rutelli parteciperà con Lapo Pistelli a una riunione organizzata dall’Alde a Bilbao. Ma il colpo che l’ex vicepremier prepara è quello di metà giugno, quando Rutelli organizzerà in Italia un convegno in cui mettere a punto un’agenda programmatica per l’Europa e il Pd. Il convegno sarà a Roma il 18 e 19 giugno e si svolgerà, non proprio casualmente, poche ore prima dell’assemblea nazionale convocata dal Pd (20, 21 giugno) E come suggeriscono oggi i rutelliani quel giorno a Milano l’ex sindaco saprà perfettamente cosa chiedere a W.
Claudio Cerasa
06/06/08
mercoledì 4 giugno 2008
Il Foglio. "El Caimano resiste solo in Spagna e i girotondi ora si fanno sul País"
E così, il Flores D’Arcais che fino a poco tempo fa presentava in prima serata le sue “giornate della giustizia” “per non piegarsi alla sudditanza nei confronti del Cav.” eccolo trovare ormai solo in Spagna qualcuno disposto a prendere sul serio le sue parole. El País, 10 aprile: “Berlusconi es una amenaza muy seria”, “una minaccia molto seria” che “renderà l’Italia uguale alla Russia di Putin”. E poi, ricordate il professor Stille, che fino a poco tempo fa scriveva libri sul “Citizen Berlusconi” spiegando su Rep. quanto fosse mascalzone il Cav.? Beh, ora Stille su Rep. scrive solo di Murdoch e per trovare qualcuno pronto a raccogliere le sue teorie su quel cattivone del Cav. il professore dove se ne va? Anche lui a El País, naturalmente. 31 maggio, titolo dell’ultimo pezzo di Stille: “Mafia y politica en la Italia de Berlusconi”. Perché il Caimano non lo vede più nessuno ma coloro che invece los caimanos li scovano in ogni dove ci sono ancora e fanno in Spagna quello che in Italia fanno solo Santoro e certi cronisti dell’Unità. Anche se, va detto, un po’ di sangria di tendenza Concita sembra che presto arriverà anche qua.
Claudio Cerasa
4/06/08
martedì 3 giugno 2008
Il Foglio. "Da Chiaiano a Vicenza, il sindaco Pd contro la base Usa e contro W."
L’ampliamento della base americana, tra l’altro, è stato anche uno degli argomenti con cui Veltroni ha declinato la sua “politica del fare”. Negli ultimi mesi, il segretario lo ha ripetuto un paio di volte e lo ha scritto anche tra le pagine del suo programma elettorale. L’ex sindaco di Roma è convinto che “la base americana si deve fare” e a quanto pare, la notizia è delle ultime ore, l’ampliamento della Dal Molin comincerà già dalla fine di giugno, quando una lunga striscia di terreno vicentino passerà dalla competenza dell’aeronautica italiana a quella americana. A quel punto, spiega al Foglio lo stesso sindaco di Vicenza, “i lavori potrebbero cominciare” e c’è da scommettere, come Variati sa perfettamente, che nel giro di poche settimane a Vicenza cominceranno a esserci molte delle bandiere che oggi sventolano tra le strade di Chiaiano. Ma con una differenza rispetto al 2007, quando contro l’ampliamento della base sfilarono 150 mila manifestanti, pochi giorni prima che il governo Prodi cadesse sulla politica estera. Oggi il primo cittadino è del Pd, non più di Forza Italia, e alle ultime elezioni, mentre W. spiegava come ampliare la base, Variati veniva eletto anche grazie ai 5 mila voti raccolti dalla lista “Dal Molin”. E’ anche per questo se sulla base di Vicenza il Pd dovesse dare il suo appoggio al governo (favorevole all’ampliamento), in piazza con i “no Dal Molin”, e contro il Pd, ci sarà anche il sindaco della città. Sindaco che per il prossimo settembre ha già convocato una consultazione, con cui la città esprimerà il suo giudizio sulla base. “Qui non si tratta di essere ‘nimby’, non si tratta di dire no nel mio giardino e non si tratta di essere anti americani. Quello che forse il Pd non comprende – dice al Foglio Variati – è che qui c’è un popolo che riguardo alle decisioni del suo territorio non vuole essere scavalcato da nessuno. Certo, su queste questioni il mio interlocutore è il governo, non il loft. Ma se il Pd non vuole perdere terreno al nord mi auguro che su argomenti come questi anche Veltroni cominci a pensarla come me. Perché prendere decisioni contro la città in questo momento per il Pd potrebbe essere rischioso”.
Claudio Cerasa
03/06/08
lunedì 2 giugno 2008
Il Foglio. "Il Pd non avrà giornali di partito ma una tv, parla Gentiloni"
Gentiloni, che per mettere a punto il progetto riunirà a metà giugno un gruppo di lavoro composto da parlamentari, esperti e giornalisti (ci sarà anche il responsabile web del Pd Francesco Verducci), dice che il partito arriverà presto sul satellite e, con molta diplomazia, ammette che non ci sarà “nessuna concorrenza” con la tv satellitare di D’Alema. “Dal nostro punto di vista, tra l’altro, una struttura che gestisca insieme web e tv può essere anche una buona idea e non mi stupirei se la radio e la tv che stiamo preparando siano curate da società ad hoc. A quanto ne so, poi, la fondazione ItalianiEuropei sta discutendo di questo progetto con Nessuno tv e credo proprio che con quel canale è possibile che faremo un pezzo di strada anche noi”. Dalla Nessuno tv spiegano che questa però è un’ipotesi difficile e che, con ogni probabilità, la loro rete (che oggi ha come consiglieri i senatori pd Giorgio Tonini e Luigi Zanda) potrebbe invece entrare presto nel cda di ItalianiEuropei.
Claudio Cerasa
31/05/08