sabato 26 gennaio 2008

Il Foglio. amanda, la morte, i balli in maschera. E’ la nuova cronaca nera

Dei delitti e delle scene. Metà Kubrick, metà Schnitzler. Il doppio sogno della studentessa americana, in carcere da cento giorni per il giallo di Perugia. Come un’inchiesta con troppi indizi si trasforma in un processo agli aggettivi

Forse ho letto. Forse ho fatto i compiti. Forse sono uscita. Forse ho sognato. Forse ho fatto la doccia. Forse ho fatto un tiro. Forse mi sono addormentata. Forse ho fatto l’amore. Il doppio sogno di Amanda è l’occhio di Kubrick, la penna di Schnitzler, la maschera di Pirandello, la notte di Halloween; il doppio sogno di Amanda è una stanza a Perugia, è un piumone bianco, un armadio a muro, uno schizzo di sperma, una lavatrice in funzione, un interrogatorio infinito, un reggiseno che si slaccia, una coscia che si scopre, un poliziotto che ti guarda, una mutandina che si toglie e otto centimetri di sangue che ti uccidono. Il doppio sogno di Amanda è tutto quello che gli altri desideravano, tutto quello che gli altri non riuscivano a spiegare: la studentessa, l’Erasmus, l’omicidio, la coinquilina, il computer, il film, la mamma, il papà, l’erba, il telefonino, il messaggino, i giovani, il sesso, il blog, il pompino; con l’aggettivo che diventa più grave della possibile prova, e con l’accusa che si trasforma in attributo: bella, giovane, erasmus, ventenne, simpatica, disponibile, disinibita, allegra, vivace, e molto, molto fatta. Inspira e respira, piccola: un altro tiro? Primo novembre, Perugia: Meredith: ventidue anni, studentessa, inglese, coinquilina di Amanda; Rudy: studente, ventuno anni, ivoriano, amico di Meredith e Amanda; Raffaele: studente, ventiquattro anni, fidanzato di Amanda; Patrick: trentasette anni, congolose, barista; Amanda: vent’anni, studentessa, americana. Dolcetto o scherzetto? Primo novembre, giovedì sera, è la notte dopo Halloween; la casa è quella di Meredith e di Amanda: lo stereo è spento, Meredith spalanca la porta, apre a qualcuno, lo fa entrare, lo accompagna in camera, si sdraia sul letto, e muore: uccisa con una lama di sei centimetri che tra le ventidue e le ventitré e trenta le strappa otto centimetri di collo, con un taglio lungo quattro secondi che da destra scorre verso sinistra, e la uccide. Poi un attimo, e l’osso del collo si spezza in due. La casa. La porta all’ingresso: chiusa con una doppia mandata. I cassetti: svuotati, ma non quello di Amanda. Su un bicchiere: l’impronta di Amanda. Sul lavandino: il sangue di Amanda, e quello di Meredith. Su un cuscino: l’impronta di Rudy. Nel water: le feci di Rudy. Sul reggiseno: il dna di Raffaele. Sulla mattonella: l’impronta a cerchi concentrici di un paio di nike air max numero 42 e mezzo; simili a quelle trovate a casa di Raffaele. A casa di Raffaele, sulla mensola, un coltello di venti centimetri a lama fissa, con schizzi di candeggina fresca e due microtracce: sulla punta il dna di Meredith, sull’impugnatura quello di Amanda. In carcere: oggi Amanda, Rudy e Raffaele. Ieri Patrick, ora libero ma ancora indagato. Le accuse: concorso in omicidio e violenza sessuale. See you later, piccola: “Sì, Amanda vive in un altro mondo, vive la vita come se fosse un sogno, e il suo unico pensiero è provare piacere, in ogni momento”, dice Raffaele in una lettera forse scritta in carcere o forse no. Inspira e respira, Amanda; pollice e indice si toccano e si strofinano, la cartina scivola sui polpastrelli come una caramella da scartare: e la giri, la stropicci, la fai scorrere da un palmo all’altro, l’accendi e tiri. Inspira e respira. Il doppio sogno di Amanda è una frase del suo doppio, è un verbo coniugato all’infinito, è una tuta nera molto attillata, è un perizoma in un negozio al centro, è una parola sussurrata: sì, scopiamo. “Both high of cannabis”, dice lei. “Fatti”, dice Amanda: quella sera eravamo completamente fatti.
Era proprio come volevano che diventasse, Amanda. Perfetta. Perfetta per chi può raccontare una cosa senza conoscerla, perfetta per chi può parlare di Erasmus senza averlo fatto, perfetta per chi può parlare di giovani senza averci mai parlato, perfetta per chi può parlare di sesso senza ricordarsi più che cos’è. Perfetta, Amanda: perché era tutto quello che serviva ai genitori degli altri; tutto quello volevano dimostrare, tutto quello che ancora non capivano, che ancora non comprendevano, che ancora non conoscevano ma che ora finalmente riconoscono: tesoro, vorrai mica diventare come Amanda? Era tutto quello che serviva, Amanda; era la perfetta non studentessa, la perfetta non fidanzata, la perfetta non coinquilina, la perfetta non amica, la perfetta non figlia. “Era”, perché se ne parla così di Amanda; se ne parla sempre al passato: perché c’è un prima e un dopo quando sei fuori da una cella. E c’è solo un prima quando invece ci sei dentro: perché il presente è il tempo che ti condanna, il passato quello che ti incastra. Il dopo invece non c’è. Era: bella, studentessa, Erasmus, ventenne, simpatica, disponibile, disinibita, allegra, vivace, e molto, molto fatta. Inspira. Respira. E poi: chi è Amanda? Quella coinquilina? Quella fidanzata? Quella del night? Quella del blog? Quella di Amelie? Quella con il Vangelo in carcere? Amanda è scrivere qualcosa su qualcuno che esiste solo come lo hai inventato tu. E’ la proiezione della paura così reale che non può più essere virtuale; e che diventa drogata perché studentessa, zoccola perché biondissima, glaciale perché sospetta, colpevole perché bellissima. Dieci, cento, mille. La maschera di Amanda però è quella che fa comodo agli altri.
Quella sera: alle 19 e un minuto, Meredith accende il dvd a casa della sua amica Sophie; preme on e sceglie un film che si chiama “The Notebook”, con Gena Rowlands, James Garner, Tim Ivey; alle venti e quaranta uno studente polacco vede Amanda uscire dalla casa di Raffaele; tre minuti dopo una telecamera a circuito chiuso, di fronte alla villetta di Meredith, cattura una sagoma, una silhouette nera; bellissima, sottile: è Amanda, dicono. Diciassette minuti dopo, Meredith spegne il lettore dvd, saluta Sophie, torna a casa. Un’ora e quindici minuti dopo, Meredith connette per otto secondi il suo telefonino a Internet. Passano quattordici minuti, Patrick batte uno scontrino: lui è ancora lì, al suo locale “Le Chic”. Un minuto dopo, un testimone racconta di aver visto un uomo nero correre via dalla casa di Meredith. Alle ventidue e trenta minuti, Rudy sta per entrare in un night club. Poco dopo, alle ventidue e trentotto minuti, la cella telefonica più vicina alla casa di Meredith localizza il codice Imei (International Mobile Equipment Identity) del telefonino di Patrick. Il dettaglio sembra importante. Sembra, però. Perché la cella più vicina alla casa di Meredith è anche quella più vicina al pub “Le Chic”, dove lavora Patrick. Tre minuti prima, Patrick riceve un messaggio da Amanda: “See you later”, Patrick; che significa ci vediamo dopo, ma significa anche “Ciao: ci si vede”, ma chissà quando. Dalle venti e trentacinque minuti fino alle dodici del giorno dopo, il telefonino di Amanda non squilla e non riceve telefonate. Dalle venti e quarantadue minuti fino alle sei del giorno dopo, il telefono di Raffaele non squilla e non riceve telefonate: “vuoto di traffico”, lo chiamano i magistrati. Poche ore dopo, alle tredici del due novembre, due agenti della polizia postale si presentano di fronte casa di Amanda e Meredith e troveranno la porta aperta, il vetro rotto, Meredith con il collo tagliato in due, e Raffaele e Amanda seduti sul divano; la lavatrice brontola: dentro anche alcuni panni di Meredith.
Il doppio sogno di Amanda è una frase del suo doppio, è un verbo coniugato all’infinito, è una tuta nera attillata, è un perizoma in un negozio al centro, è una parola sussurrata: scopiamo. “Wild sex tonight”, dice Amanda due giorni dopo la notte di Halloween.
Tesoro mio, vuoi diventare come Amanda?
Due giorni dopo la morte di Meredith, al numero dieci di via Guglielmo Calderini, a Perugia, una telecamera a circuito chiuso riprende i due ragazzi, mano nella mano, in un negozio di intimo. Fidanzati, li chiamano: sono così i ragazzi di oggi, piccola mia. Il proprietario del negozio – il signor Carlo Maria Scotto – riconosce i ragazzi, li segue con lo sguardo, registra, ascolta, racconta: “Amanda, comprati il perizoma che stanotte facciamo sesso selvaggio”. Sono fatti così i ragazzi: fumano, comprano perizomi, fanno sesso. Pensa. L’amica morta, e loro scopano. Come se il perizoma fosse fatto per incartare i libri di Spinoza, o come se il perizoma fosse fatto per nascondere un coltello. E allora, eccola Amanda: quella che ci provava con i clienti, quella cacciatrice di uomini, quella che non puoi avere storie romantiche con lei, quella che non porti a casa per farle conoscere tua madre, ché magari arriva e le dice scusa, hai una cartina? Ma anche quella dell’ex fidanzato di Roma, quello che racconta di quella scommessa vinta a casa sua, e con Amanda che guarda un film, perde la scommessa, inizia a massaggiare, si sfila la maglietta, si slaccia il reggiseno, gioca con i polpastrelli, scende con la testa, e scende sempre di più; e lui sospira, e racconta: “She wanted to try lots of positions”. Troppo bella, troppo fredda, troppo glaciale, troppo intelligente. Così Amanda diventa “angel face”, ma solo per poter dimostrare che angel non lo è. Foxy Knox, la chiamano. Foxy, come la volpe; Knox, come il cognome. Niente invenzioni, però: era Amanda a chiamarsi così sul suo blog; perché giovani, studenti, sesso, droga, e quindi Internet. Perfetta, Amanda. Perfetta per il mondo virtuale che diventa reale solo quando il mondo reale proprio non lo capisci. Come Amelie, a casa di Raffaele. “La vita è solo un’interminabile replica di uno spettacolo che non avrà mai luogo”, diceva Amelie, nel suo Meraviglioso Mondo. E Amanda diventa proprio così. Lei, “che vive in un altro mondo”, “che vive la vita come se fosse un sogno”, e “che il suo unico pensiero è provare piacere, in ogni momento”. Eppure. Eppure quella faccia d’angelo, quegli occhi chiari, quei capelli dorati, quel sorriso grande così. Eppure Amanda studiava, era intelligente, era brava a scuola, e allora tu non capisci: perché il Male deve essere giustificato, perché ci deve essere un filo, ci deve essere un sintomo; e allora la colpa può esser anche un aggettivo: troppo bella, troppo fredda, troppo glaciale, troppo intelligente. Troppo. Troppi indizi per non provare, troppe tracce per non fermare. E così, a cinque giorni dall’omicidio di Meredith, l’indagine è “sostanzialmente chiusa”. Lo dice il magistrato. E lo dice tre volte tra il primo e il quattordici novembre. Chiusa, chiusa, chiusa: anche se un uomo nero, Patrick, verrà arrestato solo per una mezza confessione di Amanda e solo per un messaggino sospetto. Chiusa, anche se sul corpo di Amanda non verranno trovate né ferite, né tagli, né nient’altro che possa spiegare quelle microtracce nel lavandino, con il sangue di Meredith confuso con quello di Amanda. Chiusa, anche se il quarantadue con i cerchi concentrici di Raffaele un giorno ci sarà e il giorno dopo, invece, in casa non ci sarà più. Chiusa, anche se nessuno, in “quel mondo fatto di frequentazioni tra studenti, anche fuori dal mondo universitario, nelle loro abitazioni e negli esercizi pubblici” – come racconta Arturo De Felice, questore di Perugia – non è ancora riuscito a trovare né tutte le armi, né il movente del delitto. Chiusa, anche se l’unica conferma che quella sera Amanda sia stata davvero a casa sua è un fermo immagine di una bellissima silhoutte nera, ripresa di spalle. Chiusa, anche se sui computer di Amanda e di Raffaele l’analisi delle memorie è stata fatta solo dopo due mesi dall’omicidio. Chiusa, anche se nell’appartamento di Meredith su centodieci impronte digitali, quelle di Amanda sono solo due, o forse solo una. Chiusa, anche se Amanda racconterà – a proposito della confessione su Patrick – che “la polizia mi ha fatto pressioni perché facessi il suo nome, non so perché l’ho fatto”; chiusa, dunque: anche se Rudy, a oggi, è l’unico tra i quattro indagati di cui è stata provata la presenza, quella sera, a casa di Meredith. Chiusa, anche se l’ordinanza descriveva “un delitto commesso al culmine di un gioco erotico al quale la vittima aveva deciso improvvisamente di sottrarsi” quando invece gioco erotico forse non ci sarebbe stato affatto. Chiusa, anche se “i gravi indizi di colpevolezza” per i quali Patrick finirà in carcere saranno gravi solo per dieci giorni, il tempo di entrare e uscire dal carcere; il tempo di passare da un verbo al presente a uno al passato.
Respira e inspira, piccola. Il doppio sogno di Amanda è un interrogatorio e due frasi che non tornano: “Ho seri dubbi sulla verità delle mie dichiarazioni perché rese sotto pressione di stress, choc e perché ero esausta”, “I remember in a confused way”. Confused. Quella sera, Amanda la racconta così, così, e così.
Due novembre. Amanda ricorda di aver passato la notte con il suo fidanzato, Raffaele. Ricorda di essersi svegliata, di essere tornata a casa e di aver trovato per terra una macchia di sangue, dietro la porta di casa. Che strano, ha pensato. E allora va da Raffaele, ritorna a casa verso mezzogiorno e lì troverà la polizia postale: con il corpo di Meredith ancora avvolto in un piumone bianco – dietro la porta della stanza da letto – e con la lavatrice che comincia a brontolare.
E poi anche così. Sei novembre: Amanda ricorda di aver lasciato casa di Raffaele alle venti e trenta minuti per incontrare Patrick. Con Patrick, Amanda torna nell’appartamento in via della Pergola numero sette, dove da qualche mese abita insieme con Meredith. Prima di uscire, Amanda dice di aver fatto uso di droga, dice di essersi fatta qualche canna, e per questo – dice – non ricorda esattamente come sono andate le cose. Non ricorda molto, Amanda: ma ricorda che Patrick ha fatto sesso con Meredith. Non ricorda esattamente, Amanda: non ricorda se Meredith è stata prima minacciata, ma, “in a confused way”, ricorda che lei era in cucina, ricorda che Patrick era entrato nella stanza di Meredith, e ricorda che sì, è stato Patrick a uccidere Meredith. Non ricorda quanto tempo avessero passato insieme, dice Amanda. Ricorda però che aveva sentito Meredith urlare e che lei, molto spaventata, si era coperta le orecchie con tutte e due le mani. Non ricorda altro, Amanda. E non ricorda se Raffaele fosse con lei, quella notte.
Il sei novembre, Amanda scrive una lettera dal carcere. Il pm le ha appena ricordato di quella mattina, quando Amanda – pochi minuti prima dell’interrogatorio del tre novembre – aveva raccontato al fidanzato della terza coinquilina di via della Pergola – Marco – di aver visto quella sera il cadavere di Meredith accanto all’armadio, quando invece Meredith la mattina era stata trovata vicino al letto. Amanda non risponde, e poi prende la lettera. “Extreme exhaustion”, scrive. Sì, sono esausta. Nelle due pagine buttate giù nel carcere perugino di Capanne, Amanda precisa che – riguardo all’ultima confessione fatta –, ancora oggi lei stessa ha molti dubbi sulla veridicità delle cose che dice. Confused: perché Amanda è ancora sotto choc, e ci sono delle cose che lei stessa ha detto perché spaventata e perché, in qualche modo, si considera esausta: sì, extreme exhaustion; sono molto, molto confusa. Amanda racconta di non aver avuto un interprete nel corso del primo interrogatorio, racconta di essere stata colpita al capo da un poliziotto, dice che la sua testa è piena di idee e sa perfettamente che “lavorare così” sarebbe frustrante per tutti.
Ma io non ho ucciso Meredith. Non ho nulla da temere. Non ho alcuna bugia da dire. Non ho nulla di cui essere preoccupata. Inspira, respira; inspira, respira: cara mamma, quello che è successo è tutto un mistero. Non posso pensare che a questo. Sono davvero preoccupata per questa storia del coltello, non capisco come quel coltello si trovasse a casa di Raffaele. Ma tutto questo è stupido, perché io non posso dire nient’altro, io ero là e non posso mentire su questo.
“Futilità”, dicono gli investigatori. “Incredibile futilità”: che tradotto significa fare una cazzata e non saper spiegare il perché. Deve essere andata così, pensano: c’erano tre, forse quattro persone in quella stanza, una ragazza sul letto che faceva l’amore, o qualcosa di simile, con un ragazzo; un ragazzo che le lascia addosso qualche macchia sospetta (che prima sembrava sperma e che invece poi si scoprirà che sperma non lo era affatto), forse lo stesso ragazzo che qualche minuto dopo andrà in bagno a fare la cacca; un ragazzo: forse era di colore o forse no, forse era con altre due persone, o forse tre. Forse era con un’altra ragazza. Forse è stata l’altra ragazza a nascondere nel piumone il corpo di Meredith (“per pietà”, dirà una consulente del pm). Forse. Forse Meredith è stata uccisa sul letto, forse qualcuno ha ripulito le impronte, forse erano in tre e una la teneva ferma, un’altra le apriva la gola e la terza le prendeva il collo, spezzandoglielo a metà. Forse. Forse qualcuno voleva incastrare qualcun altro, forse quella sera in quella casa c’erano Amanda, Rudy e Raffaele, forse l’impronta della Nike, numero 42 e mezzo, è quella di Raffaele, forse Patrick era lì ma non c’entrava nulla, forse qualcuno ha aperto i cassetti di casa per rubare i soldi, forse Meredith non sopportava che Amanda si facesse le canne, forse non sopportava che Amanda non usasse mai la lavatrice, forse non sopportava tutti quegli uomini ogni sera a casa, forse Amanda credeva che Meredith le volesse rubare il lavoro, forse Amanda era in cucina, forse era a letto, forse non era a casa. Forse. Forse ho visto Amelie. Forse ho letto. Forse ho fatto i compiti. Forse sono uscita. Forse ho sognato. Forse ho fatto la doccia. Forse ho fatto un tiro. Forse mi sono addormentata. Forse ho fatto l’amore. Confused, e al passato: e se non c’è la prova basta l’aggettivo, o magari anche un sostantivo. Perché troia in inglese lo scrivono così: virgin like a beauty, dress up slutty, few social inhibitions. E’ questo quello che raccontano gli ex, quello che dicono gli amici, quello che dicono le tracce lasciate da Amanda: più di là che di qua. Più sulla rete, che nella casa. Qui, a casa – nella casa di Meredith, che però era anche di Amanda – una macchia di sangue sul lavandino e un’impronta sul bicchiere. Lì, sulla rete, il film, il blog, le foto, il libro, i post. E si dice di sapere tutto di Amanda proprio perché forse non si sa nulla. E’ il virtuale che diventa reale solo perché il reale non lo conosci affatto. Inspira, respira, e tutto sembra uguale. Lì metti uno accanto all’altro e tutto si sovrappone: gli occhi glaciali, la fidanzata, la villa, lo studente, la tesi di laurea; e l’Amanda di Perugia sembra la vicina di casa di Erba, e il Patrick di Le Chic sembra il Da Silva di Rignano, e il Raffaele nel mondo di Amelie sembra lo Stasi di Garlasco: e così Olindo, di Erba, racconta che la moglie Rosa mentre sogna Raffaella, la compagna uccisa di Azouz, disegna su un foglietto di carta sagome simili al corpo di Chiara (di Garlasco); Erba, Rignano, Garlasco, Perugia. Tutto un filo, tutto torna. Tutte facce diverse di un film che si ripete sempre sulla stessa pellicola: gli occhi azzurri, i capelli corti, la pelle chiara, il computer, il fidanzato, la fidanzata, la microtraccia, le balle degli studenti, i corpi sulle mattonelle, le impronte che non si trovano e i due laureandi quasi bocconiani: Stasi e Sollecito; ché ogni individuo con ideali è un potenziale assassino, diceva Gómez Dávila. E poi la rete: dove ci sono troppi indizi per dire che una prova buona non c’è. Perché ora il cronista non ha più bisogno di bussare a casa del “parente della vittima”, e avvicinarsi al tavolino, sbottonare il cappotto, far scivolare in tasca la fotografia della morta ammazzata, e mandarla di nascosto in stampa. Ora Amanda è su MySpace, Meredith su Facebook, Raffaele su Hotmail. Foto, profili, musica, nickname e ultimo movie. Per esempio Amanda, che il cinque dicembre del 2006 apre il computer e scrive la trama di un film. Si chiama Baby Brother, il regista è Robert A. McGowan, l’anno di produzione è il 1927. Sangue, lame, mattonelle. “Cade a terra, il sangue le cola dalla bocca, lei lo ingoia, non muove la mascella, ma si muove come se ci fosse qualcuno che le passasse una lama sul lato sinistro della faccia”. Eccola: è la prova virtuale che rende perfettamente riconoscibile il reale; e allora Amanda diventa quello gli altri volevano dimostrare, quello che gli altri non capivano e che non comprendevano, e che ora invece sembra terribilmente reale. E allora, tesoro, non andare a dormire tardi, non uscire dopo mezzanotte, chiudi a chiave la porta, hai studiato, hai fatto i compiti, con chi hai dormito ieri sera, lascia perdere le americane, non guardare troppa televisione, togliti quell’orecchino, spegni quella sigaretta, spegni quel computer, e dimmi: vorrai mica sposare una come Amanda? Amanda doveva essere così, non la ragazza americana che studia, si diverte, scherza, fuma, beve e ogni tanto scopa: Amanda deve essere il perfetto peggior modello da portare sul piattino a chi quel modello non lo hai mai voluto vedere. Capisci di cosa parlavo, tesoro? E allora il diario di Amanda si trasforma nel riflesso delle sue intenzioni, il profilo diventa l’alibi impossibile e quelle foto sono l’istantanea di ciò che Amanda sarebbe diventata. Le foto: con Amanda di profilo, con lo zaino blu, il mento poggiato sul pugno chiuso, il treno che non passa; con la coppolina celeste, la lingua un po’ fuori un po’ dentro, l’indice che punta le labbra, gli occhi celesti spalancati; con la borsetta grigia, al coffee shop di Amsterdam; con la maglietta nera, il cerchietto nero, il tacco nero, il trucco nero, i capelli raccolti, il rossetto muto. Basta una foto, e Amanda diventa quello che gli altri volevano scrivere; quello che gli altri non erano mai riusciti a far vedere. Tutto chiaro, come la prima visione di una replica: una replica di un film che però non esiste. Perché, tesoro, quella storia non è vera, forse quella ragazza non è così: ma tu credici lo stesso, e vedrai che io mi sentirò meglio.
Il sogno, la scuola, la foto, il tiro. Il doppio sogno di Amanda è l’occhio di Kubrick, la maschera di Pirandello, la notte di Halloween e la penna di Schnitzler. “Doppio sogno”, come il libro scritto da Arthur Schnitzler, come l’“Eyes Wide Shut” girato da Stanley Kubrick e ispirato da Schnitzler. Doppio sogno, come quella scena nel film di Kubrick: l’orgia, la donna americana con gli occhi azzurri, con i capelli biondi, con tantissimi uomini, e troppo silenziosa, quasi glaciale, molto confused, bellissima, drogata: il doppio sogno perfetto, che nella vita si chiama Julienne Davis ma che nel film si fa chiamare Mandy: o se volete semplicemente Amanda.
Claudio Cerasa
26/01/08

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