giovedì 13 novembre 2008

Il Foglio. "I soldi, le banche e la sinistra"

Veltroni, D’Alema, De Benedetti, Caltagirone, Bazoli, Mussari. Ma scusate, che fine ha fatto la finanza rossa? Tra banchieri, politici e capitani d’industria, ecco perché l’opa dalemiana sul Partito democratico comincia da qui







“Colori di Fantozzi: rosso, rosso pompeiano, arancio aragosta, viola, viola addobbo funebre, blu tenebra. Sul blu tenebra Fantozzi andò in coma cardiorespiratorio”.
(Il ragionier Ugo alla cena di gala, alle prese con la cosa più difficile da mangiare in natura, il tordo. “Il secondo tragico Fantozzi”, 1976)

Due immagini. La prima è quella di un Walter Veltroni sorridente, con la fascia da sindaco, con il pollice destro tirato su verso il cielo e con lo sguardo fisso sul parquet di un campo da basket romano. Lui al centro e tutti gli altri al suo fianco: imprenditori, banchieri, costruttori e capitani di industria. Tutti allo stadio. Tutti a tifare. Tutti attorno a Walter. Data: giugno 2007. Città: Roma. La seconda immagine è una colazione informale, è una tazzina di caffè poggiata su un vassoio di cristallo, è un tavolino di un ufficio milanese attorno al quale ci sono Massimo D’Alema e Giovanni Bazoli, dove si discute della fusione tra Capitalia e Unicredit, della banca IntesaSanPaolo e della nuova geopolitica del sistema finanziario. La data è il maggio 2007. Poi succede che Veltroni perde le elezioni, che l’ex sindaco abbandona quel parquet dorato dove aveva governato per quasi otto anni e improvvisamente si ritrova di fronte a un mondo completamente diverso, inaspettato. Un mondo dove i vecchi equilibri politici, economici, finanziari, e non solo, sono saltati tutti per aria. Perché quell’universo fatto di banchieri, costruttori e imprenditori, quella fetta di establishment che il segretario del Pd era riuscito a riunire attorno a una festa del cinema e a un palazzetto dello sport oggi si è sciolto come neve al sole, e quello che in molti consideravano come l’unica evoluzione possibile del mondo legato alla finanza rossa ha dimostrato di essere un ambiente troppo fragile, troppo precario, troppo debole per sostenere l’urto di una sconfitta elettorale. Troppo diverso, per esempio, da quello che Massimo D’Alema ha costruito con successo negli ultimi dieci anni: in modo più informale, più silenzioso e meno vistoso, magari, ma certamente senz’altro più efficace.
Ecco, chiamatela finanza rossa, chiamatela pure finanza paonazza: fatto sta che per capire quali sono i rapporti di forza tra i più importanti dirigenti del centrosinistra, bisogna partire da qui. Da questi fotogrammi. Dalla Roma di Veltroni e Bettini. Dalla Milano di Passera e D’Alema. Dalla Torino di Chiamparino e Benassia. Dalla Brescia di Bazoli e Letta. E alla fine il risultato è sempre lo stesso. Alla fine dei giochi, comunque questo mondo lo si voglia guardare, alla fine c’è sempre lui. C’è sempre lo zampino di Max.

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Roma è senz’altro la città che meglio delle altre offre oggi un’immagine chiara della nuova stagione della finanza rossa: bisogna partire da qui, da quella città che il centrosinistra ha amministrato negli ultimi quindici anni (prima con Francesco Rutelli e poi con Walter Veltroni) per capire quale è stato il destino della rete di potere cresciuta attorno al famoso “modello Roma”. Una rete, questa, che aveva avuto la sua massima espressione in quella scacchiera politica che era la Festa del cinema di Roma: lì dove Goffredo Bettini (braccio destro di W.) era riuscito a mettere insieme i volti forti del veltronismo candidato a governare il paese. Ricorderete: c’era Luigi Abete (presidente della vecchia Bnl), c’era Andrea Mondello (ex vicepresidente di Confindustria e presidente della Camera di commercio romana), c’era Massimo Tabacchiera (ex presidente della Federlazio), c’era la famiglia Toti (costruttori molto attivi negli anni in cui W. ha governato sulla città), c’era Innocenzo Cipolletta (ex numero uno delle Ferrovie dello stato e consigliere di amministrazione della prima festa del cinema), c’era Paolo Cuccia (già vicepresidente di Capitalia). Ma quell’intreccio di potere oggi rischia di essere coniugato soltanto con verbi al passato: la conquista della Festa di Roma, per il nuovo sindaco Gianni Alemanno, ha avuto l’effetto di sottrarre al segretario del Pd l’appoggio di quell’establishment (un po’ finanziario e un po’ imprenditoriale) che di questi tempi non avrebbe certo fatto male a W.
L’immagine più limpida della nuova geopolitica romana è certamente la fotografia della commissione per le riforme voluta dal sindaco Gianni Alemanno. Nei confronti dei nuovi colori politici della capitale, l’Attali di Alemanno segnala un atteggiamento “non pregiudiziale” del vecchio blocco di potere veltroniano, tanto che la commissione per le riforme guidata da Antonio Marzano comprende alcuni uomini fino a pochi mesi fa considerati piuttosto organici al mondo veltroniano: Luigi Abete, Innocenzo Cipolletta e Andrea Mondello (anche se per quest’ultimo il discorso è un po’ diverso, perché Mondello è legato da sempre ai due grandi king maker della città: Goffredo Bettini e Gianni Letta) hanno accettato di far parte dell’Attali romana, e molti osservatori notano che con Veltroni è rimasto soltanto Matteo Arpe, ieri amministratore delegato di Capitala, ora numero uno della Sator. Racconta un ex assessore romano che i rapporti di amicizia tra i due sono molto buoni, e la vicinanza di Arpe al mondo di W. è segnalata anche dalla presenza di Luigi Spaventa (presidente della stessa Sator) negli organi dirigenti del Partito democratico (Spaventa è membro del collegio sindacale del Pd).
“La differenza tra Veltroni e D’Alema – spiega al Foglio un senatore romano del Partito democratico, che vuole tenere l’anonimato per la delicatezza del tema – è fatta anche di queste cose: il primo ha dato vita a Roma a una rete di potere troppo legata a singoli atti amministrativi, che si è liquefatta dal giorno in cui sono cambiati gli equilibri politici romani. Il secondo, invece, nei confronti di quello che voi chiamate ‘mondo della finanza rossa’ ha un tipo di impostazione più pragmatico, basato più su quei rapporti personali che restano nel tempo a prescindere dal proprio ruolo politico: un approccio in questo senso molto efficace e molto berlusconiano”.
Un discorso a parte va invece fatto per una famiglia tradizionalmente amica di W: i Toti. Negli anni di governo veltroniano, la stella della famiglia romana aveva brillato anche grazie alle importanti opere realizzate: ex mercati generali dell’Ostiense, Galleria Colonna, Globe Theatre. C’è chi dice che il buon feeling tra Veltroni e i Toti (favorito anche dalla passione in comune per il basket: Veltroni è tifoso della squadra di cui i Toti sono presidenti, la Virtus) sia stata la vera ragione che ha portato alla rottura dei rapporti tra l’ex sindaco di Roma e l’editore del Messaggero Francesco Gaetano Caltagirone. Oggi, invece, la realtà è che i Toti non hanno alcun imbarazzo a rivendicare il proprio appoggio alla nuova amministrazione della capitale. Tanto che, raccontano, non è impossibile immaginare che gli stessi Toti prendano parte a una futura cordata romana per entrare nel capitale sociale della nuova Alitalia, insieme con le famiglie Garofalo, Angelucci e Santarelli e sostenuti proprio dal sindaco Gianni Alemanno.
In questo mondo veltroniano, però, ci sono altri aspetti che non possono essere trascurati. Il primo riguarda il rapporto tra Walter Veltroni e Carlo De Benedetti, perché se tre anni fa l’editore del gruppo Espresso aveva detto di essere disposto persino a prendere la tessera numero uno del Partito democratico (“La tessera numero uno del Pd la prendo io, se volete”, disse De Benedetti il primo dicembre del 2005) oggi le sue parole sono più dure, sono più critiche e sono più distaccate rispetto a qualche anno fa. A tal punto che il 27 settembre l’Ingegnere ha detto “non ho mai avuto, non ho e non avrò mai la tessera di alcun partito” e soltanto un mese dopo, rivolto al Pd e a Walter Veltroni, ha aggiunto che “in Parlamento l’opposizione non c’è”. “L’ingegnere – racconta un dirigente del Pd che bene conosce l’editore del gruppo Espresso, e che vuole riservatezza proprio per questo – non ha più con Veltroni quel rapporto esclusivo di un tempo. I due si sentono e si frequentano ancora, ma il rapporto in questo momento è un po’ freddo, e Repubblica, non a caso, non è più accecata dal veltronismo”. I veltroniani più smaliziati, poi, sostengono che il mondo prodiano sia tornato a suscitare un certo e inaspettato fascino dalle parti di Repubblica (vedi le pagine bolognesi ultimamente poco tenere nei confronti dell’ex sindaco Sergio Cofferati). Ma la verità è che nel Partito democratico l’unico politico con cui Carlo De Benedetti ha ancora ottimi rapporti non è Walter Veltroni, ma è il vicesegretario di W., Dario Franceschini, di cui l’Ingegnere ha una gran stima e con il quale ogni tanto si incontra a cena.

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A poco più di duecento chilometri di distanza da Roma, però, c’è un altro volto della capitale che offre altre preoccupazioni al mondo di W. Quella città è Siena e il volto è ancora quello di Francesco Gaetano Caltagirone. Dopo aver chiesto con successo nell’ultima campagna elettorale una “discontinuità” nella guida della capitale, Caltagirone ha continuato ad attaccare l’ex sindaco di Roma con una certa costanza. L’ultima volta è capitata un mese fa, al piano terra dello spazio Etoile a piazza San Lorenzo in Lucina, a Roma, dove l’editore del Messaggero ha tracciato un bilancio molto severo dell’amministrazione veltroniana. “La mancanza di guida che ha avuto negli ultimi anni – ha detto – ha fatto scivolare Roma là dove voleva andare da sola… L’economia romana negli ultimi cinque anni si è sfaldata. Paga una carenza significativa in termini di infrastrutture, a causa dell’assoluta priorità che si è data a qualsiasi altra cosa che non fosse la modernizzazione della città…”. Il fatto che Caltagirone abbia attaccato in modo così duro il segretario del Pd mentre sedeva accanto al numero uno della banca più a sinistra d’Italia – Giuseppe Mussari, presidente della Monte dei Paschi di Siena – è un elemento che non può essere sottovalutato: Mussari – nominato alla guida della banca da una fondazione (la Mps) composta per lo più da manager vicini al mondo del Partito democratico – è un elettore del Pd, è stato iscritto prima al Pds e poi ai Ds e sarebbe stato scontato aspettarsi una difesa del segretario del Pd. Invece non è successo. Perché?
Come sembra essere ormai evidente, nella terza banca più grande d’Italia (Mps-Antonveneta) gli equilibri sono completamente cambiati, e il rapporto tra Mps e Pd è più complesso rispetto a qualche tempo fa. Fino alle elezioni dello scorso aprile, Mussari non ha fatto nulla per nascondere la sua simpatia per il segretario del Pd. Era stato Mussari ad accompagnare Veltroni in Toscana nell’agosto del 2007, ed era stato Mussari a seguire da vicino l’ultima campagna elettorale di W. Inoltre, il recente ingresso di alcuni manager legati alla Sator di Matteo Arpe in Mps (si tratta di Carmine Mancini e Giulio Pascazio) sembrava fosse il segnale evidente di un forte radicamento del veltronismo anche in territorio senese. “I due – spiega un dirigente del Pd, che sceglie anche lui l’anonimato – si conoscono da tempo: Mussari è stato un militante dei Ds e prima ancora del Pds, e con Veltroni ha sempre avuto una buona intesa. In questi anni, inoltre, i due hanno anche condiviso la passione per il basket, seguendo spesso insieme allo stadio le gare delle proprie squadre del cuore: Mussari è un gran tifoso della Monte dei Paschi di Siena, squadra di cui la sua banca è anche sponsor ufficiale; Veltroni lo è invece della Virtus Roma”. Oggi però tra i due non c’è più una grande cordialità. Tutt’altro.
E ancora una volta ci sarebbe lo zampino di Francesco Gaetano Caltagirone. In meno di due anni, l’editore del Messaggero è riuscito a radicarsi con successo in territorio senese, diventando sempre più influente nella banca di Mussari e nella città che un anno fa ha ospitato il matrimonio tra la figlia Azzurra e Pier Ferdinando Casini. Caltagirone oggi è numero due della Monte dei Paschi, è il primo azionista privato della Mps, possiede il 4,7 per cento della banca, è vicepresidente dello stesso istituto, e dallo scorso anno, con il logo giallo del quotidiano free press di sua proprietà (Leggo), è sponsor anche della squadra di basket campione d’Italia: la Monte dei Paschi. Non deve stupire dunque che la banca per ragioni storiche più legata al centrosinistra sia tutto oggi tranne che una banca veltroniana. Ma credere che la Monte dei Paschi sia diventata una realtà estranea al mondo del centrosinistra sarebbe un errore da matita blu. Mussari ha ancora ottimi rapporti con i dirigenti nazionali del Partito democratico, è legato al Pd anche grazie a una stretta amicizia con il tesoriere umbro del partito (Mauro Agostini). Ma l’uomo che più compare sulla sua agenda è ancora il vice di W., Dario Franceschini. Come spiega uno degli osservatori più attenti agli intrecci tra la politica e la finanza senese (Raffaele Aschieri, autore di un libro sulla presunta “Casta di Siena”), il rapporto tra il vicesegretario del Pd (fedele a W., ma allo stesso tempo abile a costruire attorno a sé un mondo autonomo dal veltronismo) e Mussari nasce grazie a un’amicizia che i due hanno in comune con Gabriello Mancini, presidente di quella Fondazione Mps che nomina i dirigenti della banca ogni quattro anni. Mancini era iscritto allo stesso partito di Franceschini (la Margherita) e un anno e mezzo fa, nel corso del tour elettorale delle scorse primarie, era stato lui a presentare Mussari al vice di W.
Siena, però, è anche la città in cui i fili che tengono insieme i mondi di Enrico Letta e Massimo D’Alema cominciano a intrecciarsi sempre di più. Se da un lato Letta è riuscito a entrare in contatto stretto con alcuni volti influenti dell’universo Mps (sono il professor Andrea Paci – membro del consiglio direttivo della fondazione Monte dei Paschi e rappresentante della regione Toscana in Mps – e la dottoressa Isabella Falautano – responsabile studi e relazioni Internazionali del gruppo Montepaschi Vita), dall’altro lato la sponda dalemiana in territorio senese è un volto particolarmente conosciuto da queste parti: si chiama Franco Ceccuzzi, è un parlamentare di quarantuno anni, è stato segretario del Pd senese (eletto con il 91,7 per cento dei voti), consigliere provinciale del partito, responsabile economico del Pd toscano e raccontano sia lui il futuro candidato al comune di Siena nel 2011. Ceccuzzi – che viene considerato il vero anello di congiunzione tra l’universo della banca senese e quello del Partito democratico – dallo scorso luglio ha in tasca la tesserina rossa di Red, e nelle prossime settimane sarà lui (insieme con il deputato Michele Ventura) uno dei democratici grazie ai quali la costola politica della fondazione dalemiana ItalianiEuropei consoliderà il suo tesseramento anche in Toscana. Perché l’opa silenziosa lanciata da Massimo D’Alema sul Partito democratico comincia anche da qui. Comincia da Siena, arriva a Torino, arriva a Milano, a Brescia, a Bologna e mette insieme il mondo di Giovanni Bazoli, di Cesare Geronzi, di Enrico Letta e di Romano Prodi. Perché – qualsiasi inquadratura si voglia scegliere e quale che sia la tonalità di rosso con cui si voglia colorare il mondo della finanza rossa – alla fine dei giochi c’è sempre lui. C’è sempre lo zampino di Max.
Prendete, per esempio, il caso di Milano. (1. continua)

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