La maratona di Zhou è iniziata a Londra e arriverà a Pechino, anche per eguagliare la star cinese del basket
Londra. Le chiodate a Londra non le aveva mai messe. Zhou aveva provato a Helsinki, aveva provato a Doha, aveva rinunciato a New York, aveva detto no a Roma e poi a Boston, a Chicago e a Berlino. Non era pronta, diceva. Fuori dalla Cina, Zhou, preferiva di no. Aveva corso in Finlandia e poi ad Atene ed era arrivata quarta ai Mondiali, quindi trentatreesima alle Olimpiadi – quelle di tre anni fa – ma Zhou aveva scelto l’Asia: lì c’erano le sue Olimpiadi e le sue gare. Fino a tre giorni fa, Zhou non l’aveva mai vista nessuno. Perché, è vero, aveva vinto le sue olimpiadi (a Doha), era diventata la cinese più veloce dell’Asia (sempre a Doha, a novembre) e perché è vero, quando in Cina, in Thailandia, in India e in Giappone si parla di sport, dopo Yao Ming, dopo le nuotatrici, dopo le tuffatrici, quando si parla di atletica, in Asia si parla sempre di Zhou. Anche se poi la maratona significa Roma, significa New York, significa Mondiali, significa Olimpiade e significa i qurantadue chilometri e centoventicinque metri della gara di Londra: la London Marathon; la stessa gara dove ogni anno partecipano quasi cinquantamila persone, la stessa che dal 1981 è diventata la seconda più importante del mondo (dopo New York), la stessa dove nel duemilatre, Paula Radcliffe (a ventinove anni) aveva attraversato la City da Charlton, zona Shotters Hill Road, fino a St. James Park, in due ore, ventitré minuti e dieci secondi e dove, proprio in quella gara, la Radcliffe realizzò il record del mondo; la stessa maratona, quella di Londra, dove – e non era mai successo – la prima donna a tagliare il traguardo è una cinese che si chiama Zhou Chunxiu, ha ventotto anni, è alla quarta gara di un certo livello fuori dalla Cina e che ora, quattro anni dopo il record mondiale di Paula Radcliffe, dopo essere stata la prima cinese a scendere sotto il muro dell’ora e venti (è successo a Seul, dove Zhou corse i quarantadue chilometri in due ore e diciannove minuti e cinquantuno secondi) ha attraversato Londra con un ritmo di cinque minuti inferiore al record del mondo, battendo le keniane, battendo le etiopi, battendo le inglesi e diventando la prima cinese nella storia a vincere una maratona fuori dall’Asia. Anche se poi è sempre così. In tutte le maratone funziona sempre allo stesso modo, perché gareggiano tutti insieme, allo start ci sono sempre uomini e donne e poi all’arrivo sono sempre gli uomini ad arrivare prima e le donne che vincono, quelle che tagliano il traguardo prima di altre migliaia di uomini finiscono, spesso con un “e nelle donne spicca il successo di…”.
Il Chelsea, la City, il Financial Times
Ma a Londra qualcuno si è accorto che Zhou non è una maratoneta come tutte le altre. Perché, attenzione, la Cina fino allo scorso anno non aveva neppure una selezione ufficiale che si allenasse insieme; chi voleva correva, ma non correva in gruppo, correva da solo. Zhou aveva cominciato a correre presto, aveva iniziato in un paese che si chiama Suzhou, lo stesso paese conosciuto come la Venezia d’oriente, lo stesso paese che si ritrova in un famoso proverbio cinese che dice: “In heaven, there is paradise. On earth, there are Suzhou”, e che nonostante il paradise, Zhou aveva deciso di abbandonare pochi mesi fa, quando la Nazionale cinese – dopo gli incredibili risultati nel nuoto, nei tuffi, dopo le trentadue medaglie d’oro, le diciassette d’argento e le quattordici di bronzo delle Olimpiadi di tre anni fa – ha deciso di organizzarsi, di mettere insieme una vera squadra e di allenarsi a Dalian (a ventiquattr’ore di distanza dalla casa di Zhou), dove la campionessa cinese ha iniziato a correre quei duecentottantotto chilometri alla settimana grazie ai quali, a Londra, Zhou ha staccato di due minuti anche la campionessa della maratona di Berlino, Gete Wami. Zhou non aveva mai vinto una maratona anche perché una maratona di questo livello non l’aveva mai vinta nessun cinese. Ma in Inghilterra, nello stesso giorno in cui si commentava il clamoroso pareggio della squadra più forte della Gran Bretagna, il Chelsea, che non vincendo con il Newcastle perdeva terreno nei confronti del Manchester, il giorno dopo la gara e il giorno dopo la partita, i giornali parlavano di calcio, ma parlavano soprattutto di Zhou. E, per dire, il Financial Times ha dedicato l’intera penultima pagina del lunedì alla Maratona della City con una foto a tutta pagina non di un’inglese, non di un’etiope, non di una keniana, non di un attaccante del Chelsea, ma di Zhou Chunxiu.
Zhou adesso dice di essere pronta per il record del mondo; dice che le basterà un solo anno, le basteranno al massimo tredici mesi per quei cinque minuti, le basterà pochissimo per superare ancora Gete Wami, magari per battere Paula Radcliffe (che però a Londra non c’era), le basterà arrivare tra un anno così per essere la prima cinese con le scarpette chiodate a vincere una gara in Cina come se fosse a New York. Perché tra un anno, a ventiquattr’ore dal paradise di Suzhou ce ne sarà un altro, in Cina, che si chiama Olimpiade.
Claudio Cerasa
26/04/07
giovedì 26 aprile 2007
Il Foglio. "Merendine raus"
Basta distributori di delizie nelle scuole (anche se hanno meno zuccheri di una banana)
Il tegolino ricoperto di cioccolato fondente su velenosissimo pan di Spagna dorato era nascosto tra lo sconvolgente “Ultimo no di Cortina” (basta con le Veline), il clamoroso “Tabù infranto a Venezia” (la prima donna in Gondola), il grande interrogativo sul “Calamaro da 218 metri” (che però non era vero) e gli incredibili orologi di lusso realizzati con i resti del Titanic (orologi di acciaio, molto brutti). E lì, camuffati in mezzo alle notizie di costume, c’erano i tegolini, gli snack, i biscotti, i gelati, i dolci al cioccolato, le noccioline, le pizzette, le patatine alla paprica, la barrette alla nocciola, i biscotti al caffè, le cialde al caramello e tutte le merendine che l’associazione delle industrie dolciarie italiane ha deciso di eliminare dai distributori delle scuole elementari e medie d’Italia; giustificandosi con parole come “valori nutrizionali”, “codici di comportamento”, “sana alimentazione”, “imposizioni normative”, “bambini obesi”, “bambini malati”, “responsabilità delle famiglie”, “ iperinsulismo” e “ ipertensione”.
L’associazione italiana della distribuzione automatica (non è uno scherzo, esiste davvero) ha risposto, seccata, che “non si risolve il problema dell’obesità infantile togliendo le merendine a insegnanti e bidelli” e che comunque, se proprio vogliamo dirla tutta, “i bambini delle scuole elementari e medie inferiori non hanno libero accesso ai distributori automatici che invece sono presenti in luoghi riservati a docenti e personale di servizio e sostegno”. Quindi, niente merendine, niente tegolini, e niente file di fronte ai quei distributori dove il più delle volte paghi per un Kinder Delice e ti ritrovi un caffè con miscela arabica da 65 centesimi, dove tu ti metti in fila e poi dici scusa, ho solo una moneta da due euro, la macchinetta non dà il resto, posso offrirti un buondì, vuoi anche un caffè, ho un’altra monetina, ma stasera sei già impegnata?
Nessuno ha difeso la merendina, nessuno ha ricordato che la merendina non c’entra nulla con l’obesità, come non c’entra nulla – con l’obesità – mettersi di fronte alla televisione, usare l’automobile e guardare gli spot che parlano di tegolini. (Semmai il problema è svolgere una vita troppo sedentaria, non mettere nei distributori automatici gli spinaci al posto delle merendine). Nessuno ha fatto notare all’attentissima Aidi che – tanto per fare un esempio – le università di Oxford e la Peninsula Medical School hanno scoperto che a causare l’obesità potrebbe essere un fattore genetico che si chiama Fto; nessuno ha spiegato che gli obesissimi bambini italiani fanno sport, in realtà, per ben 45 minuti al giorno; nessuno ha ricordato che le banane hanno più zucchero di un tegolino; nessuno ha fatto notare che grazie al cioccolato il cuore batte più in fretta e più a lungo (il battito passa in media da 60 a 140 battiti al minuto, ma da qui a dire che il cioccolato è meglio di un bacio – come scriveva qualche giorno fa Repubblica – ce ne vuole; e poi dipende pure a chi lo si dà, il bacio); nessuno ha fatto notare che togliere le merendine dal distributore di merendine sarebbe come togliere il calcio dalla pay tv. Roba da pazzi.
“Proteggere” i bambini. Da chi?
Ora, è evidente che mangiare 18 tegolini al giorno non faccia bene come non farebbe bene neppure mangiare 16 bananone Chiquita, ma se non si vuole correre il rischio di finire come il Texas (dove in alcune scuole pubbliche i ragazzi per un periodo sono stati perquisiti prima di entrare in classe per evitare che in aula portassero merendine o patatine fritte), se non si vuole finire come il Canada (a Fallingbrook, in provincia di Ottawa, una scuola elementare comunale ha da tempo vietato tutte le merendine per cercare di “proteggere” i bambini), se non si vuole finire come la Francia (in alcune scuole pubbliche è stato già vietato di mangiare merendine durante la ricreazione), sarà certo il caso di preoccuparsi di You Tube, di preoccuparsi dei bambini che toccano le mutande della maestra e di quelli che picchiano i compagni, ma prima che il bullismo salutista ci convinca che la salute è un dovere e non un diritto, prima che ci possano convincere che le merendine facciano davvero più male di un film con Walter Nudo o di una sera passata a parlare di Partito democratico, prima che qualcuno possa davvero credere a studi come quelli fatti dall’Università dell’Illinois (dove in maniera piuttosto accurata si dice che per la prima volta nella storia i bambini sono così obesi che non arriveranno a campare più dei genitori, senza però ricordare che i longevi genitori sono anche loro cresciuti con i pericolosissimi pan di stelle e i gli omicidi Kinder Delice), credete pure ai calamari da 218 metri, ma per favore non toccate i nostri velenosissimi tegolini.
Claudio Cerasa
26/04/07
Il tegolino ricoperto di cioccolato fondente su velenosissimo pan di Spagna dorato era nascosto tra lo sconvolgente “Ultimo no di Cortina” (basta con le Veline), il clamoroso “Tabù infranto a Venezia” (la prima donna in Gondola), il grande interrogativo sul “Calamaro da 218 metri” (che però non era vero) e gli incredibili orologi di lusso realizzati con i resti del Titanic (orologi di acciaio, molto brutti). E lì, camuffati in mezzo alle notizie di costume, c’erano i tegolini, gli snack, i biscotti, i gelati, i dolci al cioccolato, le noccioline, le pizzette, le patatine alla paprica, la barrette alla nocciola, i biscotti al caffè, le cialde al caramello e tutte le merendine che l’associazione delle industrie dolciarie italiane ha deciso di eliminare dai distributori delle scuole elementari e medie d’Italia; giustificandosi con parole come “valori nutrizionali”, “codici di comportamento”, “sana alimentazione”, “imposizioni normative”, “bambini obesi”, “bambini malati”, “responsabilità delle famiglie”, “ iperinsulismo” e “ ipertensione”.
L’associazione italiana della distribuzione automatica (non è uno scherzo, esiste davvero) ha risposto, seccata, che “non si risolve il problema dell’obesità infantile togliendo le merendine a insegnanti e bidelli” e che comunque, se proprio vogliamo dirla tutta, “i bambini delle scuole elementari e medie inferiori non hanno libero accesso ai distributori automatici che invece sono presenti in luoghi riservati a docenti e personale di servizio e sostegno”. Quindi, niente merendine, niente tegolini, e niente file di fronte ai quei distributori dove il più delle volte paghi per un Kinder Delice e ti ritrovi un caffè con miscela arabica da 65 centesimi, dove tu ti metti in fila e poi dici scusa, ho solo una moneta da due euro, la macchinetta non dà il resto, posso offrirti un buondì, vuoi anche un caffè, ho un’altra monetina, ma stasera sei già impegnata?
Nessuno ha difeso la merendina, nessuno ha ricordato che la merendina non c’entra nulla con l’obesità, come non c’entra nulla – con l’obesità – mettersi di fronte alla televisione, usare l’automobile e guardare gli spot che parlano di tegolini. (Semmai il problema è svolgere una vita troppo sedentaria, non mettere nei distributori automatici gli spinaci al posto delle merendine). Nessuno ha fatto notare all’attentissima Aidi che – tanto per fare un esempio – le università di Oxford e la Peninsula Medical School hanno scoperto che a causare l’obesità potrebbe essere un fattore genetico che si chiama Fto; nessuno ha spiegato che gli obesissimi bambini italiani fanno sport, in realtà, per ben 45 minuti al giorno; nessuno ha ricordato che le banane hanno più zucchero di un tegolino; nessuno ha fatto notare che grazie al cioccolato il cuore batte più in fretta e più a lungo (il battito passa in media da 60 a 140 battiti al minuto, ma da qui a dire che il cioccolato è meglio di un bacio – come scriveva qualche giorno fa Repubblica – ce ne vuole; e poi dipende pure a chi lo si dà, il bacio); nessuno ha fatto notare che togliere le merendine dal distributore di merendine sarebbe come togliere il calcio dalla pay tv. Roba da pazzi.
“Proteggere” i bambini. Da chi?
Ora, è evidente che mangiare 18 tegolini al giorno non faccia bene come non farebbe bene neppure mangiare 16 bananone Chiquita, ma se non si vuole correre il rischio di finire come il Texas (dove in alcune scuole pubbliche i ragazzi per un periodo sono stati perquisiti prima di entrare in classe per evitare che in aula portassero merendine o patatine fritte), se non si vuole finire come il Canada (a Fallingbrook, in provincia di Ottawa, una scuola elementare comunale ha da tempo vietato tutte le merendine per cercare di “proteggere” i bambini), se non si vuole finire come la Francia (in alcune scuole pubbliche è stato già vietato di mangiare merendine durante la ricreazione), sarà certo il caso di preoccuparsi di You Tube, di preoccuparsi dei bambini che toccano le mutande della maestra e di quelli che picchiano i compagni, ma prima che il bullismo salutista ci convinca che la salute è un dovere e non un diritto, prima che ci possano convincere che le merendine facciano davvero più male di un film con Walter Nudo o di una sera passata a parlare di Partito democratico, prima che qualcuno possa davvero credere a studi come quelli fatti dall’Università dell’Illinois (dove in maniera piuttosto accurata si dice che per la prima volta nella storia i bambini sono così obesi che non arriveranno a campare più dei genitori, senza però ricordare che i longevi genitori sono anche loro cresciuti con i pericolosissimi pan di stelle e i gli omicidi Kinder Delice), credete pure ai calamari da 218 metri, ma per favore non toccate i nostri velenosissimi tegolini.
Claudio Cerasa
26/04/07
mercoledì 25 aprile 2007
Il Foglio. "Prove di rupture". Sì bipartisan a “un’impresa in sette giorni”. “Roba da Sarkò”, dice della sua legge l’ex neocon Capezzone
Roma. Dice Daniele Capezzone, che ebbe una effimera ma sincera stagione neocon e ora è un sarkozista convinto, che la proposta di legge “un’impresa in sette giorni”, approvata ieri mattina alla Camera con i voti sia della maggioranza sia dell’opposizione (hanno votato contro Comunisti italiani e Lega, i Verdi si sono astenuti), oltre a essere il primo tentativo di sedersi attorno a un tavolo senza scazzottature, è un provvedimento importante “perché non si tratta soltanto di semplificare e di incoraggiare la vita degli imprenditori. Significa – dice al Foglio il presidente della commissione Attività produttive della Camera – non aver paura di confrontarsi su un tema e su un argomento obiettivamente più vicino alle idee di Nicolas Sarkozy che a quelle di Ségolène Royal; se il Parlamento ha approvato quasi all’unanimità una proposta di legge del genere, questo non può che far bene al dialogo tra maggioranza e opposizione. E chissà che almeno a livello economico questa piccola fase Merkel non possa andare avanti”.
Grazie alla proposta di legge che ha in pancia le parti del decreto Bersani che comprendevano più o meno la stessa materia, secondo Capezzone ora si potrà uscire “dalla logica feudale delle autorizzazioni preventive per passare invece al meccanismo centrato sulla fiducia, sul dinamismo e sulla responsabilità dell’autocertificazione. Questo cosa significa? Significa che i giusti controlli arriveranno solo in un secondo momento, senza imbrigliare, o peggio, senza impedire, la partenza di una nuova impresa. E, forse, ora la politica riuscirà a rimettersi un po’ in sintonia con il mondo produttivo, dato che il nostro paese si trova attualmente in una condizione davvero incredibile e dato che la metà delle imprese che nascono in Italia, attualmente, non riesce ad arrivare neppure al suo quinto anno di vita”. Per poter meglio comprendere il ragionamento basta andare a dare un’occhiata all’archivio dati della Banca mondiale, dove l’Italia risulta essere il settantaseiesimo paese del mondo per quanto riguarda la facilità con cui si opera sul mercato, il quarantesimo per quanto riguarda l’apertura di un’attività, il novantatreesimo per il rilascio di una licenza e il centotrentottesimo per l’assunzione di nuovi dipendenti. Se invece la capezzoniana proposta di legge passerà anche al Senato, le nuove imprese potranno iniziare la propria attività semplicemente depositando la documentazione all’interno del futuro sportello unico del Comune; senza essere costretti ad aspettare le ottanta autorizzazioni da venti amministrazioni diverse (è il caso delle lavanderie) e senza dover attendere i classici ventisette mesi per tirare su le nuove saracinesche; tutto questo “grazie ai fantastici voti dei deputati della maggioranza e di quelli dell’opposizione” su una buona legge.
Claudio Cerasa
25/04/07
Grazie alla proposta di legge che ha in pancia le parti del decreto Bersani che comprendevano più o meno la stessa materia, secondo Capezzone ora si potrà uscire “dalla logica feudale delle autorizzazioni preventive per passare invece al meccanismo centrato sulla fiducia, sul dinamismo e sulla responsabilità dell’autocertificazione. Questo cosa significa? Significa che i giusti controlli arriveranno solo in un secondo momento, senza imbrigliare, o peggio, senza impedire, la partenza di una nuova impresa. E, forse, ora la politica riuscirà a rimettersi un po’ in sintonia con il mondo produttivo, dato che il nostro paese si trova attualmente in una condizione davvero incredibile e dato che la metà delle imprese che nascono in Italia, attualmente, non riesce ad arrivare neppure al suo quinto anno di vita”. Per poter meglio comprendere il ragionamento basta andare a dare un’occhiata all’archivio dati della Banca mondiale, dove l’Italia risulta essere il settantaseiesimo paese del mondo per quanto riguarda la facilità con cui si opera sul mercato, il quarantesimo per quanto riguarda l’apertura di un’attività, il novantatreesimo per il rilascio di una licenza e il centotrentottesimo per l’assunzione di nuovi dipendenti. Se invece la capezzoniana proposta di legge passerà anche al Senato, le nuove imprese potranno iniziare la propria attività semplicemente depositando la documentazione all’interno del futuro sportello unico del Comune; senza essere costretti ad aspettare le ottanta autorizzazioni da venti amministrazioni diverse (è il caso delle lavanderie) e senza dover attendere i classici ventisette mesi per tirare su le nuove saracinesche; tutto questo “grazie ai fantastici voti dei deputati della maggioranza e di quelli dell’opposizione” su una buona legge.
Claudio Cerasa
25/04/07
martedì 24 aprile 2007
Britney
Si è tagliata i capelli corti corti, è entrata in depressione, è diventata grassa, ha fatto due figli, l’hanno beccata – Britney – senza trucco, su una limousine con Paris Hilton (e senza mutandine), l’hanno fotografata con una tetta di fuori, con un sacchetto pieno di birre, con i due chihuahua che si portava a spasso prima di andare a letto con Kevin Federline e poi – dopo essere andata a letto con una certa continuità con Kevin Federline (suo marito per due anni) – l’hanno fotografata quando ormai i due chihuahua non c’erano più (Paris invece il suo chihuahua lo ha ancora ed è sempre molto brutto); l’hanno beccata con i due bimbi sotto braccio, accanto a una statua che la ritrae mentre partorisce, al Club One di New York (con indosso un bikini piuttosto carente di stoffa “dove però non ero a mio agio”), accanto alla statua che la ritrae mentre partorisce con alcuni manifestanti che protestavano perché la statua di Britney partorisce ma non mostra nei dettagli il parto (che fu cesareo); con Madonna sul palco, alla clinica di Malibu, con una parrucca bionda e – ancora – alla premiazione del Razzie Award dove fu premiata (per due volte), come peggior attrice dell’anno (i film erano Crossroards e Fahrenheit 9/11, ma ai tempi Alex l’ariete in America non era ancora arrivato). Britney Spears ha persino un tatuaggio. Un vero scandalo.
Perché con Britney funziona come quando si va a vedere un film di Muccino (Silvio) quando si ride per Franco (Pippo) e quando poi dici io Muccino non so chi sia (e lo guardi di nascosto), a me Pippo non fa ridere (e alle elezioni magari lo hai anche votato) e io di Britney non ho mai ascoltato nulla, give me baby one more time. Perché Britney la vedi con una birra e pensi che sia un’ubriaca, la vedi con i figli e pensi che sia una troia, la vedi in ospedale e pensi che sia una tossica anche se Britney – da quell’ospedale – era appena uscita solo perché aveva appena partorito.
Ora. Di Britney Spears si può dire davvero tutto: si può dire che ha le tette finte, che non ama le mutandine, che ha esagerato con la coca e che aveva i chihuahua più brutti di quello di Paris (che è davvero molto difficile). Ma il vero problema è che non esiste un video dove Britney pippa la coca, non esistono intercettazioni della signora Spears, non esistono foto con i trans e non esiste una sola ragione grazie alla quale Britney Spears potrebbe chiedere scusa e farsi perdonare davvero di qualcosa. Di cosa si dovrebbe scusare, Britney? Di aver venduto novanta milioni di dischi? Di essere diventata un sex symbol pur essendo solo un symbol (tutt’altro che sex)? Di essere stata scelta da Madonna (era l’agosto del 2003) per un bacio lesbo? Di essere stata nominata da Forbes (era il 2002) come celebrità più potente del mondo? Di aver messo al mondo due figli (Sean Preston e Jayden James) a venticinque anni? Di essersi sposata e poi divorziata? Si dovrebbe vergognare delle le sue britneyparrucche.tif? Delle sue britneypelata.jpg? O si dovrebbe forse vergognare di essere diventata un vero mito per i repubblicani per il semplice motivo – come scrive Slate – che è anche per colpa di una stronza di cui non si riesce a dimostrare la stronzaggine che i democratici non riescono più ad avere presidenti alla Casa Bianca?
Britney avrebbe semplicemente bisogno di piangere da Bonolis, di commuoversi da Maria De Filippi, di dire “scusate non lo faccio più” dietro il plastico di Cogne. Britney avrebbe bisogno di un archivio di Corona, magari le andrebbe bene anche una cena da Lele Mora, ma così Britney non può andare avanti. Perché così – Britney – non potrebbe andare neppure da Fabio Fazio a chiedere scusa per il suo scandaloso tatuaggio.
Claudio Cerasa
Perché con Britney funziona come quando si va a vedere un film di Muccino (Silvio) quando si ride per Franco (Pippo) e quando poi dici io Muccino non so chi sia (e lo guardi di nascosto), a me Pippo non fa ridere (e alle elezioni magari lo hai anche votato) e io di Britney non ho mai ascoltato nulla, give me baby one more time. Perché Britney la vedi con una birra e pensi che sia un’ubriaca, la vedi con i figli e pensi che sia una troia, la vedi in ospedale e pensi che sia una tossica anche se Britney – da quell’ospedale – era appena uscita solo perché aveva appena partorito.
Ora. Di Britney Spears si può dire davvero tutto: si può dire che ha le tette finte, che non ama le mutandine, che ha esagerato con la coca e che aveva i chihuahua più brutti di quello di Paris (che è davvero molto difficile). Ma il vero problema è che non esiste un video dove Britney pippa la coca, non esistono intercettazioni della signora Spears, non esistono foto con i trans e non esiste una sola ragione grazie alla quale Britney Spears potrebbe chiedere scusa e farsi perdonare davvero di qualcosa. Di cosa si dovrebbe scusare, Britney? Di aver venduto novanta milioni di dischi? Di essere diventata un sex symbol pur essendo solo un symbol (tutt’altro che sex)? Di essere stata scelta da Madonna (era l’agosto del 2003) per un bacio lesbo? Di essere stata nominata da Forbes (era il 2002) come celebrità più potente del mondo? Di aver messo al mondo due figli (Sean Preston e Jayden James) a venticinque anni? Di essersi sposata e poi divorziata? Si dovrebbe vergognare delle le sue britneyparrucche.tif? Delle sue britneypelata.jpg? O si dovrebbe forse vergognare di essere diventata un vero mito per i repubblicani per il semplice motivo – come scrive Slate – che è anche per colpa di una stronza di cui non si riesce a dimostrare la stronzaggine che i democratici non riescono più ad avere presidenti alla Casa Bianca?
Britney avrebbe semplicemente bisogno di piangere da Bonolis, di commuoversi da Maria De Filippi, di dire “scusate non lo faccio più” dietro il plastico di Cogne. Britney avrebbe bisogno di un archivio di Corona, magari le andrebbe bene anche una cena da Lele Mora, ma così Britney non può andare avanti. Perché così – Britney – non potrebbe andare neppure da Fabio Fazio a chiedere scusa per il suo scandaloso tatuaggio.
Claudio Cerasa
lunedì 23 aprile 2007
"Il Foglio". La borgata del tycoon
L’amicizia con Bono, le simpatie politiche, il garage di Grottaferrata, i servizi segreti,
i capelli non più a caschetto e ora di nuovo il carcere. I quarant’anni di Danilo Coppola
Via Bolognetta numero novantuno, raccordo anulare, uscita Grottaferrata, via Casilina, periferia nord-est di Roma, borgata Finocchio, cappuccino ottanta centesimi, negozio abbigliamento-calzature, scuola parrucchieri, coltelleria arrotineria, birre Peroni, palestra il Cigno, tavolini bianchi, sedie di plastica, tramezzino un euroeventi, Elisir allunga i tuoi capelli, mutui, prestiti, solarium e lavori in corso; di fronte al bar Billy una Volkswagen, un’Audi, una Peugeot, una Ford, un’altra Volkswagen, due Fiat Punto: con la cassiera che non vuole mettere nei guai Danilo, il meccanico che non ha nulla da dire su Danilo, la sorella Sandra che adora Danilo, la mamma Francesca che soffre molto per Danilo e il parrucchiere (Sandro) che risponde solo via fax alle domande su Danilo; a sinistra il barbiere di via Militello (Pino), a destra la cantina con le acciughe della mamma, al centro i tre piani del primo appartamento, l’assegno del primo stipendio, la copertina del primo disco (quello dei Dire Straits), il cartoncino del primo poster (quello dei Duran Duran) e il comodino della stanza dove è nato e dove è cresciuto l’immobiliarista, palazzinaro, imprenditore, newcomer, raider, tycoon ed editore Danilo Coppola; arrestato lo scorso primo marzo con l’accusa di bancarotta fraudolenta, associazione a delinquere, appropriazione indebita, riciclaggio e falso in atto pubblico e quando ormai – Coppola – era diventato il ventunesimo uomo più ricco d’Italia, quando ancora aveva i capelli lunghi dietro la nuca, con quel taglio un po’ alla carrè e un po’ alla Paperoga che da una settimana, però, Danilo Coppola non ha più.
Danilo Coppola, dopo un mese di ospedale, è tornato in carcere (la scarcerazione è stata negata anche per le “recenti acquisizioni ritenute di rilevante interesse investigativo”), è dimagrito di otto chili, è rimasto con i capelli a spazzola, i polsi fasciati e con un patrimonio da ottanta milioni di euro sotto sequestro. In carcere, Coppola, ha tentato il suicidio. Coppola (che il 25 maggio compirà quarant’anni) dice di essere stato fortunato, dice di essere diventato ricco in un momento in cui il mercato immobiliare era esploso (tra il millenovecentonovantadue e il millenovecentonovantacinque), quando comprava i palazzi a quindici e li rivendeva a cinquanta e quando prendeva un palazzo il lunedì e lo dava via il sabato, tre volte più caro. Ma oltre agli alberghi, oltre alla palestra, oltre alla Roma Calcio, oltre alla scalata Antonveneta, oltre al nove per cento in Bnl, oltre al cinque per cento in Mediobanca, oltre al guardi, mi sono fatto tutto da solo, oltre al guardi, vado per cantieri da quando avevo diciassette anni, oltre ad aver conosciuto un cantante che martedì prossimo sarà ricevuto dal cancelliere tedesco Angela Merkel, oltre a tutto questo dietro al mondo di un palazzinaro che arriva da Finocchio fino a Mediobanca e che in vent’anni è diventato uno degli uomini più ricchi d’Italia, dietro a un uomo a cui sono bastati pochissimi anni di successo per meritarsi una memorabile colazione (compresa di intervista) insieme con Gad Lerner, c’è un dietro le quinte poco conosciuto.
L’ufficio di Danilo Coppola, a pochi passi da piazza di Spagna, è una palazzina di tre piani, con le pareti bianche, una pericolosissima scala di cristallo, tre segretarie, molti collaboratori (in tutto ne aveva settecentoundici), una sala d’aspetto, divani di pelle nera, niente libri, niente parquet, niente giornali, molte rassegne stampa con articolo sottolineato a pagina dodici, molti marmi e molte colonne bianche. Danilo Coppola, che ama molto Gucci e i negozi Beauty Farm, in ufficio era sempre vestito con un completo nero di Armani, con le scarpe Hogan e con le cinte Hermes. Il giorno in cui è stato arrestato, il primo marzo, Coppola chiese di attendere un attimo, prese il vestito Armani da dentro l’armadio (nelle sue case non devono mancare mai due cose: il colore rosa e tanti, tantissimi armadi), prese una busta con le forbici per tagliarsi da solo i capelli, fece aspettare la guardia di finanza sotto il portone di casa e poi, dopo trentadue minuti, scese giù nel cortile, pettinato, elegante, spaventato e con una cinta e una cravatta che, prima di salire sulla volante, la finanza gli consigliò di lasciare sulla cassapanca di casa. La cinta e la cravatta in carcere è meglio di no. Nel suo ufficio, Coppola, quel cazzo di Samsung nero, come lo chiamava lui, lo teneva appoggiato sul tavolino, a destra rispetto alla poltrona di pelle nera. Coppola non voleva cambiare quel telefono, perché si era sempre trovato bene e perché diceva ai suoi collaboratori di sentirsi sicuro. Ma negli ultimi sei anni qualcosa era cambiato, e non solo per quel cazzo di telefonino. Coppola diceva a tutti di essere spiato.
Di fronte all’ingresso principale dell’ufficio, Danilo Coppola non aveva mai voluto le guardie del corpo. Preferiva persone sempre diverse, perché lui non si fidava davvero di nessuno. Non si fidava neppure della polizia, della Digos o delle guardie del corpo. Proprio per questo, Coppola, scelse per il suo ufficio le guardie giurate della Mondialpol (che da qualche mese ha richiesto anche per una delle sue case, poco fuori Roma). Ma con la Mondialpol c’era un problema. Nel suo ufficio – raccontano – poteva arrivare davvero chiunque; poteva arrivare chiunque, ma tutti sarebbero sempre stati bloccati, spogliati e perquisiti. E questo rischiava di essere, spesso, un po’ imbarazzante.
Danilo Coppola non aveva mai avuto problemi con le banche (e una di quelle che più hanno prestato denaro a Coppola è stata la Unicredit, come si legge dagli atti dell’indagine), ma negli ultimi sette mesi aveva iniziato ad avere difficoltà anche per avere un fido per una nuova macchina (Coppola ne ha davvero molte, le più belle sono le Ferrari e la Aston Martin, anche se lui, naturalmente, preferiva il jet grigio metallizzato, di cui però non ama il colore). Coppola mangiava quasi sempre in bianco, quando lavorava era sempre sotto tensione, diceva di essere ipocondriaco, temeva spesso di sentirsi male, credeva di avere problemi al cuore e temeva di avere problemi al fegato (Coppola è rimasto diverse settimane in osservazione all’ospedale Sandro Pertini a Roma, ma secondo i dottori non “ha mai avuto alcun infarto”); un giorno a Torino – dove Coppola andava spesso (era socio della Bim, la banca interimmobiliare di cui faceva parte – tra i tanti – anche la Cofide di Carlo De Benedetti e la Premafin di Salvatore Ligresti e il cui amministratore delegato, Pietro D’Agui, è stato testimone del battesimo della figlia di Coppola, come si legge dagli atti dell’indagine), si fece accompagnare in ospedale per un elettrocardiogramma. Coppola aveva molta paura del suo cuore e per lui gli elettrocardiogrammi non erano certo una novità. Ma così all’improvviso non gli era mai successo. Coppola non aveva nulla, ma lui diceva di non sentirsi bene lo stesso. Un po’ di ansia, un po’ di battiti accelerati, un po’ di tachicardia, ma tutto qui. Negli ultimi anni, Coppola era diventato effettivamente piuttosto ansioso. Ma il lavoro non c’entrava nulla. Semmai era tutta colpa di quel tir. L’anno era il duemila o forse il duemilauno, Danilo Coppola viaggiava su una macchina nera, quel giorno non aveva voluto guidare lui, la macchina andava verso il centro, strada a doppio senso, da una parte lui, a destra il guard rail a sinistra l’altra corsia, di fronte il tir. Fu un attimo, la macchina si accartocciò di un botto. Coppola perse molto sangue, il mento finì dentro il parabrezza, il vetro era dappertutto. Coppola si operò una, due, tre, quattro, cinque volte. Da allora iniziò ad avere molti attacchi di panico. E la cicatrice sotto il labbro inferiore è un ricordo di quell’incidente.
Il primo terreno acquistato da Danilo Coppola si trova tra via Castellana Sicula e via Bonpietro (siamo sempre a borgata Finocchio), a sette metri dalla casa della vivacissima sorella di Danilo – Sandra – dove Coppola aveva detto di voler costruire ancora, dove voleva rimettere a posto le strade del quartiere, e dove aveva detto di voler costruire una ludoteca per bambini. Tre piani, quattrocento metri quadrati, tre balconi, tre terrazze color giallo ocra e non rosa come tutte le palazzine che da via Palmiro Togliatti fino a via Militello appartengono all’impero del romano di via Bolognetta. Danilo Coppola comprò questo terreno prima dell’ictus del padre Paolo, quando ancora si sentiva dire “Danilo, finisci Giurisprudenza”, “Danilo per favore lascia stare il mattone”. Coppola aveva ventuno anni, viveva da sempre a Finocchio (“quel nome vegetale passato poco gentilmente in proverbio nel gergo romanesco”, secondo un’indimenticabile definizione della scrittrice Melania Mazzucco), il padre aveva appena iniziato a costruire le prime case nella zona sud-est della Tuscolana, Coppola si era appena diplomato al liceo scientifico Pio XII (dove il suo insegnante, un prete, ogni mattina gli faceva leggere tre quotidiani), aveva deciso di voler fare Giurisprudenza, aveva deciso di voler a tutti i costi frequentare la Luiss (anche se poi non ci riuscì mai), aveva deciso che avrebbe voluto fare l’imprenditore, l’immobiliarista, magari anche lo scrittore (anche se ci fu chi ironizzò non poco quando sui giornali economici Coppola pubblicò un’inserzione a pagamento dove furono contati quattordici errori di italiano). Ma il sogno di Danilo Coppola, in realtà, era un altro. Coppola voleva entrare nei Nocs, il gruppo speciale della polizia di stato. Non ci provò mai, Coppola, ma negli ultimi anni riuscì ugualmente a organizzare una sua personale rete di controllo. Un piccolo servizio segreto. Coppola aveva fatto installare su tre Nokia 6600, un Nokia N 70, un Samsung SGH (poi distribuiti, secondo gli inquirenti, a terzi ignari) un software speciale con una scheda in grado di intercettare le comunicazioni che partivano e arrivavano su quei telefoni. Non solo. Grazie a una microspia inserita all’interno dei microfoni dei cellulari, Coppola era in grado di registrare tutte le conversazioni che avvenivano a sei metri di distanza dagli stessi telefonini. Coppola era davvero terrorizzato, credeva che qualcuno lo volesse incastrare, non si fidava di chi gli ricordava che la sua casa si trovava di fronte a quella del cassiere della banda della Magliana, Enrico Nicoletti, non si fidava di chi gli diceva che i suoi soldi chissà da dove erano arrivati, non si fidava di quelli che gli ricordavano del suo famoso furto di energia a una centralina dell’Enel (furto famoso, ma l’Enel non ha mai denunciato Coppola); non si fidava, Coppola, neppure di quelli che gli dicevano, attento Danilo, sei diventato un personaggio troppo scomodo. Non si fidava di nessuno e per questo, Coppola, iniziò a intercettare. (Anche se poi, l’unico vero risultato ottenuto grazie a quelle intercettazioni personali era stato un po’ imbarazzante, dato che, grazie alle chiamate registrate, una delle sue collaboratrici scoprì che il suo fidanzato aveva un’amante).
Quindici anni dopo quel terreno dietro via Castellana Sicula, Danilo Coppola inizia a mettersi nei guai. E non per colpa di una scalata, non per colpa di un finanziamento, non per colpa di un giornale, non per colpa di una banca, non per colpa di una squadra di calcio (Coppola pare che sia stato buon amico della famiglia Sensi, comprò da Rosella, figlia di Franco e attuale numero uno dei giallorossi, cinquecentocinquantamila azioni della Roma in un momento di difficoltà della famiglia, ma pur stravedendo per il bomber Roberto Pruzzo, Coppola non è mai stato un gran romanista, della Roma non gliene importava quasi nulla ed è per questo che allo stadio non andava così spesso e quando ci andava, racconta un suo amico, in molti lo prendevano in giro perché la Roma perdeva quasi sempre). Danilo Coppola si mise nei guai per colpa di una palestra a pochi chilometri da Grottaferrata, una palestra acquistata per un milione e duecentomila euro e venduta per sette milioni di euro, pochissimi giorni dopo. Il contratto di liquidazione, secondo l’accusa, sarebbe stato firmato da Trifan Doru, marito della domestica della mamma di Coppola e ufficialmente portiere, facchino e cameriere del Daniel’s Hotel, di proprietà di Danilo Coppola.
Dal millenovecentonovantuno al duemilauno, Danilo Coppola aveva iniziato ad accumulare molti soldi, ma non avrebbe mai immaginato di finire dietro le sbarre, esattamente come chi lo ha visto in questi giorni “non avrebbe mai immaginato che un tipo così gracile, timido, insicuro e silenzioso possa essere a capo di un impero del genere”. L’impero però c’è ed è anche piuttosto grande, tanto che la rivista Forbes, qualche anno fa, per la prima volta chiamò Coppola così: tycoon.
Danilo Coppola è proprio lo stesso Coppola che quando incontrò Diego Della Valle – a Roma, sul terrazzo dell’hotel Eden, in via Ludovisi – diceva che lui però non era così sicuro “che quel signore sia davvero più ricco di me”; lo stesso Coppola che ispirò un indimenticabile articolo di Gad Lerner (su Vanity Fair) che cominciava con un “l’economia italiana affetta da gracilità congenita, si fa largo uso di fisiognomica lombrosiana”. La fisiognomica lombrosiana di cui parlava Lerner – secondo la quale Coppola sarebbe discriminato per il suo aspetto estetico – si riferiva principalmente al curioso taglio di capelli di Danilo Coppola, taglio che ha scatenato una serie di leggende metropolitane pari soltanto all’appassionante lettura su che cosa ha davvero detto Marco Materazzi a Zinedine Zidane. Coppola ha un taglio a caschetto, capelli lunghi dietro, un po’ meno lunghi davanti, look definito carré francese dal suo barbiere Pino di via Militello, mento alla Robert De Niro, volto scavato, capelli brizzolati, taglio rapido, dodici euro, molto silenzioso, molte allergie, da vent’anni barbiere di riferimento della zona, molto riservato, molto simpatico anche se poi, a fine taglio, senza scherzare, ti chiede scusa, dietro come li facciamo? Un po’ più lunghi?
Prima ancora delle scalate e prima ancora delle banche e prima ancora di un curioso ma significativo acquisto fatto a Roma (quattro anni fa il costruttore romano acquistò una delle strutture più note nel panorama trash della capitale, ovvero i magazzini Mas, famosi soprattutto per gli spot televisivi con Alvaro Vitali, ora degnamente sostituito da un tonico Antonio Zequila, conosciuto anche come er Mutanda), prima ancora di tutto questo, Coppola era diventato celebre per aver comprato il Grand Hotel Rimini, lo stesso hotel dove Federico Fellini aveva girato Amarcord e lo stesso hotel che Danilo Coppola acquistò sei ore dopo la sua messa in vendita. Soltanto sei ore dopo. E a New York le cose rischiarono di andare più o meno allo stesso modo.
Sono le nove e trenta, è il dieci maggio del duemilasei. L’avvocato di Coppola si era svegliato da poco. Coppola aveva già sfogliato una rivista. Lui era a Torino, il suo avvocato a Roma, l’albergo era a New York. Quell’albergo sulla rivista era “mattone vero”, come dice lui; e poi costava settanta milioni di euro. E per lui, quella cifra, non era quasi nulla. Coppola voleva subito quell’albergo, voleva almeno un piano, si accontentava pure dell’attico. L’avvocato non capiva, anche perché era ancora molto presto. Coppola si fermò un attimo, ci pensò su e prima di riattaccare disse al telefono di avere un amico che, anche se era nato a Dublino, in quei giorni si trovava a New York. Non era un tycoon, non era un banchiere, ma era un cantante e si chiamava Bono. (Il cantante degli U2 ha ottime conoscenze tra i palazzinari e i costruttori del Nord America).
Fu proprio in quei giorni che Danilo Coppola aveva capito che così, al telefono, non poteva più parlare. Aveva capito che il suo Samsung (l’aggettivo che accompagnava la marca del suo telefono era oltre che “cazzo” anche “cesso”) aveva qualcosa che non andava. Ma il telefono non c’entrava nulla, quello era sempre una bomba. Coppola, però, sapeva che qualcuno lo stava intercettando.
Sono le sette e trenta, siamo ancora a maggio, Coppola è già sveglio (più di quattro o cinque ore a notte Coppola non dorme mai) e si trova nella sua casa di Grottaferrata. Nella zona di Finocchio, Coppola aveva un amico che lavorava alla Telecom. All’amico aveva chiesto un favore: se sai qualcosa su di me fammi sapere. Quel giorno la finanza, alle sette di mattina, inizia a tenere sotto controllo il suo telefono. La richiesta parte ufficialmente. Mezz’ora dopo, alle sette e trenta, Coppola riceve da un impiegato Telecom quattro squilli sul cellulare. Quello era il segnale per Danilo. Nelle settimane successive, Coppola, chiama chiunque; chiama gli amici, chiama gli avvocati, chiama i collaboratori, chiama i suoi soci, scrive alle agenzie, chiama anche Marco Tronchetti Provera, ma poi, dopo i quattro squilli, Coppola impugna il telefono, tasto verde e poi tre numeri: uno poi uno e poi nove. Danilo Coppola era furioso, doveva parlare con qualcuno, così non andava, così non poteva neppure lavorare, doveva risolvere la situazione e andava bene tutto per farlo. Andava bene pure il 119, il servizio clienti di Telecom Italia: buongiorno, come posso aiutarla?
Ma tra l’amicizia con Bono, la simpatia (non ricambiata) per Massimo D’Alema (Coppola, però, vota a destra), tra i memorabili pranzi lombrosiani con Lerner e tra la Roma, Mas, i telefonini e il 119, Danilo Coppola diceva sempre che un borgataro di Finocchio non poteva che essere guardato male, credeva che Luca Cordero di Montezemolo ce l’avesse con lui e che tutti i giornali lo avessero preso di mira. E questo lo fece capire, con una certa insistenza, in una storica telefonata a Claudio Gatti, giornalista del Sole 24 Ore, autore di un’inchiesta su Danilo Coppola (in un’intervista a Prima Comunicazione, Coppola ricorda che il pezzo di Gatti, annunciato come primo di una serie di articoli, in realtà si fermò lì, anche perché, dice Coppola “dopo aver parlato con De Bortoli lui stesso mi aveva detto che si era sbagliato sul mio conto”). Coppola era davvero convinto che i giornali lo volessero far fuori da tutti i giochi, pensava di essere scomodo dalle parti di Mediobanca e sapeva che quello che serviva, a lui, era un giornale tutto suo. Il suo compagno di scalate, Stefano Ricucci ci provò con Rcs (il cognato di Ricucci era un collaboratore di Coppola e Coppola in quei giorni fu sospettato di essere dietro alla scalata al Corriere), ma il piccolo colpo di Coppola fu l’ingresso con il diciotto per cento nel capitale di Editori per la Finanza, il gruppo a cui fa capo Finanza e Mercati (anche se, nello stesso giornale, nessuno ha mai capito davvero che cosa c’entrasse Coppola con l’editoria).
Una delle case più belle di Coppola è certamente quella di Grottaferrata. Coppola aveva da poco comprato anche una chiesa sconsacrata a Frascati, ma la casa che preferiva era però quella più a sud, quella costruita sui resti di un’antica villa del Console Lucullo, la stessa villa descritta nel volume “Il libro nero di Roma antica” come “una villa di Tuscolo, sita nel mezzo di una tenuta tipo latifondo e da dove sgorgano le acque Appia, Tepula e Virgo le quali, a mezzo di acquedotti, sono diventate pellegrine molto gradite dai Romani”. Ecco, lì sotto Danilo Coppola ha costruito un bellissimo garage.
Claudio Cerasa
21/04/07
i capelli non più a caschetto e ora di nuovo il carcere. I quarant’anni di Danilo Coppola
Via Bolognetta numero novantuno, raccordo anulare, uscita Grottaferrata, via Casilina, periferia nord-est di Roma, borgata Finocchio, cappuccino ottanta centesimi, negozio abbigliamento-calzature, scuola parrucchieri, coltelleria arrotineria, birre Peroni, palestra il Cigno, tavolini bianchi, sedie di plastica, tramezzino un euroeventi, Elisir allunga i tuoi capelli, mutui, prestiti, solarium e lavori in corso; di fronte al bar Billy una Volkswagen, un’Audi, una Peugeot, una Ford, un’altra Volkswagen, due Fiat Punto: con la cassiera che non vuole mettere nei guai Danilo, il meccanico che non ha nulla da dire su Danilo, la sorella Sandra che adora Danilo, la mamma Francesca che soffre molto per Danilo e il parrucchiere (Sandro) che risponde solo via fax alle domande su Danilo; a sinistra il barbiere di via Militello (Pino), a destra la cantina con le acciughe della mamma, al centro i tre piani del primo appartamento, l’assegno del primo stipendio, la copertina del primo disco (quello dei Dire Straits), il cartoncino del primo poster (quello dei Duran Duran) e il comodino della stanza dove è nato e dove è cresciuto l’immobiliarista, palazzinaro, imprenditore, newcomer, raider, tycoon ed editore Danilo Coppola; arrestato lo scorso primo marzo con l’accusa di bancarotta fraudolenta, associazione a delinquere, appropriazione indebita, riciclaggio e falso in atto pubblico e quando ormai – Coppola – era diventato il ventunesimo uomo più ricco d’Italia, quando ancora aveva i capelli lunghi dietro la nuca, con quel taglio un po’ alla carrè e un po’ alla Paperoga che da una settimana, però, Danilo Coppola non ha più.
Danilo Coppola, dopo un mese di ospedale, è tornato in carcere (la scarcerazione è stata negata anche per le “recenti acquisizioni ritenute di rilevante interesse investigativo”), è dimagrito di otto chili, è rimasto con i capelli a spazzola, i polsi fasciati e con un patrimonio da ottanta milioni di euro sotto sequestro. In carcere, Coppola, ha tentato il suicidio. Coppola (che il 25 maggio compirà quarant’anni) dice di essere stato fortunato, dice di essere diventato ricco in un momento in cui il mercato immobiliare era esploso (tra il millenovecentonovantadue e il millenovecentonovantacinque), quando comprava i palazzi a quindici e li rivendeva a cinquanta e quando prendeva un palazzo il lunedì e lo dava via il sabato, tre volte più caro. Ma oltre agli alberghi, oltre alla palestra, oltre alla Roma Calcio, oltre alla scalata Antonveneta, oltre al nove per cento in Bnl, oltre al cinque per cento in Mediobanca, oltre al guardi, mi sono fatto tutto da solo, oltre al guardi, vado per cantieri da quando avevo diciassette anni, oltre ad aver conosciuto un cantante che martedì prossimo sarà ricevuto dal cancelliere tedesco Angela Merkel, oltre a tutto questo dietro al mondo di un palazzinaro che arriva da Finocchio fino a Mediobanca e che in vent’anni è diventato uno degli uomini più ricchi d’Italia, dietro a un uomo a cui sono bastati pochissimi anni di successo per meritarsi una memorabile colazione (compresa di intervista) insieme con Gad Lerner, c’è un dietro le quinte poco conosciuto.
L’ufficio di Danilo Coppola, a pochi passi da piazza di Spagna, è una palazzina di tre piani, con le pareti bianche, una pericolosissima scala di cristallo, tre segretarie, molti collaboratori (in tutto ne aveva settecentoundici), una sala d’aspetto, divani di pelle nera, niente libri, niente parquet, niente giornali, molte rassegne stampa con articolo sottolineato a pagina dodici, molti marmi e molte colonne bianche. Danilo Coppola, che ama molto Gucci e i negozi Beauty Farm, in ufficio era sempre vestito con un completo nero di Armani, con le scarpe Hogan e con le cinte Hermes. Il giorno in cui è stato arrestato, il primo marzo, Coppola chiese di attendere un attimo, prese il vestito Armani da dentro l’armadio (nelle sue case non devono mancare mai due cose: il colore rosa e tanti, tantissimi armadi), prese una busta con le forbici per tagliarsi da solo i capelli, fece aspettare la guardia di finanza sotto il portone di casa e poi, dopo trentadue minuti, scese giù nel cortile, pettinato, elegante, spaventato e con una cinta e una cravatta che, prima di salire sulla volante, la finanza gli consigliò di lasciare sulla cassapanca di casa. La cinta e la cravatta in carcere è meglio di no. Nel suo ufficio, Coppola, quel cazzo di Samsung nero, come lo chiamava lui, lo teneva appoggiato sul tavolino, a destra rispetto alla poltrona di pelle nera. Coppola non voleva cambiare quel telefono, perché si era sempre trovato bene e perché diceva ai suoi collaboratori di sentirsi sicuro. Ma negli ultimi sei anni qualcosa era cambiato, e non solo per quel cazzo di telefonino. Coppola diceva a tutti di essere spiato.
Di fronte all’ingresso principale dell’ufficio, Danilo Coppola non aveva mai voluto le guardie del corpo. Preferiva persone sempre diverse, perché lui non si fidava davvero di nessuno. Non si fidava neppure della polizia, della Digos o delle guardie del corpo. Proprio per questo, Coppola, scelse per il suo ufficio le guardie giurate della Mondialpol (che da qualche mese ha richiesto anche per una delle sue case, poco fuori Roma). Ma con la Mondialpol c’era un problema. Nel suo ufficio – raccontano – poteva arrivare davvero chiunque; poteva arrivare chiunque, ma tutti sarebbero sempre stati bloccati, spogliati e perquisiti. E questo rischiava di essere, spesso, un po’ imbarazzante.
Danilo Coppola non aveva mai avuto problemi con le banche (e una di quelle che più hanno prestato denaro a Coppola è stata la Unicredit, come si legge dagli atti dell’indagine), ma negli ultimi sette mesi aveva iniziato ad avere difficoltà anche per avere un fido per una nuova macchina (Coppola ne ha davvero molte, le più belle sono le Ferrari e la Aston Martin, anche se lui, naturalmente, preferiva il jet grigio metallizzato, di cui però non ama il colore). Coppola mangiava quasi sempre in bianco, quando lavorava era sempre sotto tensione, diceva di essere ipocondriaco, temeva spesso di sentirsi male, credeva di avere problemi al cuore e temeva di avere problemi al fegato (Coppola è rimasto diverse settimane in osservazione all’ospedale Sandro Pertini a Roma, ma secondo i dottori non “ha mai avuto alcun infarto”); un giorno a Torino – dove Coppola andava spesso (era socio della Bim, la banca interimmobiliare di cui faceva parte – tra i tanti – anche la Cofide di Carlo De Benedetti e la Premafin di Salvatore Ligresti e il cui amministratore delegato, Pietro D’Agui, è stato testimone del battesimo della figlia di Coppola, come si legge dagli atti dell’indagine), si fece accompagnare in ospedale per un elettrocardiogramma. Coppola aveva molta paura del suo cuore e per lui gli elettrocardiogrammi non erano certo una novità. Ma così all’improvviso non gli era mai successo. Coppola non aveva nulla, ma lui diceva di non sentirsi bene lo stesso. Un po’ di ansia, un po’ di battiti accelerati, un po’ di tachicardia, ma tutto qui. Negli ultimi anni, Coppola era diventato effettivamente piuttosto ansioso. Ma il lavoro non c’entrava nulla. Semmai era tutta colpa di quel tir. L’anno era il duemila o forse il duemilauno, Danilo Coppola viaggiava su una macchina nera, quel giorno non aveva voluto guidare lui, la macchina andava verso il centro, strada a doppio senso, da una parte lui, a destra il guard rail a sinistra l’altra corsia, di fronte il tir. Fu un attimo, la macchina si accartocciò di un botto. Coppola perse molto sangue, il mento finì dentro il parabrezza, il vetro era dappertutto. Coppola si operò una, due, tre, quattro, cinque volte. Da allora iniziò ad avere molti attacchi di panico. E la cicatrice sotto il labbro inferiore è un ricordo di quell’incidente.
Il primo terreno acquistato da Danilo Coppola si trova tra via Castellana Sicula e via Bonpietro (siamo sempre a borgata Finocchio), a sette metri dalla casa della vivacissima sorella di Danilo – Sandra – dove Coppola aveva detto di voler costruire ancora, dove voleva rimettere a posto le strade del quartiere, e dove aveva detto di voler costruire una ludoteca per bambini. Tre piani, quattrocento metri quadrati, tre balconi, tre terrazze color giallo ocra e non rosa come tutte le palazzine che da via Palmiro Togliatti fino a via Militello appartengono all’impero del romano di via Bolognetta. Danilo Coppola comprò questo terreno prima dell’ictus del padre Paolo, quando ancora si sentiva dire “Danilo, finisci Giurisprudenza”, “Danilo per favore lascia stare il mattone”. Coppola aveva ventuno anni, viveva da sempre a Finocchio (“quel nome vegetale passato poco gentilmente in proverbio nel gergo romanesco”, secondo un’indimenticabile definizione della scrittrice Melania Mazzucco), il padre aveva appena iniziato a costruire le prime case nella zona sud-est della Tuscolana, Coppola si era appena diplomato al liceo scientifico Pio XII (dove il suo insegnante, un prete, ogni mattina gli faceva leggere tre quotidiani), aveva deciso di voler fare Giurisprudenza, aveva deciso di voler a tutti i costi frequentare la Luiss (anche se poi non ci riuscì mai), aveva deciso che avrebbe voluto fare l’imprenditore, l’immobiliarista, magari anche lo scrittore (anche se ci fu chi ironizzò non poco quando sui giornali economici Coppola pubblicò un’inserzione a pagamento dove furono contati quattordici errori di italiano). Ma il sogno di Danilo Coppola, in realtà, era un altro. Coppola voleva entrare nei Nocs, il gruppo speciale della polizia di stato. Non ci provò mai, Coppola, ma negli ultimi anni riuscì ugualmente a organizzare una sua personale rete di controllo. Un piccolo servizio segreto. Coppola aveva fatto installare su tre Nokia 6600, un Nokia N 70, un Samsung SGH (poi distribuiti, secondo gli inquirenti, a terzi ignari) un software speciale con una scheda in grado di intercettare le comunicazioni che partivano e arrivavano su quei telefoni. Non solo. Grazie a una microspia inserita all’interno dei microfoni dei cellulari, Coppola era in grado di registrare tutte le conversazioni che avvenivano a sei metri di distanza dagli stessi telefonini. Coppola era davvero terrorizzato, credeva che qualcuno lo volesse incastrare, non si fidava di chi gli ricordava che la sua casa si trovava di fronte a quella del cassiere della banda della Magliana, Enrico Nicoletti, non si fidava di chi gli diceva che i suoi soldi chissà da dove erano arrivati, non si fidava di quelli che gli ricordavano del suo famoso furto di energia a una centralina dell’Enel (furto famoso, ma l’Enel non ha mai denunciato Coppola); non si fidava, Coppola, neppure di quelli che gli dicevano, attento Danilo, sei diventato un personaggio troppo scomodo. Non si fidava di nessuno e per questo, Coppola, iniziò a intercettare. (Anche se poi, l’unico vero risultato ottenuto grazie a quelle intercettazioni personali era stato un po’ imbarazzante, dato che, grazie alle chiamate registrate, una delle sue collaboratrici scoprì che il suo fidanzato aveva un’amante).
Quindici anni dopo quel terreno dietro via Castellana Sicula, Danilo Coppola inizia a mettersi nei guai. E non per colpa di una scalata, non per colpa di un finanziamento, non per colpa di un giornale, non per colpa di una banca, non per colpa di una squadra di calcio (Coppola pare che sia stato buon amico della famiglia Sensi, comprò da Rosella, figlia di Franco e attuale numero uno dei giallorossi, cinquecentocinquantamila azioni della Roma in un momento di difficoltà della famiglia, ma pur stravedendo per il bomber Roberto Pruzzo, Coppola non è mai stato un gran romanista, della Roma non gliene importava quasi nulla ed è per questo che allo stadio non andava così spesso e quando ci andava, racconta un suo amico, in molti lo prendevano in giro perché la Roma perdeva quasi sempre). Danilo Coppola si mise nei guai per colpa di una palestra a pochi chilometri da Grottaferrata, una palestra acquistata per un milione e duecentomila euro e venduta per sette milioni di euro, pochissimi giorni dopo. Il contratto di liquidazione, secondo l’accusa, sarebbe stato firmato da Trifan Doru, marito della domestica della mamma di Coppola e ufficialmente portiere, facchino e cameriere del Daniel’s Hotel, di proprietà di Danilo Coppola.
Dal millenovecentonovantuno al duemilauno, Danilo Coppola aveva iniziato ad accumulare molti soldi, ma non avrebbe mai immaginato di finire dietro le sbarre, esattamente come chi lo ha visto in questi giorni “non avrebbe mai immaginato che un tipo così gracile, timido, insicuro e silenzioso possa essere a capo di un impero del genere”. L’impero però c’è ed è anche piuttosto grande, tanto che la rivista Forbes, qualche anno fa, per la prima volta chiamò Coppola così: tycoon.
Danilo Coppola è proprio lo stesso Coppola che quando incontrò Diego Della Valle – a Roma, sul terrazzo dell’hotel Eden, in via Ludovisi – diceva che lui però non era così sicuro “che quel signore sia davvero più ricco di me”; lo stesso Coppola che ispirò un indimenticabile articolo di Gad Lerner (su Vanity Fair) che cominciava con un “l’economia italiana affetta da gracilità congenita, si fa largo uso di fisiognomica lombrosiana”. La fisiognomica lombrosiana di cui parlava Lerner – secondo la quale Coppola sarebbe discriminato per il suo aspetto estetico – si riferiva principalmente al curioso taglio di capelli di Danilo Coppola, taglio che ha scatenato una serie di leggende metropolitane pari soltanto all’appassionante lettura su che cosa ha davvero detto Marco Materazzi a Zinedine Zidane. Coppola ha un taglio a caschetto, capelli lunghi dietro, un po’ meno lunghi davanti, look definito carré francese dal suo barbiere Pino di via Militello, mento alla Robert De Niro, volto scavato, capelli brizzolati, taglio rapido, dodici euro, molto silenzioso, molte allergie, da vent’anni barbiere di riferimento della zona, molto riservato, molto simpatico anche se poi, a fine taglio, senza scherzare, ti chiede scusa, dietro come li facciamo? Un po’ più lunghi?
Prima ancora delle scalate e prima ancora delle banche e prima ancora di un curioso ma significativo acquisto fatto a Roma (quattro anni fa il costruttore romano acquistò una delle strutture più note nel panorama trash della capitale, ovvero i magazzini Mas, famosi soprattutto per gli spot televisivi con Alvaro Vitali, ora degnamente sostituito da un tonico Antonio Zequila, conosciuto anche come er Mutanda), prima ancora di tutto questo, Coppola era diventato celebre per aver comprato il Grand Hotel Rimini, lo stesso hotel dove Federico Fellini aveva girato Amarcord e lo stesso hotel che Danilo Coppola acquistò sei ore dopo la sua messa in vendita. Soltanto sei ore dopo. E a New York le cose rischiarono di andare più o meno allo stesso modo.
Sono le nove e trenta, è il dieci maggio del duemilasei. L’avvocato di Coppola si era svegliato da poco. Coppola aveva già sfogliato una rivista. Lui era a Torino, il suo avvocato a Roma, l’albergo era a New York. Quell’albergo sulla rivista era “mattone vero”, come dice lui; e poi costava settanta milioni di euro. E per lui, quella cifra, non era quasi nulla. Coppola voleva subito quell’albergo, voleva almeno un piano, si accontentava pure dell’attico. L’avvocato non capiva, anche perché era ancora molto presto. Coppola si fermò un attimo, ci pensò su e prima di riattaccare disse al telefono di avere un amico che, anche se era nato a Dublino, in quei giorni si trovava a New York. Non era un tycoon, non era un banchiere, ma era un cantante e si chiamava Bono. (Il cantante degli U2 ha ottime conoscenze tra i palazzinari e i costruttori del Nord America).
Fu proprio in quei giorni che Danilo Coppola aveva capito che così, al telefono, non poteva più parlare. Aveva capito che il suo Samsung (l’aggettivo che accompagnava la marca del suo telefono era oltre che “cazzo” anche “cesso”) aveva qualcosa che non andava. Ma il telefono non c’entrava nulla, quello era sempre una bomba. Coppola, però, sapeva che qualcuno lo stava intercettando.
Sono le sette e trenta, siamo ancora a maggio, Coppola è già sveglio (più di quattro o cinque ore a notte Coppola non dorme mai) e si trova nella sua casa di Grottaferrata. Nella zona di Finocchio, Coppola aveva un amico che lavorava alla Telecom. All’amico aveva chiesto un favore: se sai qualcosa su di me fammi sapere. Quel giorno la finanza, alle sette di mattina, inizia a tenere sotto controllo il suo telefono. La richiesta parte ufficialmente. Mezz’ora dopo, alle sette e trenta, Coppola riceve da un impiegato Telecom quattro squilli sul cellulare. Quello era il segnale per Danilo. Nelle settimane successive, Coppola, chiama chiunque; chiama gli amici, chiama gli avvocati, chiama i collaboratori, chiama i suoi soci, scrive alle agenzie, chiama anche Marco Tronchetti Provera, ma poi, dopo i quattro squilli, Coppola impugna il telefono, tasto verde e poi tre numeri: uno poi uno e poi nove. Danilo Coppola era furioso, doveva parlare con qualcuno, così non andava, così non poteva neppure lavorare, doveva risolvere la situazione e andava bene tutto per farlo. Andava bene pure il 119, il servizio clienti di Telecom Italia: buongiorno, come posso aiutarla?
Ma tra l’amicizia con Bono, la simpatia (non ricambiata) per Massimo D’Alema (Coppola, però, vota a destra), tra i memorabili pranzi lombrosiani con Lerner e tra la Roma, Mas, i telefonini e il 119, Danilo Coppola diceva sempre che un borgataro di Finocchio non poteva che essere guardato male, credeva che Luca Cordero di Montezemolo ce l’avesse con lui e che tutti i giornali lo avessero preso di mira. E questo lo fece capire, con una certa insistenza, in una storica telefonata a Claudio Gatti, giornalista del Sole 24 Ore, autore di un’inchiesta su Danilo Coppola (in un’intervista a Prima Comunicazione, Coppola ricorda che il pezzo di Gatti, annunciato come primo di una serie di articoli, in realtà si fermò lì, anche perché, dice Coppola “dopo aver parlato con De Bortoli lui stesso mi aveva detto che si era sbagliato sul mio conto”). Coppola era davvero convinto che i giornali lo volessero far fuori da tutti i giochi, pensava di essere scomodo dalle parti di Mediobanca e sapeva che quello che serviva, a lui, era un giornale tutto suo. Il suo compagno di scalate, Stefano Ricucci ci provò con Rcs (il cognato di Ricucci era un collaboratore di Coppola e Coppola in quei giorni fu sospettato di essere dietro alla scalata al Corriere), ma il piccolo colpo di Coppola fu l’ingresso con il diciotto per cento nel capitale di Editori per la Finanza, il gruppo a cui fa capo Finanza e Mercati (anche se, nello stesso giornale, nessuno ha mai capito davvero che cosa c’entrasse Coppola con l’editoria).
Una delle case più belle di Coppola è certamente quella di Grottaferrata. Coppola aveva da poco comprato anche una chiesa sconsacrata a Frascati, ma la casa che preferiva era però quella più a sud, quella costruita sui resti di un’antica villa del Console Lucullo, la stessa villa descritta nel volume “Il libro nero di Roma antica” come “una villa di Tuscolo, sita nel mezzo di una tenuta tipo latifondo e da dove sgorgano le acque Appia, Tepula e Virgo le quali, a mezzo di acquedotti, sono diventate pellegrine molto gradite dai Romani”. Ecco, lì sotto Danilo Coppola ha costruito un bellissimo garage.
Claudio Cerasa
21/04/07
mercoledì 18 aprile 2007
Il Foglio. Margherita under 35. Franceschielli contro Cicoria Boys La guerra dei giovanissimi capi coinvolge le loro giovanili truppe
Roma Nel futuro del futuro Partito democratico oltre ai pur sempre giovanissimi Walter Veltroni (51 anni), Francesco Rutelli (52 anni), Piero Fassino (57 anni), Dario Franceschini (49 anni), Massimo D’Alema (quasi 58 anni) e Enrico Letta (40 anni), ci sono alcuni giovani – incredibilmente ancor più giovani della giovanissima classe dirigente dell’Ulivo – che hanno iniziato una silenziosa battaglia per evitare che il grande salto generazionale del Pd non arrivi tra una decina di altri grandi salti generazionali. E questo succede soprattutto nella Margherita, dove allo scontro tra franceschiniani e rutelliani si va ad aggiungere una crescita costante della componente Enricolettiana. Quindi: da una parte si trovano i giovani vicini al capogruppo della Camera, quelli che – per il futuro Partito democratico – parlano di un accordo segreto tra Franceschini e D’Alema (“con D’Alema presidente del Pd e Franceschini segretario”, ammettono alcuni franceschiniani), quelli che ricordano che da quando è partito il conto alla rovescia per il Pd, le riunioni “sono diventate delle sedute spiritiche di gruppo dove l’unico scopo è quello di far capire chi è il più democristiano tra tutti i democristiani”; dall’altra, invece, ci sono i rutelliani (affettuosamente chiamati dai franceschiniani Cicoria Boys, che ricambiano chiamandoli Franceschielli) che fanno notare come il giovane Franceschini abbia in realtà solo tre anni in meno del vecchio Rutelli, gli stessi che sugli ultimi tre mesi di Margherita dicono: “Abbiamo fatto un fiore e c’abbiamo cagato sopra” e gli stessi convinti che la vera battaglia tra i Dl si sia in realtà sviluppata nell’ultimo anno attorno a due problemi chiave: le presenze televisive di Antonello Soro (i franceschiniani lo vorrebbero di più in televisione, i rutelliani ringraziano il cielo che in televisione non ci vada mai) e la gestione finanziaria del tesoriere Luigi Lusi (raccontano che gli ex Ppi si siano lamentati in maniera piuttosto decisa sia per il modo in cui il tesoriere della Margherita ha gestito la distribuzione dei telefonini aziendali e sia per la flessibilità relativa ai rimborsi spese “tutta a vantaggio dei rutelliani”).
Fatto un fiore, ci abbiamo c… sopra
La situazione, a pochi giorni dal congresso di Cinecittà, è questa. I nomi più importanti che certamente avranno un peso nel futuro del futuro Partito democratico sono Gianluca Lioni (vicepresidente vicario dei giovani, in quota Franceschini), Luigi Madeo (segretario organizzativo dei giovani della Margherita, in quota Marini), Luciano Nobili (coordinatore dell’esecutivo, in quota Rutelli, che viene maliziosamente ricordato da qualcuno per essere stato l’autore di uno dei più apprezzati reclutamenti rosa, dato che due anni fa fu lui che portò alla Margherita un volto pesante come Flavia Vento) e infine Pina Picierno (venticinque anni, in quota Ciriaco De Mita e numero uno dei giovani Dl). Ma le cose in realtà non sono così semplici come potrebbero sembrare, specie dopo l’uragano scatenato tre giorni prima della manifestazione sui Dico di piazza Farnese, poco più di un mese fa. E’ il dieci marzo, Pina Picierno (eletta due anni fa in un congresso finito con un “buffoni, buffoni”), non ha resistito al fascino delle agenzie, ha aperto il computer e poche ore prima della manifestazione ha scritto: “Io ci sarò”, dove quell’“Io” si concedeva a una duplice interpretazione: “Io, Pina, vado a piazza Farnese”, e poi “Io, presidente dei giovani della Margherita, vado alla manifestazione”. Ovviamente la prima interpretazione non ha avuto alcun risalto e quando le agenzie hanno riportato che “i giovani della Margherita dicono sì alla manifestazione sui Dico”, gli altri giovani della Margherita non hanno gradito affatto; e da quel giorno, tra i piccoli Dl, è iniziato il rompete le righe. Con i giovani franceschiniani molto attivi nel sostenere il lavoro di Nicodemo Oliviero e Antonello Giacomelli, cioè i due uomini che a Cinecittà, dovranno reclutare il maggior numero di delegati per gli ex Ppi; con i lettiani sempre più in crescita all’interno dell’associazione Ideura (tra di loro, il giovane più conosciuto è Carmine Pacente 28 anni, responsabile alle politiche comunitarie della Margherita) e con i giovani rutelliani che se da un lato iniziano a sentirsi sempre più a rischio veltronizzazione (in tanti si sono preoccupati per le parole del giovane sindaco di Roma, Walter Veltroni, che dopo l’elezione di Riccardo Milana a coordinatore romano della Margherita ha detto: “Abbiamo molti obiettivi da raggiungere, soprattutto insieme”), dall’altro, i piccoli rutelliani non ne possono più di sentirsi recitare a memoria il Corrado Guzzanti che cinque anni fa imitava l’attuale vicepremier romano (quello che diceva “So’ arrabbiato, so’ molto arrabbiato. So’ amareggiato, so’ molto amareggiato. Perché siamo tutti sulla stessa barca, mannaggia oh, o qui remiamo tutti insieme o qui si affonda, perché se ci mettiamo a remare tutti attorno se va a fondo come un sercio, basta remà contro” e che poi concludeva lo sketch dicendo “Berlusconi ricordati degli amici”). Anche se poi, più che in Corrado Guzzanti, sono molti i rutelliani che per riassumere lo stato d’animo con cui si avvicinano all’ultimo congresso della Margherita, concordano con le parole di Matteo Renzi, rutelliano assai quotato, trentadue anni, presidente della provincia di Firenze: “Tutto avrei immaginato – dice al Foglio Renzi, con ironia – tranne che la soluzione per il nuovo Partito democratico, per uno della Margherita e dopo sette anni di Ulivo, fosse arrivare a trovarsi di fronte a una grande scelta di questo tipo: o diventiamo tutti dalemiani oppure tutti veltroniani”. “A saperlo prima – aggiunge un anonimo rutelliano che condivide le preoccupazioni di Renzi – ci saremmo iscritti direttamente ai Ds”.
Claudio Cerasa
18/04/07
Fatto un fiore, ci abbiamo c… sopra
La situazione, a pochi giorni dal congresso di Cinecittà, è questa. I nomi più importanti che certamente avranno un peso nel futuro del futuro Partito democratico sono Gianluca Lioni (vicepresidente vicario dei giovani, in quota Franceschini), Luigi Madeo (segretario organizzativo dei giovani della Margherita, in quota Marini), Luciano Nobili (coordinatore dell’esecutivo, in quota Rutelli, che viene maliziosamente ricordato da qualcuno per essere stato l’autore di uno dei più apprezzati reclutamenti rosa, dato che due anni fa fu lui che portò alla Margherita un volto pesante come Flavia Vento) e infine Pina Picierno (venticinque anni, in quota Ciriaco De Mita e numero uno dei giovani Dl). Ma le cose in realtà non sono così semplici come potrebbero sembrare, specie dopo l’uragano scatenato tre giorni prima della manifestazione sui Dico di piazza Farnese, poco più di un mese fa. E’ il dieci marzo, Pina Picierno (eletta due anni fa in un congresso finito con un “buffoni, buffoni”), non ha resistito al fascino delle agenzie, ha aperto il computer e poche ore prima della manifestazione ha scritto: “Io ci sarò”, dove quell’“Io” si concedeva a una duplice interpretazione: “Io, Pina, vado a piazza Farnese”, e poi “Io, presidente dei giovani della Margherita, vado alla manifestazione”. Ovviamente la prima interpretazione non ha avuto alcun risalto e quando le agenzie hanno riportato che “i giovani della Margherita dicono sì alla manifestazione sui Dico”, gli altri giovani della Margherita non hanno gradito affatto; e da quel giorno, tra i piccoli Dl, è iniziato il rompete le righe. Con i giovani franceschiniani molto attivi nel sostenere il lavoro di Nicodemo Oliviero e Antonello Giacomelli, cioè i due uomini che a Cinecittà, dovranno reclutare il maggior numero di delegati per gli ex Ppi; con i lettiani sempre più in crescita all’interno dell’associazione Ideura (tra di loro, il giovane più conosciuto è Carmine Pacente 28 anni, responsabile alle politiche comunitarie della Margherita) e con i giovani rutelliani che se da un lato iniziano a sentirsi sempre più a rischio veltronizzazione (in tanti si sono preoccupati per le parole del giovane sindaco di Roma, Walter Veltroni, che dopo l’elezione di Riccardo Milana a coordinatore romano della Margherita ha detto: “Abbiamo molti obiettivi da raggiungere, soprattutto insieme”), dall’altro, i piccoli rutelliani non ne possono più di sentirsi recitare a memoria il Corrado Guzzanti che cinque anni fa imitava l’attuale vicepremier romano (quello che diceva “So’ arrabbiato, so’ molto arrabbiato. So’ amareggiato, so’ molto amareggiato. Perché siamo tutti sulla stessa barca, mannaggia oh, o qui remiamo tutti insieme o qui si affonda, perché se ci mettiamo a remare tutti attorno se va a fondo come un sercio, basta remà contro” e che poi concludeva lo sketch dicendo “Berlusconi ricordati degli amici”). Anche se poi, più che in Corrado Guzzanti, sono molti i rutelliani che per riassumere lo stato d’animo con cui si avvicinano all’ultimo congresso della Margherita, concordano con le parole di Matteo Renzi, rutelliano assai quotato, trentadue anni, presidente della provincia di Firenze: “Tutto avrei immaginato – dice al Foglio Renzi, con ironia – tranne che la soluzione per il nuovo Partito democratico, per uno della Margherita e dopo sette anni di Ulivo, fosse arrivare a trovarsi di fronte a una grande scelta di questo tipo: o diventiamo tutti dalemiani oppure tutti veltroniani”. “A saperlo prima – aggiunge un anonimo rutelliano che condivide le preoccupazioni di Renzi – ci saremmo iscritti direttamente ai Ds”.
Claudio Cerasa
18/04/07
sabato 14 aprile 2007
Il Foglio. "I dragoni invisibili. Le nostre Chinatown. Da Milano a Roma, storie di esistenze inafferrabili e di traffici poco conosciuti"
Zhu aveva comprato un passaporto
falso, aveva passato otto settimane
in Ucraina, aveva dormito sulle mattonelle
della Slovenia, era stato sequestrato,
venduto, bendato e poi trascinato
su un pulmino al confine con l’Italia,
a pochi chilometri da Trieste. Tredici
dei suoi compagni, a quel punto del
viaggio, erano già morti. Zhu aveva
aspettato due anni prima di arrivare a
Milano. Aveva pagato venticinquemila
euro e aveva dormito in una casa senza
acqua, senza elettricità e senza finestre.
Passa una settimana, ne passa un’altra
e un’altra ancora. Alla quarta, Zhu viene
preso e portato via. Altra casa, altro
sequestro. Zhu, però, sapeva che funzionava
così. Sapeva che per arrivare in
Italia ci volevano due anni e sapeva che
per arrivare in Italia ci volevano i sequestri.
Tu paghi, poi un modo per arrivare
in Italia lo si trova. O almeno, così
gli avevano detto. In pochi mesi, Zhu,
aveva attraversato mezza Europa, aveva
visto le strade dell’Ungheria, della Romania,
della Slovenia, dell’Ucraina.
Zhu, come tutti i cinesi che arrivano da
clandestini nelle Chinatown di Roma,
di Prato, di Firenze e di Milano, sapeva
perfettamente che i quattro signori a
cui aveva consegnato i suoi soldi erano
quattro criminali. Sapeva che per partire
da Qin Tien, per scappare dalla regione
dello Zhejiang, funzionava sempre
allo stesso modo: cinquemila euro
per partire, quindicimila per arrivare.
Sapeva tutto. Ma sapeva soprattutto che
la regola, quando si arriva in Italia, è
sempre la stessa: silenzio. Non si parla,
non si protesta, non si litiga, si lavora e
basta. Niente scazzottate, niente risse,
niente pugni, niente disordini. La polizia
deve sapere il meno possibile, gli
avevano detto. Fino a due giorni fa, prima
del corteo, prima della rissa, prima
delle bandiere rosse, prima dei feriti e
prima dei disordini di via Sarpi (a Milano),
dei cinesi in Italia non si era mai
parlato per scontri con la polizia. Al
massimo, sui giornali, erano finiti i soliti
aborti clandestini, i soliti cinesi che
non muoiono mai, i soliti laboratori che
non sono mai in regola. Da giovedì,
però, qualcosa rischia di cambiare davvero.
Perché i cinesi scesi in strada erano
per lo più commercianti, non certo
criminali nè trafficanti, nè spacciatori.
Ma se i cinesi di Milano hanno scelto di
esporsi è anche perché l’equilibrio delle
comunità straniere italiane non è
più quello di prima. Ora c’è più sicurezza
di sè. E questo vale, naturalmente,
anche per quella criminalità organizzata
che negli ultimi sette anni non ha
mai smesso di crescere. Soprattutto a
Milano. E soprattutto grazie al traffico
dei clandestini come Zhu.
Per arrivare in Italia, tra i clandestini,
c’è chi è costretto a passare dalla Slovenia,
chi dall’Adriatico, chi dai Balcani e
chi dalla Puglia. Il 95 per cento dei cinesi
arriva da una zona a sud di Shangai
che si chiama Zhejiang. Un’area che, da
sola, conta poco più di quarantacinque
milioni di abitanti. Le città principali sono
When Zhou e Qin Tien, la città di Zhu.
Quando Zhu era partito da Qin Tien e
quando Xiao gli aveva detto: “tu in Italia
sarai uno schiavo”, Zhu sapeva che Xiao
non scherzava affatto. Zhu aveva attraversato
tutta l’Europa orientale ed era
arrivato al confine con l’Italia. Fino a
Trieste. Ma a Trieste non c’era nessuno
che potesse pagare il suo riscatto. Ogni
anno, anche grazie a quei quindicimila
euro pagati alla fine del viaggio e grazie
ai diecimila euro di pedaggio alla partenza,
la criminalità cinese incassa fino
a sessanta milioni di euro tra traffico
d’armi, droga, laboratori abusivi, sfruttamento
sessuale e trasporto di clandestini.
In tutto fanno quasi cinque milioni di
euro al mese. E un modo per far arrivare
quei soldi in Cina lo si trova sempre.
Dal duemilauno al duemilacinque, la
comunità cinese in Italia è passata da 46
mila persone a 111.712. Questo significa
che – in quattro anni – il numero dei cinesi
è aumentato quasi del centoquaranta
per cento. Lo scorso anno i cinesi
sono aumentati ancora (ora sono circa
120 mila) e sono diventati – dopo albanesi,
marocchini e rumeni – la comunità
straniera più forte d’Italia e una delle
più pericolose (e più invisibili) anche
per quanto riguarda la criminalità organizzata;
e non è certo un caso che – pur
crescendo sempre a ritmi impressionanti
– la criminalità organizzata ha sempre
rispettato la regola del silenzio; ed è
proprio per questo che prima dei disordini
di Milano, una delle pochissime risse
registrate tra cinesi era stata quella
scoppiata a Milano, in via Morazzone, a
quattro chilometri da Piazza del Duomo.
Ci furono dieci arrestati e tre minorenni
denunciati. Era il quattro gennaio. Da
quel giorno, tra morti sospette, idiomi
complessi e una serie di storie umane il
più delle volte inafferrabili, per l’antimafia
italiana il quadro della criminalità
cinese ha iniziato a essere sempre
più chiaro, soprattuto a Milano e a Roma.
E questa è la situazione descritta
anche dalle forze dell’ordine.
La nuova criminalità.“La criminalità
cinese si nasconde. Non si mostra, è attenta,
calibra tutte le sue mosse. Sembra
non esistere, o almeno fa di tutto per
non apparire. Per tessere le sue trame
malavitose, all’interno della sua comunità,
cerca di non entrare eccessivamente
nelle aree di influenza delle altre
bande organizzate”, racconta al Foglio
Alberto Intini, capo del personale della
squadra mobile di Roma.
Secondo l’ultimo rapporto nazionale
sulla criminalità cinese sul territorio italiano,
nei processi di immigrazione dei
cinesi verso l’Italia “gli intrecci con i
flussi finanziari sono maggiori rispetto a
qualsiasi altra forma di immigrazione
clandestina esistente”. Significa che non
esiste nessuno straniero, in Italia, capace
di spostare così tanto denaro come i
cinesi. Un viaggio clandestino, di media,
costa dagli ottomila ai ventimila euro.
Un viaggio che è clandestino nella sostanza
ma che – molto spesso – è legale
nella forma, dato che l’ingresso in Italia
(o nei paesi confinanti) viene favorito
dalle richieste di manodopera di quelle
ditte cinesi che in Italia già esistono da
un po’. Il permesso di soggiorno arriva
proprio grazie alle continue assunzioni
e al continuo ricambio di personale. Nove
assunzioni su dieci non superano mai
i trenta giorni. E trenta giorni sono più
che sufficienti per far sì che i clandestini
non siano più tali. Con Zhu è andata
più o meno così; era arrivato in Italia
con un passaporto vero, l’organizzazione
criminale lo aveva sequestrato e lo aveva
venduto per cinquemila euro a un’altra
organizzazione, e aveva usato sempre
lo stesso trucco. I passaporti per i clandestini
sono sempre gli stessi, per tutti i
viaggi. Si arriva al confine con l’Italia, si
restituisce il passaporto ed è in quel momento
si diventa davvero clandestini,
non prima. Sul passaporto, le foto sono
sempre le stesse e alla frontiera non se
ne accorge quasi nessuno. E non è uno
scherzo. A volte capita però che chi parte
dalla Cina abbia qualche soldo in più,
e in quel caso l’organizzazione criminale
dà la possibilità di scegliere tra un’identità
coreana, una giapponese e una
malese. Sono questi i passaporti più sicuri
ed è con questi passaporti che è
possibile transitare senza troppi problemi
e senza aver la necessità di avere un
visto nell’area Schengen. Una volta arrivati
al confine con l’Italia, i passaporti
vengono fatti rientrare in Cina. Dal duemilaquattro,
dopo l’accordo turistico tra
Unione europea e Cina, sui passaporti
che tornano in Cina i visti di reingresso
sono diventati obbligatori. Ma questo
non vale, ovviamente, se i passaporti tornano
in Cina chiusi dentro una valigia,
senza i proprietari di quei passaporti.
Il rapimento. La prima parte del viaggio
di Zhu si ferma a Kiev. E’ a Kiev che
si formano i gruppi che verranno affidati
alle nuove organizzazioni. Una per l’Italia,
una per la Slovenia, una per l’Ungheria,
una per la Serbia, una per la
Croazia, e una per la Romania. Chiunque
arrivi via terra dalla Cina si ferma
qui. Si aspetta qualche settimana poi
per qualcuno arriva il trasferimento.
Per qualcuno altro, invece, arriva il rapimento.
Uno degli incubi di Kiev e uno
degli incubi dei clandestini dell’Europa
centrale si chiamava Loncaric Josip. Josip
era a capo di un’organizzazione composta
da circa duecento persone e proprio
grazie ai sequestri era riuscito ad
acquistare una compagnia aerea a Tirana.
Loncaric Josip è stato arrestato a
Trieste sei anni fa. Il secondo arriva in
Italia; quando i clandestini devono affrancarsi
e pagare un riscatto che gli
permetta di entrare nel paese. Il costo
del riscatto è tra i dodicimila e i quindicimila
euro. A Milano, da una dozzina di
anni, la direzione investigativa antimafia
ha registrato un forte aumento dei
sequestri all’interno della comunità cinese.
I sequestri hanno quasi tutti la
stessa funzione. Chi non paga la quota
di ingresso non è libero di vivere in Italia
ed è costretto a lavorare – anche per
anni – per i propri sequestratori. Chi ha
i soldi è libero, ma solo a una condizione:
si paga in contanti, le transazioni sono
troppo pericolose.
La valigia e la transazione. Da un’indagine
svolta nel duemiladue all’interno
dell’aeroporto romano di Fiumicino, è
stato scoperto che nella quota complessiva
di trasporto di denaro illecito dall’Italia
all’estero, in trentaquattro casi su
cento a commettere il reato è stato un cinese.
La scena è la stessa dei film: valigetta
nera e banconote. Le transazioni
bancarie, come detto, sono piuttosto rare
e le si ritrovano soltanto quando si effettuano
“importazioni di merce”. L’ufficio
che si occupa della ricezione e dell’approfondimento
sul piano finanziario
delle segnalazioni delle operazioni sospette
(come previsto dalla legge antiriciclaggio
del 1991) è – da dieci anni –
l’Uic, l’ufficio italiano cambi. Dal giugno
del millenovecentonovantasette, il decreto
legislativo numero centoventicinque
prevede che i trasferimenti di denaro,
di titoli e di valori mobiliari di importo
superiore ai 12.500 euro devono essere
sempre dichiarati. Nei suoi primi
cinque anni di attività, su 23.500 segnalazioni
di operazioni sospette, l’Uic ne ha
riscontrate circa trecentosessanta riguardanti
la Cina. Il Marocco, che dal
1997 al 2001 era la comunità straniera
più presente in Italia, aveva appena
quindici segnalazioni in più. In quegli
anni la comunità cinese era ancora la
quinta comunità più grande d’Italia.
I rapporti bancari analizzati dai rapporti
dell’ufficio cambi risultano alimentati
– per quanto riguarda la Cina –
da continui versamenti in contanti. Gli
importi prelevati (o depositati) hanno
per lo più un valore unitario: cento milioni
di lire prima, centomila euro ora.
Sono queste cifre, sempre precise e
sempre uguali che hanno fatto scattare
i primi campanelli d’allarme all’ufficio
cambi. Il denaro cinese dall’Italia arriva
soprattutto nella provincia dello
Zhejiang e nelle filiali delle banche cinesi
di Wenzhou. Da questa zona provengono
quasi tutti i cinesi residenti in
Italia; e, quindi, proprio in questa zona
l’ufficio cambi si aspetterebbe di riscontrare
un rilevante flusso di contanti,
indirizzato verso le famiglie d’origine.
Ci si aspetterebbe una grande attività
di ricezione da parte della banche
o da parte dei money transfer. Questo
flusso è però assolutamente irrilevante.
E c’è di più: le dichiarazioni dei movimenti
in entrata e quelli in uscita non
sono affatto equilibrate, dato che i movimenti
in entrata (in Italia) superano
di gran lunga quelli in uscita. Semmai
dovrebbe essere il contrario. Il dato ha
poi un rilievo considerevole dato che
sul totale delle rimesse cinesi da e verso
la Cina lo scarto presente nel 2005 –
in Italia – tra debiti ed entrate è quello
più sproporzionato tra tutti i paesi del
mondo. Per capire: ogni diciannove milioni
di euro arrivati in Italia, ne torna
indietro solo uno.
Ma il modello della criminalità cinese
in Italia è molto diverso da quello cinese
in Cina. In Cina e a Hong Kong, le triadi
sono ormai state affiancate da gruppi criminali
più snelli, più moderni e più nascosti.
In Italia invece non è affatto così.
La triade cinese è una realtà completamente
autonoma da quella locale.
I veri rapporti con la triade. Nell’operazione
E-Meng portata avanti non molti
mesi fa dai Ros di Milano, è stato riscontrato
l’unico caso accertato di collegamento
tra la criminalità cinese italiana
e la triade cinese. I contatti con l’Italia
e con il nucleo criminale cinese lombardo
avvenivano attraverso una consorteria
chiamata “Società del Sole”. Ed è
proprio a Milano che la criminalità cinese
ha costruito una delle sue strutture
più forti. Sul territorio sono tre i gruppi
di riferimento: i Daxue, i Yu Hu e i Donpei.
Si tratta di piccole bande giovanili
che gravitano tra alcuni centri massaggi
dove, il più delle volte, sono ospitati in
maniera piuttosto informale le prostitute
e i loro clienti. Nell’operazione milanese
“Oro del Dragone” sono stati scoperti
alcuni sistemi parabancari per la
raccolta e lo smistamento del denaro
verso la Cina. In tre anni, solo da Milano,
le operazioni di trasferimento (abusivo)
di denaro hanno portato in Cina qualcosa
come trentuno milioni di euro.
Se Milano rimane l’area più attiva
dal punto di vista della criminalità organizzata
cinese, il distretto che va da
Firenze a Prato è senz’altro il primo polo
cinese dove è stato possibile riconoscere
una delle più importanti triadi
della criminalità cinese. Quella che,
volgarmente, viene chiamata mafia cinese.
In questa zona, l’organizzazione
criminale si è fatta notare dal momento
in cui è riuscita a inserirsi nella microcriminalità
fiorentinta riuscendo a
non pestare i piedi a quella locale. La
più solida realtà criminale della zona è
stata scoperta grazie all’operazione
“Loto Bianco”, una delle più importanti
svolte contro la criminalità cinese
nella provincia di Prato. La strategia
della zona si spiega facilmente, dato
che le armi e i clandestini – prima di
essere smistate nel resto d’Italia – passavano,
fino a qualche anno fa, quasi
sempre da qui. E’ proprio la zona di
Prato, al pari di quella milanese, l’area
criminale cinese più influente nel panorama
europeo. I collegamenti con le
nazioni straniere sono tra i collegamenti
a cui presta più attenzione la polizia
italiana. Soprattutto per il traffico dei
clandestini che viaggiano tra l’Italia e
Parigi. Il nome più conosciuto dalla polizia
locale è quello di Chen Chi Hwu.
Il caso di Roma. Il primo procedimento
contro la criminalità cinese romana è
arrivato nel corso degli anni Novanta
contro l’associazione “Testa di Tigre”,
un’associazione specializzata nel controllo
delle attività commerciali cinesi
attraverso estorsioni, sequestri e controllo
di immigrazione clandestina. Il
principale imputato, allora, era il rappresentante
cinese della comunità,
Zhou Yi Ping. Nel corso della campagna
elettorale della comunità cinese romana
contro Liao Zhou Lin, Ping si servì anche
del gruppo armato che faceva capo
a Zhang Zhi. Ping operava all’interno
della storica Chinatown romana: zona
Esquilino, Piazza Vittorio, dove oltre ai
negozi, ai ristoranti, alle botteghe, i cinesi
hanno da pochi mesi avuto la possibilità
di usufruire di un tempio buddista,
a pochi passi dall stazione Termini.
I residenti cinesi ufficiali presenti a
Roma sono poco più di ottomila e quasi
quarantamila si trovano nell’area della
provincia.
Antonio Dong, presidente dell’associazione
dei commercianti cinesi di Roma
e per anni punto di riferimento dei
cinesi nella capitale, da diversi mesi
porta avanti un progetto nella zona di
Tor Cervara che dovrebbe far da tramite
tra gli imprenditori italiani e quelli
cinesi. Proprio nella zona di Tor Cervara,
periferia romana, dodici chilometri a
sud della Stazione Termini, i cinesi stanno
comprando nuove strutture. A dicembre
duemilacinque, sempre in questa
zona, la squadra mobile di Roma ha portato
a termine importanti blitz in laboratori
clandestini di tessuti – soprattutto
nella zona di via dell’Omo – dove gli operai
cinesi venivano sottoposti a durissime
condizioni di sfruttamento. Ma tra gli
arrestati per favoreggiamento si trovano
anche i nomi di molti italiani.
Al contrario di quanto si possa pensare,
Roma pesa meno di Milano all’interno
della realtà criminale cinese in
Italia. Roma, negli ultimi anni, è diventata
più che altro un importante centro
di passaggio. Sia per i clandestini diretti
verso gli Stati Uniti, sia per il denaro
da mandare in Cina. Oltre agli intermediari
con la valigetta nera, lo scorso anno
la direzione distrettuale antimafia
all’interno dell’“Operazione Ultimo Imperatore”
ha scoperto che la società
“Centrale Fiduciaria” gestita da Marco
Quadri e Giuseppe Scognamiglio era il
più importante centro di smistamento
di denaro verso la Cina. I soldi che venivano
spediti, illegalmente, in Cina arrivavano
direttamente da evasione fiscale,
violazioni doganali, contrabbando e
contraffazione. Quadri e Scognamiglio
sono stati poi arrestati.
A Roma, proprio nella zona di Tor
Cervara – la zona in cui il famoso imprenditore
Dong (che a Roma ha una
nota farmacia a pochi metri da via Marmorata)
– sembra si stia sviluppando
una forte struttura di smistamento di
merce contraffatta. Per i cinquecento
mila container provenienti ogni anno
dalla Cina in Italia, Roma è uno snodo
fondamentale dato che il nostro paese,
da solo, ha in pancia quasi il nove per
cento dell’intero mercato del contrabbando
mondiale. E la squadra mobile di
Roma, da moltissimi mesi, tiene ormai
sotto stretta osservazione alcuni capannoni
sospetti, dove ogni mattina si assiste
alla stessa scena: alle sei e trenta arrivano
i tir, i tir si fermano di fronte a un
capannone e dal capannone escono
moltissimi cinesi che in pochi minuti
svuotano una quantità tale di merce difficilmente
giustificabile con le dimensioni
del capannone. Troppo piccolo il
capannone, troppo grandi e troppo carichi
i tir. E proprio tra quei capannoni
potrebbero trovarsi le più importanti
strutture di smistamento della merce di
contrabbando (cinese) in Italia. Il contrabbando
– va ricordato – non è nulla
se confrontato con le cifre che girano attorno
al traffico di immigrati. Tremilacinquecento
euro per un permesso di
soggiorno falso, duecentocinquantamila
euro per ogni gruppo di clandestini e
sessanta milioni di euro all’anno raccolti,
nascosti e spediti illegalmente in Cina.
Anche se poi i soldi, i passaporti e i
clandestini come Zhu, dalla dogana ufficialmente
non sono mai passati.
Claudio Cerasa
14/04/07
falso, aveva passato otto settimane
in Ucraina, aveva dormito sulle mattonelle
della Slovenia, era stato sequestrato,
venduto, bendato e poi trascinato
su un pulmino al confine con l’Italia,
a pochi chilometri da Trieste. Tredici
dei suoi compagni, a quel punto del
viaggio, erano già morti. Zhu aveva
aspettato due anni prima di arrivare a
Milano. Aveva pagato venticinquemila
euro e aveva dormito in una casa senza
acqua, senza elettricità e senza finestre.
Passa una settimana, ne passa un’altra
e un’altra ancora. Alla quarta, Zhu viene
preso e portato via. Altra casa, altro
sequestro. Zhu, però, sapeva che funzionava
così. Sapeva che per arrivare in
Italia ci volevano due anni e sapeva che
per arrivare in Italia ci volevano i sequestri.
Tu paghi, poi un modo per arrivare
in Italia lo si trova. O almeno, così
gli avevano detto. In pochi mesi, Zhu,
aveva attraversato mezza Europa, aveva
visto le strade dell’Ungheria, della Romania,
della Slovenia, dell’Ucraina.
Zhu, come tutti i cinesi che arrivano da
clandestini nelle Chinatown di Roma,
di Prato, di Firenze e di Milano, sapeva
perfettamente che i quattro signori a
cui aveva consegnato i suoi soldi erano
quattro criminali. Sapeva che per partire
da Qin Tien, per scappare dalla regione
dello Zhejiang, funzionava sempre
allo stesso modo: cinquemila euro
per partire, quindicimila per arrivare.
Sapeva tutto. Ma sapeva soprattutto che
la regola, quando si arriva in Italia, è
sempre la stessa: silenzio. Non si parla,
non si protesta, non si litiga, si lavora e
basta. Niente scazzottate, niente risse,
niente pugni, niente disordini. La polizia
deve sapere il meno possibile, gli
avevano detto. Fino a due giorni fa, prima
del corteo, prima della rissa, prima
delle bandiere rosse, prima dei feriti e
prima dei disordini di via Sarpi (a Milano),
dei cinesi in Italia non si era mai
parlato per scontri con la polizia. Al
massimo, sui giornali, erano finiti i soliti
aborti clandestini, i soliti cinesi che
non muoiono mai, i soliti laboratori che
non sono mai in regola. Da giovedì,
però, qualcosa rischia di cambiare davvero.
Perché i cinesi scesi in strada erano
per lo più commercianti, non certo
criminali nè trafficanti, nè spacciatori.
Ma se i cinesi di Milano hanno scelto di
esporsi è anche perché l’equilibrio delle
comunità straniere italiane non è
più quello di prima. Ora c’è più sicurezza
di sè. E questo vale, naturalmente,
anche per quella criminalità organizzata
che negli ultimi sette anni non ha
mai smesso di crescere. Soprattutto a
Milano. E soprattutto grazie al traffico
dei clandestini come Zhu.
Per arrivare in Italia, tra i clandestini,
c’è chi è costretto a passare dalla Slovenia,
chi dall’Adriatico, chi dai Balcani e
chi dalla Puglia. Il 95 per cento dei cinesi
arriva da una zona a sud di Shangai
che si chiama Zhejiang. Un’area che, da
sola, conta poco più di quarantacinque
milioni di abitanti. Le città principali sono
When Zhou e Qin Tien, la città di Zhu.
Quando Zhu era partito da Qin Tien e
quando Xiao gli aveva detto: “tu in Italia
sarai uno schiavo”, Zhu sapeva che Xiao
non scherzava affatto. Zhu aveva attraversato
tutta l’Europa orientale ed era
arrivato al confine con l’Italia. Fino a
Trieste. Ma a Trieste non c’era nessuno
che potesse pagare il suo riscatto. Ogni
anno, anche grazie a quei quindicimila
euro pagati alla fine del viaggio e grazie
ai diecimila euro di pedaggio alla partenza,
la criminalità cinese incassa fino
a sessanta milioni di euro tra traffico
d’armi, droga, laboratori abusivi, sfruttamento
sessuale e trasporto di clandestini.
In tutto fanno quasi cinque milioni di
euro al mese. E un modo per far arrivare
quei soldi in Cina lo si trova sempre.
Dal duemilauno al duemilacinque, la
comunità cinese in Italia è passata da 46
mila persone a 111.712. Questo significa
che – in quattro anni – il numero dei cinesi
è aumentato quasi del centoquaranta
per cento. Lo scorso anno i cinesi
sono aumentati ancora (ora sono circa
120 mila) e sono diventati – dopo albanesi,
marocchini e rumeni – la comunità
straniera più forte d’Italia e una delle
più pericolose (e più invisibili) anche
per quanto riguarda la criminalità organizzata;
e non è certo un caso che – pur
crescendo sempre a ritmi impressionanti
– la criminalità organizzata ha sempre
rispettato la regola del silenzio; ed è
proprio per questo che prima dei disordini
di Milano, una delle pochissime risse
registrate tra cinesi era stata quella
scoppiata a Milano, in via Morazzone, a
quattro chilometri da Piazza del Duomo.
Ci furono dieci arrestati e tre minorenni
denunciati. Era il quattro gennaio. Da
quel giorno, tra morti sospette, idiomi
complessi e una serie di storie umane il
più delle volte inafferrabili, per l’antimafia
italiana il quadro della criminalità
cinese ha iniziato a essere sempre
più chiaro, soprattuto a Milano e a Roma.
E questa è la situazione descritta
anche dalle forze dell’ordine.
La nuova criminalità.“La criminalità
cinese si nasconde. Non si mostra, è attenta,
calibra tutte le sue mosse. Sembra
non esistere, o almeno fa di tutto per
non apparire. Per tessere le sue trame
malavitose, all’interno della sua comunità,
cerca di non entrare eccessivamente
nelle aree di influenza delle altre
bande organizzate”, racconta al Foglio
Alberto Intini, capo del personale della
squadra mobile di Roma.
Secondo l’ultimo rapporto nazionale
sulla criminalità cinese sul territorio italiano,
nei processi di immigrazione dei
cinesi verso l’Italia “gli intrecci con i
flussi finanziari sono maggiori rispetto a
qualsiasi altra forma di immigrazione
clandestina esistente”. Significa che non
esiste nessuno straniero, in Italia, capace
di spostare così tanto denaro come i
cinesi. Un viaggio clandestino, di media,
costa dagli ottomila ai ventimila euro.
Un viaggio che è clandestino nella sostanza
ma che – molto spesso – è legale
nella forma, dato che l’ingresso in Italia
(o nei paesi confinanti) viene favorito
dalle richieste di manodopera di quelle
ditte cinesi che in Italia già esistono da
un po’. Il permesso di soggiorno arriva
proprio grazie alle continue assunzioni
e al continuo ricambio di personale. Nove
assunzioni su dieci non superano mai
i trenta giorni. E trenta giorni sono più
che sufficienti per far sì che i clandestini
non siano più tali. Con Zhu è andata
più o meno così; era arrivato in Italia
con un passaporto vero, l’organizzazione
criminale lo aveva sequestrato e lo aveva
venduto per cinquemila euro a un’altra
organizzazione, e aveva usato sempre
lo stesso trucco. I passaporti per i clandestini
sono sempre gli stessi, per tutti i
viaggi. Si arriva al confine con l’Italia, si
restituisce il passaporto ed è in quel momento
si diventa davvero clandestini,
non prima. Sul passaporto, le foto sono
sempre le stesse e alla frontiera non se
ne accorge quasi nessuno. E non è uno
scherzo. A volte capita però che chi parte
dalla Cina abbia qualche soldo in più,
e in quel caso l’organizzazione criminale
dà la possibilità di scegliere tra un’identità
coreana, una giapponese e una
malese. Sono questi i passaporti più sicuri
ed è con questi passaporti che è
possibile transitare senza troppi problemi
e senza aver la necessità di avere un
visto nell’area Schengen. Una volta arrivati
al confine con l’Italia, i passaporti
vengono fatti rientrare in Cina. Dal duemilaquattro,
dopo l’accordo turistico tra
Unione europea e Cina, sui passaporti
che tornano in Cina i visti di reingresso
sono diventati obbligatori. Ma questo
non vale, ovviamente, se i passaporti tornano
in Cina chiusi dentro una valigia,
senza i proprietari di quei passaporti.
Il rapimento. La prima parte del viaggio
di Zhu si ferma a Kiev. E’ a Kiev che
si formano i gruppi che verranno affidati
alle nuove organizzazioni. Una per l’Italia,
una per la Slovenia, una per l’Ungheria,
una per la Serbia, una per la
Croazia, e una per la Romania. Chiunque
arrivi via terra dalla Cina si ferma
qui. Si aspetta qualche settimana poi
per qualcuno arriva il trasferimento.
Per qualcuno altro, invece, arriva il rapimento.
Uno degli incubi di Kiev e uno
degli incubi dei clandestini dell’Europa
centrale si chiamava Loncaric Josip. Josip
era a capo di un’organizzazione composta
da circa duecento persone e proprio
grazie ai sequestri era riuscito ad
acquistare una compagnia aerea a Tirana.
Loncaric Josip è stato arrestato a
Trieste sei anni fa. Il secondo arriva in
Italia; quando i clandestini devono affrancarsi
e pagare un riscatto che gli
permetta di entrare nel paese. Il costo
del riscatto è tra i dodicimila e i quindicimila
euro. A Milano, da una dozzina di
anni, la direzione investigativa antimafia
ha registrato un forte aumento dei
sequestri all’interno della comunità cinese.
I sequestri hanno quasi tutti la
stessa funzione. Chi non paga la quota
di ingresso non è libero di vivere in Italia
ed è costretto a lavorare – anche per
anni – per i propri sequestratori. Chi ha
i soldi è libero, ma solo a una condizione:
si paga in contanti, le transazioni sono
troppo pericolose.
La valigia e la transazione. Da un’indagine
svolta nel duemiladue all’interno
dell’aeroporto romano di Fiumicino, è
stato scoperto che nella quota complessiva
di trasporto di denaro illecito dall’Italia
all’estero, in trentaquattro casi su
cento a commettere il reato è stato un cinese.
La scena è la stessa dei film: valigetta
nera e banconote. Le transazioni
bancarie, come detto, sono piuttosto rare
e le si ritrovano soltanto quando si effettuano
“importazioni di merce”. L’ufficio
che si occupa della ricezione e dell’approfondimento
sul piano finanziario
delle segnalazioni delle operazioni sospette
(come previsto dalla legge antiriciclaggio
del 1991) è – da dieci anni –
l’Uic, l’ufficio italiano cambi. Dal giugno
del millenovecentonovantasette, il decreto
legislativo numero centoventicinque
prevede che i trasferimenti di denaro,
di titoli e di valori mobiliari di importo
superiore ai 12.500 euro devono essere
sempre dichiarati. Nei suoi primi
cinque anni di attività, su 23.500 segnalazioni
di operazioni sospette, l’Uic ne ha
riscontrate circa trecentosessanta riguardanti
la Cina. Il Marocco, che dal
1997 al 2001 era la comunità straniera
più presente in Italia, aveva appena
quindici segnalazioni in più. In quegli
anni la comunità cinese era ancora la
quinta comunità più grande d’Italia.
I rapporti bancari analizzati dai rapporti
dell’ufficio cambi risultano alimentati
– per quanto riguarda la Cina –
da continui versamenti in contanti. Gli
importi prelevati (o depositati) hanno
per lo più un valore unitario: cento milioni
di lire prima, centomila euro ora.
Sono queste cifre, sempre precise e
sempre uguali che hanno fatto scattare
i primi campanelli d’allarme all’ufficio
cambi. Il denaro cinese dall’Italia arriva
soprattutto nella provincia dello
Zhejiang e nelle filiali delle banche cinesi
di Wenzhou. Da questa zona provengono
quasi tutti i cinesi residenti in
Italia; e, quindi, proprio in questa zona
l’ufficio cambi si aspetterebbe di riscontrare
un rilevante flusso di contanti,
indirizzato verso le famiglie d’origine.
Ci si aspetterebbe una grande attività
di ricezione da parte della banche
o da parte dei money transfer. Questo
flusso è però assolutamente irrilevante.
E c’è di più: le dichiarazioni dei movimenti
in entrata e quelli in uscita non
sono affatto equilibrate, dato che i movimenti
in entrata (in Italia) superano
di gran lunga quelli in uscita. Semmai
dovrebbe essere il contrario. Il dato ha
poi un rilievo considerevole dato che
sul totale delle rimesse cinesi da e verso
la Cina lo scarto presente nel 2005 –
in Italia – tra debiti ed entrate è quello
più sproporzionato tra tutti i paesi del
mondo. Per capire: ogni diciannove milioni
di euro arrivati in Italia, ne torna
indietro solo uno.
Ma il modello della criminalità cinese
in Italia è molto diverso da quello cinese
in Cina. In Cina e a Hong Kong, le triadi
sono ormai state affiancate da gruppi criminali
più snelli, più moderni e più nascosti.
In Italia invece non è affatto così.
La triade cinese è una realtà completamente
autonoma da quella locale.
I veri rapporti con la triade. Nell’operazione
E-Meng portata avanti non molti
mesi fa dai Ros di Milano, è stato riscontrato
l’unico caso accertato di collegamento
tra la criminalità cinese italiana
e la triade cinese. I contatti con l’Italia
e con il nucleo criminale cinese lombardo
avvenivano attraverso una consorteria
chiamata “Società del Sole”. Ed è
proprio a Milano che la criminalità cinese
ha costruito una delle sue strutture
più forti. Sul territorio sono tre i gruppi
di riferimento: i Daxue, i Yu Hu e i Donpei.
Si tratta di piccole bande giovanili
che gravitano tra alcuni centri massaggi
dove, il più delle volte, sono ospitati in
maniera piuttosto informale le prostitute
e i loro clienti. Nell’operazione milanese
“Oro del Dragone” sono stati scoperti
alcuni sistemi parabancari per la
raccolta e lo smistamento del denaro
verso la Cina. In tre anni, solo da Milano,
le operazioni di trasferimento (abusivo)
di denaro hanno portato in Cina qualcosa
come trentuno milioni di euro.
Se Milano rimane l’area più attiva
dal punto di vista della criminalità organizzata
cinese, il distretto che va da
Firenze a Prato è senz’altro il primo polo
cinese dove è stato possibile riconoscere
una delle più importanti triadi
della criminalità cinese. Quella che,
volgarmente, viene chiamata mafia cinese.
In questa zona, l’organizzazione
criminale si è fatta notare dal momento
in cui è riuscita a inserirsi nella microcriminalità
fiorentinta riuscendo a
non pestare i piedi a quella locale. La
più solida realtà criminale della zona è
stata scoperta grazie all’operazione
“Loto Bianco”, una delle più importanti
svolte contro la criminalità cinese
nella provincia di Prato. La strategia
della zona si spiega facilmente, dato
che le armi e i clandestini – prima di
essere smistate nel resto d’Italia – passavano,
fino a qualche anno fa, quasi
sempre da qui. E’ proprio la zona di
Prato, al pari di quella milanese, l’area
criminale cinese più influente nel panorama
europeo. I collegamenti con le
nazioni straniere sono tra i collegamenti
a cui presta più attenzione la polizia
italiana. Soprattutto per il traffico dei
clandestini che viaggiano tra l’Italia e
Parigi. Il nome più conosciuto dalla polizia
locale è quello di Chen Chi Hwu.
Il caso di Roma. Il primo procedimento
contro la criminalità cinese romana è
arrivato nel corso degli anni Novanta
contro l’associazione “Testa di Tigre”,
un’associazione specializzata nel controllo
delle attività commerciali cinesi
attraverso estorsioni, sequestri e controllo
di immigrazione clandestina. Il
principale imputato, allora, era il rappresentante
cinese della comunità,
Zhou Yi Ping. Nel corso della campagna
elettorale della comunità cinese romana
contro Liao Zhou Lin, Ping si servì anche
del gruppo armato che faceva capo
a Zhang Zhi. Ping operava all’interno
della storica Chinatown romana: zona
Esquilino, Piazza Vittorio, dove oltre ai
negozi, ai ristoranti, alle botteghe, i cinesi
hanno da pochi mesi avuto la possibilità
di usufruire di un tempio buddista,
a pochi passi dall stazione Termini.
I residenti cinesi ufficiali presenti a
Roma sono poco più di ottomila e quasi
quarantamila si trovano nell’area della
provincia.
Antonio Dong, presidente dell’associazione
dei commercianti cinesi di Roma
e per anni punto di riferimento dei
cinesi nella capitale, da diversi mesi
porta avanti un progetto nella zona di
Tor Cervara che dovrebbe far da tramite
tra gli imprenditori italiani e quelli
cinesi. Proprio nella zona di Tor Cervara,
periferia romana, dodici chilometri a
sud della Stazione Termini, i cinesi stanno
comprando nuove strutture. A dicembre
duemilacinque, sempre in questa
zona, la squadra mobile di Roma ha portato
a termine importanti blitz in laboratori
clandestini di tessuti – soprattutto
nella zona di via dell’Omo – dove gli operai
cinesi venivano sottoposti a durissime
condizioni di sfruttamento. Ma tra gli
arrestati per favoreggiamento si trovano
anche i nomi di molti italiani.
Al contrario di quanto si possa pensare,
Roma pesa meno di Milano all’interno
della realtà criminale cinese in
Italia. Roma, negli ultimi anni, è diventata
più che altro un importante centro
di passaggio. Sia per i clandestini diretti
verso gli Stati Uniti, sia per il denaro
da mandare in Cina. Oltre agli intermediari
con la valigetta nera, lo scorso anno
la direzione distrettuale antimafia
all’interno dell’“Operazione Ultimo Imperatore”
ha scoperto che la società
“Centrale Fiduciaria” gestita da Marco
Quadri e Giuseppe Scognamiglio era il
più importante centro di smistamento
di denaro verso la Cina. I soldi che venivano
spediti, illegalmente, in Cina arrivavano
direttamente da evasione fiscale,
violazioni doganali, contrabbando e
contraffazione. Quadri e Scognamiglio
sono stati poi arrestati.
A Roma, proprio nella zona di Tor
Cervara – la zona in cui il famoso imprenditore
Dong (che a Roma ha una
nota farmacia a pochi metri da via Marmorata)
– sembra si stia sviluppando
una forte struttura di smistamento di
merce contraffatta. Per i cinquecento
mila container provenienti ogni anno
dalla Cina in Italia, Roma è uno snodo
fondamentale dato che il nostro paese,
da solo, ha in pancia quasi il nove per
cento dell’intero mercato del contrabbando
mondiale. E la squadra mobile di
Roma, da moltissimi mesi, tiene ormai
sotto stretta osservazione alcuni capannoni
sospetti, dove ogni mattina si assiste
alla stessa scena: alle sei e trenta arrivano
i tir, i tir si fermano di fronte a un
capannone e dal capannone escono
moltissimi cinesi che in pochi minuti
svuotano una quantità tale di merce difficilmente
giustificabile con le dimensioni
del capannone. Troppo piccolo il
capannone, troppo grandi e troppo carichi
i tir. E proprio tra quei capannoni
potrebbero trovarsi le più importanti
strutture di smistamento della merce di
contrabbando (cinese) in Italia. Il contrabbando
– va ricordato – non è nulla
se confrontato con le cifre che girano attorno
al traffico di immigrati. Tremilacinquecento
euro per un permesso di
soggiorno falso, duecentocinquantamila
euro per ogni gruppo di clandestini e
sessanta milioni di euro all’anno raccolti,
nascosti e spediti illegalmente in Cina.
Anche se poi i soldi, i passaporti e i
clandestini come Zhu, dalla dogana ufficialmente
non sono mai passati.
Claudio Cerasa
14/04/07
mercoledì 4 aprile 2007
Il Foglio "Capezzone attacca l’irismo prodiano e prepara una sorpresa"
Ricapitoliamo. Prima le fusioni bancarie (e quindi Intesa e San Paolo), i paletti su Alitalia, gli interventi su Autostrade (e Abertis), e poi le operazioni Telecom con Murdoch (bocciate), quelle con Telefonica (non gradite), il fax di Rovati, il Fondo F2i e ora, ancora una volta, Telecom, gli stranieri e la sovranità nazionale. Il presidente della commissione Attività produttive della Camera, Daniele Capezzone, dice di essere sconcertato e confuso per “le incredibili reazioni degli ultimi due giorni su Telecom, At&t e American Movil”. Dice che se le stesse cose fossero state dette dal governo Berlusconi “avremmo avuto in piazza cinque milioni di manifestanti infuriati” e ricorda che per molto meno “ai tempi dei capitani coraggiosi e ai tempi di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi si parlava di merchant bank”. In sintesi. Capezzone dice che “il governo sbaglia” e dice che, proprio per questo, lui è molto preoccupato. E soprattutto, ciò che lo preoccupa è “la deriva dirigista e interventista dei ministri che intervengono a tamburi battenti su Telecom senza capire che in momenti come questi in Italia servirebbe soltanto una cosa: tenere giù le mani dal mercato”. Dice al Foglio Capezzone che “le tesi dei miei colleghi sono piuttosto strane. Si parla di sovranità nazionale, di sconcerto, di italianità, di vere regole di mercato, di Unione preoccupata. Ma tutto ciò è fuori da ogni logica; come se tutti i problemi che Telecom ha avuto negli ultimi anni non siano già arrivati con protagonisti italiani. E poi, per favore, spiegatemi. Prima si dice che l’Italia non riesce ad attirare gli investimenti stranieri e poi si dice che Telecom, cioè l’Italia, deve rifiutare quattro miliardi di investimenti stranieri? Ma stiamo scherzando? Vogliamo dirlo o non vogliamo dirlo che quelli che si sconcertano per l’invasione dello straniero sono gli stessi che si eccitano se l’Enel conclude i suoi accordi, da straniera, con Endesa in Spagna. Chiariamo. Un conto è dire che in prospettiva l’operazione più credibile era quella con Telefonica perché Telefonica è una società, diciamo, complementare a Telecom. Un conto, invece, è la tendenza di Palazzo Chigi al neointerventismo in economia. E proprio per questo, anche da destra, è necessario che i politici la smettano di sventolare tutte quelle fastidiose bandierine tricolori. Non vorranno certo dirci che le bandierine sventolate oggi sono diverse da quelle sbandierate – e difese – da Fazio ai tempi dei furbetti?”.
Sono le dodici e zerotre quando Capezzone accende il computer, apre le agenzie e scopre che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Micheli, “legge sempre, e con molta attenzione, le dichiarazioni del deputato Capezzone”, che Micheli inviterebbe volentieri Capezzone “ad aumentare il ritmo delle sue esternazioni perché ormai non potrei più rinunciarvi” e perché, dice Micheli, “in assenza di notizie e commenti da parte di Capezzone rischierei una vera crisi di astinenza”. Capezzone, prendendo con una mano il telefono, collegandosi con l’altra mano alle agenzie e digitando con l’altra ancora sulla tastiera, dice di essere contento perché vede “che Micheli, dopo tanto silenzio ma anche dopo tante, tante opere, parla”, dice che “la gallina che canta ha fatto l’uovo” e spera, ora, che “Micheli parli sempre di più, e ci racconti tante cose sull’Iri del passato e sulla cultura Iri del presente”. Già, l’Iri. Capezzone riparte: “Qui non c’è da scherzare. Se il centrosinistra fino all’anno scorso rimproverava a Berlusconi di aver imposto alla politica – virgolette – il vizio di un mercato protetto, Prodi ha ora la responsabilità di un altro vizio altrettanto pericoloso e cioè l’intervento dello stato in economia che si traduce in quell’atmosfera irizzante vissuta in Italia negli ultimi dieci mesi e che dà ancora spazio ai tanti nostalgici del piano Rovati e a tutti quegli esponenti politici che sono alla continua ricerca del cavaliere bianco e del campione – o meglio, del campioncino – da inserire in questa e in quella partita. Vorrei ricordare a Prodi come con questi interventi il suo governo non ha certo compiuto atti ostili contro Bazoli e come questo distorto intreccio tra banche e imprese non è necessariamente una buona notizia per il capitalismo. Anzi, non lo è affatto. Per questo non possiamo escludere nulla, dobbiamo tenere gli occhi aperti, portare avanti iniziative come quelle dei volenterosi e poi chissà, non è neanche escluso che non scenderemo in piazza”. Capezzone, poi, ricostruisce “l’incredibile nottata di domenica”. Ricorda che alle ventidue e quarantacinque aveva letto la notizia delle offerte di At&t e America Movil e che dopo quindici minuti, nell’ordine, aveva visto arrivare la replica di Gentiloni e poi Bersani e poi Di Pietro. “Non so in quale altro paese al mondo in soli trenta minuti intervengono tre ministri per stroncare un’offerta appena comunicata e non so in quale altro paese ci sono gli stessi ministri che continuano il festival della stroncatura appoggiando parole come quelle del segretario ds Fassino, che, lunedì, chiedeva al governo – virgolette – di usare i suoi poteri. Forse confondendo l’offerta a Telecom con una conferenza di pace con i Talebani”. Continua Capezzone: “E’ vero che tutti abbiamo apprezzato le parole di Sircana, ma il ritardo con cui il portavoce del governo ha inviato la sua nota ha dato a noi la stessa sensazione che abbiamo avuto leggendo la lettera scritta da Sircana una settimana dopo quelle famose fotografie: troppo tardi, caro Silvio”. Capezzone spiega anche che l’intervento dei volentorosi – insieme con Tabacci e Messa – e l’appello pubblicato già ieri sul Foglio, sono stati utili “per continuare a svolgere una buona marcatura a uomo sul governo e per respingere l’offensiva di Palazzo Chigi al libero mercato”. Ma oltre alla marcatura, all’appello e a non escludere la piazza, Capezzone dice che prima della assemblea Telecom del sedici aprile “un paio di parlamentari – virgolette – liberi e volenterosi di centrosinistra e centrodestra prepareranno una bella sorpresina in Parlamento”.
Claudio Cerasa
4/04/07
Sono le dodici e zerotre quando Capezzone accende il computer, apre le agenzie e scopre che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Micheli, “legge sempre, e con molta attenzione, le dichiarazioni del deputato Capezzone”, che Micheli inviterebbe volentieri Capezzone “ad aumentare il ritmo delle sue esternazioni perché ormai non potrei più rinunciarvi” e perché, dice Micheli, “in assenza di notizie e commenti da parte di Capezzone rischierei una vera crisi di astinenza”. Capezzone, prendendo con una mano il telefono, collegandosi con l’altra mano alle agenzie e digitando con l’altra ancora sulla tastiera, dice di essere contento perché vede “che Micheli, dopo tanto silenzio ma anche dopo tante, tante opere, parla”, dice che “la gallina che canta ha fatto l’uovo” e spera, ora, che “Micheli parli sempre di più, e ci racconti tante cose sull’Iri del passato e sulla cultura Iri del presente”. Già, l’Iri. Capezzone riparte: “Qui non c’è da scherzare. Se il centrosinistra fino all’anno scorso rimproverava a Berlusconi di aver imposto alla politica – virgolette – il vizio di un mercato protetto, Prodi ha ora la responsabilità di un altro vizio altrettanto pericoloso e cioè l’intervento dello stato in economia che si traduce in quell’atmosfera irizzante vissuta in Italia negli ultimi dieci mesi e che dà ancora spazio ai tanti nostalgici del piano Rovati e a tutti quegli esponenti politici che sono alla continua ricerca del cavaliere bianco e del campione – o meglio, del campioncino – da inserire in questa e in quella partita. Vorrei ricordare a Prodi come con questi interventi il suo governo non ha certo compiuto atti ostili contro Bazoli e come questo distorto intreccio tra banche e imprese non è necessariamente una buona notizia per il capitalismo. Anzi, non lo è affatto. Per questo non possiamo escludere nulla, dobbiamo tenere gli occhi aperti, portare avanti iniziative come quelle dei volenterosi e poi chissà, non è neanche escluso che non scenderemo in piazza”. Capezzone, poi, ricostruisce “l’incredibile nottata di domenica”. Ricorda che alle ventidue e quarantacinque aveva letto la notizia delle offerte di At&t e America Movil e che dopo quindici minuti, nell’ordine, aveva visto arrivare la replica di Gentiloni e poi Bersani e poi Di Pietro. “Non so in quale altro paese al mondo in soli trenta minuti intervengono tre ministri per stroncare un’offerta appena comunicata e non so in quale altro paese ci sono gli stessi ministri che continuano il festival della stroncatura appoggiando parole come quelle del segretario ds Fassino, che, lunedì, chiedeva al governo – virgolette – di usare i suoi poteri. Forse confondendo l’offerta a Telecom con una conferenza di pace con i Talebani”. Continua Capezzone: “E’ vero che tutti abbiamo apprezzato le parole di Sircana, ma il ritardo con cui il portavoce del governo ha inviato la sua nota ha dato a noi la stessa sensazione che abbiamo avuto leggendo la lettera scritta da Sircana una settimana dopo quelle famose fotografie: troppo tardi, caro Silvio”. Capezzone spiega anche che l’intervento dei volentorosi – insieme con Tabacci e Messa – e l’appello pubblicato già ieri sul Foglio, sono stati utili “per continuare a svolgere una buona marcatura a uomo sul governo e per respingere l’offensiva di Palazzo Chigi al libero mercato”. Ma oltre alla marcatura, all’appello e a non escludere la piazza, Capezzone dice che prima della assemblea Telecom del sedici aprile “un paio di parlamentari – virgolette – liberi e volenterosi di centrosinistra e centrodestra prepareranno una bella sorpresina in Parlamento”.
Claudio Cerasa
4/04/07
martedì 3 aprile 2007
Panorama. "Tony Kushner"
L’ultimo spettacolo realizzato dal premio Pulitzer Tony Kushner, già sceneggiatore del film Munich di Steven Spielberg, si chiama Homebody Kabul, è stato messo in scena nello stesso periodo in Spagna (al teatro Espanol) e in Australia (al Trades Hall) ed è considerato dai critici, soprattutto quelli spagnoli, una delle più belle rappresentazioni realizzate dallo stesso Kushner dai tempi di “Angels in America” (parliamo del 1994), lo spettacolo definito dal Sunday Times come “una Divina Commedia per un'età laica e tormentata, un terremoto nel teatro, sconvolgente, terribile e magnifico" che finì prima a teatro e poi in televisione grazie a una serie prodotta dalla Hbo dove recitarono Meryl Streep, Al Pacino, Emma Thompson, Mary Louise-Parker e Justin Kirk.
Tony Kushner, che compirà cinquantuno anni a luglio, che si definisce un ebreo-newoyorkese-omosessuale-antisemita, è sposato con Mark Harris, editore di Entertainment Weekly ed è stato proprio lui una delle menti che ha più pesato nell’elaborazione del film Munich (secondo Wieselter, critico liberal del settimanale New Repubblic, sarebbe colpa sua se il film ha preferito “discutere l’antiterrorismo anziché il terrorismo”, ipotesi accreditata sia dal fatto che è stato lo stesso Kushner lo scorso anno a voler ricordare che secondo lui “la creazione di Israele è stata un errore" sia dal fatto che l’American Jewish Committee parlando del nuovo antisemitismo “ebraico e di sinistra”, tra i primi “pensieri progressisti ebraici del nuovo antisemitismo”, ha inserito proprio il nome di Kusner”). Nonostante le critiche e nonostante Tony Kushner sia ormai ufficialmente entrato nella quota artisti antisionisti, il suo spettacolo “Homebody Kabul”, soprattutto in Spagna, ha avuto un successo strepitoso. “Homebody Kabul” racconta la storia di dodici personaggi che viaggiano tra New York, Londra e Kabul in un arco di tempo che va tra il 1998 e il 2000. Proprio così, il 2000. Kushner aveva infatti iniziato a scrivere il monologo già nel 1997, lo aveva presentato a Londra nel 1999 ed è per questo che lo stesso Kushner riuscì ad andare in scena con Homebody Kabul al Theatre Workshop dell’East Village di New York praticamente due mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’Undici Settembre 2001, e cioè il 19 dicembre 2001. Tre anni dopo, lo spettacolo tornò ancora una volta a New York, accompagnato da un articolo decisamente entusiasta del New York Times (Homebody Kabul non risparmia le critiche al governo degli Stati Uniti d’America e tra i suoi dialoghi sono piuttosto evidenti le frecciate all’amministrazione di George W. Bush e a quella del suo predecessore, Bill Clinton, per gli ambigui rapporti intrattenuti dall’America con i Taliban proprio prima del Undici Settembre). Lo spettacolo ha avuto anche in quell’occasione un successo incredibile. E chissà se, dieci anni dopo la prima stesura del monologo e quattro anni dopo l’interpretazione a Salerno di Anna Galiena, non ci sia qualcuno che decida davvero di riproporre Homebody in Italia e non solo nello spazio di qualche serata di un festival.
Claudio Cerasa
29/3/07
Tony Kushner, che compirà cinquantuno anni a luglio, che si definisce un ebreo-newoyorkese-omosessuale-antisemita, è sposato con Mark Harris, editore di Entertainment Weekly ed è stato proprio lui una delle menti che ha più pesato nell’elaborazione del film Munich (secondo Wieselter, critico liberal del settimanale New Repubblic, sarebbe colpa sua se il film ha preferito “discutere l’antiterrorismo anziché il terrorismo”, ipotesi accreditata sia dal fatto che è stato lo stesso Kushner lo scorso anno a voler ricordare che secondo lui “la creazione di Israele è stata un errore" sia dal fatto che l’American Jewish Committee parlando del nuovo antisemitismo “ebraico e di sinistra”, tra i primi “pensieri progressisti ebraici del nuovo antisemitismo”, ha inserito proprio il nome di Kusner”). Nonostante le critiche e nonostante Tony Kushner sia ormai ufficialmente entrato nella quota artisti antisionisti, il suo spettacolo “Homebody Kabul”, soprattutto in Spagna, ha avuto un successo strepitoso. “Homebody Kabul” racconta la storia di dodici personaggi che viaggiano tra New York, Londra e Kabul in un arco di tempo che va tra il 1998 e il 2000. Proprio così, il 2000. Kushner aveva infatti iniziato a scrivere il monologo già nel 1997, lo aveva presentato a Londra nel 1999 ed è per questo che lo stesso Kushner riuscì ad andare in scena con Homebody Kabul al Theatre Workshop dell’East Village di New York praticamente due mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’Undici Settembre 2001, e cioè il 19 dicembre 2001. Tre anni dopo, lo spettacolo tornò ancora una volta a New York, accompagnato da un articolo decisamente entusiasta del New York Times (Homebody Kabul non risparmia le critiche al governo degli Stati Uniti d’America e tra i suoi dialoghi sono piuttosto evidenti le frecciate all’amministrazione di George W. Bush e a quella del suo predecessore, Bill Clinton, per gli ambigui rapporti intrattenuti dall’America con i Taliban proprio prima del Undici Settembre). Lo spettacolo ha avuto anche in quell’occasione un successo incredibile. E chissà se, dieci anni dopo la prima stesura del monologo e quattro anni dopo l’interpretazione a Salerno di Anna Galiena, non ci sia qualcuno che decida davvero di riproporre Homebody in Italia e non solo nello spazio di qualche serata di un festival.
Claudio Cerasa
29/3/07
Il Foglio. Ecco perché Telecom potrebbe fare l’interesse nazionale senza dover essere un campione nazionale
Prima di tutto l’interesse nazionale. Quando due grandi aziende americane (come AT&T e American Movil) propongono di comprare il sessantasei per cento di una holding (Olimpia, che ha in pancia il diciotto per cento di Telecom) a un prezzo per di più superiore a quello fornito dalle quotazioni di Borsa (gli americani offrono 2.82 euro per azione, le quotazioni di Borsa sono di 2.13), quello che importa considerare – spiega il commissario Antitrust e già commissario dell’Agcom, Antonio Pilati – è la salvaguardia dei piani di investimento di un’azienda. E, in questo caso, l’interesse nazionale non ha nulla a che vedere con parole come “campioni nazionali”, “compagnie di bandiera” e “controllo italiano”. Spiega al Foglio Pilati che “dal millenovecentonovantasette a oggi la storia è sempre la stessa. Dalla privatizzazione Telecom, le liberalizzazioni e le privatizzazioni si sono intrecciate, incrociate e susseguite. Ma se, da una parte, è innegabile che anche grazie al ruolo delle autorità indipendenti, molti monopoli sono stati rotti, se è vero che il mercato si è arricchito di nuovi importanti operatori, se è vero che i servizi sono aumentati e che, in certi casi, i prezzi degli stessi servizi sono anche migliorati, non c’è dubbio che ancora oggi quando si parla di acquisizioni dall’estero ci sia ancora molta diffidenza e ci sia ancora molta difficoltà a cogliere le vere opportunità offerte dal mercato”.
Slim, Internet e i rapporti con l’America
Pilati continua quindi il suo ragionamento: “Nel caso delle telecomunicazioni, dove i progressi tecnologici incalzano e dove si richiedono ingenti investimenti per mantenere le reti competitive, ciò che conta davvero è avere aziende in grado di rischiare, aziende in grado di investire e aziende in grado di crescere. A differenza delle grandi società di telecomunicazioni degli altri paesi, società che il più delle voltet hanno debiti derivanti da acquisizioni strapagate o da scelte industriali sbagliate, Telecom è frenata dal debito collocato nella sua società di controllo e derivante da quel prezzo di acquisto del duemilauno evidentemente troppo alto”. Pilati è poi convinto che se uno tra i primi operatori americani e uno degli operatori latinoamericani più potenti del mondo sono disposti a investire in un’azienda strategica come Telecom, non ci si dovrebbe né preoccupare (sono parole di Gentiloni) né sconcertare (sono parole di Bersani). “At & T – continua Pilati – è la seconda azienda di telecomunicazioni del mondo e ha una capitalizzazione di circa centotrenta miliardi di dollari. E’ dunque un’azienda che può fare grandi investimenti, che può finanziare una nuova generazione di reti in Italia, cioè la Next Generation Network, e che può dare svilppo alla televisione in protocollo Internet. E per questo è molto difficile pensare che At & T e l’America Movil di Carlos Slim possano arrivare in Italia per fare un’operazione mordi e fuggi”. Una tipologia di investitore che, fa capire Pilati, se dovesse arrivare in un’asta come quella di Alitalia sarebbe più che auspicabile. Pilati è poi convinto che “chiunque avrebbe voglia di trovarsi in un’economia tale in cui si sia nelle condizioni di comprare piuttosto che essere comprati e in cui il cervello di una grande azienda rimanga in Italia. Ma per potersi trovare in una situazione del genere, l’Italia dovrebbe avere un sistema industriale molto più forte di quello che ha attualmente. E non dimentichiamo, poi, che un campione nazionale nelle telecomunicazoni può fare l’interesse del paese senza dover essere per forza una grande azienda di bandiera”. E chissà poi che con l’intervento nel mercato italiano di aziende americane di questo calibro (come At & T con Telecom e come Texas Pacific Group in Alitalia) possano in prospettiva anche migliorare i rapporti tra il governo italiano e quello americano. “Ad occhio – dice Pilati – potrebbe essere proprio così”.
Claudio Cerasa
4/04/07
Slim, Internet e i rapporti con l’America
Pilati continua quindi il suo ragionamento: “Nel caso delle telecomunicazioni, dove i progressi tecnologici incalzano e dove si richiedono ingenti investimenti per mantenere le reti competitive, ciò che conta davvero è avere aziende in grado di rischiare, aziende in grado di investire e aziende in grado di crescere. A differenza delle grandi società di telecomunicazioni degli altri paesi, società che il più delle voltet hanno debiti derivanti da acquisizioni strapagate o da scelte industriali sbagliate, Telecom è frenata dal debito collocato nella sua società di controllo e derivante da quel prezzo di acquisto del duemilauno evidentemente troppo alto”. Pilati è poi convinto che se uno tra i primi operatori americani e uno degli operatori latinoamericani più potenti del mondo sono disposti a investire in un’azienda strategica come Telecom, non ci si dovrebbe né preoccupare (sono parole di Gentiloni) né sconcertare (sono parole di Bersani). “At & T – continua Pilati – è la seconda azienda di telecomunicazioni del mondo e ha una capitalizzazione di circa centotrenta miliardi di dollari. E’ dunque un’azienda che può fare grandi investimenti, che può finanziare una nuova generazione di reti in Italia, cioè la Next Generation Network, e che può dare svilppo alla televisione in protocollo Internet. E per questo è molto difficile pensare che At & T e l’America Movil di Carlos Slim possano arrivare in Italia per fare un’operazione mordi e fuggi”. Una tipologia di investitore che, fa capire Pilati, se dovesse arrivare in un’asta come quella di Alitalia sarebbe più che auspicabile. Pilati è poi convinto che “chiunque avrebbe voglia di trovarsi in un’economia tale in cui si sia nelle condizioni di comprare piuttosto che essere comprati e in cui il cervello di una grande azienda rimanga in Italia. Ma per potersi trovare in una situazione del genere, l’Italia dovrebbe avere un sistema industriale molto più forte di quello che ha attualmente. E non dimentichiamo, poi, che un campione nazionale nelle telecomunicazoni può fare l’interesse del paese senza dover essere per forza una grande azienda di bandiera”. E chissà poi che con l’intervento nel mercato italiano di aziende americane di questo calibro (come At & T con Telecom e come Texas Pacific Group in Alitalia) possano in prospettiva anche migliorare i rapporti tra il governo italiano e quello americano. “Ad occhio – dice Pilati – potrebbe essere proprio così”.
Claudio Cerasa
4/04/07
lunedì 2 aprile 2007
Il Foglio. "La pasqua di Paolo Tommaso"
"La tomba bianca senza nome, il funerale con la croce, il sacerdote, il cimitero, le ecografie
e le centosei ore nei due ospedali di Firenze. Biografia breve del bambino abortito vivo"
di Claudio Cerasa
Sulla tomba di Tommaso ci sono sei fiori appena raccolti e una lapide bianca senza foto, senza nomi, senza cognomi, senza date, senza lettere, senza numeri. In basso Attilio (1910-2004), a sinistra Dino (1920-2003), in alto due tumuli grigi di cemento. Sul primo il numero novantanove, sul secondo il numero cento, più in basso quattro tulipani rossi, due tulipani gialli, una statua in ottone con una Madonna in preghiera, un lumicino giallo e un’altra lastra di marmo bianca. Dietro quel marmo c’è Tommaso V., nato venerdì due marzo 2007 a Firenze (all’ospedale Careggi), morto a Firenze (all’ospedale Meyer) giovedì otto marzo 2007 dopo un’emorragia cerebrale e dopo essere sopravvissuto per sei giorni a un’interruzione di gravidanza. Tommaso pesava cinquecento grammi, era lungo venticinque centimetri e – ora – è sepolto a cinquantadue minuti da Firenze, in un paesino del Mugello. Doveva nascere morto, Tommaso, invece era vivo.
Al centro del giardino nel cimitero di Dicomano (cinquemila abitanti, sessanta chilometri da Firenze) il custode Daniele è seduto sopra una ruspa rossa. Tommaso doveva essere seppellito proprio lì, in mezzo alle altre tombe del giardino. O almeno così credeva Daniele fino al giorno in cui i genitori di Tommaso salirono in cima a via Sandro Pertini, si avvicinarono al cimitero e chiesero proprio a lui di poter entrare dalla porta nascosta sul retro del più importante dei tre cimiteri del paese. E’ il dieci marzo ed è sabato. Il cimitero di Dicomano sarebbe aperto dal lunedì al venerdì, ma quel giorno Daniele non ci pensò due volte e aprì il cancello sul retro proprio per Tommaso. Daniele, come la maggior parte degli abitanti di Dicomano, sapeva tutto della storia del bambino; sapeva che la madre desiderava quel bimbo, sapeva del problema al rene della madre, sapeva che la madre aveva scelto di abortire, sapeva che Tommaso era nato vivo, sapeva che era stato trasferito dal Careggi al Meyer e sapeva che Tommaso era vissuto per sei giorni dentro una scatola di vetro nel reparto di terapia intensiva neonatale, nell’ospedale Meyer. Il custode utilizza proprio questa parola; la stessa parola utilizzata da chiunque a Dicomano abbia voglia di parlare di Tommaso: “Visse”. Daniele quel giorno non ci pensò, aprì il cancello sul retro, fece entrare la mamma trentacinquenne, fece entrare don Collini, fece entrare il marito della mamma, i parenti di lui, i parenti di lei e il figlio di otto, quasi nove anni, che l’anno prossimo finirà la scuola elementare. Nel cimitero di Dicomano c’erano al massimo undici persone di fronte alla bara che qualcuno dice fosse nera, qualcun altro dice essere stata marrone, certamente non bianca e certamente abbastanza piccola da contenere i venticinque centimetri e i cinquecento grammi del corpo di Tommaso.
Tommaso sarebbe molto probabilmente andato nella stessa scuola del fratellino di otto anni, la stessa Giovanni Pascoli costruita a pochi metri dal cimitero di via Pertini e la stessa struttura a metà strada tra la via principale di Dicomano e la collinetta dove don Collini ogni domenica mattina alle dieci celebra la sua messa. Durante la settimana, don Collini si sposta dalla chiesa (costruita nei primi del Novecento) per andare a benedire le case del paese, per scambiare qualche chiacchiera con gli anziani in piazza e per raccontare le sua giornata alla banchiera del circolo di Mcl, cioè il circolo del Movimento Cristiano Lavoratori. E’ qui che don Collini ha parlato per la prima volta del funerale di Tommaso. O meglio, di Paolo Tommaso. A pochi metri dal circolo Mcl, di fronte al bar Grand’Angolo e a destra di piazza della Repubblica, al numero quattordici lavora il dottor Lucio Caselli – a cui “non interessa parlare di questa storia” – che il diciannove febbraio aveva spiegato a telefono alla madre di Tommaso cosa esattamente fosse quell’“atresia dell’esofago” che avrebbe potuto avere il bimbo dentro il pancione della mamma. Era il diciannove febbraio. Tommaso quel giorno aveva già ventuno settimane. Passano sette giorni e la mamma di Tommaso arriva dallo psichiatra di Borgo San Lorenzo. Doveva essere – ancora una volta – una normale visita di accertamento. Non lo fu affatto. Lo psichiatra di Borgo San Lorenzo comincia la visita, parla con la donna e poi chiama al telefono il ginecologo di famiglia. Finisce la visita, la mamma di Tommaso esce dal reparto, in mano ha un foglio e quel foglio è un certificato che conferma “il rischio di uno squilibrio della donna in caso di proseguimento della gravidanza”. Poche ore prima la mamma di Tommaso aveva deciso di abortire. E’ lunedì ventisei febbraio. Sette giorni prima la mamma aveva ricevuto una nuova conferma. L’ennesima. Aveva scelto di consultare un nuovo ginecologo (era il terzo) e aveva appena cercato di capire il significato della nuova ecografia. In poco più di due mesi, la mamma di Tommaso aveva già consultato nove specialisti. Ma anche quel giorno sentì quella frase: “Sospetto di malformazione”. La mamma di Tommaso era molto agitata, come ricorda chi era in quella stanza. La visita continua, dura ancora un po’, il ginecologo ripete che la malformazione potrebbe essere “di vari gradi di serietà”, ma ripete che la stessa malformazione potrebbe essere “correggibile chirurgicamente in maniera più o meno semplice”. Tutto dipende dal grado della malformazione, e per capire il grado della malformazione c’è solo un modo: partorire. La visita dura ancora un’ora, la mamma di Tommaso racconta al ginecologo che nella settimana precedente un chirurgo di sua conoscenza le aveva spiegato che l’atresia esofagea è in realtà una malformazione piuttosto grave. Trascorre un’altra ora, i medici propongono alla madre una risonanza magnetica. La mamma di Tommaso non accetta, è sempre più agitata, decide di lasciar passare ancora una settimana e poi – il ventisei febbraio – altra ecografia, lo stomaco non si vede ancora ed è quel giorno che la mamma di Tommaso parla con i medici. E’ in quel momento che decide di abortire ed è in quel momento che scopre che per farlo – dopo la ventunesima settimana, come previsto dalla legge 194 – serve il certificato dello psichiatra.
Tommaso nasce alle quindici e quarantadue minuti del due marzo. E’ un venerdì. La stessa mattina la mamma – che non sapeva ancora che sarebbe diventata madre per la seconda volta – aveva appena ricominciato il ciclo per “l’interruzione di gravidanza”. Poche ore dopo, l’ostetrica – come si legge dal referto – “riscontra l’espulsione del feto e della placenta e provvede alla separazione del primo dalla seconda”. Tommaso era nato, ma tra le quindici e quarantadue minuti e le quindici e cinquantacinque minuti l’unico a sapere di non essere un “feto non vitale” era lui. Passano tredici minuti, sono le quindici e quarantaquattro, l’ostetrica si alza, prende Tommaso e lo porta dentro una stanza. Qui, Tommaso, sarebbe stato sottoposto ai cosiddetti prelievi per la “citogenetica”, cioè gli esami in grado di studiare la morfologia dei cromosomi di Tommaso. Un esame che viene generalmente effettuato subito dopo le interruzioni di gravidanza. Alle quindici e quarantotto la mamma di Tommaso era ancora sveglia. L’ostetrica torna in stanza, le si avvicina con un modulo in mano. Tutto come da prassi. La citogenetica, l’espulsione, il ciclo con gli ovuli e poi il modulo. Il modulo si chiama “consenso all’interramento”. La mamma lo firma, l’ostetrica esce dalla stanza, il ginecologo anestetizza la mamma, l’ostetrica torna da Tommaso e gli passa un po’ di acqua sotto la fronte. Anche don Collini – circa ottant’anni, “sacerdote di Dicomano”, pochi capelli, pochissimi denti – ricorda il particolare dell’acqua. Tre schizzi, Tommaso si muove. E’ ipotonico, cianotico, con una scarsa attività respiratoria, è bradicardico, ha ottanta battiti al minuto. Ma è vivo. La mamma, in quel momento, è già sotto anestesia. Sono le sedici del due marzo. Il neonatologo procede alla rianimazione del feto non più “non vitale” e inserisce una sonda gastrica dentro la bocca. La rianimazione dura pochissimi minuti, il bambino è vivo davvero. In quel momento il padre è ancora lontano dalla stanza. All’infermiera, però, serve un nome subito. Ci pensa qualche minuto, pensa che se i genitori non lo riconoscessero il bambino potrebbe essere dato in affidamento, magari adottato e poi chissà. L’infermiera si ferma e sceglie il nome: “Paolo”. Paolo, continua a respirare, la rianimazione dura pochissimi minuti. Il neonatalogo estrae dalla bocca la sonda “orogastrica”. Paolo ha ventidue settimane, tra poco diventerà Tommaso, ha molti problemi ma non ha quello per cui non sarebbe dovuto nascere: nel suo stomaco non c’era nessuna “atresia esofagea”; il suo stomaco sta bene e anche se non lo fosse stato, Tommaso, avrebbe potuto vivere senza alcuna malformazione, proprio come era già successo il venti gennaio del 1995; l’ospedale era il Meyer, nel reparto di ginecologia nacque un bambino che pesava quattrocentoquaranta grammi, lungo venti centimetri e con una seria “atresia esofagea”. La stessa malformazione che Tommaso avrebbe potuto avere e che invece non aveva. Al bimbo venne fatto un intervento piuttosto semplice, rimase sei mesi in ospedale, uscì sano e con l’esofago a posto. Il ragazzo ora vive a Firenze e ha dodici anni.
Nella stessa settimana in cui Tommaso nacque come Paolo, nello stesso ospedale, nello stesso reparto e con la stessa equipe che aveva fatto nascere il futuro Tommaso, arriva una coppia di ragazzi. La coppia aveva scelto di far nascere un bambino con lo stesso problema che avrebbe potuto avere Tommaso. Il piccolo avrebbe potuto avere, anche lui, un’atresia dell’esofago. La famiglia aveva fatto analisi simili a quelle della mamma di Tommaso, aveva saputo che non era possibile avere una sicurezza su questo tipo di patologia, aveva saputo che l’atresia dell’esofago colpisce un neonato su tremila, ma la coppia aveva comunque scelto: voleva quel bimbo. Il bimbo nasce al Careggi, ha un bronco collegato all’esofago, nell’esofago c’è ancora molta acqua, per quel motivo l’esofago nelle ecografie precedenti sembrava non stare perfettamente a posto. Il bimbo del Careggi, il secondo, aveva trentasette settimane. In un giorno il suo stomaco è tornato come nuovo.
Don Collini è uno dei due preti di Dicomano. Dalla collina – dalla quale ogni giorno scende e sale a piedi in diciotto minuti – fino ai portici, quella è zona sua. L’altro parroco abita a Londa, che non è Londra, ma che quando viene nominata a Dicomano fa comunque un po’ impressione anche a chi ci abita da tempo. “Abita a Londa”, ripete serio chi lo ricorda. Don Collini conosce bene le famiglie che si trovano al di qua e poco al di là di piazza della Repubblica, conosce chi abita prima della discesa che porta a Londa e sa che la madre di Tommaso è sotto choc, sa che il padre è inferocito con i giornalisti, sa che l’avvocato Guido Dieci – l’avvocato della famiglia – ha querelato l’Espresso che il quindici marzo aveva rubricato come pezzo “esclusivo” un lungo servizio intitolato: “Così ho perso mio figlio”, che secondo l’avvocato e secondo la madre non era altro che la trascrizione degli atti coperti da segreto d’ufficio dell’inchiesta portata avanti dalla magistratura di Firenze. Non esattamente un’intervista. Don Collini, sabato dieci marzo, era lì al cimitero di fronte alla bara, con la mamma in lacrime, qualche parente, il custode e poi Tommaso, nato a Firenze il due marzo, morto a Firenze l’otto marzo. Sul funerale, a Dicomano, sono in pochi a sapere qualcosa. C’è chi ha provato a cercare la tomba, chi ha cercato di trovare il nome, chi ha girato tra i cimiteri del paese, chi si è informato su tutte le cerimonie funebri, chi ha curiosato tra le lapidi, chi ha provato a contattare la famiglia. Ma a Dicomano il nome di Tommaso non è scritto da nessuna parte.
All’interno del cimitero, dove Daniele ha appena finito di scavare una fossa, la lastra di marmo della tomba di Tommaso è completamente vuota. Ma non sono i marmisti a essere in ritardo. La famiglia di Tommaso ha scelto così, almeno per il momento, nessun nome, nessuna lettera, nessuna data, nessun numero. In fondo che cosa avrebbero dovuto scrivere sulla lastra di marmo i genitori di Tommaso?
A Dicomano esiste solo un posto dove si trova scritto il nome di Tommaso e dove si trova scritto il suo cognome che comincia con la lettera V. A piazza della Repubblica numero tre il certificato di nascita e quello di morte sono conservati all’interno dell’ufficio dell’anagrafe, proprio accanto al medico di base della mamma di Tommaso.
La famiglia sotto choc abita poco al di là di piazza della Repubblica. Questa – come detto – è zona di don Collini. Tommaso – ricorda don Collini – dovrebbe essere stato battezzato in ospedale; ma in casi come questi, quando un bambino muore così all’improvviso poco dopo essere nato, per poter svolgere un funerale cristiano al sacerdote basta sapere se almeno uno dei due genitori sia stato battezzato oppure no. Anche con Tommaso è andata così.
Don Collini è stato uno dei primi a conoscere la storia della madre, la sua paura, il suo choc, l’aborto e il funerale del figlio. Dice che la storia ha cambiato il paese, dice che nel paese sono tutti convinti che siano stati i dottori ad aver sbagliato, dice che il vero problema è che ormai una donna incinta è considerata come una donna malata, dice che la storia di Tommaso, la storia della malformazione che c’era e che però poi non c’era è la dimostrazione che “ormai Hitler ha vinto davvero”. Don Collini parla di eugenetica, e fa su e giù con la testa.
Sono le sedici e cinquantacinque minuti, è il due marzo, il trasporto protetto neonatale si allontana dall’ospedale Careggi per andare al Meyer – qualche chilometro a sud-est di Firenze – dove Tommaso viene ricoverato “data l’indisponibilità di posti all’interno della terapia intensiva neonatale del Careggi”. Il padre è appena stato avvertito del feto che è stato chiamato Paolo e che sarebbe diventato Tommaso. La mamma dorme ancora. Tommaso ora sta meglio, la frequenza cardiaca è arrivata a centotrenta battiti al minuto e in casi come questi i suoi parametri vitali vengono considerati stabili. La mamma si sveglia e alle diciotto e trenta Tommaso arriva nel reparto di terapia intensiva neonatale del Meyer. I medici spiegano alla mamma che Tommaso avrà poche probabilità di sopravvivere e nella notte tra il due marzo e il tre marzo dopo che a Tommaso era stato diagnosticato prima un problema eco-cardiaco e poi un’emorragia intraventricolare di terzo grado, i genitori esprimono verbalmente al direttore della neonatologia del Meyer “il desiderio di un non accanimento terapeutico”. Tommaso ha ancora cinque giorni di vita, la mamma è sconvolta, il direttore generale del Meyer convoca una conferenza stampa, la mamma di Tommaso non gradisce gli articoli prima di Repubblica (il sette marzo) e poi via via di tutti gli altri giornali. Dall’ospedale Meyer, chi era lì dentro in quei giorni, ricorda che le ricostruzioni dei fatti erano potenzialmente “adite a interpretazioni fuorvianti”.
Al Careggi c’è poi chi parla di un piccolo giallo che andrebbe a inserirsi in una lunga lotta tra i due ospedali più importanti della città. In particolare tra i due reparti di neonatologia, del Meyer e del Careggi. Entro pochi mesi, dei due reparti ne resterà soltanto uno e attualmente quello che rischia di chiudere sembra essere proprio quello del Careggi. E gli articoli di Repubblica, le inchieste dell’Espresso e la morte di Tommaso – raccontano – non hanno aiutato il Careggi a recuperare terreno. Il giallo è questo. Avviene nella notte tra il due e il tre marzo. Dal Careggi sarebbe partita la telefonata di una donna che avrebbe comunicato all’esterno il nome e il cognome della mamma di Tommaso. Una donna che lavora al Careggi ma con molte conoscenze al Meyer. La cartella della mamma di Tommaso – ricorda un medico che chiede di non comparire – era stata conservata con una certa attenzione.
Tommaso muore la mattina dell’otto marzo, alle quattro in punto. I genitori di Tommaso arrivano quarantacinque minuti dopo l’arresto cardiaco. Il primo a essersi accorto delle condizioni di Tommaso era stato il medico di guardia che alle quattro e un minuto aveva contattato i genitori. I genitori arrivano all’ospedale, capiscono che i medici vogliono svolgere analisi più approfondite, capiscono che dire “analisi più approfondite” e dire “riscontri diagnostici” significa dire autopsia, portano quindi il corpo di Tommaso al Careggi e il giorno dopo – i medici del Careggi – spiegano che il cuore di Tommaso ha smesso di battere per emorragia cerebrale. I genitori tornano in paese, hanno con sé Tommaso (qualcuno dice che il bimbo fosse proprio in macchina con loro), l’anagrafe registrerà il certificato di morte, Tommaso arriva a Dicomano, il giorno dopo il custode Daniele (ma questo non è il suo vero nome) apre il cancello del retro del cimitero per il funerale. I genitori ancora oggi preferiscono non parlare, i medici ancora oggi preferiscono non raccontare, i parenti di lui e i parenti di lei preferiscono dimenticare quanto successo nei sei giorni in cui Tommaso ha avuto due nomi, ha cambiato due ospedali, è stato registrato all’anagrafe due volte in dieci giorni, è nato non vitale, è diventato Paolo – come racconta don Collini – è diventato definitivamente Tommaso, è esistito per centosei ore e diciotto minuti e – come dicono a Dicomano – semplicemente ha vissuto per sei giorni.
Domani Tommaso avrebbe compiuto trentuno giorni.
30/03/07
e le centosei ore nei due ospedali di Firenze. Biografia breve del bambino abortito vivo"
di Claudio Cerasa
Sulla tomba di Tommaso ci sono sei fiori appena raccolti e una lapide bianca senza foto, senza nomi, senza cognomi, senza date, senza lettere, senza numeri. In basso Attilio (1910-2004), a sinistra Dino (1920-2003), in alto due tumuli grigi di cemento. Sul primo il numero novantanove, sul secondo il numero cento, più in basso quattro tulipani rossi, due tulipani gialli, una statua in ottone con una Madonna in preghiera, un lumicino giallo e un’altra lastra di marmo bianca. Dietro quel marmo c’è Tommaso V., nato venerdì due marzo 2007 a Firenze (all’ospedale Careggi), morto a Firenze (all’ospedale Meyer) giovedì otto marzo 2007 dopo un’emorragia cerebrale e dopo essere sopravvissuto per sei giorni a un’interruzione di gravidanza. Tommaso pesava cinquecento grammi, era lungo venticinque centimetri e – ora – è sepolto a cinquantadue minuti da Firenze, in un paesino del Mugello. Doveva nascere morto, Tommaso, invece era vivo.
Al centro del giardino nel cimitero di Dicomano (cinquemila abitanti, sessanta chilometri da Firenze) il custode Daniele è seduto sopra una ruspa rossa. Tommaso doveva essere seppellito proprio lì, in mezzo alle altre tombe del giardino. O almeno così credeva Daniele fino al giorno in cui i genitori di Tommaso salirono in cima a via Sandro Pertini, si avvicinarono al cimitero e chiesero proprio a lui di poter entrare dalla porta nascosta sul retro del più importante dei tre cimiteri del paese. E’ il dieci marzo ed è sabato. Il cimitero di Dicomano sarebbe aperto dal lunedì al venerdì, ma quel giorno Daniele non ci pensò due volte e aprì il cancello sul retro proprio per Tommaso. Daniele, come la maggior parte degli abitanti di Dicomano, sapeva tutto della storia del bambino; sapeva che la madre desiderava quel bimbo, sapeva del problema al rene della madre, sapeva che la madre aveva scelto di abortire, sapeva che Tommaso era nato vivo, sapeva che era stato trasferito dal Careggi al Meyer e sapeva che Tommaso era vissuto per sei giorni dentro una scatola di vetro nel reparto di terapia intensiva neonatale, nell’ospedale Meyer. Il custode utilizza proprio questa parola; la stessa parola utilizzata da chiunque a Dicomano abbia voglia di parlare di Tommaso: “Visse”. Daniele quel giorno non ci pensò, aprì il cancello sul retro, fece entrare la mamma trentacinquenne, fece entrare don Collini, fece entrare il marito della mamma, i parenti di lui, i parenti di lei e il figlio di otto, quasi nove anni, che l’anno prossimo finirà la scuola elementare. Nel cimitero di Dicomano c’erano al massimo undici persone di fronte alla bara che qualcuno dice fosse nera, qualcun altro dice essere stata marrone, certamente non bianca e certamente abbastanza piccola da contenere i venticinque centimetri e i cinquecento grammi del corpo di Tommaso.
Tommaso sarebbe molto probabilmente andato nella stessa scuola del fratellino di otto anni, la stessa Giovanni Pascoli costruita a pochi metri dal cimitero di via Pertini e la stessa struttura a metà strada tra la via principale di Dicomano e la collinetta dove don Collini ogni domenica mattina alle dieci celebra la sua messa. Durante la settimana, don Collini si sposta dalla chiesa (costruita nei primi del Novecento) per andare a benedire le case del paese, per scambiare qualche chiacchiera con gli anziani in piazza e per raccontare le sua giornata alla banchiera del circolo di Mcl, cioè il circolo del Movimento Cristiano Lavoratori. E’ qui che don Collini ha parlato per la prima volta del funerale di Tommaso. O meglio, di Paolo Tommaso. A pochi metri dal circolo Mcl, di fronte al bar Grand’Angolo e a destra di piazza della Repubblica, al numero quattordici lavora il dottor Lucio Caselli – a cui “non interessa parlare di questa storia” – che il diciannove febbraio aveva spiegato a telefono alla madre di Tommaso cosa esattamente fosse quell’“atresia dell’esofago” che avrebbe potuto avere il bimbo dentro il pancione della mamma. Era il diciannove febbraio. Tommaso quel giorno aveva già ventuno settimane. Passano sette giorni e la mamma di Tommaso arriva dallo psichiatra di Borgo San Lorenzo. Doveva essere – ancora una volta – una normale visita di accertamento. Non lo fu affatto. Lo psichiatra di Borgo San Lorenzo comincia la visita, parla con la donna e poi chiama al telefono il ginecologo di famiglia. Finisce la visita, la mamma di Tommaso esce dal reparto, in mano ha un foglio e quel foglio è un certificato che conferma “il rischio di uno squilibrio della donna in caso di proseguimento della gravidanza”. Poche ore prima la mamma di Tommaso aveva deciso di abortire. E’ lunedì ventisei febbraio. Sette giorni prima la mamma aveva ricevuto una nuova conferma. L’ennesima. Aveva scelto di consultare un nuovo ginecologo (era il terzo) e aveva appena cercato di capire il significato della nuova ecografia. In poco più di due mesi, la mamma di Tommaso aveva già consultato nove specialisti. Ma anche quel giorno sentì quella frase: “Sospetto di malformazione”. La mamma di Tommaso era molto agitata, come ricorda chi era in quella stanza. La visita continua, dura ancora un po’, il ginecologo ripete che la malformazione potrebbe essere “di vari gradi di serietà”, ma ripete che la stessa malformazione potrebbe essere “correggibile chirurgicamente in maniera più o meno semplice”. Tutto dipende dal grado della malformazione, e per capire il grado della malformazione c’è solo un modo: partorire. La visita dura ancora un’ora, la mamma di Tommaso racconta al ginecologo che nella settimana precedente un chirurgo di sua conoscenza le aveva spiegato che l’atresia esofagea è in realtà una malformazione piuttosto grave. Trascorre un’altra ora, i medici propongono alla madre una risonanza magnetica. La mamma di Tommaso non accetta, è sempre più agitata, decide di lasciar passare ancora una settimana e poi – il ventisei febbraio – altra ecografia, lo stomaco non si vede ancora ed è quel giorno che la mamma di Tommaso parla con i medici. E’ in quel momento che decide di abortire ed è in quel momento che scopre che per farlo – dopo la ventunesima settimana, come previsto dalla legge 194 – serve il certificato dello psichiatra.
Tommaso nasce alle quindici e quarantadue minuti del due marzo. E’ un venerdì. La stessa mattina la mamma – che non sapeva ancora che sarebbe diventata madre per la seconda volta – aveva appena ricominciato il ciclo per “l’interruzione di gravidanza”. Poche ore dopo, l’ostetrica – come si legge dal referto – “riscontra l’espulsione del feto e della placenta e provvede alla separazione del primo dalla seconda”. Tommaso era nato, ma tra le quindici e quarantadue minuti e le quindici e cinquantacinque minuti l’unico a sapere di non essere un “feto non vitale” era lui. Passano tredici minuti, sono le quindici e quarantaquattro, l’ostetrica si alza, prende Tommaso e lo porta dentro una stanza. Qui, Tommaso, sarebbe stato sottoposto ai cosiddetti prelievi per la “citogenetica”, cioè gli esami in grado di studiare la morfologia dei cromosomi di Tommaso. Un esame che viene generalmente effettuato subito dopo le interruzioni di gravidanza. Alle quindici e quarantotto la mamma di Tommaso era ancora sveglia. L’ostetrica torna in stanza, le si avvicina con un modulo in mano. Tutto come da prassi. La citogenetica, l’espulsione, il ciclo con gli ovuli e poi il modulo. Il modulo si chiama “consenso all’interramento”. La mamma lo firma, l’ostetrica esce dalla stanza, il ginecologo anestetizza la mamma, l’ostetrica torna da Tommaso e gli passa un po’ di acqua sotto la fronte. Anche don Collini – circa ottant’anni, “sacerdote di Dicomano”, pochi capelli, pochissimi denti – ricorda il particolare dell’acqua. Tre schizzi, Tommaso si muove. E’ ipotonico, cianotico, con una scarsa attività respiratoria, è bradicardico, ha ottanta battiti al minuto. Ma è vivo. La mamma, in quel momento, è già sotto anestesia. Sono le sedici del due marzo. Il neonatologo procede alla rianimazione del feto non più “non vitale” e inserisce una sonda gastrica dentro la bocca. La rianimazione dura pochissimi minuti, il bambino è vivo davvero. In quel momento il padre è ancora lontano dalla stanza. All’infermiera, però, serve un nome subito. Ci pensa qualche minuto, pensa che se i genitori non lo riconoscessero il bambino potrebbe essere dato in affidamento, magari adottato e poi chissà. L’infermiera si ferma e sceglie il nome: “Paolo”. Paolo, continua a respirare, la rianimazione dura pochissimi minuti. Il neonatalogo estrae dalla bocca la sonda “orogastrica”. Paolo ha ventidue settimane, tra poco diventerà Tommaso, ha molti problemi ma non ha quello per cui non sarebbe dovuto nascere: nel suo stomaco non c’era nessuna “atresia esofagea”; il suo stomaco sta bene e anche se non lo fosse stato, Tommaso, avrebbe potuto vivere senza alcuna malformazione, proprio come era già successo il venti gennaio del 1995; l’ospedale era il Meyer, nel reparto di ginecologia nacque un bambino che pesava quattrocentoquaranta grammi, lungo venti centimetri e con una seria “atresia esofagea”. La stessa malformazione che Tommaso avrebbe potuto avere e che invece non aveva. Al bimbo venne fatto un intervento piuttosto semplice, rimase sei mesi in ospedale, uscì sano e con l’esofago a posto. Il ragazzo ora vive a Firenze e ha dodici anni.
Nella stessa settimana in cui Tommaso nacque come Paolo, nello stesso ospedale, nello stesso reparto e con la stessa equipe che aveva fatto nascere il futuro Tommaso, arriva una coppia di ragazzi. La coppia aveva scelto di far nascere un bambino con lo stesso problema che avrebbe potuto avere Tommaso. Il piccolo avrebbe potuto avere, anche lui, un’atresia dell’esofago. La famiglia aveva fatto analisi simili a quelle della mamma di Tommaso, aveva saputo che non era possibile avere una sicurezza su questo tipo di patologia, aveva saputo che l’atresia dell’esofago colpisce un neonato su tremila, ma la coppia aveva comunque scelto: voleva quel bimbo. Il bimbo nasce al Careggi, ha un bronco collegato all’esofago, nell’esofago c’è ancora molta acqua, per quel motivo l’esofago nelle ecografie precedenti sembrava non stare perfettamente a posto. Il bimbo del Careggi, il secondo, aveva trentasette settimane. In un giorno il suo stomaco è tornato come nuovo.
Don Collini è uno dei due preti di Dicomano. Dalla collina – dalla quale ogni giorno scende e sale a piedi in diciotto minuti – fino ai portici, quella è zona sua. L’altro parroco abita a Londa, che non è Londra, ma che quando viene nominata a Dicomano fa comunque un po’ impressione anche a chi ci abita da tempo. “Abita a Londa”, ripete serio chi lo ricorda. Don Collini conosce bene le famiglie che si trovano al di qua e poco al di là di piazza della Repubblica, conosce chi abita prima della discesa che porta a Londa e sa che la madre di Tommaso è sotto choc, sa che il padre è inferocito con i giornalisti, sa che l’avvocato Guido Dieci – l’avvocato della famiglia – ha querelato l’Espresso che il quindici marzo aveva rubricato come pezzo “esclusivo” un lungo servizio intitolato: “Così ho perso mio figlio”, che secondo l’avvocato e secondo la madre non era altro che la trascrizione degli atti coperti da segreto d’ufficio dell’inchiesta portata avanti dalla magistratura di Firenze. Non esattamente un’intervista. Don Collini, sabato dieci marzo, era lì al cimitero di fronte alla bara, con la mamma in lacrime, qualche parente, il custode e poi Tommaso, nato a Firenze il due marzo, morto a Firenze l’otto marzo. Sul funerale, a Dicomano, sono in pochi a sapere qualcosa. C’è chi ha provato a cercare la tomba, chi ha cercato di trovare il nome, chi ha girato tra i cimiteri del paese, chi si è informato su tutte le cerimonie funebri, chi ha curiosato tra le lapidi, chi ha provato a contattare la famiglia. Ma a Dicomano il nome di Tommaso non è scritto da nessuna parte.
All’interno del cimitero, dove Daniele ha appena finito di scavare una fossa, la lastra di marmo della tomba di Tommaso è completamente vuota. Ma non sono i marmisti a essere in ritardo. La famiglia di Tommaso ha scelto così, almeno per il momento, nessun nome, nessuna lettera, nessuna data, nessun numero. In fondo che cosa avrebbero dovuto scrivere sulla lastra di marmo i genitori di Tommaso?
A Dicomano esiste solo un posto dove si trova scritto il nome di Tommaso e dove si trova scritto il suo cognome che comincia con la lettera V. A piazza della Repubblica numero tre il certificato di nascita e quello di morte sono conservati all’interno dell’ufficio dell’anagrafe, proprio accanto al medico di base della mamma di Tommaso.
La famiglia sotto choc abita poco al di là di piazza della Repubblica. Questa – come detto – è zona di don Collini. Tommaso – ricorda don Collini – dovrebbe essere stato battezzato in ospedale; ma in casi come questi, quando un bambino muore così all’improvviso poco dopo essere nato, per poter svolgere un funerale cristiano al sacerdote basta sapere se almeno uno dei due genitori sia stato battezzato oppure no. Anche con Tommaso è andata così.
Don Collini è stato uno dei primi a conoscere la storia della madre, la sua paura, il suo choc, l’aborto e il funerale del figlio. Dice che la storia ha cambiato il paese, dice che nel paese sono tutti convinti che siano stati i dottori ad aver sbagliato, dice che il vero problema è che ormai una donna incinta è considerata come una donna malata, dice che la storia di Tommaso, la storia della malformazione che c’era e che però poi non c’era è la dimostrazione che “ormai Hitler ha vinto davvero”. Don Collini parla di eugenetica, e fa su e giù con la testa.
Sono le sedici e cinquantacinque minuti, è il due marzo, il trasporto protetto neonatale si allontana dall’ospedale Careggi per andare al Meyer – qualche chilometro a sud-est di Firenze – dove Tommaso viene ricoverato “data l’indisponibilità di posti all’interno della terapia intensiva neonatale del Careggi”. Il padre è appena stato avvertito del feto che è stato chiamato Paolo e che sarebbe diventato Tommaso. La mamma dorme ancora. Tommaso ora sta meglio, la frequenza cardiaca è arrivata a centotrenta battiti al minuto e in casi come questi i suoi parametri vitali vengono considerati stabili. La mamma si sveglia e alle diciotto e trenta Tommaso arriva nel reparto di terapia intensiva neonatale del Meyer. I medici spiegano alla mamma che Tommaso avrà poche probabilità di sopravvivere e nella notte tra il due marzo e il tre marzo dopo che a Tommaso era stato diagnosticato prima un problema eco-cardiaco e poi un’emorragia intraventricolare di terzo grado, i genitori esprimono verbalmente al direttore della neonatologia del Meyer “il desiderio di un non accanimento terapeutico”. Tommaso ha ancora cinque giorni di vita, la mamma è sconvolta, il direttore generale del Meyer convoca una conferenza stampa, la mamma di Tommaso non gradisce gli articoli prima di Repubblica (il sette marzo) e poi via via di tutti gli altri giornali. Dall’ospedale Meyer, chi era lì dentro in quei giorni, ricorda che le ricostruzioni dei fatti erano potenzialmente “adite a interpretazioni fuorvianti”.
Al Careggi c’è poi chi parla di un piccolo giallo che andrebbe a inserirsi in una lunga lotta tra i due ospedali più importanti della città. In particolare tra i due reparti di neonatologia, del Meyer e del Careggi. Entro pochi mesi, dei due reparti ne resterà soltanto uno e attualmente quello che rischia di chiudere sembra essere proprio quello del Careggi. E gli articoli di Repubblica, le inchieste dell’Espresso e la morte di Tommaso – raccontano – non hanno aiutato il Careggi a recuperare terreno. Il giallo è questo. Avviene nella notte tra il due e il tre marzo. Dal Careggi sarebbe partita la telefonata di una donna che avrebbe comunicato all’esterno il nome e il cognome della mamma di Tommaso. Una donna che lavora al Careggi ma con molte conoscenze al Meyer. La cartella della mamma di Tommaso – ricorda un medico che chiede di non comparire – era stata conservata con una certa attenzione.
Tommaso muore la mattina dell’otto marzo, alle quattro in punto. I genitori di Tommaso arrivano quarantacinque minuti dopo l’arresto cardiaco. Il primo a essersi accorto delle condizioni di Tommaso era stato il medico di guardia che alle quattro e un minuto aveva contattato i genitori. I genitori arrivano all’ospedale, capiscono che i medici vogliono svolgere analisi più approfondite, capiscono che dire “analisi più approfondite” e dire “riscontri diagnostici” significa dire autopsia, portano quindi il corpo di Tommaso al Careggi e il giorno dopo – i medici del Careggi – spiegano che il cuore di Tommaso ha smesso di battere per emorragia cerebrale. I genitori tornano in paese, hanno con sé Tommaso (qualcuno dice che il bimbo fosse proprio in macchina con loro), l’anagrafe registrerà il certificato di morte, Tommaso arriva a Dicomano, il giorno dopo il custode Daniele (ma questo non è il suo vero nome) apre il cancello del retro del cimitero per il funerale. I genitori ancora oggi preferiscono non parlare, i medici ancora oggi preferiscono non raccontare, i parenti di lui e i parenti di lei preferiscono dimenticare quanto successo nei sei giorni in cui Tommaso ha avuto due nomi, ha cambiato due ospedali, è stato registrato all’anagrafe due volte in dieci giorni, è nato non vitale, è diventato Paolo – come racconta don Collini – è diventato definitivamente Tommaso, è esistito per centosei ore e diciotto minuti e – come dicono a Dicomano – semplicemente ha vissuto per sei giorni.
Domani Tommaso avrebbe compiuto trentuno giorni.
30/03/07
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