Storia di una combattiva insegnante elementare alle prese con una riforma che ha deciso di non applicare
Le avete viste sfilare dovunque. Fuori dalle scuole, di fronte al Parlamento, sotto il palco del Circo Massimo e lungo le strade della Capitale. Maestre. Maestre imbufalite e preoccupate. Maestre deluse e rassegnate. Maestre stabili e precarizzate. Maestre che studiano decreti, che firmano petizioni, che scoprono dati, che leggono inchieste, che scrivono ai ministeri e che provano a spiegare che no, signor ministro, questa riforma non ci sta bene. E lo fanno anche così. Con queste parole. Con questi esempi. Con queste storie, come quella di Maria. Ecco. Maria non è incazzata. Delusa, quello un po’ sì. Delusa, perché lei che nella scuola ci è cresciuta più di quei bambini che ha visto crescere sotto i suoi occhi, ogni giorno della sua vita, crede che in questi giorni ci sia qualcuno che con un decreto, con una “disposizione urgente in materia di istruzione” e con tre paginette tre, approvate pochi mesi fa dal Cav prima e dalla Camera e dal Senato poi, stia cancellando una parte della sua esistenza. O più semplicemente, una parte della sua scuola.
Ha detto maestro unico, gentile ministro? Maria è un’insegnante di scuola elementare, ha cinquantacinque anni, insegna storia, geografia e italiano da quando di anni ne aveva venti, ha una splendida quarta elementare, una scuola da dove ogni mattina si affaccia per vedere tutti i colori della Capitale e tra un anno diventerà maestra unica, quando dovrà insegnare non solo storia, geografia e italiano ma anche matematica, scienze, musica, attività motoria, educazione all’immagine. Tra dodici mesi.
Prima d’oggi, Maria non aveva mai pensato di smettere di insegnare. Mai: neppure in quelle seratacce in cui si presentava ai colleghi del marito e si accorgeva che alla parola “maestra” tutti la guardavano così, con gli occhi incerti di chi ti stava osservando senza pensare al tuo lavoro ma solo al tuo conto in banca. Mille e cinquecento euro al mese: come se la bellezza della tua vita fosse un estratto conto con uno zero in più o uno in meno. Stronzate, e comunque chissenefrega.
Se potesse tornare indietro, Maria, rifarebbe lo stesso percorso che le ha permesso di arrivare fin qui. Lo stesso, con gli stessi intoppi, gli stessi gradini, gli stessi traguardi. Ripartirebbe da Sciacca, ripasserebbe da Palermo, da Corleone, da Ribera e si trasferirebbe un’altra volta a Roma, nella stessa città in cui Maria insegna a ventidue bambini di nove anni. Nella stessa città in cui ha imparato a diffidare di quelle persone che quando parlano di scuola si lasciano scappare la parola “azienda” e dove ha capito che quelle che spesso vengono chiamate “esigenze pedagogiche” non potranno mai essere perfezionate con una sforbiciata a un capitolo di spesa. Certo, i ministri dicono che il paese deve essere messo a dieta e che alla dieta non c’è parte del corpo che oggi si possa sottrarre. Nessuna. Maria non la pensa così.
Di tutta questa storia, di tutti questi commi e questi emendamenti da riforma scolastica a Maria poi non è che gliene dovrebbe fregare molto. Nel senso. C’è chi si preoccupa per i tagli al personale, c’è chi si preoccupa per la fine del tempo pieno, c’è chi si preoccupa delle differenze tra le parole “unico” e “prevalente”, c’è chi si preoccupa per le possibili conseguenze di un sei in condotta, c’è chi si preoccupa di come indossare un grembiulino e c’è chi si preoccupa per un figlio che non avrà più gli stessi spazi che aveva prima per continuare a studiare. Maria no. Lei potrebbe rimanere lì, a scuola, senza aver paura di finire in mezzo a una strada e senza aver paura di non veder più crescere di fronte a sé quei bambini che hanno imparato a seguirla come se fosse una madre.
Troppi anni di insegnamento per essere fatta fuori. Trentacinque anni sono tanti anche per un governo che deve tagliare otto miliardi di spese scolastiche nei prossimi tre anni. Otto miliardi. Per capire: la stessa cifra che lo stato si vede scippare sotto il naso ogni anno da tutti quegli evasori fiscali che alla cassa non stampano gli scontrini. Epperò. E però ora cambia tutto lo stesso, dice Maria. Cambierà la sua vita e cambierà la sua scuola. Meno ore in classe, meno colleghi con cui lavorare, più studenti ma meno tempo per farli studiare. Maria sa che tutti quegli universitari che scendono a battagliare in piazza, tutti quei liceali che chiudono i lucchetti delle scuole, tutti quegli studenti che si schierano al fianco dei baroni e tutte quelle maestre che sfilano per protestare contro un ministro sono stati infiammati da un’unica scintilla. Hanno toccato i bambini, dice Maria, e i bambini non si toccano neppure con un fiore.
“Per la scuola primaria tornare al maestro unico risponde a un’esigenza pedagogica. I bambini hanno bisogno di avere un punto di riferimento preciso anche fuori dalle pareti domestiche”.
Maria ha cominciato a lavorare in Sicilia, a Palermo, in una scuola immersa nei colori morbidi e rimbombanti del mercato Vucciria: con una classe piccola, molto vivace e per certi versi persino appassionante. Tra quegli alunni di sette e otto anni c’erano anche molti figli di genitori finiti dietro le sbarre dell’Ucciardone. Bambini che arrivavano a scuola solo perché costretti dalla legge, dall’obbligo scolastico, e che lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenerli lontani da quella merda. Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione, diceva Victor Hugo, e aveva ragione. Fu lì che Maria capì in che senso doveva essere “maestra”. Lei, che a quei tempi era ancora inesperta, insicura e che si sentiva inadeguata di fronte a tutte quelle maestre che considerava cazzute perché orgogliose ancora più di lei di lavorare in un terreno arido ma pieno di fiori pronti a sbocciare, ecco, lei però aveva capito che non era l’insegnante che doveva essere il punto di riferimento dell’alunno. Doveva essere la scuola e doveva essere il corpo di cui faceva parte a difendere quei bambini che non arrivavano nelle aule per trovare un’altra mamma, ma che arrivavano lì per imparare a studiare. Per cominciare a crescere.
Doveva essere la scuola che doveva convincere i genitori a far uscire di casa i suoi bambini. E più si era e meglio era, ché con i bambini, dice Maria, risparmiare è una sciocchezza.
In trentacinque anni di insegnamento, Maria ha capito come si fanno crescere i bambini. Lo aveva capito ieri e lo vorrebbe ricordare oggi.
Una sola maestra non basta e non bastava. Non è sufficiente: nella scuola non basta insegnare a vivere e a studiare. Si imparano altre cose, che se oggi erano più semplice da insegnare e da domani saranno un po’ più difficili da fare. O almeno, non sarà facile come lo è oggi. Certo, è tutto vero. E’ vera la storia che si sente in questi giorni. Quella dell’insegnante che deve essere guida. Quella del maestro che deve essere maestro non solo di studio. Quella della maestra che, soprattutto, deve aiutarti a tracciare un percorso solido nei primi anni della tua vita. Ma perché uno? E se proprio vogliamo metterla così, perché un solo maestro di vita invece di due? Meglio scegliere, no? Perché unico significa anche senza appello. Perché ogni bimbo deve essere sicuro che sarà lui a decidere qual è l’insegnamento buono e qual è invece quello sbagliato. Perché il maestro e la maestra unico e unica lo erano vent’anni fa, e vent’anni dopo, cioè oggi, la scuola elementare è cambiata. Ed è cambiata bene. Maria, che qualche ricerchina e qualche dato li ha letti, ha scoperto un paio di cose interessanti. E ha pensato: perché chiedere alle scuole elementari di correre con il vecchio motore di Gilles Villeneuve invece che con quello più fresco, più nuovo e rodato di Micheal Schumacher? Ha scoperto questo. Ha scoperto che l’Italia è il paese che in Europa investe più di tutti nelle scuole primarie. Ha scoperto che l’Italia è il paese dove gli insegnanti hanno i salari più bassi di tutti. Ha scoperto che negli ultimi dieci anni gli stipendi degli insegnanti sono cresciuti meno del resto d’Europa (undici per cento contro 19 per cento); e allora ha pensato che se il nostro paese spende ogni anno circa seicento euro in più per ogni studente di scuola elementare, beh, questo non significa essere spendaccioni. Forse significa fare un investimento. Forse, come dicono i ministri, significherà pure mettere a dieta il corpo del paziente, ma almeno il cuore, dice Maria, almeno quello lasciatecelo così com’è, grazie.
“I nostri insegnanti lavorano poco, quasi mai sono aggiornati e in maggioranza non sono neppure entrati per concorso ma grazie a sanatorie. E poi 1.300 euro sono comunque due milioni e mezzo di vecchie lire, oggi l’insegnamento è part-time e come tale è ben pagato”.
Maria arrivò a Roma circa vent’anni fa, e dopo aver lavorato in due paesini ai confini della provincia romana (a Morlupo e Sacrofano) passò sei anni in una bellissima scuola a tempo pieno, una scuola a pochi chilometri dalla nuova sede Rai di Saxa Rubra, che oggi verrebbe definita sperimentale e che secondo lei aveva tutto ciò che era necessario per raggiungere il modello di scuola ideale. Tempo pieno. Campi scuola. Due, a volte tre o quattro, insegnanti per ogni classe. E poi. Maestre competenti, motivate, aggiornate. Collaborazione con i genitori. Laboratori. Gruppi di formazione. Visite culturali. Più input. Più insegnamenti. Più qualità. Più aiuto ai bambini con ritardi nell’apprendimento: ché non è uno spot, ma che è la scuola che oggi c’è e che domani non ci sarà. E poi, alla fine di ogni mese, un programma di studio rivisto, pensato a due voci e scritto a quattro mani. Anche di notte. Sissignore: si lavora anche di notte. Si lavora persino la sera, anche se nei “due milioni e mezzo di vecchie lire” gli straordinari non c’erano, non ci sono e non ci saranno mai, purtroppo. Ecco. Maria avrebbe voglia di fissare sul tavolo della sua stanza da pranzo una telecamera collegata con gli uffici del ministro Brunetta. La collegherebbe di notte e la indirizzerebbe verso le pile alte così di compiti da correggere, verso i nuovi libri di storia da studiare, verso gli appunti di ogni genere di materiale didattico. Si chiama orario non curriculare: si organizzano le lezioni, si elaborano compiti in classe, si preparano prove di verifica. La maestra fa la maestra anche quando non timbra il cartellino.
Maria, ecco il punto, crede che la scuola che ha in mente il ministro Gelmini non sia all’altezza dei compiti degli insegnanti. Crede che la riforma cancellerà quell’istruzione elementare che negli ultimi vent’anni aveva visto tanti insegnanti contribuire a disegnare quella scuola che qualcuno definisce vecchia, viziata e spendacciona ma che lei credeva, e crede, fosse semplicemente migliore. Poi ci sono i genitori, certo: perché si capisce che i papà e le mamme dei bambini che oggi hanno cinque, sei, sette, otto, nove e dieci anni in fondo in fondo siano convinti che con un maestro in più o uno in meno che cosa vuoi che cambi. Facile: il maestro unico, loro, i genitori, lo hanno sempre avuto. Con una sola maestra, o con un solo maestro, loro ci sono cresciuti, ci sono cresciuti bene e così – se non hanno altri figli, se non conoscono altre esperienze – dite: per quale razza di motivo dovrebbero perdere tempo a scendere in piazza con le maestre? Si sa: i genitori credono che il maestro, che deve essere maestro di vita, possa anche essere uno, basta che sia bello bravo e buono. Uno solo. Perché l’insegnamento elementare, pensano, non occorre che sia specialistico. Perché i bambini delle elementari, credono, devono imparare a essere buoni alunni nel futuro. Perché a sette, otto, nove anni, sostengono, quel che conta è leggere, scrivere, dividere, moltiplicare, sottrarre, imparare a studiare, stare con gli amici. E allora? Allora servono persone che siano in grado di offrire ai propri piccoli i giusti strumenti per l’apprendimento futuro. E uno basta e avanza, no? No, dice Maria. Non basta.
“Le ragioni della protesta francamente non le comprendo, e sono sempre più convinta che in realtà molti di quelli che scendono in piazza non hanno letto il provvedimento. Si protesta nelle università e si fanno manifestazioni nelle scuole secondarie quando il provvedimento non li tocca minimamente, perché riguarda prevalentemente la scuola elementare e media”.
In vent’anni di passaggio, in vent’anni di transizione dal mondo del maestro unico a quello del maestro multiplo, dice Maria, tutto si è perfezionato. Quando si dice che quella di oggi non è una riforma ma una capriola all’indietro si dice il vero. Maestro unico, continua la maestra, significa cancellare le uscite didattiche, significa cancellare i campi scuola, significa disegnare il futuro dei bambini a due invece che a quattro mani, significa non capire che la scuola di oggi è cresciuta, che lavorare con più maestre, che avere più tempo per i bambini in difficoltà, che avere la possibilità di formare gruppi di lavoro, inventare laboratori, portare a spasso i bambini per i musei della città e dare loro il doppio degli stimoli di un tempo, beh, non è uno spreco. E’ una ricchezza. E poi. E poi è sbagliato – aggiunge Maria – dire che a quell’età i ragazzi devono “apprendere” solo un metodo di studio. Che devono avere una guida e che non devono imparare a conoscere un gran numero di materie. Si può decidere di voler sacrificare tutto questo, si può dire di non avere altre soluzioni ma si deve ammettere che tutto questo non è per il bene della scuola. Per il bene dei bambini. No, dice Maria, non lo è.
“Abbiamo meccanismi che appesantiscono la vita dei professori. Il docente non è chiamato più solo a insegnare, ma a una serie di incombenze, di riunioni, di adempimenti burocratici che non servono a nulla”.
Poi c’è la storia del tempo pieno, per esempio. Il ministro Gelmini, dice Maria, è convinto che non ci sarà alcun problema. Che tutto sarà confermato e che verrà persino incrementato. Sì, ma come? Come faranno a insegnare il pomeriggio quelle maestre che per legge dovranno rimanere in classe ventiquattro ore a settimane, e dunque per quattro ore al giorno? Come faranno a “rispondere a un’esigenza pedagogica” quelle maestre che dovranno insegnare con meno soldi, con meno colleghe e con più studenti? Semplice, non potranno. Andranno laddove sarà possibile permetterselo – chissà, magari nelle scuole private. Così cosa succede. Succede che il tempo pieno diventerà un dopo scuola. Succede che, con meno maestre a disposizione per ogni classe, i campi scuola rischiano di essere rimossi. Succede che i programmi verranno ristretti. Succede che le elementari non saranno più “un’anomalia”. Saranno, diciamo, come le altre scuole italiane. Nella norma. Così così. Poi, certo, dicono che il maestro non sarà unico, che sarà prevalente, che ce ne sarà uno di inglese e uno di religione, che – ancora – “l’anomalia” dei tre insegnanti è un’anomalia solo italiana e che in fondo, quando fu introdotto il modulo (due maestre per ogni classe, anno 1989), la sinistra si schierò con forza per impedire l’introduzione dei tre maestri. Certo. Ma alla fine il risultato quello è. Il risultato è che la maestra di oggi dovrebbe essere come quella di diciannove anni fa. E allora sì: gli studenti continueranno a scendere in piazza per dimostrare che il ministro non è competente, che non è in grado di governare l’istruzione e che non è capace di partorire un decreto che faccia il bene della scuola.
Ma il cuore della protesta, oggi, resta quello, e la scintilla che ha acceso il cuore della rivolta nasce da lì. Dalle maestre. Dalle scuole elementari. Dalla sensazione che si vogliano toccare i bambini. Dall’impressione che si voglia cancellare una parte della scuola. Dall’idea che saranno sforbiciati diciannove anni di storia. La storia di tutte quelle persone come Maria. Persone che hanno visto crescere di fronte a sé bambini che oggi confondono le maestre con le mamme. Persone che non vogliono concludere la propria carriera scolastica con una cosa già vista, già fatta, già superata, che hanno costruito una scuola che credevano migliore, che credono che domani lo sarà un po’ meno e che in fondo in fondo, come diceva il vecchio saggio, sono convinte di questo. Che chi non fu mai scolaro non potrà mai essere buon maestro, gentile ministro.