Roma. Succede tutto in dieci giorni. Tra il 14 luglio e il 24 luglio dello scorso anno, il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco invia due lettere; tutte e due sono indirizzate a Milano, tutte e due arrivano sulla scrivania del generale della Guardia di finanza Roberto Speciale e tutte e due contengono un paio di frasi che Vincenzo Visco, ora, dovrebbe spiegare, prima che le due pesanti mozioni preparate dall’Italia dei valori e dalla Cdl si trasformino in un colpo fatale e in un voto di sfiducia; per Visco ma anche per il governo di Romano Prodi. Perché il punto è semplice e lo riassume il senatore dell’Udeur Mauro Fabris: “Qui, più che una discussione su Visco, si tratta di rispondere a una domanda semplice semplice: signori, ma quanto resiste ancora Romano Prodi? E soprattutto chi è che sta ancora con il presidente del Consiglio?”. Il punto del caso Visco è proprio questo. Visco dice di non aver fatto pressioni, dice che il trasferimento dei cinque e poi quattro ufficiali della Guardia di finanza lombarda facesse parte dell’ordinaria amministrazione e soprattutto, Visco, fino a qualche giorno fa era davvero sicuro di riuscire a convincere l’Unione di un fatto, e cioè che in questa storia a mentire fossero i finanzieri. E lo era così tanto, Visco, da aver fatto esporre, in maniera pesante, anche Prodi, che, da un anno, ripete le stesse parole: “Non è successo nulla di eccezionale, è tutta propaganda”. E’ proprio per questo che se davvero Visco avesse fatto qualcosa di scorretto e se la prossima settimana il governo dovesse essere messo in minoranza al Senato (l’Idv chiede nella sua mozione di ritirare le deleghe di Visco sulla Gdf e alla mozione aderiranno anche i senatori dell’Ulivo Willer Bordon, Natale D’Amico e Roberto Manzione), per Prodi, come dice il senatore Sergio De Gregorio (che voterà entrambe le mozioni) “potrebbero chiudersi le porte di Palazzo Chigi”.
La storia di Vincenzo Visco crea davvero molto imbarazzo nel centrosinistra e lo si capisce perché sono in tanti a infastidirsi e a non parlare dell’argomento. Non parla Luciano Violante (“Non ha altro da chiedermi?”), non parla Peppino Caldarola (“Mi scusi, la prossima domanda?”), non parla Sergio D’Antoni (“Le valutazioni devono essere colleggiali”), non parla Nicola Rossi (“Mi guardi bene, nota muscoli che si muovono?”), non parla nessuno dei Ds ma soprattutto non parla quasi nessuno della Margherita. Come mai? Perché Visco non viene difeso da tutta la maggioranza? Probabilmente perché la situazione, ormai, sembra essere sfuggita di mano. E soprattutto sembra essere davvero chiaro che Vincenzo Visco si sia messo nei pasticci con tutti e due i piedi. Perché qui non si tratta soltanto del fascicolo della procura di Milano, che si è affrettata a dire che non c’è reato, di quello appena aperto dalla procura di Roma e di quello minaccioso del Tribunale militare. Perché qui, come dice Diliberto, “è innegabile che ci sia qualcuno nella maggioranza che non vuole tanto bene a questo governo”.
E chissà allora che nel caso Visco e nelle votazioni al Senato della prossima settimana non sia magari la Margherita a giocare un brutto scherzo al governo, dato che – tra i dl – sono davvero tanti i deputati che, sorridendo, da un lato non nascondono che un Vincenzo Visco in meno non sarebbe poi un grande problema e dall’altro, per riassumere l’umore del partito, rispondono così: “Quando non puoi dire male di qualcuno meglio non parlare”.
(segue dalla prima pagina) Ma nella maggioranza c’è qualcuno, come Antonio Di Pietro, che da tempo ha deciso di insistere sul caso Visco. E se Di Pietro si espone così, se dice che Visco è incastrato, un motivo ovviamente ci sarà. “Avevo detto – dice il ministro delle Infrastrutture al Foglio – che ci sarebbe stato un bigliettino che avrebbe confermato le pressioni fatte da Visco alla Guardia di finanza. Ecco, il bigliettino, cioè la lettera, si trova sul Corriere della Sera di mercoledì. Stiamo attenti, qui la situazione è davvero delicata e in tutto questo non va sottovalutato, ovviamente, il caso Unipol. Perché Visco non ha spiegato la sostituzione degli ufficiali? Perché Visco ha scelto proprio quei finanzieri da sostituire? E poi, per favore, siamo seri. In un’indagine come quella sulle scalate dell’estate 2005, quando si sceglie di sostituire i vertici della finanza significa eliminare completamente il cervello dell’indagine, significa togliere la benzina dall’inchiesta e significa insabbiare le indagini che comprendevano anche Unipol; è anche per questo che allo stato attuale, il viceministro dovrebbe dimettersi”.
Nella lettera acquisita dalla procura di Roma e scritta da Visco a Speciale lo scorso 24 luglio, il viceministro, sostanzialmente, ammette di essere stato lui a chiedere quelle strane sostituzioni nell’organico della Gdf. Da quelle righe, come dai verbali pubblicati in questi giorni, sembra che delle pressioni sui finanzieri ci siano state. E la situazione, per Visco e per chi lo ha difeso finora, si complica sempre di più se si pensa al voto in Senato di mercoledì, quando i senatori in bilico questa volta non sarebbero i soliti due o tre, dato che ci sarebbero i quattro dell’Idv, i dodici (possibili) della Sinistra democratica e quelli, come dice De Gregorio, “praticamente certi di Francesco Cossiga, Fernando Rossi e Roberto Manzione”.
C’è poi un altro elemento utile per comprendere l’atmosfera surreale attorno a Visco. Se da un lato c’è chi, come Diliberto, dice “io di Visco mi fido ciecamente” qualcun altro invece non la pensa affatto così. Poche settimane fa, fu proprio il quotidiano della Margherita, Europa, a pubblicare un duro articolo dove si spiegava perché “nel governo prevale la filosofia (incarnata da Visco, uno convinto che possedere una casa sia un lusso) secondo la quale la vita degli italiani è tutta scritta nel modello unico”. E non può sorprendere, dunque, trovare deputati della maggioranza d’accordo con le parole di Russo Spena di Rifondazione (“Questo non è un processo a Visco”): più che a Visco mercoledì potrebbe esserci un processo direttamente a Romano Prodi.
Claudio Cerasa
31/05/07
giovedì 31 maggio 2007
mercoledì 30 maggio 2007
Il Foglio, “Genocidio olimpico. Il mistero di LeBron, il Ronaldo dei Cleveland che in Nba non firma l’appello sul Darfur"
Il primo, Ira Newble, è un giocatore poco conosciuto, è cresciuto a Detroit, è diventato famoso a Miami, guadagna 15 milioni di dollari l’anno ed è arrivato a Cleveland (nel 2003) per giocare assieme a uno dei giocatori più famosi dell’Nba, the King LBJ. Il secondo, LeBron James, è uno dei giocatori di basket più famosi d’America, probabilmente uno dei più forti al mondo e ora, da qualche giorno, è anche uno dei professionisti più criticati degli Stati Uniti, per colpa del Darfur. LeBron James gioca in Nba, è la star dei Cleveland, ha 24 anni e ha una media assist davvero notevole per uno che, come lui, realizza fino a 30 canestri a partita (nell’ultimo anno, James ha totalizzato 6,6 assist a partita); LeBron è stato, tra l’altro, anche il giocatore più giovane della storia dell’Nba a ricevere il titolo di matricola dell’anno ed è stato anche quello più giovane ad aver ricevuto un premio molto importante come miglior giocatore delle All Star (la fase finale del più importante torneo di basket del mondo). Le Bron James, che ama farsi chiamare con le tre lettere da cui è composto il suo nome, LBJ, gioca in una squadra – i Cleveland, appunto – che si trova nella Eastern Conference dell’Nba, ossia nel girone di basket dell’est degli Stati Uniti. Proprio in questo girone il re dei cavalieri di Cleveland è stato il quarto giocatore della storia dell’Nba a mettere insieme nella stessa stagione qualcosa come 31 punti e sette rimbalzi di media. Oltre agli assist, come già detto. LeBron è anche riuscito a fare meglio di Micheal Jordan (LBJ ha lo stesso numero che Jordan aveva nei Bulls, il 23, e assieme ai Bulls i suoi Cleveland è arrivato alla quarta gara delle semifinali), con uno dei migliori debutti dell’Nba. Dire LeBron negli Stati Uniti equivale (o almeno, equivaleva) a dire Ronaldo e Inter. E un po’ come il fenomeno brasiliano, LeBron è un tipo piuttosto vivace, magari non ai livelli di Dennis Rodman, ma comunque nelle condizioni da non stupirsi più di tanto quando il suo nome finisce sulle prime pagine dei giornali, oltre che per i suoi canestri, per i suoi tatuaggi, per le sue notti in piscina, per le sue serate fuori dai night. Si sarebbe aspettato di tutto, the King, ma non di finire in una bufera per una lettera scritta da un suo compagno e firmata da tutti i cavalieri di Cleveland. Tranne lui, James, e il suo compagno, Damon Jones.
“Non sono abbastanza informato”
La storia è questa. Ira Newble ha preso carta e penna, ha scritto una lunga lettera e ha chiesto ai suoi compagni di firmare un appello che cominciava così: “La Cina non può essere legittimata a essere il paese che ospiterà le Olimpiadi, uno degli eventi sportivi più importanti del mondo, negli stessi anni in cui la stessa Cina è complice nella distruzione e nelle sofferenze del Darfur”. Ira Newble parla di Darfur, parla del genocidio e lo fa con un tono molto severo. Newble ha pensato di scrivere questa lettera poche settimane dopo aver letto un lungo articolo su Usa Today – uno dei giornali preferiti di Ira – molto preciso nel raccontare, oltre al genocidio, i grandi interessi della Cina nella regione del Darfur e il modo in cui, sempre la Cina, “riempisse di armi il governo sudanese”. Newble, considerato come una sorta di Pessotto dell’Nba, molto colto e grande lettore di libri e di giornali, non ci ha pensato su: scrive la lettera, la invia nel Massachusetts a un importante professore dello Smith College (esperto di Darfur) e assieme a lui conia un termine molto pesante che Newble utilizzerà poi all’interno del suo appello: “Genocide Olympics”, il Genocidio delle Olimpiadi. Newble è il primo atleta professionista che ha scelto di esporsi per la causa del Darfur, un po’ come fece il tennista Arthur Ashe per l’apartheid in Sudafrica e Muhammad Ali per la guerra in Vietnam. LeBron James, però, ha scelto di non firmare l’appello. E perché mai? Il team del fenomeno di Cleveland si giustifica dicendo di non conoscere sufficientemente le condizioni del Darfur e aggiunge poi di non voler confondere un evento sportivo come le Olimpiadi con la politica; probabilmente dimenticandosi di tutte le volte che le Olimpiadi si sono invece intrecciate con la politica: ad esempio quelle tedesche, e di Adolf Hitler, del 1936, ad esempio quelle di Monaco nel 1972, undici atleti israeliani uccisi, ad esempio quelle del 1980 di Mosca, quando gli Olympics Games furono boicottati oltre che dagli Stati Uniti proprio dalla Cina. Ma è la prima delle due giustificazioni ad aver cacciato LeBron in un piccolo terremoto. LeBron dice di non conoscere la situazione del Darfur, ma c’è chi giura che LeBron la situazione la conosca perfettamente. Lui, così come il suo sponsor ufficiale, la Nike, che ha recentemente firmato un contratto da 90 milioni di dollari con LBJ, che dopodomani lancerà negli Stati Uniti una nuova linea di abbigliamento sportivo per celebrare le Olimpiadi cinesi e che, soprattutto, come scrive il Christian Science Monitor, ha “huge business interests in China”, grandi interessi nel business cinese. In che senso? Nel senso che lo sponsor con il baffo di LeBron avrebbe potuto non gradire una firma di LeBron su un documento che condanna uno stato che organizza quelle Olimpiadi dove la Nike è l’azienda al mondo che più ha investito in pubblicità. E LeBron, in questo momento, non è uno qualsiasi. LeBron è uno dei testimonial sui quali maggiormente punta la stessa Nike. Proprio la Nike, nelle ultime settimane, aveva scelto giusto LBJ per lanciare una nuova campagna pubblicitaria: sfondo nero, baffo bianco, canestro, schiacciata di LeBron e sotto, in bianco: “We are all witness”, siamo tutti testimoni.
Claudio Cerasa
30/05/07
“Non sono abbastanza informato”
La storia è questa. Ira Newble ha preso carta e penna, ha scritto una lunga lettera e ha chiesto ai suoi compagni di firmare un appello che cominciava così: “La Cina non può essere legittimata a essere il paese che ospiterà le Olimpiadi, uno degli eventi sportivi più importanti del mondo, negli stessi anni in cui la stessa Cina è complice nella distruzione e nelle sofferenze del Darfur”. Ira Newble parla di Darfur, parla del genocidio e lo fa con un tono molto severo. Newble ha pensato di scrivere questa lettera poche settimane dopo aver letto un lungo articolo su Usa Today – uno dei giornali preferiti di Ira – molto preciso nel raccontare, oltre al genocidio, i grandi interessi della Cina nella regione del Darfur e il modo in cui, sempre la Cina, “riempisse di armi il governo sudanese”. Newble, considerato come una sorta di Pessotto dell’Nba, molto colto e grande lettore di libri e di giornali, non ci ha pensato su: scrive la lettera, la invia nel Massachusetts a un importante professore dello Smith College (esperto di Darfur) e assieme a lui conia un termine molto pesante che Newble utilizzerà poi all’interno del suo appello: “Genocide Olympics”, il Genocidio delle Olimpiadi. Newble è il primo atleta professionista che ha scelto di esporsi per la causa del Darfur, un po’ come fece il tennista Arthur Ashe per l’apartheid in Sudafrica e Muhammad Ali per la guerra in Vietnam. LeBron James, però, ha scelto di non firmare l’appello. E perché mai? Il team del fenomeno di Cleveland si giustifica dicendo di non conoscere sufficientemente le condizioni del Darfur e aggiunge poi di non voler confondere un evento sportivo come le Olimpiadi con la politica; probabilmente dimenticandosi di tutte le volte che le Olimpiadi si sono invece intrecciate con la politica: ad esempio quelle tedesche, e di Adolf Hitler, del 1936, ad esempio quelle di Monaco nel 1972, undici atleti israeliani uccisi, ad esempio quelle del 1980 di Mosca, quando gli Olympics Games furono boicottati oltre che dagli Stati Uniti proprio dalla Cina. Ma è la prima delle due giustificazioni ad aver cacciato LeBron in un piccolo terremoto. LeBron dice di non conoscere la situazione del Darfur, ma c’è chi giura che LeBron la situazione la conosca perfettamente. Lui, così come il suo sponsor ufficiale, la Nike, che ha recentemente firmato un contratto da 90 milioni di dollari con LBJ, che dopodomani lancerà negli Stati Uniti una nuova linea di abbigliamento sportivo per celebrare le Olimpiadi cinesi e che, soprattutto, come scrive il Christian Science Monitor, ha “huge business interests in China”, grandi interessi nel business cinese. In che senso? Nel senso che lo sponsor con il baffo di LeBron avrebbe potuto non gradire una firma di LeBron su un documento che condanna uno stato che organizza quelle Olimpiadi dove la Nike è l’azienda al mondo che più ha investito in pubblicità. E LeBron, in questo momento, non è uno qualsiasi. LeBron è uno dei testimonial sui quali maggiormente punta la stessa Nike. Proprio la Nike, nelle ultime settimane, aveva scelto giusto LBJ per lanciare una nuova campagna pubblicitaria: sfondo nero, baffo bianco, canestro, schiacciata di LeBron e sotto, in bianco: “We are all witness”, siamo tutti testimoni.
Claudio Cerasa
30/05/07
Il Foglio. "Capezzone risponde via web a Pannella e prepara un network"
Roma. Che cosa ha in mente Daniele Capezzone? Ventiquattro ore dopo il durissimo atto d’accusa di Marco Pannella all’ex segretario dei radicali, alla sua politica non più radicale, alle sue evidenti forme di scissionismo e alle sue possibili trame volenterose, il presidente della commissione Attività produttive della Camera risponde a Pannella e lo fa, Capezzone, con un intervento che potrebbe segnare una svolta nel rapporto a puntate tra Capezzone e Pannella e, più in generale, nel rapporto tra il deputato della Rosa nel pugno e i radicali. Perché Capezzone ringrazia Marco Pannella, “a cui debbo tantissimo”, dice di aver passato “sette mesi a far finta di nulla”, facendo “sforzi di moderazione”, imponendosi di “non vedere”, “di non sentire”, e dimenticandosi di essere stato paragonato “al Mussolini degli anni Venti”; ma Capezzone dice, e non l’aveva mai detto in maniera così chiara, di aver “bisogno di progettare il futuro”; e, a questo proposito, sono due le frasi chiave della lettera di ieri: “Tante e tanti radicali (e non radicali) avranno senz’altro modo di farsi una opinione e una valutazione propria”, questa “è una sfida appassionante, io cercherò di fare la mia piccola parte per animarla. per consentire a tante e tanti altri di compiere, insieme, la stessa buona fatica” e – aggiunge Capezzone – “credo proprio che non soffrirò di solitudine”.
Che cosa ha in mente Daniele Capezzone? E soprattutto per quale motivo Marco Pannella ha scelto di lanciare l’atto di accusa all’ex segretario radicale in un momento in cui, nel paese, tutti i partiti e tutti i giornali d’Italia, più che occuparsi di scontri a puntate, hanno tempo e spazio solo per occuparsi di amministrative, di elezioni e di politica sul campo? Marco Pannella potrebbe aver capito che Capezzone sta per muovere le sue pedine e ha preferito attaccare, mettere subito le cose in chiaro. E questo nonostante il momento non sia esattamente dei migliori, anche dal punto di vista mediatico. Ora o mai più. E qualche progetto in testa, Capezzone, sembra avercelo davvero. Lui ieri, nella sua lettera, ha scritto che, seppur “sollecitato da moltissimi compagni”, a novembre non si ricandiderà al congresso dei Radicali, ma c’è chi è pronto a scommette che, a novembre, il deputato della Rosa nel pugno potrebbe davvero aver già fondato da un pezzo la sua “cosa”; quella che lui non vorrebbe chiamare partito, ma più semplicemente network, una rete in continuo work in progress con le idee “liberali, liberiste, libertarie, radicali” di cui era Capezzone stesso a parlare nella sua lettera. Un network, questo, sul quale Capezzone sembra stia ragionando da tempo e che potrebbe mettere insieme movimenti, think tank, riformisti, industriali e ovviamente anche un po’ dello spirito dei volenterosi (come nome Volenterosi piacerebbe molto a Capezzone, ma il movimento con la “V”, Capezzone – e non solo lui – vorrebbe che rimanesse un’iniziativa a sé, trasversale e bipartisan). Chissà che questa non sia la volta buona e che Capezzone non ci pensi davvero a mettersi in proprio: e chissà che “i tante e tanti radicali (e non radicali)” che “avranno senz’altro modo di farsi una opinione e una valutazione propria” non siano gli stessi compagni ai quali ieri Daniele Capezzone potrebbe aver lanciato un messaggio preciso prima della chiamata alle armi e prima della creazione di quel network che potrebbe nascere già nei prossimi giorni, sicuramente prima dell’estate e con il quale Daniele Capezzone potrebbe davvero dire addio anche a Marco Pannella.
Claudio Cerasa
30/05/07
Che cosa ha in mente Daniele Capezzone? E soprattutto per quale motivo Marco Pannella ha scelto di lanciare l’atto di accusa all’ex segretario radicale in un momento in cui, nel paese, tutti i partiti e tutti i giornali d’Italia, più che occuparsi di scontri a puntate, hanno tempo e spazio solo per occuparsi di amministrative, di elezioni e di politica sul campo? Marco Pannella potrebbe aver capito che Capezzone sta per muovere le sue pedine e ha preferito attaccare, mettere subito le cose in chiaro. E questo nonostante il momento non sia esattamente dei migliori, anche dal punto di vista mediatico. Ora o mai più. E qualche progetto in testa, Capezzone, sembra avercelo davvero. Lui ieri, nella sua lettera, ha scritto che, seppur “sollecitato da moltissimi compagni”, a novembre non si ricandiderà al congresso dei Radicali, ma c’è chi è pronto a scommette che, a novembre, il deputato della Rosa nel pugno potrebbe davvero aver già fondato da un pezzo la sua “cosa”; quella che lui non vorrebbe chiamare partito, ma più semplicemente network, una rete in continuo work in progress con le idee “liberali, liberiste, libertarie, radicali” di cui era Capezzone stesso a parlare nella sua lettera. Un network, questo, sul quale Capezzone sembra stia ragionando da tempo e che potrebbe mettere insieme movimenti, think tank, riformisti, industriali e ovviamente anche un po’ dello spirito dei volenterosi (come nome Volenterosi piacerebbe molto a Capezzone, ma il movimento con la “V”, Capezzone – e non solo lui – vorrebbe che rimanesse un’iniziativa a sé, trasversale e bipartisan). Chissà che questa non sia la volta buona e che Capezzone non ci pensi davvero a mettersi in proprio: e chissà che “i tante e tanti radicali (e non radicali)” che “avranno senz’altro modo di farsi una opinione e una valutazione propria” non siano gli stessi compagni ai quali ieri Daniele Capezzone potrebbe aver lanciato un messaggio preciso prima della chiamata alle armi e prima della creazione di quel network che potrebbe nascere già nei prossimi giorni, sicuramente prima dell’estate e con il quale Daniele Capezzone potrebbe davvero dire addio anche a Marco Pannella.
Claudio Cerasa
30/05/07
martedì 29 maggio 2007
Pannella dà di scissionista a Capezzone con un duro atto d’accusa
Sette mesi dopo la storica direzione durante la quale tra Marco Pannella e Daniele Capezzone ci fu un robusto scambio di opinioni sulle strategie future dei radicali (Capezzone chiedeva a Pannella perché infilarsi “nel cliché più stupido, quello del padre che divora i suoi figli?”, Pannella rispondeva dicendo che “domenica hai fatto un’ora di trasmissione per farmi un culo così”, Capezzone riattaccava parlando di “strategie autolesionistiche da Tafazzi”, Pannella concludeva con un “ti credi davvero di essere il grande stratega mentre gli altri sono degli stronzi?”), dopo tutto questo, ieri pomeriggio Marco Pannella ha scritto a Daniele Capezzone una durissima lettera con la quale il leader dei radicali dichiara ufficialmente guerra all’ex segretario del partito; e lo fa con una lettera che, secondo Pannella, non sarebbe altro che una riflessione “sulle evidenti forme di scisssione” di Capezzone, ma che in realtà, se non è un attacco è quantomeno un ultimatum. Caro Daniele, sei ancora dei nostri?
Nelle quindicimila battute indirizzate al presidente della commissione Attività produttive della Camera, Pannella, accusa Capezzone di operare “esplicitamente in opposizione a noi, non solamente al centrosinistra, che, per nostra scelta, ti aveva nominato ‘Presidente’ nemmeno un anno fa”, accusa Capezzone di essere l’unico nel partito che quando parla parla per sé (e non per i radicali) dato che ogni sua parola sembra nascere esclusivamente “con lui e la sua forza creativa”. E ovviamente non è tutto. Perché nella lettera di Pannella, il leader dei radicali va sul pesante; e non solo perché quando parla di politica e quando parla di Capezzone Pannella ricorda sempre che quella è solo “la tua politica”, Caro Daniele, ma perché Pannella ricorda che “Daniele è l’ultimo dei 630 eletti alla Camera per numero di presenze nelle votazioni”, ricorda le tante, forse troppe, “missioni di Capezzone” e ricorda che Capezzone “figura all’ultimo posto tra tutti i deputati con 52 presenze nelle 2.458 votazioni che si sono svolte alla Camera, cui avrebbe dovuto partecipare”. Ma non solo. Pannella decide di tirare due colpi pesanti a Capezzone parlando di soldi (“l’essere ‘in missione’ consente al deputato di percepire i duecento euro che altrimenti sarebbero detratti dalla diaria quando non si partecipa ad almeno un terzo delle votazioni della giornata”) e, infine, allega un lungo dossier che, secondo Pannella, sarebbe utile per dare idea di come la politica di Capezzone, oltre a non coincidere più con quella radicale, è diventata per di più pure contraddittoria. E per farlo riporta due date: 2007, Capezzone su Montezemolo: “Dal presidente di Confindustria è venuta una bella e coraggiosa sfida liberale”; 2004, Capezzone, ancora su Montezemolo: “Si farà prima o poi una rassegna stampa sugli ultimi quattro mesi di Montezemolo? Io al conflitto d’interessi ci credo”.
La lettera di Pannella arriva in un momento particolare. Dopo la notizia del fermo russo di Marco Cappato, il leader dei radicali ha annunciato che – oltre allo sciopero della fame in cui è impegnato dal 16 aprile – da mercoledì inizierà anche lo sciopero della sete per la moratoria universale delle esecuzioni capitali. Ma c’è dell’altro, perché non è certo un caso che la lettera di Pannella arrivi dopo che la scorsa settimana i Volenterosi di Capezzone erano tornati a parlare dopo alcuni mesi di assenza, spiegando di avere in cantiere un Dpef tutto loro da proporre in alternativa a quello del governo (e anche qui Pannella non ha gradito che “i radicali, i ‘suoi’ compagni radicali, non esistono in alcun modo”). Cosa ha in mente Capezzone? Lui ieri pomeriggio ha preferito non dire nulla, ha detto di essere molto impegnato in una lunga riunione e ha spiegato di non aver tempo per replicare. E già questo, per uno come Capezzone, suona singolare. Chissà che Capezzone non stia preparando un annuncio a sorpresa. Perché è vero che lui stesso pochi mesi fa aveva concluso un intervento a Padova dicendo: “Caro Marco devo darti una brutta notizia. Non ho nessuna intenzione di mollarti, è una sfida. Sono cazzi tuoi, perché io non me ne vado”, ma chissà che ora Capezzone, dopo l’attacco di Pannella, non stia pensando di rispondere con una sorpresa, tutta sua.
Claudio Cerasa
29/05/07
Nelle quindicimila battute indirizzate al presidente della commissione Attività produttive della Camera, Pannella, accusa Capezzone di operare “esplicitamente in opposizione a noi, non solamente al centrosinistra, che, per nostra scelta, ti aveva nominato ‘Presidente’ nemmeno un anno fa”, accusa Capezzone di essere l’unico nel partito che quando parla parla per sé (e non per i radicali) dato che ogni sua parola sembra nascere esclusivamente “con lui e la sua forza creativa”. E ovviamente non è tutto. Perché nella lettera di Pannella, il leader dei radicali va sul pesante; e non solo perché quando parla di politica e quando parla di Capezzone Pannella ricorda sempre che quella è solo “la tua politica”, Caro Daniele, ma perché Pannella ricorda che “Daniele è l’ultimo dei 630 eletti alla Camera per numero di presenze nelle votazioni”, ricorda le tante, forse troppe, “missioni di Capezzone” e ricorda che Capezzone “figura all’ultimo posto tra tutti i deputati con 52 presenze nelle 2.458 votazioni che si sono svolte alla Camera, cui avrebbe dovuto partecipare”. Ma non solo. Pannella decide di tirare due colpi pesanti a Capezzone parlando di soldi (“l’essere ‘in missione’ consente al deputato di percepire i duecento euro che altrimenti sarebbero detratti dalla diaria quando non si partecipa ad almeno un terzo delle votazioni della giornata”) e, infine, allega un lungo dossier che, secondo Pannella, sarebbe utile per dare idea di come la politica di Capezzone, oltre a non coincidere più con quella radicale, è diventata per di più pure contraddittoria. E per farlo riporta due date: 2007, Capezzone su Montezemolo: “Dal presidente di Confindustria è venuta una bella e coraggiosa sfida liberale”; 2004, Capezzone, ancora su Montezemolo: “Si farà prima o poi una rassegna stampa sugli ultimi quattro mesi di Montezemolo? Io al conflitto d’interessi ci credo”.
La lettera di Pannella arriva in un momento particolare. Dopo la notizia del fermo russo di Marco Cappato, il leader dei radicali ha annunciato che – oltre allo sciopero della fame in cui è impegnato dal 16 aprile – da mercoledì inizierà anche lo sciopero della sete per la moratoria universale delle esecuzioni capitali. Ma c’è dell’altro, perché non è certo un caso che la lettera di Pannella arrivi dopo che la scorsa settimana i Volenterosi di Capezzone erano tornati a parlare dopo alcuni mesi di assenza, spiegando di avere in cantiere un Dpef tutto loro da proporre in alternativa a quello del governo (e anche qui Pannella non ha gradito che “i radicali, i ‘suoi’ compagni radicali, non esistono in alcun modo”). Cosa ha in mente Capezzone? Lui ieri pomeriggio ha preferito non dire nulla, ha detto di essere molto impegnato in una lunga riunione e ha spiegato di non aver tempo per replicare. E già questo, per uno come Capezzone, suona singolare. Chissà che Capezzone non stia preparando un annuncio a sorpresa. Perché è vero che lui stesso pochi mesi fa aveva concluso un intervento a Padova dicendo: “Caro Marco devo darti una brutta notizia. Non ho nessuna intenzione di mollarti, è una sfida. Sono cazzi tuoi, perché io non me ne vado”, ma chissà che ora Capezzone, dopo l’attacco di Pannella, non stia pensando di rispondere con una sorpresa, tutta sua.
Claudio Cerasa
29/05/07
venerdì 25 maggio 2007
Panorama. "I diplomatici gay in India"
Pochi giorni fa in India è scoppiato un vero e proprio caso diplomatico tra l’ambasciata canadese e il governo del primo ministro indiano, Manmohan Singh. Le autorità canadesi hanno chiesto ai propri colleghi indiani di poter accreditare due diplomatici presso la sede dell’ambasciata canadese di New Delhi. I due diplomatici, come da prassi, essendo accompagnati dai propri coniugi, hanno presentato una doppia richiesta di accredito. I quattro canadesi, una volta arrivati in India, hanno inviato il fax, hanno chiesto il pass, si sono presentati in sede e poi, una volta chiarito che gli “spouses”, cioè le coppie di diplomatici, erano in realtà entrambe coppie di omosessuali (una gay e l’altra lesbica), il governo indiano ha respinto le richiesta di accredito, per la semplice ragione che in India l’omosessualità (dal 1862) è classificata nel codice penale come un “sex against the order of nature”, ovvero una sessualità contro natura. E per questo si capisce perché in India, al contrario che in Canada, i matrimoni omosessuali non sono esattamente legali (in India, per il reato di sodomia, è previsto anche l’ergastolo). La diplomazia canadese ha però ricordato che ci sarebbe una convenzione, quella di Vienna del 1961, cioè la stessa convezione che garantisce l’immunità per i diplomatici e per i loro familiari. Convenzione che il governo indiano conosce molto bene ma che vale soltanto per i crimini compiuti nel paese d’origine. E una coppia gay in Canada non è reato, mentre in India invece lo è.
Claudio Cerasa
25/05/07
Claudio Cerasa
25/05/07
RollingStone. "Billy Bush"
Billy preferirebbe non parlarne. Preferirebbe parlare dello zio (George), delle cugine (Barbara, Laura e Jenna), preferirebbe parlare dei suoi capelli alla Brandon Walsh (lo Jason Priestley di Beverly Hills 90210), del suo scomodissimo Blackberry, della protesi di legno che conserva sopra la scrivania (“una gamba in più può sempre servire”), delle interviste con Bruce Willis e Tom Cruise, della sua voce alla Ricky Martin, delle sue terribili camice gialle, della sua somiglianza con Bob Woodward (cioè il giornalista del Washington Post che diede vita al caso Watergate – caso che portò poi alle dimissioni del presidente Nixon – e al cui paragone sembra che Billy creda davvero), preferirebbe parlare della sua storia, di quando conduceva una trasmissione radiofonica di successo e di quando nessuno sapeva neppure che esistesse. Preferirebbe parlare di tutto, Billy, anche di quella volta che chiese a Penolepe Cruz il cognome del suo ex fidanzato (e cioè Matthew McConaughey, l’attore da cui la Cruz si lascio con un “comunicato congiunto” inviato alla rivista People) e di quando le disse: “Can you spell that?”, chiese Billy, e Penelope non riuscì a spell il cognome dell’ex fidanzato. Ci furono molte risate, ma Penelope non tornò più da Billy, nè ad Access Hollywood (il programma dove lavora Billy, un programma a metà tra “Entertainment Tonight” e “Extra”, un po’ Iene un po’ Invasioni Barbariche) e non tornò più alla Nbc, cioè la rete dove Access Hollwood va in onda. Preferirebbe parlare di tutto Billy, detto Bushy, ma non di quel cugino di primo grado che di cognome fa Bush, come Billy, e che da sette anni abita alla Casa Bianca, esattamente come ci abitò per otto anni suo zio, George, quando Billy ancora lavorava in radio per sei dollari l’ora. L’accordo, però, ora è questo: Billy non parla di George, George non parla di Billy. E a George W. l’idea sembra sia arrivata direttamente dal suo biografo, Frank Bruni. Pur ammettendo che anche grazie a Billy i “Bushes” sono una “very influently family of the United States”, Bruni sembra che abbia consigliato a George W. che con una nipote arrestata, due figlie tutt’altro che sobrie recentemente stoppate dai cops, l’ultima cosa di cui la sua famiglia ha bisogno è – ricorda Bruni – di rivendicare la parentela con un Bush che – lo ricordava maliziosamente il Los Angeles Times a metà marzo – non è mai stato al fronte (esattamente come zio George, come mr Cousin George , come mr altro cousin Jebb e come quasi tutta la famiglia di mr ex president George), l’ultima cosa di cui George ha bisogno è, per l’appunto, rivendicare la parentela con un Bush che si diverte a fare domande sul culo effettivamente bianco di Leonardo Di Caprio (in un’intervista all’attore subito dopo “The Aviator”), che quando fu invitato a presentare la finale di Miss U.S.A. alla prima delle cinque finaliste – era Miss Utah – iniziò a fare un paio di domande piuttosto imbarazzanti su Micheal Jackson (“farebbe dormire i suoi figli con lui?”, Billy non fu mai più chiamato) e che pur essendo considerato “cocksure but affabile”, presuntuoso ma piacevole e pur conducendo un reality dove verranno arruolati i futuri protagonisti del revival di Grease (il programma sembra che riscuota un considerevole insuccesso negli Stati Uniti, ma Billy si sente sempre molto Watergate), sembra poter essere al massimo uno che – un po’ come capita al pur elettrizzante Pino Insegno – ti può dire contemporaneamente e senza contraddirsi mai “piacere giornalista”, “piacere, conduttore”, “piacere, presentatore”, “piacere creativo”, “piacere non so cosa faccio nella vita”; Billy, più che altro, sembra essere al massimo un perfetto mix tra Borat, Valerio Staffelli, Ace Ventura e Brandon Walsh, più che un buon cuscinetto tra George W e quel mondo hollywoodiano piuttosto scettico su George e che, tanto per capire, per ricordare il suo amore per mr “W.” ha voluto recentemente dedicare al presidente degli Stati Uniti un rassicurante film dal titolo “Death of a President”.
Claudio Cerasa
25/05/07
Claudio Cerasa
25/05/07
Il Foglio. "Invischiati. Unipol e generali. Così Visco ha creato un pasticcio di potere per comandare sulla Gdf"
Roma La strana storia che riguarda il viceministro all’Economia, Vincenzo Visco, il comandante generale della Guardia di finanza, Roberto Speciale, la procura di Milano, Prodi e gli stessi vertici della Guardia di finanza della Lombardia che nell’estate del 2005 hanno indagato sulla scalata dell’Unipol di Giovanni Consorte sulla Bnl, ha sei giorni chiave e due o tre misteri da chiarire. Le date da ricordare sono il 26 giugno, il 13 luglio, il 14 luglio, il 15 luglio, il 17 luglio e il 26 luglio. Nell’arco di questi trenta giorni, Vincenzo Visco, da poco insiedatosi al ministero, riceve il generale Speciale per discutere del possibile trasferimento di alcuni dirigenti della Gdf di Milano (è il 26 giugno), decide di offrire allo stesso generale una lista di ufficiali da “sostituire immediatamente” (è il 13 luglio), spiega a Speciale che per questi avvicendamenti non ci sarebbe stato bisogno di avvertire nessuna autorità giudiziaria e quindi, dopo aver colto la preoccupazione sulla vicenda del procuratore di Milano, Manlio Minale, ribadisce al generale Speciale che “i trasferimenti vanno eseguiti immediatamente” (il 14 luglio), trova sulla scrivania una minacciosa agenzia (“Unipol, azzerati i vertici della Guardia di finanza della Lombardia”, è il 15 luglio) e quindi ricorda al generale Speciale che “se non avesse ottemperato alle direttive ci sarebbero state conseguenze”. Ma sul caso Visco e sul terremoto nella Gdf milanese, ci sono alcuni aspetti da spiegare e da non sottovalutare. Specie dopo quello che il premier Romano Prodi disse quasi un anno fa in Parlamento. Era il 27 luglio, l’anno era il 2006.
Secondo quanto detto alla Camera da Prodi, gli avvicendamenti proposti da Visco “sono nella prassi” e “non presentano alcuna eccezionalità”. Ma gli aspetti eccezionali nella vicenda ci sono eccome. Prodi e Visco dovrebbero sapere che i trasferimenti degli ufficiali della Gdf sono disposti esclusivamente dal comandante generale due volte l’anno (a gennaio e prima dell’estate) e dovrebbero sapere che i trasferimenti straordinari vanno spiegati, documentati, comunicati all’autorità giudiziaria e non possono essere delegati a nessun altro; nemmeno a due importanti generali come Italo Pappa e Sergio Favaro (non è un caso che il procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano, abbia aperto un fascicolo sul presunto “impedimento all’esecuzione del comando”). Ma c’è di più. Secondo i verbali pubblicati ieri dal Giornale, sia Favaro che Pappa confermano ciò che Speciale disse all’avvocatura di stato il 17 luglio 2006, e cioè che fu proprio Visco a chiedere loro l’azzeramento dell’intera gerarchia della Gdf in Lombardia. Ora, se da un lato è difficile credere sia solo un caso che i generali e i colonnelli della Gdf che Visco avrebbe voluto sostituire facessero parte della catena di comando che si occupava della scalata Unipol su Bnl (il colonnello Lorusso dipendeva dal generale Forchetti, il colonnello Pomponi dipendeva da Lorusso, e il colonnello Tomei dipendeva da Pompei), dall’altro lato ci potrebbe però essere sia il maldestro tentativo di Visco di piazzare qualche suo uomo di fiducia, sia l’ambizione dei due generali Pappa e Favaro (scelti da Visco per discutere della sostituzione dei finanzieri). Secondo una fonte autorevole del Foglio, Pappa e Favaro, proprio in quei mesi avevano l’intenzione di acquistare più potere nel corpo militare e se ci fossero riusciti anche grazie alle attenzioni di Visco, questo per loro non sarebbe evidentemente stato un problema. Se non che i due finanzieri, interrogati il 6 dicembre dall’avvocatura di stato, iniziano a capire che quella storia si mette un po’ male e raccontano tutto agli avvocati. Sul caso Visco qualcosa in più si dovrebbe sapere nei prossimi giorni anche grazie ai contenuti delle lettere tra il viceministro e Roberto Speciale. Oltre a questo è poi interessante notare l’atteggiamento nei confronti di Visco di quella parte della maggioranza che aveva identificato da tempo il viceministro come uno dei principali problemi del governo Prodi. Se da un lato c’è il rumoroso silenzio dei vertici della Margherita e il ministro Arturo Parisi che non considera chiuso il caso, c’è chi come Antonio Di Pietro continua a essere duro con Visco, e maliziosamente ritiene che “togliere gli autori investigativi dal fascicolo significa fermare l’azione giudiziaria”.
Claudio Cerasa
25/05/07
Secondo quanto detto alla Camera da Prodi, gli avvicendamenti proposti da Visco “sono nella prassi” e “non presentano alcuna eccezionalità”. Ma gli aspetti eccezionali nella vicenda ci sono eccome. Prodi e Visco dovrebbero sapere che i trasferimenti degli ufficiali della Gdf sono disposti esclusivamente dal comandante generale due volte l’anno (a gennaio e prima dell’estate) e dovrebbero sapere che i trasferimenti straordinari vanno spiegati, documentati, comunicati all’autorità giudiziaria e non possono essere delegati a nessun altro; nemmeno a due importanti generali come Italo Pappa e Sergio Favaro (non è un caso che il procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano, abbia aperto un fascicolo sul presunto “impedimento all’esecuzione del comando”). Ma c’è di più. Secondo i verbali pubblicati ieri dal Giornale, sia Favaro che Pappa confermano ciò che Speciale disse all’avvocatura di stato il 17 luglio 2006, e cioè che fu proprio Visco a chiedere loro l’azzeramento dell’intera gerarchia della Gdf in Lombardia. Ora, se da un lato è difficile credere sia solo un caso che i generali e i colonnelli della Gdf che Visco avrebbe voluto sostituire facessero parte della catena di comando che si occupava della scalata Unipol su Bnl (il colonnello Lorusso dipendeva dal generale Forchetti, il colonnello Pomponi dipendeva da Lorusso, e il colonnello Tomei dipendeva da Pompei), dall’altro lato ci potrebbe però essere sia il maldestro tentativo di Visco di piazzare qualche suo uomo di fiducia, sia l’ambizione dei due generali Pappa e Favaro (scelti da Visco per discutere della sostituzione dei finanzieri). Secondo una fonte autorevole del Foglio, Pappa e Favaro, proprio in quei mesi avevano l’intenzione di acquistare più potere nel corpo militare e se ci fossero riusciti anche grazie alle attenzioni di Visco, questo per loro non sarebbe evidentemente stato un problema. Se non che i due finanzieri, interrogati il 6 dicembre dall’avvocatura di stato, iniziano a capire che quella storia si mette un po’ male e raccontano tutto agli avvocati. Sul caso Visco qualcosa in più si dovrebbe sapere nei prossimi giorni anche grazie ai contenuti delle lettere tra il viceministro e Roberto Speciale. Oltre a questo è poi interessante notare l’atteggiamento nei confronti di Visco di quella parte della maggioranza che aveva identificato da tempo il viceministro come uno dei principali problemi del governo Prodi. Se da un lato c’è il rumoroso silenzio dei vertici della Margherita e il ministro Arturo Parisi che non considera chiuso il caso, c’è chi come Antonio Di Pietro continua a essere duro con Visco, e maliziosamente ritiene che “togliere gli autori investigativi dal fascicolo significa fermare l’azione giudiziaria”.
Claudio Cerasa
25/05/07
giovedì 24 maggio 2007
Il Foglio. "Il tamburo nel citofono e qualche numeretto di una Caput Mundi un po’ caciarona"
Roma. Più che le favelas lungo il Tevere (secondo il Cav. sono circa novemila), più che i muri del centro imbrattati di vernice (il sindaco di Roma sull’argomento si è mostrato molto deciso e per combattere “la piaga della bomboletta” in una delle sue occasionali apparizioni pubbliche ha spiegato che, se occorre, le bombolette andrebbero direttamente eliminate dai negozi. Per la cronaca, l’occasionale programma era “La signora in giallorosso”), più che i tavolini in mezzo alle strade, più che le macchine parcheggiate in tripla fila di fronte ai parcheggi degli handicappati occupati da macchine che non hanno il permesso e che se ce l’hanno spesso non dovrebbero averlo (nel XVII Municipio i vigili hanno calcolato che dei 259 parcheggi per disabili con posto assegnato, il 25 per cento di questi permessi non è del tutto regolare), più che i mercatini abusivi nel centro di Roma (dopo gli attentati di Londra, il prefetto Achille Serra li aveva proibiti nei pressi della metro, ma ad Anagnina, a Ponte Mammolo e a Piazza di Spagna si trovano ancora bellissime finte borsette Prada a 15 euro, stecche Marlboro tre euro, sigarette rumene due euro), più che i suk in mezzo alla strada (a Porta Portese dei 3.500 banchetti che sbocciano nel weekend quelli regolari in realtà sarebbero solo 750), più che i varchi ztl che un po’ funzionano e un po’ no (ma a Roma ci sono 62 mila permessi per ogni 180 mila targhe) più che i vigili che multano ma non risolvono, più del problema traffico, dell’emergenza monnezza, dei tamburi notturni di Piazza Trilussa, dei megafoni serali di Piazza Navona, delle voragini nell’asfalto del quartiere africano (Roma, tra le 14 capitali più importanti d’Europa, è quella che detiene il più alto numero di morti sulle strade con una media di 8,37 vittime ogni 1.000 abitanti), del traforo Giovanni XXIII che 19 giorni su 30 o è chiuso o è bloccato, più che la Roma un po’ caciarona, un po’ disordinata e un po’ africana, tra le impeccabili feste del cinema, le straordinarie esposizioni al Vittoriano, le imperdibili fieste a Capannelle, le straordinarie anteprime all’Ara Pacis, girando per il centro di Roma, parlando con i rappresentanti delle associazioni che provano a tenere sotto controllo la qualità della vita nel centro storico, a Porta Portese, a Testaccio e a Flaminio si scopre che tra i piccoli grandi problemi della Capitale, tra i commercianti imbufaliti, i negozianti esauriti e i romani un po’ inviperiti, la sicurezza e la semplice vivibilità della Capitale (e non solo notturna) sono un problema davvero forte. Perché da una parte c’è il comune che presenta i dati sulla sicurezza (secondo il prefetto, Roma è la città più sicura d’Europa, anche se dal 2005 al 2006 ci sono state ben 30 mila denunce in più), dall’altro ci sono i commercianti del centro che raccolgono petizioni, artigiani che spiegano che così, con tutte quelle bancarelle, “non possono più svolgere le proprie attività normalmente” o magari – e la storia è vera – semplici trasteverini che si ritrovano un motorino con le ruote bucate, una moto con il bloccasterzo spaccato, che si rivolgono a una volante, che dicono scusate qui c’è gente che si droga, che si sentono rispondere siamo in divisa non possiamo intervenire, che poi vanno al commissariato, denunciano la droga, lo spaccio, il piccolo sfascio di un quartiere e poi si sentono rispondere, mi scusi, se siamo in servizio non possiamo intervenire, e poi, mi scusi, dica la verità, lei non ce l’ha con lo spaccio in generale, lei in realtà non vuole risolvere il problema, lei c’è l’ha con lo spaccio solo perché è di fronte casa sua.
Ecco, più che le favelas, più che i suk, più che i mercatini, a Roma (e non solo in centro) ci sono davvero tanti romani che ti spiegano come, più che le feste del cinema, gradirebbero non dover considerare la sicurezza né di destra né di sinistra e gradirebbero davvero dormire – ogni tanto – senza tamburi dentro il citofono di casa.
Claudio Cerasa
25/05/07
Ecco, più che le favelas, più che i suk, più che i mercatini, a Roma (e non solo in centro) ci sono davvero tanti romani che ti spiegano come, più che le feste del cinema, gradirebbero non dover considerare la sicurezza né di destra né di sinistra e gradirebbero davvero dormire – ogni tanto – senza tamburi dentro il citofono di casa.
Claudio Cerasa
25/05/07
sabato 19 maggio 2007
Il Foglio. "Il tamburo nel citofono e qualche numeretto di una Caput Mundi un po’ caciarona"
Roma. Più che le favelas lungo il Tevere (secondo il
Cav. sono circa novemila), più che i muri del centro imbrattati
di vernice (il sindaco di Roma sull’argomento
si è mostrato molto deciso e per combattere “la piaga
della bomboletta” in una delle sue occasionali apparizioni
pubbliche ha spiegato che, se occorre, le bombolette
andrebbero direttamente eliminate dai negozi.
Per la cronaca, l’occasionale programma era “La signora
in giallorosso”), più che i tavolini in mezzo alle
strade, più che le macchine parcheggiate in tripla fila
di fronte ai parcheggi degli handicappati occupati da
macchine che non hanno il permesso e che se ce l’hanno
spesso non dovrebbero averlo (nel XVII Municipio
i vigili hanno calcolato che dei 259 parcheggi per disabili
con posto assegnato, il 25 per cento di questi permessi
non è del tutto regolare), più che i mercatini
abusivi nel centro di Roma (dopo gli attentati di Londra,
il prefetto Achille Serra li aveva proibiti nei pressi
della metro, ma ad Anagnina, a Ponte Mammolo e a
Piazza di Spagna si trovano ancora bellissime finte
borsette Prada a 15 euro, stecche Marlboro tre euro,
sigarette rumene due euro), più che i suk in mezzo alla
strada (a Porta Portese dei 3.500 banchetti che sbocciano
nel weekend quelli regolari in realtà sarebbero
solo 750), più che i varchi ztl che un po’ funzionano e
un po’ no (ma a Roma ci sono 62 mila permessi per
ogni 180 mila targhe) più che i vigili che multano ma
non risolvono, più del problema traffico, dell’emergenza
monnezza, dei tamburi notturni di Piazza Trilussa,
dei megafoni serali di Piazza Navona, delle voragini
nell’asfalto del quartiere africano (Roma, tra le 14 capitali
più importanti d’Europa, è quella che detiene il
più alto numero di morti sulle strade con una media
di 8,37 vittime ogni 1.000 abitanti), del traforo Giovanni
XXIII che 19 giorni su 30 o è chiuso o è bloccato, più
che la Roma un po’ caciarona, un po’ disordinata e un
po’ africana, tra le impeccabili feste del cinema, le
straordinarie esposizioni al Vittoriano, le imperdibili
fieste a Capannelle, le straordinarie anteprime all’Ara
Pacis, girando per il centro di Roma, parlando con
i rappresentanti delle associazioni che provano a tenere
sotto controllo la qualità della vita nel centro storico,
a Porta Portese, a Testaccio e a Flaminio si scopre
che tra i piccoli grandi problemi della Capitale,
tra i commercianti imbufaliti, i negozianti esauriti e i
romani un po’ inviperiti, la sicurezza e la semplice vivibilità
della Capitale (e non solo notturna) sono un
problema davvero forte. Perché da una parte c’è il comune
che presenta i dati sulla sicurezza (secondo il
prefetto, Roma è la città più sicura d’Europa, anche se
dal 2005 al 2006 ci sono state ben 30 mila denunce in
più), dall’altro ci sono i commercianti del centro che
raccolgono petizioni, artigiani che spiegano che così,
con tutte quelle bancarelle, “non possono più svolgere
le proprie attività normalmente” o magari – e la storia
è vera – semplici trasteverini che si ritrovano un
motorino con le ruote bucate, una moto con il bloccasterzo
spaccato, che si rivolgono a una volante, che dicono
scusate qui c’è gente che si droga, che si sentono
rispondere siamo in divisa non possiamo intervenire,
che poi vanno al commissariato, denunciano la droga,
lo spaccio, il piccolo sfascio di un quartiere e poi si
sentono rispondere, mi scusi, se siamo in servizio non
possiamo intervenire, e poi, mi scusi, dica la verità, lei
non ce l’ha con lo spaccio in generale, lei in realtà non
vuole risolvere il problema, lei c’è l’ha con lo spaccio
solo perché è di fronte casa sua.
Ecco, più che le favelas, più che i suk, più che i
mercatini, a Roma (e non solo in centro) ci sono davvero
tanti romani che ti spiegano come, più che le feste
del cinema, gradirebbero non dover considerare
la sicurezza né di destra né di sinistra e gradirebbero
davvero dormire – ogni tanto – senza tamburi dentro
il citofono di casa.
Claudio Cerasa
19/05/07
Cav. sono circa novemila), più che i muri del centro imbrattati
di vernice (il sindaco di Roma sull’argomento
si è mostrato molto deciso e per combattere “la piaga
della bomboletta” in una delle sue occasionali apparizioni
pubbliche ha spiegato che, se occorre, le bombolette
andrebbero direttamente eliminate dai negozi.
Per la cronaca, l’occasionale programma era “La signora
in giallorosso”), più che i tavolini in mezzo alle
strade, più che le macchine parcheggiate in tripla fila
di fronte ai parcheggi degli handicappati occupati da
macchine che non hanno il permesso e che se ce l’hanno
spesso non dovrebbero averlo (nel XVII Municipio
i vigili hanno calcolato che dei 259 parcheggi per disabili
con posto assegnato, il 25 per cento di questi permessi
non è del tutto regolare), più che i mercatini
abusivi nel centro di Roma (dopo gli attentati di Londra,
il prefetto Achille Serra li aveva proibiti nei pressi
della metro, ma ad Anagnina, a Ponte Mammolo e a
Piazza di Spagna si trovano ancora bellissime finte
borsette Prada a 15 euro, stecche Marlboro tre euro,
sigarette rumene due euro), più che i suk in mezzo alla
strada (a Porta Portese dei 3.500 banchetti che sbocciano
nel weekend quelli regolari in realtà sarebbero
solo 750), più che i varchi ztl che un po’ funzionano e
un po’ no (ma a Roma ci sono 62 mila permessi per
ogni 180 mila targhe) più che i vigili che multano ma
non risolvono, più del problema traffico, dell’emergenza
monnezza, dei tamburi notturni di Piazza Trilussa,
dei megafoni serali di Piazza Navona, delle voragini
nell’asfalto del quartiere africano (Roma, tra le 14 capitali
più importanti d’Europa, è quella che detiene il
più alto numero di morti sulle strade con una media
di 8,37 vittime ogni 1.000 abitanti), del traforo Giovanni
XXIII che 19 giorni su 30 o è chiuso o è bloccato, più
che la Roma un po’ caciarona, un po’ disordinata e un
po’ africana, tra le impeccabili feste del cinema, le
straordinarie esposizioni al Vittoriano, le imperdibili
fieste a Capannelle, le straordinarie anteprime all’Ara
Pacis, girando per il centro di Roma, parlando con
i rappresentanti delle associazioni che provano a tenere
sotto controllo la qualità della vita nel centro storico,
a Porta Portese, a Testaccio e a Flaminio si scopre
che tra i piccoli grandi problemi della Capitale,
tra i commercianti imbufaliti, i negozianti esauriti e i
romani un po’ inviperiti, la sicurezza e la semplice vivibilità
della Capitale (e non solo notturna) sono un
problema davvero forte. Perché da una parte c’è il comune
che presenta i dati sulla sicurezza (secondo il
prefetto, Roma è la città più sicura d’Europa, anche se
dal 2005 al 2006 ci sono state ben 30 mila denunce in
più), dall’altro ci sono i commercianti del centro che
raccolgono petizioni, artigiani che spiegano che così,
con tutte quelle bancarelle, “non possono più svolgere
le proprie attività normalmente” o magari – e la storia
è vera – semplici trasteverini che si ritrovano un
motorino con le ruote bucate, una moto con il bloccasterzo
spaccato, che si rivolgono a una volante, che dicono
scusate qui c’è gente che si droga, che si sentono
rispondere siamo in divisa non possiamo intervenire,
che poi vanno al commissariato, denunciano la droga,
lo spaccio, il piccolo sfascio di un quartiere e poi si
sentono rispondere, mi scusi, se siamo in servizio non
possiamo intervenire, e poi, mi scusi, dica la verità, lei
non ce l’ha con lo spaccio in generale, lei in realtà non
vuole risolvere il problema, lei c’è l’ha con lo spaccio
solo perché è di fronte casa sua.
Ecco, più che le favelas, più che i suk, più che i
mercatini, a Roma (e non solo in centro) ci sono davvero
tanti romani che ti spiegano come, più che le feste
del cinema, gradirebbero non dover considerare
la sicurezza né di destra né di sinistra e gradirebbero
davvero dormire – ogni tanto – senza tamburi dentro
il citofono di casa.
Claudio Cerasa
19/05/07
venerdì 11 maggio 2007
Il Foglio. "L’orco di Rignano non è più orco"
Dopo il circo mediatico-giudiziario, il tribunale annulla gli arresti degli accusati (che intanto sono stati in carcere e alla gogna per 16 giorni). L’avvocato: “Decisione esemplare, rispecchia il nulla probatorio”
Roma. Ieri alle 16 e 21 minuti il Tribunale del riesame di Roma ha accolto il ricorso di cinque dei sei arrestati nell’inchiesta sui presunti abusi sessuali nella scuola materna Olga Rovere, a Rignano Flaminio. Sono stati liberati dal carcere di Rebibbia le maestre Silvana Magalotti, Marisa Pucci e Patrizia Del Meglio, il marito di Patrizia del Meglio (e autore televisivo) Gianfranco Scancarello e il cingalese Kelum Da Silva, il benzinaio del paese a 39 chilometri da Roma riconosciuto dai bambini come il “cattivo, cattivo, uomo nero”. Dopo 16 giorni di custodia cautelare, dopo le intercettazioni, dopo le accuse di violenza sessuale, sottrazione di minore, sequestro di persona, atti osceni in luogo pubblico e associazione a delinquere (accusa però rigettata dal gip), dopo che per mesi a Rignano (e non solo lì) in molti hanno creduto ai presunti stupri, ai diavoli col cappuccio, al sangue bevuto dai bambini, al giochino del ditino, alle patatine violentate, ai pipini infilati nel culetto, dopo tutto questo nel carcere di Rebibbia rimane solo la bidella Cristina Lunerdi: il suo ricorso era stato presentato in ritardo e la sua posizione sarà esaminata il 15 maggio. Le motivazioni dell’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare saranno depositate nelle prossime ore, ma con tutta probabilità le ragioni dovrebbero essere quelle sulle quali hanno puntato gli avvocati della difesa: la mancanza di gravi indizi. “E’ una decisione esemplare che rispecchia il nulla del materiale probatorio. Confidiamo che questa decisione costituisca motivo di riflessione intorno al problema della tutela della libertà personale, che è affrontato troppo superficialmente nel nostro paese”, ha detto l’avvocato Franco Coppi, difensore di Del Meglio e di Scancarello.
La decisione del Tribunale del riesame è clamorosa ma stupisce fino a un certo punto. Nell’inchiesta, che coinvolgerebbe fino a 16 bambini sotto i dieci anni, dal giorno della prima denuncia (il 9 luglio 2006) al giorno dell’arresto (il 24 aprile, 17 giorni fa) tutte le indagini portate avanti dalla procura di Tivoli, così come la struttura dell’ordinanza di custodia cautelare, erano e sono tuttora aggrappate a un’unica prova: quelle parole e quei racconti dei bambini arrivati nelle orecchie dei magistrati tramite le bocche dei genitori, prima, e della psichiatra Marcella Battisti Fraschetti, poi. Ma in tutto questo c’è qualcuno che ha dimenticato che sui bambini le perizie mediche non hanno riscontrato nessun segno di violenza sessuale, qualcuno che si è dimenticato delle incredibili accuse di satanismo (giustificate da qualche cappuccio con le corna trovato nelle case delle maestre), dei nomi sbagliati dell’ordinanza, dei presunti video pedopornografici mai ritrovati, delle infruttuose intercettazioni, dei peluche riconosciuti dai bambini su un monitor della polizia di Bracciano (e non nelle case delle maestre) e di un benzinaio incastrato perché un padre avrebbe raccontato dei sorrisetti e delle occhiate da fidanzatina che la sua bimba si scambiava inequivocabilmente con il benzinaio Maurizio che non si chiamava Maurizio e che non aveva neppure la patente per accompagnare i bambini nelle case degli orchi. Ed è anche per questo che, nonostante il ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Fioroni abbia già chiesto scusa per “i comportamenti di gravità inaudita”, nonostante questo le accuse sulla presunta pedofilia a Rignano sono da subito apparse piuttosto deboli. Ora il seguito dell’inchiesta passa al pm della procura di Tivoli, Mauro Mansi, che si ritrova con due possibilità: chiedere l’archiviazione o portare avanti le indagini, nominando un nuovo perito, riascoltando i bambini e chiedendo l’incidente probatorio che il gip Elvira Tamburelli aveva già bocciato la scorsa settimana.
Claudio Cerasa
12/05/07
Roma. Ieri alle 16 e 21 minuti il Tribunale del riesame di Roma ha accolto il ricorso di cinque dei sei arrestati nell’inchiesta sui presunti abusi sessuali nella scuola materna Olga Rovere, a Rignano Flaminio. Sono stati liberati dal carcere di Rebibbia le maestre Silvana Magalotti, Marisa Pucci e Patrizia Del Meglio, il marito di Patrizia del Meglio (e autore televisivo) Gianfranco Scancarello e il cingalese Kelum Da Silva, il benzinaio del paese a 39 chilometri da Roma riconosciuto dai bambini come il “cattivo, cattivo, uomo nero”. Dopo 16 giorni di custodia cautelare, dopo le intercettazioni, dopo le accuse di violenza sessuale, sottrazione di minore, sequestro di persona, atti osceni in luogo pubblico e associazione a delinquere (accusa però rigettata dal gip), dopo che per mesi a Rignano (e non solo lì) in molti hanno creduto ai presunti stupri, ai diavoli col cappuccio, al sangue bevuto dai bambini, al giochino del ditino, alle patatine violentate, ai pipini infilati nel culetto, dopo tutto questo nel carcere di Rebibbia rimane solo la bidella Cristina Lunerdi: il suo ricorso era stato presentato in ritardo e la sua posizione sarà esaminata il 15 maggio. Le motivazioni dell’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare saranno depositate nelle prossime ore, ma con tutta probabilità le ragioni dovrebbero essere quelle sulle quali hanno puntato gli avvocati della difesa: la mancanza di gravi indizi. “E’ una decisione esemplare che rispecchia il nulla del materiale probatorio. Confidiamo che questa decisione costituisca motivo di riflessione intorno al problema della tutela della libertà personale, che è affrontato troppo superficialmente nel nostro paese”, ha detto l’avvocato Franco Coppi, difensore di Del Meglio e di Scancarello.
La decisione del Tribunale del riesame è clamorosa ma stupisce fino a un certo punto. Nell’inchiesta, che coinvolgerebbe fino a 16 bambini sotto i dieci anni, dal giorno della prima denuncia (il 9 luglio 2006) al giorno dell’arresto (il 24 aprile, 17 giorni fa) tutte le indagini portate avanti dalla procura di Tivoli, così come la struttura dell’ordinanza di custodia cautelare, erano e sono tuttora aggrappate a un’unica prova: quelle parole e quei racconti dei bambini arrivati nelle orecchie dei magistrati tramite le bocche dei genitori, prima, e della psichiatra Marcella Battisti Fraschetti, poi. Ma in tutto questo c’è qualcuno che ha dimenticato che sui bambini le perizie mediche non hanno riscontrato nessun segno di violenza sessuale, qualcuno che si è dimenticato delle incredibili accuse di satanismo (giustificate da qualche cappuccio con le corna trovato nelle case delle maestre), dei nomi sbagliati dell’ordinanza, dei presunti video pedopornografici mai ritrovati, delle infruttuose intercettazioni, dei peluche riconosciuti dai bambini su un monitor della polizia di Bracciano (e non nelle case delle maestre) e di un benzinaio incastrato perché un padre avrebbe raccontato dei sorrisetti e delle occhiate da fidanzatina che la sua bimba si scambiava inequivocabilmente con il benzinaio Maurizio che non si chiamava Maurizio e che non aveva neppure la patente per accompagnare i bambini nelle case degli orchi. Ed è anche per questo che, nonostante il ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Fioroni abbia già chiesto scusa per “i comportamenti di gravità inaudita”, nonostante questo le accuse sulla presunta pedofilia a Rignano sono da subito apparse piuttosto deboli. Ora il seguito dell’inchiesta passa al pm della procura di Tivoli, Mauro Mansi, che si ritrova con due possibilità: chiedere l’archiviazione o portare avanti le indagini, nominando un nuovo perito, riascoltando i bambini e chiedendo l’incidente probatorio che il gip Elvira Tamburelli aveva già bocciato la scorsa settimana.
Claudio Cerasa
12/05/07
domenica 6 maggio 2007
Il Foglio. "Le streghe cattive sono tornate, ma solo in bocca ai bambini"
I peluche della maestra, la casa con i cuoricini e l’uomo nero nero. E se quei pedofili di Rignano Flaminio non esistessero? Cronaca di una possibile tragedia culturale e di un paese che ha scoperto cosa significa aver paura
Squilla il telefono, sono le diciannove e quarantadue, è il quattro maggio, l’anno è il duemilasei, Clara è seduta sul divano, la mamma Teresa ha appena acceso la televisione, poggia il telecomando sul tavolo, risponde al telefono, saluta e poi riattacca; Teresa ha trentadue anni, orecchino al naso, tatuaggio sul polso, orologio Gucci, maglietta scollata, zeppe bianche, jeans un po’ strappati, occhi verdi, capelli neri, sciarpa nera, pelle chiara, qualche brufolo. Teresa si avvicina alla figlia, la guarda, sorride, sorride anche la bimba, su Rai Uno va la pubblicità, Clara guarda la mamma ma Clara non parla. La guarda ancora ma Clara non dice nulla. Si ferma un attimo, Clara inclina la testa come fanno tutti i bambini quando stanno per dirti qualcosa di importante. Clara era andata a scuola anche quel giorno, nella classe con i fiori sulla vetrata, con i banchi che alla fine della quinta ora erano sempre raccolti lì, al centro dell’aula, con le maestre Marisa, Patrizia, Silvana, la bidella Cristina e gli altri ventiquattro compagni della classe nella scuola materna Olga Rovere di Rignano Flaminio, trentanove chilometri da Roma. Clara aveva fatto anche quel giorno le sue quattro, quasi cinque ore di lezione, mancavano tre settimane all’estate, aveva iniziato a sfogliare qualche fiaba, quelle con Cappuccetto Rosso, quelle con il lupo cattivo, con le fatine, con le case strane e con i cuoricini sui muri. “Mamma – dice Clara – se ti puntano una pistola in testa che cosa succede?”. “Dipende – risponde Teresa – dipende cosa fai con quella pistola”. “Mamma – dice Clara – se ti puntano una pistola in testa e poi sparano che succede, mamma?”. Clara alza il braccio destro, distende le dita della mano, chiude il mignolo, chiude l’anulare, porta la mano sulla testa. “Amore, se ti sparano si muore”, dice Teresa. “Anche se sparano a te, mamma?”. “Sì tesoro, anche se sparano a me”. Passano cinque secondi. Teresa guarda Clara ma non capisce. Clara prende fiato. Piega ancora la testa. Cinque secondi possono essere molto lunghi. “Mamma – dice Clara – ma se ti racconto una cosa mi prometti che non ti fai sparare?”. Due mesi dopo arriva una denuncia, ne arriva un’altra, un’altra ancora, in tutto sono cinque, cinque genitori di cinque bambini di Rignano Flaminio.
La prima denuncia il nove luglio, pochi mesi dopo le altre, i genitori iniziano a incontrarsi, i carabinieri di Bracciano indagano, arrivano i Ris, arrivano le telecamere nella scuola, arrivano le intercettazioni, arrivano i controlli sulla rete e quelli sui conti correnti, le perquisizioni, le ordinanze, la psicologa, il pubblico ministero, arriva la televisione, arriva il primo articolo di un giornale (il tredici ottobre sul Corriere di Viterbo), arriva una nuova preside (a settembre), arriva un nuovo maresciallo dei carabinieri (a marzo) e arriva persino un curioso reportage di Vincenzo Cerami (per il Messaggero).
Nella scuola di Rignano Flaminio è ormai da qualche mese che si parla di orchi, di mostri, di pedofili e di violenza sessuale. Fino a marzo erano solo voci. Dal venticinque aprile di quest’anno le voci sono diventate arresti.
A cinquecento metri dal palazzo del Comune di Rignano si trova una caserma dei Carabinieri. La caserma è molto piccola, ha due piani, un citofono, un corridoio, una stanza sulla destra, pochi carabinieri, una sola volante. Ma qui, a Rignano non è mai arrivata alcuna denuncia. I genitori dei bambini che sarebbero stati abusati non sono mai entrati qui dentro e quando hanno capito che c’era una sola, un’unica spiegazione a quelle irritazioni, a quei diavoli nudi, a quelle streghe cattive, a quell’uomo nero, all’orco con le corna, a quelle strane parole, a quelle domande sulla pistola, sui peluche, sui video, sulle maestre, sulle braccia tagliate, sul pisellino irritato, sui baffi neri, sulla maestra con le tette mosce, sulla bidella Patrizia, su un Giovanni che in realtà si chiama Gianfranco, sull’uomo nero effettivamente un po’ nero, quando hanno capito cosa stava succedendo, i genitori dei bambini di Rignano hanno preso la Flaminia e sono arrivati alla Caserma di Bracciano. La caserma di riferimento era quella, e non quella di Rignano. Troppe persone conosciute, troppe voci, troppe chiacchiere e i genitori avevano bisogno di fidarsi. Qualcuno doveva spiegare cosa era successo e qualcuno doveva spiegare cosa avevano fatto ai nostri figli. Perché come fai a non credere ai tuoi figli, a quattro anni di età? Come fai a non capire che c’è solo una spiegazione se quei bambini non mangiano più tanto, non vogliono più andare a scuola, se quei bambini hanno paura del buio, se fanno tutti quei sogni strani strani, se parlano di un posto lontano lontano dove ci sono i cuoricini per finta, se si toccano il pisellino, se giocano con la patatina e se hanno persino detto “mamma, papà, questa sera posso dormire nel lettone con voi?”. Qualcuno doveva spiegare cosa stava succedendo, così non si poteva andare più avanti, serviva un gesto, una denuncia, un consiglio. Serviva, quanto meno, una caserma dei carabinieri. “Comandante, mia figlia è stata violentata. In quella scuola ci sono i pedofili”.
Il sedici settembre arrivano le telecamere, il ventuno agosto le prime cinque famiglie furono interrogate, il nove settembre era stata identificata la prima casa, il quindici ottobre il sindaco di Rignano, Ottavio Coletta, chiede spiegazioni alla procura (quella di Tivoli) da cui sono partite le indagini e il sedici novembre cinque persone vengono iscritte sul registro degli indagati (c’è anche il titolare di una carrozzeria, ma solo per qualche settimana). Si cercano gli orchi, i pedofili, i mostri della scuola materna Olga Rovere, duecentocinquanta bambini, quasi mille quadrati di grandezza, due piani, un giardino, molte aule comunicanti, molti vetri, due insegnanti per ogni classe e parecchie maestre di sostegno. In questa scuola le maestre non erano mai da sole nelle loro classi. Il sette luglio arrivano le prime sei denunce, poi ne arrivano dieci, e altre quattro e ancora altre sei. In tutto fanno ventisei denunce. E questo dopo otto mesi di indagine, dopo aver tenuto sotto controllo (per mesi) le linee telefoniche degli indagati, i loro conti bancari, dopo aver parlato con i genitori dei bambini, dopo aver ricevuto le perizie psichiatriche, dopo l’importante consulenza di Luigi Cancrini (famoso psicologo, senatore dei Comunisti Italiani, collaboratore dell’Unità, su cui faceva referti psichiatrici di Silvio Berlusconi, e particolarmente convinto che a Rignano quei dannati pedofili ci siano davvero), dopo tutto questo, dopo quasi un anno, improvvisamente alcune maestre vengono arrestate. Viene arrestata Patrizia Del Meglio, suo marito Gianfranco Scancarello, Marisa Pucci, Silvana Candida Magalotti, Cristina Lucerti e Kelum Weramuni De Silva. Tre maestre, un autore televisivo, una bidella, un benzinaio. Le accuse sono forti, da urlo: si parla di atti osceni in luogo pubblico, sottrazione di minore, sequestro di persona, violenza sessuale; e questo in un paese come Rignano Flaminio, dove tutti un po’ si conoscono davvero e dove già da un po’ alle insegnanti era stato vietato di accarezzare la testa dei bambini, di riabbottonare i pantaloni degli alunni, di riallacciare le camicie dei piccoli, di pulirgli la bocca, di cambiare i pannolini, di festeggiare il carnevale, di vestirsi in maschera, di parlare di orchi, di lupi cattivi e di far uscire i bambini – da soli – dalla scuola in piazza Carlo Stefanini. Con un paese che per mesi non si parlava d’altro e con un sindaco molto preoccupato che non sapendo bene come comportarsi aveva ordinato ai giornalisti di rimanere lontani dalle scuole per quindici giorni, proibendo tra l’altro anche qualsiasi tipo di manifestazione politica e senza sapere che decisioni e ordinanze di questo tipo possono essere però prese solo dal prefetto o dal questore. E il prefetto di Roma, Achille Serra, questo gliel’ha fatto notare; giusto qualche giorno fa.
Ma se da un lato ci sono le maestre che non ci credono, quelle che si difendono, quelle che vanno a “Chi l’ha visto”, quelle che rilasciano le interviste, quelle che fanno le fiaccolate di fronte a Rebibbia, quelle che raccontano – e sono tante – che la colpa è soltanto delle famiglie, che tra quei genitori c’è chi ha seri problemi, con famiglie malamente divorziate, “storie di tossicodipendenze”, “madri in cura perché vedono il diavolo in casa” e con altri genitori – come si legge dalle perizie della psichiatra Marcella Fraschetti – con “problematiche familiari”, “indice di impulsività eccessivo”, “senso istericoforme”, “infanzia di violenza in famiglia” che portano al “suo vedere al microscopio anche le cose più terribili e nefande”, che “gli danno l’opportunità di elaborare il lutto affettivo orginario” ; se da un lato c’è tutto questo, dall’altro – a Rignano Flaminio – ci sono invece i genitori che hanno paura di non essere creduti, quelli che hanno paura che tutto questo sia successo davvero, quelli che sperano che non sia successo niente e che sanno che sarebbe terribile anche se a questo punto non fosse successo nulla. Perché i genitori sanno cosa è successo. Sanno che gli orchi sono le maestre, sanno che sono proprio le insegnanti che hanno cresciuto i loro figli ad aver infilato i vibratori nella patatina, ad aver fatto gocciolare la colla dentro il pisellino, ad aver fatto le iniezioni in testa e anche sulle braccia; sanno che non c’è altra spiegazione se quei bambini hanno il culetto irritato, se quei bambini vomitano, se si strusciano, se si masturbano, sanno che sono stati quei bastardi, il benzinaio, l’autore, la bidella, le maestre e se nessuno dice nulla in quella dannata scuola, se nessuno ricorda, se nessuno ha visto, vuol dire che sono tutti coinvolti, vuol dire che c’è una mafia, vuol dire che c’è quel sistema di cui parla nell’ordinanza di custodia cautelare il giudice per le indagini preliminari di Tivoli, Elvira Tamburelli. Perché a Rignano Flaminio c’è un intero paese che ha scoperto cosa significa aver paura, c’è un paesino intero che ora sa cosa significa quello che monsignor Angelo Amato chiama il “film perverso sul male che viene girato ogni giorno in ogni parte del mondo con sceneggiature sempre nuove e crudeli”. Perché qui a Rignano c’è chi improvvisamente ha scoperto che il male, che il diavolo, che una piccola ma grande apocalisse potrebbe essere proprio qui, a trentanove chilometri da Roma.
E a Rignano Flaminio poco importa delle contraddizioni che vengono fuori dalle indagini, del procuratore capo di Tivoli (Claudio D’Angelo) che è costretto a rilasciare interviste e dei piccoli pasticci dei magistrati; poco importa se la cucina di cui parlano i bambini non è rossa e nera, se le cucine non sono di legno, se il famoso passaggio sottoterra non esiste, se dei video che sarebbero stati girati nelle case delle maestre non è stata trovata traccia, se la piscina di cui parlano i piccoli è stata riconosciuta all’interno di un paesino a cinque chilometri da Rignano (si chiama Morolo) e però non è di nessuno degli indagati; poco importa se le prove schiaccianti di cui parla il pubblico ministero sono vestiti di carnevale, peluche, cuoricini e abiti da fata; poco importa che il pm abbia scritto che i sei arrestati erano tutti delinquenti abituali (mentre in realtà sono tutti incensurati); poco importa se le cinque famiglie dei cinque bimbi molestati andavano tutte in classi diverse da quelle delle maestre, se la maestra Marisa era una delle maestre più stimate del paese, se la maestra Patrizia aveva in classe con sé sempre un’altra maestra più un’insegnante di sostegno per un bambino handicappato; poco importa se la maestra Silvana non si è mai allontanata da scuola, se il marito della maestra Patrizia non si chiama Giovanni, se il super testimone delle indagini è la ex colf della famiglia Scancarello (la colf ricorda di un giorno in cui la maestra Patrizia era ritornata a casa con due bambine con il grembiulino e lo zainetto senza dire che forse quelle potevano anche essere le compagne di classe di una delle figlie della maestra); poco importa a Rignano se le due vigilesse che avrebbero visto qualche mese fa due bambini da soli, vicino alla scuola, hanno poi raccontato che i due bambini erano in realtà cinquanta e che la maestra che attendevano si chiamava sì Magalotti, ma come le quattro altre Magalotti che si trovano alla Olga Rovere; poco importa, infine, se dalle perizie mediche a nessuno dei cinque bambini sono stati riscontrati disturbi (l’unico ad avere qualche problema nella zona anale era un bambino che si chiama Matteo, ma la perizia ha poi spiegato che Matteo avrebbe avuto il culetto un po’ arrossato per via “della recente diarrea”); poco importa se i primi cinque genitori dei primi cinque bambini dicono tutti di non conoscersi mentre poi ti raccontano che “cinque di questi bambini frequentavano lo stesso corso di nuoto, che due sono cugini, che due abitano nello stesso palazzo, che due vivono sulla stessa via e che molti di loro si frequentavano anche dopo l’orario scolastico”, come è normale che accada in un paesino di ottomila abitanti; e poco importa che uno dei sei arrestati, l’uomo nero che avrebbe dovuto aspettare con la macchina i bambini sul retro della scuola, non ha neppure la patente (il benzinaio è stato riconosciuto come l’uomo nero di cui parlerebbero i bambini grazie a un bimbo che avrebbe detto “cattivo, cattivo, uomo nero” e che il benzinaio sarebbe stato incastrato grazie a una bambina che, secondo quanto riportato dal padre, avvicinandosi alla centralissima pompa di benzina dell’Agip di Rignano, notava che “la sua bambina salutava Maurizio con sorrisetti e occhiate da fidanzatina”. Il benzinaio, tra l’altro, non si chiama neppure Maurizio).
Ma se quei pedofili a Rignano Flaminio non esistessero? Se fosse una tragedia culturale? Se non dovesse uscir fuori nemmeno un video, nemmeno una foto, nemmeno una testimonianza forte, nemmeno un’intercettazione sospetta? Se ci fossero solo le parole dei bambini a inchiodare le tre maestre, la bidella, il marito di una maestra e l’uomo nero della pompa di benzina?
Rignano è proprio questo. Perché magari i pedofili a Rignano esisteranno davvero, ma il vero dramma è quello dei genitori che non capiscono come è possibile non credere a un bambino, come è possibile che quei racconti, quei colori, quei peluche, quei particolari, quelle incredibili violenze raccontate con i disegni, con le parole, con i gesti, e che quel dramma persino mimato dai bambini non sia sotto gli occhi di tutti? Se lo chiedono i genitori e se lo chiede il pubblico ministero e se lo chiede anche il Gip. Tutto ruota attorno ai racconti che i genitori hanno fatto dei racconti dei bambini; ci sono sei persone finite in carcere per qualche disegno, per qualche peluche (i peluche sono stati individuati dai bambini non all’interno delle case delle maestre, ma indicandoli sullo schermo di un computer dei carabinieri), sono finite in carcere per una piscina, per alcuni baffi, per alcuni sorrisetti e un’occhiata da fidanzatine. E il problema è che lo stesso copione della scuola di Rignano, delle maestre insospettabili, della paura di un paese intero, dei bambini a cui non è possibile non credere, dei genitori che improvvisamente capiscono che quei problemi sono tutti dovuti agli abusi, ecco, questo copione lo si ritrova in moltissimi altri casi. Lo si ritrova in una scuola di Brescia (nel 2001), lo si ritrova in Francia in un paesino di nome Outreau, dove un sacco di gente fu moralmente ammazzata per pura fobia sociale, e lo si ritrova in una scuola di Manhattan Beach, negli Stati Uniti (sulla cui psicosi di massa Oliver Stone ha prodotto un film che si chiama Indictment).
Ci sono sempre i bambini che non mentono mai, le maestre modello, la scuola materna, i bimbi che hanno strani sintomi e senza testimoni che abbiano visto qualcosa, senza video, senza fatti evidenti, senza telefonate. Nulla di schiacciante. Nessuna prova, solo gli occhi dei bambini che raccontano dell’orco cattivo, del cappuccio con le corna, dell’uomo nero, del tavolo, della cucina. E questo semplicemente perché le parole, nel momento in cui si trovano su una carta giudiziaria cambiano di valore e diventano prove schiaccianti. Come una normalissima telefonata intercettata e pubblicata diventa una sentenza. Ma una testimonianza di un bambino quanto conta davvero? “Se la testimonianza non viene registrata da una videocamera conta pochissimo – spiega uno psicologo romano che segue da ottobre la vicenda di Rignano ma che chiede di non comparire – E anche se le testimonianze dei bambini fossero state registrate, cosa che però incredibilmente non è avvenuta in questo caso, cambierebbe davvero poco. Nella storia dei processi di pedofilia non è mai successo che le sole parole dei bimbi siano state sufficienti per mandare qualcuno in galera o per dimostrare che un crimine sia vero oppure no. E questo si spiega con il fatto che tra i due e i quattro anni i bambini confondono spesso la realtà con la finzione, confondono spesso il reale con le favole, con gli altri racconti dei bambini e con le parole della televisione. Ma c’è un altro problema. Spesso il bambino si trova di fronte a una mamma o una psicologa che fa domande chiuse alle quali il bambino deve rispondere sì oppure no; e, come tutti sanno, un bambino di fronte a una domanda posta in uno stato di pressione tende a dare le risposte che il suo interlocutore si aspetta. Ed è per questo che ci sono moltissimi pubblici ministeri che in Italia iniziano indagini sulla pedofilia nelle scuole e poi finiscono per non portarle avanti perché capiscono che spesso si tratta di una grande suggestione o di una caccia alle streghe; perché se un bambino ha un disagio il problema non deve essere per forza quello percepito e raccontato dai genitori. Spesso il problema sono i genitori stessi. Ma attenzione. Qui viene sottovalutata una questione di grande importanza. Nel momento in cui da un processo si arriva a una sentenza, la verità giudiziaria non risolve nulla per il bambino. Verità giudiziaria non significa verità clinica. Il bambino si trova ormai in uno stato di grande confusione e il semplice fatto di vivere una situazione del genere non fa che creargli un trauma secondario. E’ per questo che ad anni di distanza da processi di assoluzione di presunti pedofili, ci sono bambini ormai grandi che presentano ancora moltissimi disturbi”. Senza dimenticare poi la questione dei video. Le uniche videoregistrazioni dei racconti dei bambini sono state girate nella prima settimana di agosto, quasi un mese dopo la prima denuncia arrivata alla caserma di Bracciano. Guardando i video si nota il modo piuttosto anomalo con cui questi video sono stati girati dai genitori delle presunte vittime degli abusi. Nelle registrazioni i bambini sono già nudi (in una scena in cui vengono ripresi due bimbi su un letto, i genitori sostengono che i bambini si stiano toccando in maniera tutt’altro che ingenua, ma dalle immagini non sembra davvero esserci nulla di più che una semplice curiosità tra bambini di quattro-cinque anni), i bambini non parlano esplicitamente dei presunti abusi, rispondono alle domande dei genitori muovendo la testa, dando del bugiardo a un padre, parlando con una bamboletta che chiamano fatina e non ricordano con precisione i nomi che i genitori spesso suggeriscono; e le tecniche con cui sono state documentate queste testimonianze sono quantomeno discutibili, dato che i bambini non parlano liberamente, ma sono costretti a rispondere con un “sì” o con un “no” a domande tipo queste: “Tesoro, chi ti ha fatto la bua?”.
C’è però un altro episodio da raccontare. Lo racconta una maestra che fino a qualche anno fa si trovava alla scuola materna Olga Rovere. Anche la maestra chiede di non comparire, spiegando che a Rignano c’è grande paura, che girano minacce, che vengono tagliate le gomme delle auto, che vengono fatte telefonate anonime e che meno si parla e meglio è. La maestra ricorda che fino a qualche tempo fa nella scuola materna di Rignano (premiata nel 1999 come migliore scuola materna del Lazio) per spiegare i colori si raccontava una fiaba. Per il rosso si raccontava la storia di Cappuccetto Rosso. Per il blù si raccontava la favola di Barbablù; e nella scuola di Rignano gira un libro dove tra i racconti di Barbablù c’è un’immagine che ricorda uno dei disegni di cui si parla l’ordinanza del gip di Tivoli. In una di queste pagine c’è l’episodio in cui Barbablù uccide la moglie tagliandogli la gola. Nell’ordinanza non si parla di pistole, ma si parla delle maestre che avrebbero tagliato le braccia ai bambini. Due giorni dopo la favola di Barbablù un bambino si avvicina alla maestra. La ferma e le dice: “Maestra, sa che papà ha tagliato la gola a mamma?”.
Ma a Rignano succedono anche alcune cose un po’ strane. Succedono ottocento metri sopra piazza Carlo Stefanini, pochi metri a nord-est rispetto alla scuola materna Olga Rovere, vicino all’altra scuola di Rignano, che si chiama anche questa Olga Rovere e sulla quale Vincenzo Cerami ha scritto pagine di memorabile inesattezza per il Messaggero (Cerami parlava di tristissime seggioline che guardano verso il nulla, senza accorgersi che le malinconiche seggioline della scuola degli orrori di cui parlava erano quelle della scuola elementare: la scuola materna si trova invece, milleottocento metri più a sud); succedono cose strane non lontano dalla chiesa (un po’ bruttina) dove il parroco Don Henry – in una chiesa piena di giornalisti mimetizzati tra gli esausti rignanesi peggio soltanto dei carabinieri in borghese, gli unici con gli occhiali da sole durante la messa – domenica scorsa ha parlato di azzeccagarbugli, di violazioni del segreto professionale, di preti come lui che avrebbero potuto fare carriera e che invece sono rimasti a Rignano, dei preti che sono sempre presenti, qui in paese, trecentosessantacinque giorni all’anno e dei preti che sono quindi come i carabinieri e con i carabinieri in borghese che però non sembravano sentirsi granché parroci. Vicino a tutto questo si trova una via molto lunga che si chiama via Giotto, dove una signora con i capelli rossi racconta che a Rignano c’è un’atmosfera strana, racconta di essere stata picchiata, racconta di aver subito ultimamente delle estorsioni (in un rapporto del duemilacinque l’antimafia segnalava la zona di Rignano come una di quelle più a rischio tra 129.870 usurai nel Lazio) e racconta che in quella via si vedono tre gattine i cui piccoli quando nascono spariscono nel nulla. La signora racconta anche di alcuni cassonetti bruciati da alcuni ragazzi vestiti di nero, di uomini con alcune maschere; ricorda che da Rignano un anno fa partì (il venti gennaio, per l’esattezza) un misterioso camioncino nero all’interno del quale i carabinieri trovarono un signore di cinquantasei anni che trasportava con sé tre bare con alcune ossa umane. E tutto questo perché a Rignano c’è chi crede alla storia del satanismo, c’è chi come i genitori dei bambini che sarebbero stati violentati crede davvero alla storia un po’ fiaba e un po’ sabba, in cui i bambini dopo essere stati presi di nascosto dalle scuole, caricati sulla macchina con l’uomo nero (che però non aveva la patente), dopo essere stati narcotizzati, dopo essere stati ripresi con una telecamera, dopo essere stati violentati con il ditino, credono davvero che lì si trovano i cappucci, i diavoli, gli animali bruciati, il Gesù buono e il Gesù cattivo. Te lo racconta anche Teresa (Teresa e Clara non sono ovviamente nomi veri), ti racconta di Clara che dopo avergli parlato della pistola grazie alla quale Teresa aveva capito che c’era qualcosa che non andava, gli aveva parlato anche di un Gesù buono e un Gesù cattivo. E le mamme credono al satanismo. Ci credono a tal punto che qualcuna di loro distribuisce ai giornalisti un ritaglio tratto dalla pagina trentaquattro della cronaca romana del Giornale. Il numero è del 21 agosto duemilasei, l’articolo è titolato così: “Piaga satanismo: nel Lazio dodicimila i fedeli di Belzebù”.
Forse a Rignano c’è un pedofilo, magari due (ma dalle attuale indagini, in concreto viene fuori davvero poco, l’ordinanza – passata comunque senza problemi al vaglio del Gip che ha poi rigettato le istanze di arresti domiciliari – appare un po’ debole e il pubblico ministero punta tutto sulla ricerca di un fotogramma, di un video, di una traccia lasciata su Internet, delle analisi del Dna di alcuni capelli trovati nelle macchine delle maestre, le testimonianze dei bambini sono state finora utilizzate come carte utili per poter mettere in carcere gli indagati, anche se il tribunale del riesame già la prossima settimana potrebbe concedere gli arresti domiciliari), ma chiunque vada a Rignano capisce che c’è chi crede che qualcosa è successo, c’è chi crede alle maschere dei diavoli, ai conigli con le corna, agli stupri, ai riti satanici (in paese c’è anche chi racconta che a Sant’Oreste, a pochi chilometri da Rignano, lo scorso anno sono state rubate alcune ostie dal tabernacolo), c’è chi si sente davvero come l’Everyman di Philip Roth, quello che attraversava la spiaggia ed è terrorizzato dall’idea di inciampare in qualsiasi momento in un cadavere; perché c’è anche chi cita Voltaire e dice che, attenzione, le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle, e i pedofili smetteranno di esistere quando noi smetteremo di accusarli, ma c’è davvero chi crede che Rignano sia diventato il paese delle streghe, degli orchi, c’è davvero chi crede agli incredibili racconti dei bambini di quel paese dove le maestre cattive – comunque sia – rimarranno per sempre le maestre e dove – comunque sia – c’è una scuola con i cuoricini e con i libri di cappuccetto rosso, che dalla prossima estate potrebbe già non esistere più.
Claudio Cerasa
5/5/07
Squilla il telefono, sono le diciannove e quarantadue, è il quattro maggio, l’anno è il duemilasei, Clara è seduta sul divano, la mamma Teresa ha appena acceso la televisione, poggia il telecomando sul tavolo, risponde al telefono, saluta e poi riattacca; Teresa ha trentadue anni, orecchino al naso, tatuaggio sul polso, orologio Gucci, maglietta scollata, zeppe bianche, jeans un po’ strappati, occhi verdi, capelli neri, sciarpa nera, pelle chiara, qualche brufolo. Teresa si avvicina alla figlia, la guarda, sorride, sorride anche la bimba, su Rai Uno va la pubblicità, Clara guarda la mamma ma Clara non parla. La guarda ancora ma Clara non dice nulla. Si ferma un attimo, Clara inclina la testa come fanno tutti i bambini quando stanno per dirti qualcosa di importante. Clara era andata a scuola anche quel giorno, nella classe con i fiori sulla vetrata, con i banchi che alla fine della quinta ora erano sempre raccolti lì, al centro dell’aula, con le maestre Marisa, Patrizia, Silvana, la bidella Cristina e gli altri ventiquattro compagni della classe nella scuola materna Olga Rovere di Rignano Flaminio, trentanove chilometri da Roma. Clara aveva fatto anche quel giorno le sue quattro, quasi cinque ore di lezione, mancavano tre settimane all’estate, aveva iniziato a sfogliare qualche fiaba, quelle con Cappuccetto Rosso, quelle con il lupo cattivo, con le fatine, con le case strane e con i cuoricini sui muri. “Mamma – dice Clara – se ti puntano una pistola in testa che cosa succede?”. “Dipende – risponde Teresa – dipende cosa fai con quella pistola”. “Mamma – dice Clara – se ti puntano una pistola in testa e poi sparano che succede, mamma?”. Clara alza il braccio destro, distende le dita della mano, chiude il mignolo, chiude l’anulare, porta la mano sulla testa. “Amore, se ti sparano si muore”, dice Teresa. “Anche se sparano a te, mamma?”. “Sì tesoro, anche se sparano a me”. Passano cinque secondi. Teresa guarda Clara ma non capisce. Clara prende fiato. Piega ancora la testa. Cinque secondi possono essere molto lunghi. “Mamma – dice Clara – ma se ti racconto una cosa mi prometti che non ti fai sparare?”. Due mesi dopo arriva una denuncia, ne arriva un’altra, un’altra ancora, in tutto sono cinque, cinque genitori di cinque bambini di Rignano Flaminio.
La prima denuncia il nove luglio, pochi mesi dopo le altre, i genitori iniziano a incontrarsi, i carabinieri di Bracciano indagano, arrivano i Ris, arrivano le telecamere nella scuola, arrivano le intercettazioni, arrivano i controlli sulla rete e quelli sui conti correnti, le perquisizioni, le ordinanze, la psicologa, il pubblico ministero, arriva la televisione, arriva il primo articolo di un giornale (il tredici ottobre sul Corriere di Viterbo), arriva una nuova preside (a settembre), arriva un nuovo maresciallo dei carabinieri (a marzo) e arriva persino un curioso reportage di Vincenzo Cerami (per il Messaggero).
Nella scuola di Rignano Flaminio è ormai da qualche mese che si parla di orchi, di mostri, di pedofili e di violenza sessuale. Fino a marzo erano solo voci. Dal venticinque aprile di quest’anno le voci sono diventate arresti.
A cinquecento metri dal palazzo del Comune di Rignano si trova una caserma dei Carabinieri. La caserma è molto piccola, ha due piani, un citofono, un corridoio, una stanza sulla destra, pochi carabinieri, una sola volante. Ma qui, a Rignano non è mai arrivata alcuna denuncia. I genitori dei bambini che sarebbero stati abusati non sono mai entrati qui dentro e quando hanno capito che c’era una sola, un’unica spiegazione a quelle irritazioni, a quei diavoli nudi, a quelle streghe cattive, a quell’uomo nero, all’orco con le corna, a quelle strane parole, a quelle domande sulla pistola, sui peluche, sui video, sulle maestre, sulle braccia tagliate, sul pisellino irritato, sui baffi neri, sulla maestra con le tette mosce, sulla bidella Patrizia, su un Giovanni che in realtà si chiama Gianfranco, sull’uomo nero effettivamente un po’ nero, quando hanno capito cosa stava succedendo, i genitori dei bambini di Rignano hanno preso la Flaminia e sono arrivati alla Caserma di Bracciano. La caserma di riferimento era quella, e non quella di Rignano. Troppe persone conosciute, troppe voci, troppe chiacchiere e i genitori avevano bisogno di fidarsi. Qualcuno doveva spiegare cosa era successo e qualcuno doveva spiegare cosa avevano fatto ai nostri figli. Perché come fai a non credere ai tuoi figli, a quattro anni di età? Come fai a non capire che c’è solo una spiegazione se quei bambini non mangiano più tanto, non vogliono più andare a scuola, se quei bambini hanno paura del buio, se fanno tutti quei sogni strani strani, se parlano di un posto lontano lontano dove ci sono i cuoricini per finta, se si toccano il pisellino, se giocano con la patatina e se hanno persino detto “mamma, papà, questa sera posso dormire nel lettone con voi?”. Qualcuno doveva spiegare cosa stava succedendo, così non si poteva andare più avanti, serviva un gesto, una denuncia, un consiglio. Serviva, quanto meno, una caserma dei carabinieri. “Comandante, mia figlia è stata violentata. In quella scuola ci sono i pedofili”.
Il sedici settembre arrivano le telecamere, il ventuno agosto le prime cinque famiglie furono interrogate, il nove settembre era stata identificata la prima casa, il quindici ottobre il sindaco di Rignano, Ottavio Coletta, chiede spiegazioni alla procura (quella di Tivoli) da cui sono partite le indagini e il sedici novembre cinque persone vengono iscritte sul registro degli indagati (c’è anche il titolare di una carrozzeria, ma solo per qualche settimana). Si cercano gli orchi, i pedofili, i mostri della scuola materna Olga Rovere, duecentocinquanta bambini, quasi mille quadrati di grandezza, due piani, un giardino, molte aule comunicanti, molti vetri, due insegnanti per ogni classe e parecchie maestre di sostegno. In questa scuola le maestre non erano mai da sole nelle loro classi. Il sette luglio arrivano le prime sei denunce, poi ne arrivano dieci, e altre quattro e ancora altre sei. In tutto fanno ventisei denunce. E questo dopo otto mesi di indagine, dopo aver tenuto sotto controllo (per mesi) le linee telefoniche degli indagati, i loro conti bancari, dopo aver parlato con i genitori dei bambini, dopo aver ricevuto le perizie psichiatriche, dopo l’importante consulenza di Luigi Cancrini (famoso psicologo, senatore dei Comunisti Italiani, collaboratore dell’Unità, su cui faceva referti psichiatrici di Silvio Berlusconi, e particolarmente convinto che a Rignano quei dannati pedofili ci siano davvero), dopo tutto questo, dopo quasi un anno, improvvisamente alcune maestre vengono arrestate. Viene arrestata Patrizia Del Meglio, suo marito Gianfranco Scancarello, Marisa Pucci, Silvana Candida Magalotti, Cristina Lucerti e Kelum Weramuni De Silva. Tre maestre, un autore televisivo, una bidella, un benzinaio. Le accuse sono forti, da urlo: si parla di atti osceni in luogo pubblico, sottrazione di minore, sequestro di persona, violenza sessuale; e questo in un paese come Rignano Flaminio, dove tutti un po’ si conoscono davvero e dove già da un po’ alle insegnanti era stato vietato di accarezzare la testa dei bambini, di riabbottonare i pantaloni degli alunni, di riallacciare le camicie dei piccoli, di pulirgli la bocca, di cambiare i pannolini, di festeggiare il carnevale, di vestirsi in maschera, di parlare di orchi, di lupi cattivi e di far uscire i bambini – da soli – dalla scuola in piazza Carlo Stefanini. Con un paese che per mesi non si parlava d’altro e con un sindaco molto preoccupato che non sapendo bene come comportarsi aveva ordinato ai giornalisti di rimanere lontani dalle scuole per quindici giorni, proibendo tra l’altro anche qualsiasi tipo di manifestazione politica e senza sapere che decisioni e ordinanze di questo tipo possono essere però prese solo dal prefetto o dal questore. E il prefetto di Roma, Achille Serra, questo gliel’ha fatto notare; giusto qualche giorno fa.
Ma se da un lato ci sono le maestre che non ci credono, quelle che si difendono, quelle che vanno a “Chi l’ha visto”, quelle che rilasciano le interviste, quelle che fanno le fiaccolate di fronte a Rebibbia, quelle che raccontano – e sono tante – che la colpa è soltanto delle famiglie, che tra quei genitori c’è chi ha seri problemi, con famiglie malamente divorziate, “storie di tossicodipendenze”, “madri in cura perché vedono il diavolo in casa” e con altri genitori – come si legge dalle perizie della psichiatra Marcella Fraschetti – con “problematiche familiari”, “indice di impulsività eccessivo”, “senso istericoforme”, “infanzia di violenza in famiglia” che portano al “suo vedere al microscopio anche le cose più terribili e nefande”, che “gli danno l’opportunità di elaborare il lutto affettivo orginario” ; se da un lato c’è tutto questo, dall’altro – a Rignano Flaminio – ci sono invece i genitori che hanno paura di non essere creduti, quelli che hanno paura che tutto questo sia successo davvero, quelli che sperano che non sia successo niente e che sanno che sarebbe terribile anche se a questo punto non fosse successo nulla. Perché i genitori sanno cosa è successo. Sanno che gli orchi sono le maestre, sanno che sono proprio le insegnanti che hanno cresciuto i loro figli ad aver infilato i vibratori nella patatina, ad aver fatto gocciolare la colla dentro il pisellino, ad aver fatto le iniezioni in testa e anche sulle braccia; sanno che non c’è altra spiegazione se quei bambini hanno il culetto irritato, se quei bambini vomitano, se si strusciano, se si masturbano, sanno che sono stati quei bastardi, il benzinaio, l’autore, la bidella, le maestre e se nessuno dice nulla in quella dannata scuola, se nessuno ricorda, se nessuno ha visto, vuol dire che sono tutti coinvolti, vuol dire che c’è una mafia, vuol dire che c’è quel sistema di cui parla nell’ordinanza di custodia cautelare il giudice per le indagini preliminari di Tivoli, Elvira Tamburelli. Perché a Rignano Flaminio c’è un intero paese che ha scoperto cosa significa aver paura, c’è un paesino intero che ora sa cosa significa quello che monsignor Angelo Amato chiama il “film perverso sul male che viene girato ogni giorno in ogni parte del mondo con sceneggiature sempre nuove e crudeli”. Perché qui a Rignano c’è chi improvvisamente ha scoperto che il male, che il diavolo, che una piccola ma grande apocalisse potrebbe essere proprio qui, a trentanove chilometri da Roma.
E a Rignano Flaminio poco importa delle contraddizioni che vengono fuori dalle indagini, del procuratore capo di Tivoli (Claudio D’Angelo) che è costretto a rilasciare interviste e dei piccoli pasticci dei magistrati; poco importa se la cucina di cui parlano i bambini non è rossa e nera, se le cucine non sono di legno, se il famoso passaggio sottoterra non esiste, se dei video che sarebbero stati girati nelle case delle maestre non è stata trovata traccia, se la piscina di cui parlano i piccoli è stata riconosciuta all’interno di un paesino a cinque chilometri da Rignano (si chiama Morolo) e però non è di nessuno degli indagati; poco importa se le prove schiaccianti di cui parla il pubblico ministero sono vestiti di carnevale, peluche, cuoricini e abiti da fata; poco importa che il pm abbia scritto che i sei arrestati erano tutti delinquenti abituali (mentre in realtà sono tutti incensurati); poco importa se le cinque famiglie dei cinque bimbi molestati andavano tutte in classi diverse da quelle delle maestre, se la maestra Marisa era una delle maestre più stimate del paese, se la maestra Patrizia aveva in classe con sé sempre un’altra maestra più un’insegnante di sostegno per un bambino handicappato; poco importa se la maestra Silvana non si è mai allontanata da scuola, se il marito della maestra Patrizia non si chiama Giovanni, se il super testimone delle indagini è la ex colf della famiglia Scancarello (la colf ricorda di un giorno in cui la maestra Patrizia era ritornata a casa con due bambine con il grembiulino e lo zainetto senza dire che forse quelle potevano anche essere le compagne di classe di una delle figlie della maestra); poco importa a Rignano se le due vigilesse che avrebbero visto qualche mese fa due bambini da soli, vicino alla scuola, hanno poi raccontato che i due bambini erano in realtà cinquanta e che la maestra che attendevano si chiamava sì Magalotti, ma come le quattro altre Magalotti che si trovano alla Olga Rovere; poco importa, infine, se dalle perizie mediche a nessuno dei cinque bambini sono stati riscontrati disturbi (l’unico ad avere qualche problema nella zona anale era un bambino che si chiama Matteo, ma la perizia ha poi spiegato che Matteo avrebbe avuto il culetto un po’ arrossato per via “della recente diarrea”); poco importa se i primi cinque genitori dei primi cinque bambini dicono tutti di non conoscersi mentre poi ti raccontano che “cinque di questi bambini frequentavano lo stesso corso di nuoto, che due sono cugini, che due abitano nello stesso palazzo, che due vivono sulla stessa via e che molti di loro si frequentavano anche dopo l’orario scolastico”, come è normale che accada in un paesino di ottomila abitanti; e poco importa che uno dei sei arrestati, l’uomo nero che avrebbe dovuto aspettare con la macchina i bambini sul retro della scuola, non ha neppure la patente (il benzinaio è stato riconosciuto come l’uomo nero di cui parlerebbero i bambini grazie a un bimbo che avrebbe detto “cattivo, cattivo, uomo nero” e che il benzinaio sarebbe stato incastrato grazie a una bambina che, secondo quanto riportato dal padre, avvicinandosi alla centralissima pompa di benzina dell’Agip di Rignano, notava che “la sua bambina salutava Maurizio con sorrisetti e occhiate da fidanzatina”. Il benzinaio, tra l’altro, non si chiama neppure Maurizio).
Ma se quei pedofili a Rignano Flaminio non esistessero? Se fosse una tragedia culturale? Se non dovesse uscir fuori nemmeno un video, nemmeno una foto, nemmeno una testimonianza forte, nemmeno un’intercettazione sospetta? Se ci fossero solo le parole dei bambini a inchiodare le tre maestre, la bidella, il marito di una maestra e l’uomo nero della pompa di benzina?
Rignano è proprio questo. Perché magari i pedofili a Rignano esisteranno davvero, ma il vero dramma è quello dei genitori che non capiscono come è possibile non credere a un bambino, come è possibile che quei racconti, quei colori, quei peluche, quei particolari, quelle incredibili violenze raccontate con i disegni, con le parole, con i gesti, e che quel dramma persino mimato dai bambini non sia sotto gli occhi di tutti? Se lo chiedono i genitori e se lo chiede il pubblico ministero e se lo chiede anche il Gip. Tutto ruota attorno ai racconti che i genitori hanno fatto dei racconti dei bambini; ci sono sei persone finite in carcere per qualche disegno, per qualche peluche (i peluche sono stati individuati dai bambini non all’interno delle case delle maestre, ma indicandoli sullo schermo di un computer dei carabinieri), sono finite in carcere per una piscina, per alcuni baffi, per alcuni sorrisetti e un’occhiata da fidanzatine. E il problema è che lo stesso copione della scuola di Rignano, delle maestre insospettabili, della paura di un paese intero, dei bambini a cui non è possibile non credere, dei genitori che improvvisamente capiscono che quei problemi sono tutti dovuti agli abusi, ecco, questo copione lo si ritrova in moltissimi altri casi. Lo si ritrova in una scuola di Brescia (nel 2001), lo si ritrova in Francia in un paesino di nome Outreau, dove un sacco di gente fu moralmente ammazzata per pura fobia sociale, e lo si ritrova in una scuola di Manhattan Beach, negli Stati Uniti (sulla cui psicosi di massa Oliver Stone ha prodotto un film che si chiama Indictment).
Ci sono sempre i bambini che non mentono mai, le maestre modello, la scuola materna, i bimbi che hanno strani sintomi e senza testimoni che abbiano visto qualcosa, senza video, senza fatti evidenti, senza telefonate. Nulla di schiacciante. Nessuna prova, solo gli occhi dei bambini che raccontano dell’orco cattivo, del cappuccio con le corna, dell’uomo nero, del tavolo, della cucina. E questo semplicemente perché le parole, nel momento in cui si trovano su una carta giudiziaria cambiano di valore e diventano prove schiaccianti. Come una normalissima telefonata intercettata e pubblicata diventa una sentenza. Ma una testimonianza di un bambino quanto conta davvero? “Se la testimonianza non viene registrata da una videocamera conta pochissimo – spiega uno psicologo romano che segue da ottobre la vicenda di Rignano ma che chiede di non comparire – E anche se le testimonianze dei bambini fossero state registrate, cosa che però incredibilmente non è avvenuta in questo caso, cambierebbe davvero poco. Nella storia dei processi di pedofilia non è mai successo che le sole parole dei bimbi siano state sufficienti per mandare qualcuno in galera o per dimostrare che un crimine sia vero oppure no. E questo si spiega con il fatto che tra i due e i quattro anni i bambini confondono spesso la realtà con la finzione, confondono spesso il reale con le favole, con gli altri racconti dei bambini e con le parole della televisione. Ma c’è un altro problema. Spesso il bambino si trova di fronte a una mamma o una psicologa che fa domande chiuse alle quali il bambino deve rispondere sì oppure no; e, come tutti sanno, un bambino di fronte a una domanda posta in uno stato di pressione tende a dare le risposte che il suo interlocutore si aspetta. Ed è per questo che ci sono moltissimi pubblici ministeri che in Italia iniziano indagini sulla pedofilia nelle scuole e poi finiscono per non portarle avanti perché capiscono che spesso si tratta di una grande suggestione o di una caccia alle streghe; perché se un bambino ha un disagio il problema non deve essere per forza quello percepito e raccontato dai genitori. Spesso il problema sono i genitori stessi. Ma attenzione. Qui viene sottovalutata una questione di grande importanza. Nel momento in cui da un processo si arriva a una sentenza, la verità giudiziaria non risolve nulla per il bambino. Verità giudiziaria non significa verità clinica. Il bambino si trova ormai in uno stato di grande confusione e il semplice fatto di vivere una situazione del genere non fa che creargli un trauma secondario. E’ per questo che ad anni di distanza da processi di assoluzione di presunti pedofili, ci sono bambini ormai grandi che presentano ancora moltissimi disturbi”. Senza dimenticare poi la questione dei video. Le uniche videoregistrazioni dei racconti dei bambini sono state girate nella prima settimana di agosto, quasi un mese dopo la prima denuncia arrivata alla caserma di Bracciano. Guardando i video si nota il modo piuttosto anomalo con cui questi video sono stati girati dai genitori delle presunte vittime degli abusi. Nelle registrazioni i bambini sono già nudi (in una scena in cui vengono ripresi due bimbi su un letto, i genitori sostengono che i bambini si stiano toccando in maniera tutt’altro che ingenua, ma dalle immagini non sembra davvero esserci nulla di più che una semplice curiosità tra bambini di quattro-cinque anni), i bambini non parlano esplicitamente dei presunti abusi, rispondono alle domande dei genitori muovendo la testa, dando del bugiardo a un padre, parlando con una bamboletta che chiamano fatina e non ricordano con precisione i nomi che i genitori spesso suggeriscono; e le tecniche con cui sono state documentate queste testimonianze sono quantomeno discutibili, dato che i bambini non parlano liberamente, ma sono costretti a rispondere con un “sì” o con un “no” a domande tipo queste: “Tesoro, chi ti ha fatto la bua?”.
C’è però un altro episodio da raccontare. Lo racconta una maestra che fino a qualche anno fa si trovava alla scuola materna Olga Rovere. Anche la maestra chiede di non comparire, spiegando che a Rignano c’è grande paura, che girano minacce, che vengono tagliate le gomme delle auto, che vengono fatte telefonate anonime e che meno si parla e meglio è. La maestra ricorda che fino a qualche tempo fa nella scuola materna di Rignano (premiata nel 1999 come migliore scuola materna del Lazio) per spiegare i colori si raccontava una fiaba. Per il rosso si raccontava la storia di Cappuccetto Rosso. Per il blù si raccontava la favola di Barbablù; e nella scuola di Rignano gira un libro dove tra i racconti di Barbablù c’è un’immagine che ricorda uno dei disegni di cui si parla l’ordinanza del gip di Tivoli. In una di queste pagine c’è l’episodio in cui Barbablù uccide la moglie tagliandogli la gola. Nell’ordinanza non si parla di pistole, ma si parla delle maestre che avrebbero tagliato le braccia ai bambini. Due giorni dopo la favola di Barbablù un bambino si avvicina alla maestra. La ferma e le dice: “Maestra, sa che papà ha tagliato la gola a mamma?”.
Ma a Rignano succedono anche alcune cose un po’ strane. Succedono ottocento metri sopra piazza Carlo Stefanini, pochi metri a nord-est rispetto alla scuola materna Olga Rovere, vicino all’altra scuola di Rignano, che si chiama anche questa Olga Rovere e sulla quale Vincenzo Cerami ha scritto pagine di memorabile inesattezza per il Messaggero (Cerami parlava di tristissime seggioline che guardano verso il nulla, senza accorgersi che le malinconiche seggioline della scuola degli orrori di cui parlava erano quelle della scuola elementare: la scuola materna si trova invece, milleottocento metri più a sud); succedono cose strane non lontano dalla chiesa (un po’ bruttina) dove il parroco Don Henry – in una chiesa piena di giornalisti mimetizzati tra gli esausti rignanesi peggio soltanto dei carabinieri in borghese, gli unici con gli occhiali da sole durante la messa – domenica scorsa ha parlato di azzeccagarbugli, di violazioni del segreto professionale, di preti come lui che avrebbero potuto fare carriera e che invece sono rimasti a Rignano, dei preti che sono sempre presenti, qui in paese, trecentosessantacinque giorni all’anno e dei preti che sono quindi come i carabinieri e con i carabinieri in borghese che però non sembravano sentirsi granché parroci. Vicino a tutto questo si trova una via molto lunga che si chiama via Giotto, dove una signora con i capelli rossi racconta che a Rignano c’è un’atmosfera strana, racconta di essere stata picchiata, racconta di aver subito ultimamente delle estorsioni (in un rapporto del duemilacinque l’antimafia segnalava la zona di Rignano come una di quelle più a rischio tra 129.870 usurai nel Lazio) e racconta che in quella via si vedono tre gattine i cui piccoli quando nascono spariscono nel nulla. La signora racconta anche di alcuni cassonetti bruciati da alcuni ragazzi vestiti di nero, di uomini con alcune maschere; ricorda che da Rignano un anno fa partì (il venti gennaio, per l’esattezza) un misterioso camioncino nero all’interno del quale i carabinieri trovarono un signore di cinquantasei anni che trasportava con sé tre bare con alcune ossa umane. E tutto questo perché a Rignano c’è chi crede alla storia del satanismo, c’è chi come i genitori dei bambini che sarebbero stati violentati crede davvero alla storia un po’ fiaba e un po’ sabba, in cui i bambini dopo essere stati presi di nascosto dalle scuole, caricati sulla macchina con l’uomo nero (che però non aveva la patente), dopo essere stati narcotizzati, dopo essere stati ripresi con una telecamera, dopo essere stati violentati con il ditino, credono davvero che lì si trovano i cappucci, i diavoli, gli animali bruciati, il Gesù buono e il Gesù cattivo. Te lo racconta anche Teresa (Teresa e Clara non sono ovviamente nomi veri), ti racconta di Clara che dopo avergli parlato della pistola grazie alla quale Teresa aveva capito che c’era qualcosa che non andava, gli aveva parlato anche di un Gesù buono e un Gesù cattivo. E le mamme credono al satanismo. Ci credono a tal punto che qualcuna di loro distribuisce ai giornalisti un ritaglio tratto dalla pagina trentaquattro della cronaca romana del Giornale. Il numero è del 21 agosto duemilasei, l’articolo è titolato così: “Piaga satanismo: nel Lazio dodicimila i fedeli di Belzebù”.
Forse a Rignano c’è un pedofilo, magari due (ma dalle attuale indagini, in concreto viene fuori davvero poco, l’ordinanza – passata comunque senza problemi al vaglio del Gip che ha poi rigettato le istanze di arresti domiciliari – appare un po’ debole e il pubblico ministero punta tutto sulla ricerca di un fotogramma, di un video, di una traccia lasciata su Internet, delle analisi del Dna di alcuni capelli trovati nelle macchine delle maestre, le testimonianze dei bambini sono state finora utilizzate come carte utili per poter mettere in carcere gli indagati, anche se il tribunale del riesame già la prossima settimana potrebbe concedere gli arresti domiciliari), ma chiunque vada a Rignano capisce che c’è chi crede che qualcosa è successo, c’è chi crede alle maschere dei diavoli, ai conigli con le corna, agli stupri, ai riti satanici (in paese c’è anche chi racconta che a Sant’Oreste, a pochi chilometri da Rignano, lo scorso anno sono state rubate alcune ostie dal tabernacolo), c’è chi si sente davvero come l’Everyman di Philip Roth, quello che attraversava la spiaggia ed è terrorizzato dall’idea di inciampare in qualsiasi momento in un cadavere; perché c’è anche chi cita Voltaire e dice che, attenzione, le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle, e i pedofili smetteranno di esistere quando noi smetteremo di accusarli, ma c’è davvero chi crede che Rignano sia diventato il paese delle streghe, degli orchi, c’è davvero chi crede agli incredibili racconti dei bambini di quel paese dove le maestre cattive – comunque sia – rimarranno per sempre le maestre e dove – comunque sia – c’è una scuola con i cuoricini e con i libri di cappuccetto rosso, che dalla prossima estate potrebbe già non esistere più.
Claudio Cerasa
5/5/07
martedì 1 maggio 2007
Il Foglio. "Diario di dodici anni da raccattapalle tra i tennisti di Roma"
L’ACE DI IVANISEVIC, IL TRUCCO DELLA FELPA, LA POSIZIONE DELLA TELECAMERA E QUEL PUNTO DI COURIER AGLI INTERNAZIONALI D’ITALIA
Sul sei a sei del terzo set, dopo due ore e
quindici minuti di gioco, dopo essere
usciti e rientrati dal campo, dopo aver raccolto
le palline, dopo aver chiesto al giudice
di sedia mi scusi ma è proprio sicuro che oggi
si rigioca non vede quanto ha piovuto, e
dopo aver capito che anche quest’anno gli
italiani non arriveranno oltre i quarti di finale,
dopo tutto questo il raccattapalle solitamente
entra nel panico. Perché dalla tribuna
non ti accorgi di nulla, ti accorgi solo del
raccattapalle che cade sulla fiorera, di quello
che inciampa sulla rete, di quello che
guarda le tette della Sharapova, di quello
che chiede il polsino a Federer, di quello che
ruba la racchetta a Philippouosis dicendo
scusa pensavo fosse rotta, di quello che sbaglia
il lancio della pallina, di quello che starnutisce,
di quello che interrompe uno scambio,
di quello che fa cadere sempre la palla
accanto alla rete, di quello che si becca in
mezzo alla testa l’ace di Ivanisevic e di quello
che interrompe la partita per prendersi
un Gatorade e che poi viene radiato dall’albo
dei raccattapalle che non esiste ma è come
se esistesse. Ci si accorge quasi di tutto in
campo ma non di quello che capita quando
arriva il primo tie break del primo giorno di
Internazionali d’Italia, che inizieranno a Roma
la prossima settimana. Ed è lì che il raccattapalle
si capisce di che stoffa è fatto. Perché
c’è quello esperto che da dodici anni viene
ogni anno da fine aprile a metà maggio e
ha visto le interminabili qualificazioni maschili,
le sconosciute wild card italiane, quello
che a casa ha la pallina autografata da Muster,
la racchetta di Moya, la canottiera di
Sampras, la banana di Rafter, il cappellino
di Gaudenzi e il numero di telefono di Nadal.
Il raccattapalle super esperto conosce tutti i
trucchi del mestiere, è quello che entra nel
campo centrale e si mette sempre a sinistra
perché sa che i giocatori lì a sinistra non
prendono quasi mai le palline perché – per
superstizione – alla parte sinistra preferiscono
quella destra; è quello che sa che giù a
fondocampo puoi fare amicizia con la hostess,
puoi essere ripreso dalla telecamera,
puoi prendere meglio il sole e puoi soprattutto
nasconderti dietro l’orologio alto un
metro e mezzo dietro al quale si possono facilmente
nascondere anche le patatine di
Spizzico. Poi però ci sono anche i raccattapalle
che non hanno mai raccattato una pallina,
che sono venuti all’incontro con i raccattapalle
grandi a metà aprile, dove hanno
visto sulla lavagna una serie di schemi, un
po’ di disegni, molte spiegazioni, con i superiori
che ti dicono dobbiamo essere come
quelli di Wimbledon, dobbiamo fare meglio
del Roland Garros, qui ci giochiamo la credibilità,
avrete tanti buoni pasto, non chiedete
i Gatorade, non fatevi accompagnare
dai vostri genitori, non venite in campo con
i jeans e non rubate le palline; ci sono i super
esperti e ci sono poi, i raccattapalle giovani,
un po’ troppo giovani, che sono quelli
che scendono in campo a sei anni e provano
a ricordarsi di dare sempre la pallina rasoterra,
di non lanciarla da una parte all’altra
del campo come se fosse una palla da baseball,
di non interrompere gli scambi, di avere
sempre due palline in mano, di essere
sempre seri, di dare la pallina lentamente
solo se il giocatore ti fa su e giù con la testa
e di ricordarsi soprattutto che quando c’è il
tie break tutti devono avere una pallina in
mano e che nel tie break è tutto più rapido
perché la battuta cambia ogni due punti, le
palline devono correre, non devono finire
sulla rete, devono essere sempre a fondocampo
e soprattutto non devono finire in tasca;
e non importa se ti arrivano le battute
prese con la stecca da Ivanisevic, quelle che
non toccano sul terreno e si trasformano in
missili aria-aria e che nei campi più piccoli
si vanno spesso a stampare sulle teste del
giudice di net o su quelle dei raccattapalle
più sovrappensiero. Non importa nulla di
tutto questo, conta solo il tie break.
Il panico del tie break
E sul tie break i raccattapalle entrano nel
panico, a volte piangono, non ricordano più
quanti punti mancano prima di passare una
pallina dall’altra parte del campo e non ricordano
più se si cambia il campo ogni punto
pari, ogni punto dispari, se si cambia
quando uno dei due tennisti raggiunge un
punteggio pari o se il pari deve essere la
somma dei punti dei due giocatori. E lì è panico
totale, nessuno puoi aiutarti, la hostess
se ne è andata, il giudice di linea si è già appisolato
e soprattutto sai che anche questa
volta non avrai il polsino, perché prima del
tie break il tennista lo cambia, ne prende
uno nuovo e quello vecchio lo mette dentro
la borsa. E per un raccattapalle non c’è niente
di peggio che non avere quel dannato polsino.
Perché si sopporta tutto, si sopportano
le escoriazioni sul ginocchio quando ci si
mette sotto rete, quando ti sbucci la pelle sopra
la rotula, sopporti la Kournikova, la
Dokic, la Hingis che non ti guardano mai e
che ti chiamano soltanto per farti tenere
l’ombrellone sopra di loro, sopporti Andrea
Gaudenzi che ti manda a quel paese perché
non ti ricordi mai di portare sulla sua seggiolina
l’asciugamano san Benedetto che lui lascia
sempre a fondocampo, sopporti anche di
andare in giro per due settimane con un pass
dove tu sei per tutti un “ballboy” e dove non
esiste una traduzione esatta perché prima il
raccattapalle era un raccattapalle ma da
quando sei un ball boy tu diventi solo un
bambino palla. E questo non ti aiuta affatto
a sentirti integrato o a sentirti accettato come
magari lo possono essere le modelline in
minigonna della Boss che un anno fa erano
state scelte proprio dalla Boss per raccattare
a Madrid senza che nessuno si sognasse
mai di dargli un accredito con scrittto ball
girl, figuriamoci. E tu invece, che eri un povero
ball boy con tutti i pregiudizi che aveva
uno che raccattava le palle e che era anche
una palla di bambino, tu invece chiedevi
davvero poco. Chiedevi di poter far parte
della squadra della finale, chiedevi di avere
un buono pasto in più, chiedevi di non finire
sui vecchi campi “sei” e “sette” dove non c’era
nessuno spettatore, dove i raccattapalle,
quando andava bene, erano tre, a volte due,
dove non c’erano le telecamere e dove l’autorità
dei ball boy anziani era di gran lunga
superiore a quella di molti giocatori che su
quei campi giocavano le qualificazioni (uno
dei volti storici delle qualificazioni era uno
spagnolo con la bandana blu che si chiamava
Alvarez, un pessimo giocatore che vinceva
solo con gli italiani e che nell’ambiente
dei raccattapalle era famoso per regalare i
cappelli della Nike). Perché poi ci sarebbero
state le racchette che Tarango ti buttava
addosso, gli urli di Thomas Muster (da vicino
riuscivi a vedere lì in mezzo alle ginocchia
quante cicatrici aveva, il grande Thomas),
riuscivi a sopportare anche le partite che finivano
sempre al quinto set con molti tie
break anche se poi, abbandonato lì sui campi
di periferia, l’unico tuo vero sogno – oltre
alla finale – era quello di giocare, pardon, di
raccattare sul centrale. Sempre che poi non
ci fosse Mary Pierce.
Il campo centrale nella prima partita del
serale è sempre pieno. Il biglietto costa un
po’ di meno, c’è sempre il collega che ti passa
il suo accredito, il raccattapalle che ti dà
la sua felpa con lo sponsor e che poi ti dice
vai dall’amico a cui ho offerto le patatine al
Bar del tennis che lui ti fa entrare sicuro. E
tu, allora, entri sicuro. Quella sera sul campo
centrale del Foro Italico Mary Pierce era
già parecchio incazzata e se chiedeva una
pallina la voleva subito e non voleva rumori,
non voleva telefonini che squillavano,
non voleva che la pallina arrivasse all’altezza
dello stomaco e non voleva che la pallina
fosse quella usata qualche istante prima,
nello scambio precedente. Sennò, Mary, si
incazzava davvero. E quando si incazzava,
Mary era davvero bella. O almeno tutti dicevano
così quando sotto il gazebo di fronte al
campo uno le due coordinatrici dei ball boy
con il foglio bianco in mano selezionavano
te, te, te, te, te e poi te per il campo centrale
e per la partita più attesa del serale, cioè
quella con Mary Pierce; dove a raccattare la
Mary c’erano sempre e solo ragazzi come
quando alle partite di Rafter o a quelle di
Gaudenzi o a quelle di Rios o a quelle di
Moya c’erano sempre e solo ragazze. Quel
giorno capisci che Mary stava proprio guardando
te. Mary voleva battere, le serviva una
pallina. Si avvicina, muove la mano, muove
la racchetta e fa su e giù con la testa e il
campo centrale capisce che tu non hai nemmeno
una pallina, capisce che tu stai guardando
la Pierce, capisce che non la stai
guardando negli occhi e soprattutto capisce
che quando Mary Pierce ti si avvicina e ti
apre la mano per vedere se hai ancora palline
in mano e tu non ne hai neanche una e
quando tutto lo stadio inizia a mettere in sequenza
le vocali aaaaaaaa accompagnate da
una c a cui segue immediatamente un’altra
vocale (la o) scandita assieme a uno ione, capisci
che tu ormai sei fottuto. Mary Pierce
viene da te, tu sei distratto dalla sua gonna
bianca, ti viene ad aprire la mano e non hai
nemmeno una pallina e per giunta ti dicono
che sei un coglione e allora è tutto finito, ti
manderanno per due anni a raccattare soltanto
Alvarez vietandoti di chiedere i polsini
e facendoti perdere a volte anche la premiazione
dell’ultimo giorno quando hai l’unico
momento di gloria delle due settimane
di raccattapallaggio e quando la presentatrice
della finale dice “salutiamo i raccattapalle”
e tu pensi, e lo pensi davvero, che in fondo
quegli applausi siano davvero per te e
per come hai raccattato, cioè giocato, nonostante
i tuoi errori, nonostante in pochi sanno
che l’ultimo giorno al foro Italico c’è soprattutto
chi pensa come andare dal custode
Gaspare e farsi dare le palline che sono
rimaste, o magari andare nei campi abbandonati
a prendersi qualche asciugamano
per poi spacciarlo come quello della finale,
o magari per prendere i simbolini della
Mercedes appesi alla rete o per andare in
campo e prendersi un po’ di terra rossa. Senza
sapere poi che c’è gente come Jim Courier
che i raccattapalle non li salutava più
tanto volentieri, per colpa di quella pallina.
Le tasche vuote e la fidanzata di Rios
Courier non sopportava che la pallina gli
arrivasse vicina ai piedi. Si voltava, si avvicinava,
si girava e ti guardava. Aveva il cappellino
bianco con la visiera piegata a V. Sotto
la fronte non passava la luce, gli occhi restavano
in penombra e lo sguardo non era proprio
chiaro se si rivolgesse a te, al pubblico,
al giudice di linea che gli aveva appena chiamato
una palla uscita tanto così ma che lui
invece aveva visto dentro così. Courier però
ti guardava e si incazzava. La pallina doveva
partire dalla tua mano in maniera precisa,
limpida, tratteggiando una parabola attraverso
la quale la pallina, una volta poggiata
sulla terra rossa (di quel campo adiacente all’ingresso
dello stadio Olimpico che una volta
era il centralino e che ora è stato trasformato
in un incastro di gambe, giocatori, palline
volanti, segnalinee ululanti, punteggi,
borracce), doveva arrivare sulla sua mano
immobile. Courier le palline le voleva precise.
Le sue gli giravano spesso e quando l’avversario
prendeva il net e non chiedeva
sorry lui non la prendeva bene. E quando
non la prendeva bene, la pallina doveva arrivargli
nella mano, precisa precisa sulla mano.
Non è uno scherzo, perché quando giocava
Courier era davvero bello poter essere lì
dietro di lui a cercare di capire come facesse
con quell’impugnatura improponibile a
fare quel dritto pazzesco, a giocare di panza,
un po’ come Sergi Bruguera un po’ come gli
spagnoli che sono i veri re delle qualificazioni
maschili. Ma negli ultimi tempi sapevi che
Courier era diventato un po’ nervoso e tu sapevi
che se non eri in giornata era meglio nascondersi
dietro un angolino mimetizzato tra
un braccio alzato di un giudice di linea e il
telone anti pioggia. Perché quando Jim era
incazzato tutti sapevano che con lui non si
doveva sbagliare e soprattutto tutti sapevano
che mangiare un panino con le patatine fritte
e tredici polletti del McDonald’s prima di
scendere in campo non era mai una grande
idea. E non importa che quella partita te l’avevano
assegnata all’improvviso. Non importa
che tu non avevi detto nulla della raccattapalle
che si era fidanzata con Marcelo
Rios, di quello che si metteva sempre la felpa
perché in televisione non poteva permettersi
di farsi vedere con le ascelle pezzate,
non importava che tu non avevi detto nulla
dei tuoi colleghi che dicevano mi dispiace
non ho palline e che invece tu vedevi perfettamente
che quei duei bozzi che aveva dietro
la schiena a metà tra i pantaloncini e la maglietta
erano le palline che si era già nascosto
e che erano pronte per essere messe accanto
sul suo schifosissimo comodino.
Jim aveva perso il punto, il raccattapalle a
sinistra era nascosto ancora meglio di te,
perché oltre al telone, oltre al braccio del
giudice di linea c’era anche l’ombra del tabellone
luminoso e chi finiva lì sotto nel vecchio
centralino non lo vedevi più. Come gli
occhi di Jim. La pallina era proprio lì dietro
ed era vicino a te, dovevi muoverti, scattare,
scavalcare i fiori, passare sotto il braccio del
giudice di linea, sopra il telone bagnato, accanto
ai rastrelli del giardinieri e arrivare a
raccoglierla, non pensare alle patatine, tornare
a posto, sorridere perché il raccattapalle
deve sempre sorridere, metterti dritto con
la schiena e disegnare una parabola armonica
con la pallina che lentamente viene rilasciata
dalla tua mano e che dovrebbe toccare
terra, rallentare e finire sulla racchetta di
Jim e che invece quel giorno, tra i vasi, le patatine
e i polli da dodici, prese una strana velocità
e senza disegnare grandi parabole
andò dritta a infilarsi tra le palle di Courier,
il quale, accusando il colpo, scoprì che lì in
fondo a sinistra quella sagoma nascosta sotto
l’ombrellone non era uno scopettone ma
un altro raccattapalle e allora, ringraziando,
da te aveva deciso di non venire mai più. E
tu sei finito, perché tu rimarrai per sempre
quello che ha preso nelle palle Courier, quello
che non ha portato a casa nemmeno il polsino
di Alvarez e quello che diceva sempre
che per te aver raccattato gente come Jim,
come Thomas, come Pit, come André, come
Martina, come Andrea era davvero un po’ come
averci giocato insieme.
Claudio Cerasa
01/05/07
Sul sei a sei del terzo set, dopo due ore e
quindici minuti di gioco, dopo essere
usciti e rientrati dal campo, dopo aver raccolto
le palline, dopo aver chiesto al giudice
di sedia mi scusi ma è proprio sicuro che oggi
si rigioca non vede quanto ha piovuto, e
dopo aver capito che anche quest’anno gli
italiani non arriveranno oltre i quarti di finale,
dopo tutto questo il raccattapalle solitamente
entra nel panico. Perché dalla tribuna
non ti accorgi di nulla, ti accorgi solo del
raccattapalle che cade sulla fiorera, di quello
che inciampa sulla rete, di quello che
guarda le tette della Sharapova, di quello
che chiede il polsino a Federer, di quello che
ruba la racchetta a Philippouosis dicendo
scusa pensavo fosse rotta, di quello che sbaglia
il lancio della pallina, di quello che starnutisce,
di quello che interrompe uno scambio,
di quello che fa cadere sempre la palla
accanto alla rete, di quello che si becca in
mezzo alla testa l’ace di Ivanisevic e di quello
che interrompe la partita per prendersi
un Gatorade e che poi viene radiato dall’albo
dei raccattapalle che non esiste ma è come
se esistesse. Ci si accorge quasi di tutto in
campo ma non di quello che capita quando
arriva il primo tie break del primo giorno di
Internazionali d’Italia, che inizieranno a Roma
la prossima settimana. Ed è lì che il raccattapalle
si capisce di che stoffa è fatto. Perché
c’è quello esperto che da dodici anni viene
ogni anno da fine aprile a metà maggio e
ha visto le interminabili qualificazioni maschili,
le sconosciute wild card italiane, quello
che a casa ha la pallina autografata da Muster,
la racchetta di Moya, la canottiera di
Sampras, la banana di Rafter, il cappellino
di Gaudenzi e il numero di telefono di Nadal.
Il raccattapalle super esperto conosce tutti i
trucchi del mestiere, è quello che entra nel
campo centrale e si mette sempre a sinistra
perché sa che i giocatori lì a sinistra non
prendono quasi mai le palline perché – per
superstizione – alla parte sinistra preferiscono
quella destra; è quello che sa che giù a
fondocampo puoi fare amicizia con la hostess,
puoi essere ripreso dalla telecamera,
puoi prendere meglio il sole e puoi soprattutto
nasconderti dietro l’orologio alto un
metro e mezzo dietro al quale si possono facilmente
nascondere anche le patatine di
Spizzico. Poi però ci sono anche i raccattapalle
che non hanno mai raccattato una pallina,
che sono venuti all’incontro con i raccattapalle
grandi a metà aprile, dove hanno
visto sulla lavagna una serie di schemi, un
po’ di disegni, molte spiegazioni, con i superiori
che ti dicono dobbiamo essere come
quelli di Wimbledon, dobbiamo fare meglio
del Roland Garros, qui ci giochiamo la credibilità,
avrete tanti buoni pasto, non chiedete
i Gatorade, non fatevi accompagnare
dai vostri genitori, non venite in campo con
i jeans e non rubate le palline; ci sono i super
esperti e ci sono poi, i raccattapalle giovani,
un po’ troppo giovani, che sono quelli
che scendono in campo a sei anni e provano
a ricordarsi di dare sempre la pallina rasoterra,
di non lanciarla da una parte all’altra
del campo come se fosse una palla da baseball,
di non interrompere gli scambi, di avere
sempre due palline in mano, di essere
sempre seri, di dare la pallina lentamente
solo se il giocatore ti fa su e giù con la testa
e di ricordarsi soprattutto che quando c’è il
tie break tutti devono avere una pallina in
mano e che nel tie break è tutto più rapido
perché la battuta cambia ogni due punti, le
palline devono correre, non devono finire
sulla rete, devono essere sempre a fondocampo
e soprattutto non devono finire in tasca;
e non importa se ti arrivano le battute
prese con la stecca da Ivanisevic, quelle che
non toccano sul terreno e si trasformano in
missili aria-aria e che nei campi più piccoli
si vanno spesso a stampare sulle teste del
giudice di net o su quelle dei raccattapalle
più sovrappensiero. Non importa nulla di
tutto questo, conta solo il tie break.
Il panico del tie break
E sul tie break i raccattapalle entrano nel
panico, a volte piangono, non ricordano più
quanti punti mancano prima di passare una
pallina dall’altra parte del campo e non ricordano
più se si cambia il campo ogni punto
pari, ogni punto dispari, se si cambia
quando uno dei due tennisti raggiunge un
punteggio pari o se il pari deve essere la
somma dei punti dei due giocatori. E lì è panico
totale, nessuno puoi aiutarti, la hostess
se ne è andata, il giudice di linea si è già appisolato
e soprattutto sai che anche questa
volta non avrai il polsino, perché prima del
tie break il tennista lo cambia, ne prende
uno nuovo e quello vecchio lo mette dentro
la borsa. E per un raccattapalle non c’è niente
di peggio che non avere quel dannato polsino.
Perché si sopporta tutto, si sopportano
le escoriazioni sul ginocchio quando ci si
mette sotto rete, quando ti sbucci la pelle sopra
la rotula, sopporti la Kournikova, la
Dokic, la Hingis che non ti guardano mai e
che ti chiamano soltanto per farti tenere
l’ombrellone sopra di loro, sopporti Andrea
Gaudenzi che ti manda a quel paese perché
non ti ricordi mai di portare sulla sua seggiolina
l’asciugamano san Benedetto che lui lascia
sempre a fondocampo, sopporti anche di
andare in giro per due settimane con un pass
dove tu sei per tutti un “ballboy” e dove non
esiste una traduzione esatta perché prima il
raccattapalle era un raccattapalle ma da
quando sei un ball boy tu diventi solo un
bambino palla. E questo non ti aiuta affatto
a sentirti integrato o a sentirti accettato come
magari lo possono essere le modelline in
minigonna della Boss che un anno fa erano
state scelte proprio dalla Boss per raccattare
a Madrid senza che nessuno si sognasse
mai di dargli un accredito con scrittto ball
girl, figuriamoci. E tu invece, che eri un povero
ball boy con tutti i pregiudizi che aveva
uno che raccattava le palle e che era anche
una palla di bambino, tu invece chiedevi
davvero poco. Chiedevi di poter far parte
della squadra della finale, chiedevi di avere
un buono pasto in più, chiedevi di non finire
sui vecchi campi “sei” e “sette” dove non c’era
nessuno spettatore, dove i raccattapalle,
quando andava bene, erano tre, a volte due,
dove non c’erano le telecamere e dove l’autorità
dei ball boy anziani era di gran lunga
superiore a quella di molti giocatori che su
quei campi giocavano le qualificazioni (uno
dei volti storici delle qualificazioni era uno
spagnolo con la bandana blu che si chiamava
Alvarez, un pessimo giocatore che vinceva
solo con gli italiani e che nell’ambiente
dei raccattapalle era famoso per regalare i
cappelli della Nike). Perché poi ci sarebbero
state le racchette che Tarango ti buttava
addosso, gli urli di Thomas Muster (da vicino
riuscivi a vedere lì in mezzo alle ginocchia
quante cicatrici aveva, il grande Thomas),
riuscivi a sopportare anche le partite che finivano
sempre al quinto set con molti tie
break anche se poi, abbandonato lì sui campi
di periferia, l’unico tuo vero sogno – oltre
alla finale – era quello di giocare, pardon, di
raccattare sul centrale. Sempre che poi non
ci fosse Mary Pierce.
Il campo centrale nella prima partita del
serale è sempre pieno. Il biglietto costa un
po’ di meno, c’è sempre il collega che ti passa
il suo accredito, il raccattapalle che ti dà
la sua felpa con lo sponsor e che poi ti dice
vai dall’amico a cui ho offerto le patatine al
Bar del tennis che lui ti fa entrare sicuro. E
tu, allora, entri sicuro. Quella sera sul campo
centrale del Foro Italico Mary Pierce era
già parecchio incazzata e se chiedeva una
pallina la voleva subito e non voleva rumori,
non voleva telefonini che squillavano,
non voleva che la pallina arrivasse all’altezza
dello stomaco e non voleva che la pallina
fosse quella usata qualche istante prima,
nello scambio precedente. Sennò, Mary, si
incazzava davvero. E quando si incazzava,
Mary era davvero bella. O almeno tutti dicevano
così quando sotto il gazebo di fronte al
campo uno le due coordinatrici dei ball boy
con il foglio bianco in mano selezionavano
te, te, te, te, te e poi te per il campo centrale
e per la partita più attesa del serale, cioè
quella con Mary Pierce; dove a raccattare la
Mary c’erano sempre e solo ragazzi come
quando alle partite di Rafter o a quelle di
Gaudenzi o a quelle di Rios o a quelle di
Moya c’erano sempre e solo ragazze. Quel
giorno capisci che Mary stava proprio guardando
te. Mary voleva battere, le serviva una
pallina. Si avvicina, muove la mano, muove
la racchetta e fa su e giù con la testa e il
campo centrale capisce che tu non hai nemmeno
una pallina, capisce che tu stai guardando
la Pierce, capisce che non la stai
guardando negli occhi e soprattutto capisce
che quando Mary Pierce ti si avvicina e ti
apre la mano per vedere se hai ancora palline
in mano e tu non ne hai neanche una e
quando tutto lo stadio inizia a mettere in sequenza
le vocali aaaaaaaa accompagnate da
una c a cui segue immediatamente un’altra
vocale (la o) scandita assieme a uno ione, capisci
che tu ormai sei fottuto. Mary Pierce
viene da te, tu sei distratto dalla sua gonna
bianca, ti viene ad aprire la mano e non hai
nemmeno una pallina e per giunta ti dicono
che sei un coglione e allora è tutto finito, ti
manderanno per due anni a raccattare soltanto
Alvarez vietandoti di chiedere i polsini
e facendoti perdere a volte anche la premiazione
dell’ultimo giorno quando hai l’unico
momento di gloria delle due settimane
di raccattapallaggio e quando la presentatrice
della finale dice “salutiamo i raccattapalle”
e tu pensi, e lo pensi davvero, che in fondo
quegli applausi siano davvero per te e
per come hai raccattato, cioè giocato, nonostante
i tuoi errori, nonostante in pochi sanno
che l’ultimo giorno al foro Italico c’è soprattutto
chi pensa come andare dal custode
Gaspare e farsi dare le palline che sono
rimaste, o magari andare nei campi abbandonati
a prendersi qualche asciugamano
per poi spacciarlo come quello della finale,
o magari per prendere i simbolini della
Mercedes appesi alla rete o per andare in
campo e prendersi un po’ di terra rossa. Senza
sapere poi che c’è gente come Jim Courier
che i raccattapalle non li salutava più
tanto volentieri, per colpa di quella pallina.
Le tasche vuote e la fidanzata di Rios
Courier non sopportava che la pallina gli
arrivasse vicina ai piedi. Si voltava, si avvicinava,
si girava e ti guardava. Aveva il cappellino
bianco con la visiera piegata a V. Sotto
la fronte non passava la luce, gli occhi restavano
in penombra e lo sguardo non era proprio
chiaro se si rivolgesse a te, al pubblico,
al giudice di linea che gli aveva appena chiamato
una palla uscita tanto così ma che lui
invece aveva visto dentro così. Courier però
ti guardava e si incazzava. La pallina doveva
partire dalla tua mano in maniera precisa,
limpida, tratteggiando una parabola attraverso
la quale la pallina, una volta poggiata
sulla terra rossa (di quel campo adiacente all’ingresso
dello stadio Olimpico che una volta
era il centralino e che ora è stato trasformato
in un incastro di gambe, giocatori, palline
volanti, segnalinee ululanti, punteggi,
borracce), doveva arrivare sulla sua mano
immobile. Courier le palline le voleva precise.
Le sue gli giravano spesso e quando l’avversario
prendeva il net e non chiedeva
sorry lui non la prendeva bene. E quando
non la prendeva bene, la pallina doveva arrivargli
nella mano, precisa precisa sulla mano.
Non è uno scherzo, perché quando giocava
Courier era davvero bello poter essere lì
dietro di lui a cercare di capire come facesse
con quell’impugnatura improponibile a
fare quel dritto pazzesco, a giocare di panza,
un po’ come Sergi Bruguera un po’ come gli
spagnoli che sono i veri re delle qualificazioni
maschili. Ma negli ultimi tempi sapevi che
Courier era diventato un po’ nervoso e tu sapevi
che se non eri in giornata era meglio nascondersi
dietro un angolino mimetizzato tra
un braccio alzato di un giudice di linea e il
telone anti pioggia. Perché quando Jim era
incazzato tutti sapevano che con lui non si
doveva sbagliare e soprattutto tutti sapevano
che mangiare un panino con le patatine fritte
e tredici polletti del McDonald’s prima di
scendere in campo non era mai una grande
idea. E non importa che quella partita te l’avevano
assegnata all’improvviso. Non importa
che tu non avevi detto nulla della raccattapalle
che si era fidanzata con Marcelo
Rios, di quello che si metteva sempre la felpa
perché in televisione non poteva permettersi
di farsi vedere con le ascelle pezzate,
non importava che tu non avevi detto nulla
dei tuoi colleghi che dicevano mi dispiace
non ho palline e che invece tu vedevi perfettamente
che quei duei bozzi che aveva dietro
la schiena a metà tra i pantaloncini e la maglietta
erano le palline che si era già nascosto
e che erano pronte per essere messe accanto
sul suo schifosissimo comodino.
Jim aveva perso il punto, il raccattapalle a
sinistra era nascosto ancora meglio di te,
perché oltre al telone, oltre al braccio del
giudice di linea c’era anche l’ombra del tabellone
luminoso e chi finiva lì sotto nel vecchio
centralino non lo vedevi più. Come gli
occhi di Jim. La pallina era proprio lì dietro
ed era vicino a te, dovevi muoverti, scattare,
scavalcare i fiori, passare sotto il braccio del
giudice di linea, sopra il telone bagnato, accanto
ai rastrelli del giardinieri e arrivare a
raccoglierla, non pensare alle patatine, tornare
a posto, sorridere perché il raccattapalle
deve sempre sorridere, metterti dritto con
la schiena e disegnare una parabola armonica
con la pallina che lentamente viene rilasciata
dalla tua mano e che dovrebbe toccare
terra, rallentare e finire sulla racchetta di
Jim e che invece quel giorno, tra i vasi, le patatine
e i polli da dodici, prese una strana velocità
e senza disegnare grandi parabole
andò dritta a infilarsi tra le palle di Courier,
il quale, accusando il colpo, scoprì che lì in
fondo a sinistra quella sagoma nascosta sotto
l’ombrellone non era uno scopettone ma
un altro raccattapalle e allora, ringraziando,
da te aveva deciso di non venire mai più. E
tu sei finito, perché tu rimarrai per sempre
quello che ha preso nelle palle Courier, quello
che non ha portato a casa nemmeno il polsino
di Alvarez e quello che diceva sempre
che per te aver raccattato gente come Jim,
come Thomas, come Pit, come André, come
Martina, come Andrea era davvero un po’ come
averci giocato insieme.
Claudio Cerasa
01/05/07
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