giovedì 30 agosto 2007

Il Foglio. "Al “giovane” Adinolfi manca l’idea per contare più del Big Mac"

La smania di finire sui tg a forza di “generation pride”

Non che non sia in grado, naturalmente. Anzi, MarioAdinolfi.com sarebbe senz’altro un magnifico segretario, un perfetto rivoluzionario, un vero democratico e un leader indubbiamente carismatico. Se non fosse che i Ds non lo invitano alle feste dell’Unità, se non fosse che il suo ex numero uno – Franco Marini – non si può proprio dire che lo ami, se non fosse che un giovane che da circa dieci anni si presenta sempre come “outsider” dovrebbe iniziare a farsi delle domande (e a darsi delle risposte), se non fosse che Adinolfi crede di poter salire sul trenino del Piddì ispirandosi un po’ al populismo beppegrillesco e un po’ a quel noioso giovanilismo che, più che Blair o Milliband, ricorda per ora i film di Silvio Muccino, chissà: magari qualcuno lo prenderebbe sul serio, visto che come dicono i suoi ex compagni del Ppi (Adinolfi è stato segretario dei giovani popolari: lui si considera un mariniano, Marini non lo sopporta) in fondo in fondo tra le tante cose fatte negli ultimi anni, “questa è certamente la più sensata”. Anche perché, va detto, tra i candidati del Pd, Mario Adinolfi è senz altro quello che ha sfruttato al meglio il delicatissimo periodo delle ultime sostituzioni estive. Come? Scrivendo lettere ai siti Internet, cercando spazio sui giornali di partito, lamentandosi con i direttori dei telegiornali Rai – come successo ieri – che gli avrebbero dedicato solo venti secondi di video in 42 giorni, e bacchettando chiunque parli così così del suo programma e del suo futuro nel Pd. E si dirà che Adinolfi, oltre al post e oltre ai link, c’ha messo la faccia e c’ha messo pure le idee; lui che ha già riempito Roma di manifesti e che ha annunciato la candidatura ben prima che lo facesse Enrico Letta (“otto giorni prima”, ricorda con orgoglio Marione), ed è quindi più che comprensibile il motivo per cui lui, al contrario di Furio Colombo, sia lì tra Rosy, Enrico e Walter a discutere di “democrazia diretta”, di “generazione esclusa” e di futuro dei “giovani”. Quei giovani che pensano, che scrivono, che lottano e che cantano, come suggerisce Adinolfi sul suo blog.
Peccato però che Mario Adinolfi, sempre più investito dalla pericolosissima deriva beppegillesca (siamo “altresì convinti che ‘il vaffanculo day’ possa essere non il punto d’arrivo della grande mobilitazione, ma quello di partenza per condurre la politica nel suo alveo naturale”, scrive il candidato alla segreteria regionale toscana del Pd della adinolfiana Generazione U), di “giovane”, di “outsider”, di “nuovo” o di “generation pride” non sembra avere granché, purtroppo. E’ vero, Adinolfi ci sa fare: ha fatto cose magnifiche, è stato consigliere del ministro Zecchino, è stato portavoce di Willer Bordon e tra le redazioni della Rai, del Popolo, di Radio Vaticana, di Nessuno Tv, di Europa, e di Avvenire (dove non ha lasciato un gran ricordo e della cui esperienza si ricorda più che altro un suo epico litigio con Dino Boffo, da cui fu licenziato), sono comunque dieci anni che fa parlare di sé. Soltanto che sentire Adinolfi parlare di “ventata di novità” e di “nuove forme di democrazia” fa quantomeno sorridere, dato che sarà anche il più grande blogger d’Italia, magari uno dei migliori al mondo, ma chissà perché, tra il Popolo, la Rai e la tv, Marione si dimentica spesso di ricordare che lui, rivoluzionario “uomo nuovo” di centrosinistra, è già stato candidato a sindaco di Roma nel 2001, ha già fondato (con Sergio D’Antoni e con Pippo Baudo) Democrazia europea ed è stato proprio lui a scrivere nel 2003, ai tempi delle elezioni provinciali romane, di “non volersi candidare per dar spazio ai giovani”, quattro anni fa. Ecco: è anche per questo che proprio non funziona l’ingegnosa retorica “dell’outsider” giovane – che canta, gioca, pensa e parla – che combatte contro la vecchia politica, che si lamenta contro i finti giovani del piddì, che non vuol sentir parlare di flat tax capezzoniana e fa di tutto perché almeno nei mesi di sostituzioni estive ci sia una sua idea o una sua parola più apprezzata delle “invasioni delle meduse”, dei “compleanni del Big Mac” e degli istrici “che emigrano al nord”. E se solo ci pensasse un attimo, basterebbe una grande idea, basterebbe una vera provocazione e basterebbe parlare un po’ meno di Grillo, di vaffa, di proud e di generation pride per riuscirci davvero o per finire più spesso sul tiggì, come comprensibilmente chiede. E non che non sia in grado, naturalmente. Solo che per ora se Adinolfi fa meno scalpore di una medusa o di un Big Mac, siamo sicuri che la colpa sia tutta di quei terribili “apparati” e di quei malefici “tiggì”?
Claudio Cerasa
30/08/07

lunedì 27 agosto 2007

domenica 26 agosto 2007

Il Foglio. "E' l'anno di Pavel"

Sei stagioni fa, il pallone d’oro arrivò alla Juve.Ora crede che gli scudetti bianconeri siano 29 (non 27) e a giugno lascerà il calcio. Ma, ovviamente, soltanto a una condizione

Quando Pavel Nedved non sa più cosa
fare, dopo aver completato la buca
quattro del parco torinese Della Mandria
(dove, ogni tanto, gioca a golf con
Del Piero e con Tacchinardi e dove, tra
l’altro, si trova anche la sua villetta), dopo
aver esaurito, a casa, i quaranta minuti
di tapis roulant quotidiani, Pavel esce
dal suo appartamento, si siede in giardino,
raccoglie le palline che Del Piero,
per dispetto, fa cadere dalla buca lì vicino,
prende per mano i due figli e così,
per “tonificare il quadricipite” – come
dice lui – inizia a giocare. Bambini, uno
qua, uno là. Pavel si mette in ginocchio e
comincia a saltare. Gli amici lo chiamano
il gioco della “rana”, ma Pavel questo
non lo sa. Lui, sorridendo, inizia a fare
un salto, inizia a farne due e supera, diciamo
in dribbling, i figli. Su e giù, su e
giù, su e giù, passando sopra la testa, prima,
passando lì, ai lati, poi. I ragazzi, nel
corso del pomeriggio (il gioco non dura
poco) lentamente si alzano, si tirano sempre
un po’ più su e Pavel salta sempre di
più, sempre più in alto. Su e giù, su e giù.
E’ l’unico momento, questo, in cui Pavel
Nedved – ex pallone d’oro, ex giocatore
della Lazio, ex capitano della Repubblica
Ceca, ex pupillo di Zdenek Zeman, di
Fabio Capello, di Marcello Lippi, di Didier
Deschamps e naturalmente, ora, anche
di Claudio Ranieri – accenna a un
dribbling, e salta un uomo. In campo, Pavel,
non ne ha bisogno. Niente doppi passi,
niente tacchi, niente giochini. A Pavel,
semplicemente, non servono. E non è un
caso, naturalmente, che a 35 anni (Nedved
festeggerà il compleanno il 30 agosto)
Pavel sia sempre lo stesso incredibile
fenomeno scoperto da Zeman ai tempi
della Lazio. Ecco, dove gioca, Nedved?
Gioca in attacco? Gioca sull’ala? Gioca
più al centro? Gioca più avanti? Sì, sì, sì,
sì, sì. Gioca dappertutto, Nedved; e lo fa
davvero, lo fa sempre, lo fa da quel giorno
in cui arrivò a Roma, a Formello, e in
cui – era un novembre, l’anno era il 1996
– Pavel si fermò un po’ di più, e dopo i
gradoni, dopo le tattiche, dopo gli angoli,
dopo i rigori, dopo le flessioni e dopo le
punizioni, i suoi due amici di allora –
Alessandro Nesta e Alessandro Grandoni
– spiegarono a Nedved che, questa sera,
caro Pavel, there is a big “giannetta”;
giannetta, nel senso di leggera brezza. E
fu quella la prima parola che Pavel Nedved
imparò in italiano. Poi, però, con Del
Piero, con Buffon, con Thuram e con
Cannavaro, a Torino, qualche altra parolina
continuò ad impararla. Per esempio
“scudetti”; per esempio “pallone d’oro”.
Ma c’è una sera che Pavel non è mai
riuscito a dimenticare. Era il 14 maggio,
l’anno il 2003. Ed era stato perfetto, Pavel.
Anche quella sera. Tre passi e palla
in rete. Uno. Poi due. Poi tre. Prima Trezeguet,
al volo, poi Del Piero, di collo, poi
Pavel, di esterno. E lui lì, in ginocchio
sotto la curva e in ginocchio sotto il fischietto;
con le braccia in cielo, con le
mani sugli occhi. Piangeva, Pavel, ma
era stato magnifico, anche quella sera;
era stato perfetto come il primo, come il
secondo, come il terzo gol della Juve;
perfetto come quella notte, come quel
maggio, come quella gara, come quella
Champions, contro il Real. Di qua la Juve,
di là il Madrid. Di qua Nedved, di là
Zidane. La Juve, poi, andrà in finale. Pavel,
però, quella partita non la giocherà.
Non la giocherà quell’anno e non la giocherà
mai più. Glielo chiedi, e Pavel ti risponde
così. Ti dice che è quello il giorno
che lui vorrebbe cancellare; ti dice
che è quella la sera che lui vorrebbe dimenticare.
Palla al centro, palla al Real,
Pavel si avvicina, fa due passi, ne fa un
altro, di fronte c’è Steve McManaman,
centrocampista inglese del Real; Pavel
lo stende, si alza un braccio, il cartellino
è giallo, Pavel va giù, si mette in ginocchio,
sotto il fischietto, e non guarda l’arbitro,
non protesta, non parla. Poi, però,
piange. Perché lui sapeva che, così, giocando,
avrebbe rischiato; glielo aveva
detto la moglie, Ivana, la mattina al telefono
e glielo aveva detto la sera prima,
con un semplice messaggio: “Pavel, ricorda:
sei diffidato”; lui invece no, giocò
tutta la partita, giocò novanta minuti, fece
quel fallo, perse la finale e quella sera,
Pavel, non la dimenticherà; mai più.
E lo dice lui stesso. Lo dice a Roma,
quando ritorna a Formello. Perché da
quando Zeman lo prese alla Lazio, da
quando Cragnotti lo diede alla Juve, dei
sei anni passati a Torino, dei cinque trascorsi
alla Lazio, di quelli in Nazionale,
tra quell’Europeo sfuggito (in finale, nel
1996), tra quei Mondiali persi (in qualifica,
nel 1998) solo quella sera non è mai
riuscito a dimenticare, Nedved. Perché
la Juve, quell’anno, perse in finale la
Champions (con il Milan, ai rigori), ma la
coppa con le orecchie, Pavel non la vedrà
più. E lo sa, Nedved, che lì fuori è un
po’ diverso. Certo, c’è lo scudetto, ci sono
i campionati, ci sono i tricolori, ma lui
che è stato l’ultimo giocatore ad alzare
una coppa europea con una squadra romana,
lui che nel 1999 a Birmingham,
contro il Maiorca – ai tempi della Lazio –
segnò il 2-1 e poi alzò l’ultima Coppa delle
Coppe della storia, quella sera Pavel
capì che il suo sogno sarebbe stato alzarne
un’altra, di coppa: quella un po’ più
grande, quella con un po’ più d’orecchie.
Era il 1999, due anni dopo, a casa di
Pavel, vicino Praga, arrivò un aereo un
po’ particolare. Pavel, però, quell’anno
aveva fatto una promessa. Aveva lasciato
una penna blu poggiata sul tavolino di
cristallo, di fronte alla televisione della
sua casa romana a pochi chilometri da
Formello – nel quartiere Olgiata – dove
Pavel Nedved viveva assieme alla moglie
Ivana. Aveva preso quella penna e non
l’aveva mai toccata; l’aveva lasciata lì e
aveva promesso che, con quella penna,
lui avrebbe firmato solo un contratto:
quello con la Lazio. L’aveva comprata a
maggio, la penna, e l’aveva comprata nel
2001, quando Pavel a Roma ci giocava da
cinque anni e quando, come ogni estate,
aveva discusso il suo futuro (e il suo contratto)
all’hotel Hilton, a Monte Mario, a
due chilometri da quello stadio Olimpico
dove lui, Nedved, una domenica sì e
una no sentiva le note di “Jeeg Robot” lì,
accanto al suo nome: “Pavel va’, cuore e
acciaio, Pavel va’, cuore e acciaio, cuore
di un ragazzo che… senza paura sempre
lot-te-rà”, e via. E lui avrebbe continuato
a giocare a Roma, anche tutta la vita; ma
quell’estate Nedved capì che c’era qualcosa
che non andava. E lo scoprì quando
su un foglio con l’intestazione di Corso
Galileo Ferraris, con i colori bianco e nero
stampati laggiù, in fondo alla pagina,
c’era la firma di Sergio Cragnotti, l’ex
presidente della Lazio che, per 75 miliardi
di lire, aveva deciso di vendere Pavel
Nedved proprio alla Juventus. Nedved
non sapeva nulla, lui continuava ad allenarsi,
mattina, pomeriggio e sera, continuava
a provare le punizioni, a Natale, e
continuava a passare, come ogni anno –
e come continua a fare oggi – le sue vacanze
nell’isola tunisina di Djerba, in un
albergo dove, ogni estate, mentre gli altri
vanno al Billionaire, Pavel si allena come
un pazzo. Lui, quell’anno, diceva di
essere pronto a firmare per la Lazio, ma
era la Lazio, in realtà, a non essere più
pronta a firmare con lui (anche se Pavel
la storia la racconta in maniera un po’ diversa,
ma non fa nulla). Poi, però, a Praga
arrivò un fantastico aereo con Luciano
Moggi e con Antonio Giraudo. Poche
ore dopo, quando Moggi aveva ormai
convinto Pavel a lasciare Roma, Nedved
arrivò a Torino, lasciò la penna sul tavolino
dell’Olgiata e firmò per la Juve. Fu
un affare, fu uno dei più importanti colpi
di Luciano Moggi. Alla Lazio andarono
75 miliardi di lire, a Nedved 12 miliardi
l’anno. Poche settimane prima, Zinedine
Zidane era finito al Real Madrid
per 120 miliardi. E fu un colpo terribile,
quello, per i tifosi juventini: perché provateci
voi a sostituire un campione del
Mondo, provateci voi a diventare un fenomeno
come Zidane. Ecco, Nedved c’è
riuscito, e ha fatto di più, se è possibile.
Perché in sei anni, Pavel, è arrivato primo,
praticamente ogni anno. Primo in
campionato nel 2002, primo in campionato
nel 2004, primo in campionato nel
2005, primo in campionato nel 2006, primo
in campionato nel 2007. Perché Pavel
è naturalmente uno di quei bianconeri
convinti che siano 29 e non 27. E’ uno di
quelli che i due scudetti, quelli conquistati
nel 2005 e nel 2006 e poi scuciti via
dalle maglie con i colori bianco e nero, ci
siano ancora, lì in bacheca. Ed è convinto,
Pavel, che il prossimo sarà lo scudetto
della stella: quello del 30, non del 28.
Non l’ha mai detto, Pavel, non ha mai fiatato,
non si è mai davvero lamentato; è
stato il primo pallone d’oro, in Italia, ad
andare in serie B; ed è stato soprattutto
lui – e non solo con i dodici gol segnati in
B – a riportare la Juve in serie A; è stato
lui uno di quelli che, assieme ai tifosi, ha
passato un anno intero così, a cercare di
trovare una partita truccata nei campionati
incriminati e poi a disperarsi per gli
scudetti assegnati, per i giocatori svenduti,
per i tricolori scippati; ed è stato un
anno intero, anche lui, a notare come negli
stessi anni in cui la Juve avrebbe vinto
gli scudetti con l’invia, con il ricevi,
con il t9 e con le sim card, c’era qualcuno
– a non molti chilometri da Torino –
che giocava con bilanci più che sospetti,
con gli ematocriti un po’ troppo alti, con
le patenti false e con i passaporti truccati;
come mai?, si chiedeva Pavel. Come
mai, a Torino “La Juventus Football
Club S.p.A”, in poco tempo, non è più “la
più grande squadra del calcio italiano”,
ma – come recita il nuovo sito Internet
bianconero – è solo “una delle principali
società di calcio professionistico a livello
internazionale”; come mai? Ecco,
in questi anni “di passaggio” – come li
chiama Pavel – il tifoso juventino, quando
in campo, al posto del Barcellona o
del Real, vedeva il Frosinone e l’Albinoleffe,
era solo con gli scatti di Pavel, con
i gol di Del Piero, con i cross di Camoranesi,
con i tuffi di Buffon guardati con la
pay tv il sabato pomeriggio, che riusciva
a non pensare a quegli incredibili tricolori
cuciti sulle maglie altrui; ed erano
loro, Pavel, Alex, Gigi e German, l’unica
ragione per continuare a credere che se
quella squadra con i colori nero e azzurro
non avesse avuto gente come Vieira e
gente come Ibrahimovic, se non si fosse
messa a comprare ex juventini, avrebbe
continuato a vincere tante magnifiche
Coppe Italia. Era Pavel, assieme ad Alex,
l’unico che riusciva a far ricordare il miracolo
del 5 maggio, quando sembrava
fatta – per l’Inter – e invece no, arrivò
Nedved e arrivò con il Piacenza, a due
giornate dal termine. L’anno era il 2002,
il minuto era l’ottantottesimo e Pavel tirò
fuori un sinistro incredibile: Piacenza zero,
Juventus uno; dopo che, per mezz’ora,
quel giorno, lo scudetto sembrava essere
ormai nerazzurro; dopo che, a tre minuti
dalla fine, l’Inter pareggiò a Verona e dopo
che la Juve, da meno cinque in classifica,
era passata a meno uno. Poi arriverà
il 5 maggio, con la Juve che vincerà
a Udine (con Nedved ma anche con Paramatti),
e con l’Inter che perderà a Roma
(con la Lazio ma anche con Gresko).
E fu quello il primo scudetto che Pavel
vinse al primo tentativo, al primo anno
(anche se a inizio stagione c’era qualcuno
che voleva cacciarlo); quello scudetto
che la Juve – con Zidane – era da quattro
anni che non vinceva più. Sì, Zidane.
Perché come diceva l’Avvocato – sorridendo
– “Zidane era più divertente che
utile”, mentre Nedved, più che divertente,
era – ed è – semplicemente fondamentale,
formidabile, incredibile, dunque
insopportabile, per gli altri. Lo sanno
bene a Roma e lo sanno bene alla Lazio,
dove i tifosi, da quell’estate, continuano
a convincersi che sì, “che bell’acquisto,
questo Liverani” e dove qualcun
altro, all’Olimpico si era anche messo a
cantare “Zoff: dacci tre parole, Mendieta,
Crespo e Fiore”, quando la situazione
era però ormai completamente sfuggita
di mano. Ecco, dopo quell’estate,
Nedved ha iniziato a trasformarsi in un
giocatore più importante di quello che è
Totti per la Roma, di quello che è Gerrard
al Liverpool, di quello che è Lampard
al Chelsea e di quello che è Kakà
al Milan. Perché c’è chi copre, c’è chi attacca,
c’è chi segna, c’è chi recupera; Pavel
invece fa tutto. E non è vero che lui
sarebbe disposto a giocare ovunque, pur
di giocare (non è nato a Montevideo, non
si chiama Álvaro), è, semmai, l’esatto
contrario: perché con Nedved è l’allenatore
che, davvero, è disposto a farlo giocare
dappertutto, pur di farlo giocare.
Punto. Ed è così, Pavel. E’ perfetto. E’ un
giocatore fantastico, ed è terribilmente
odiato da chi non è juventino, ed è indescrivibilmente
amato da chi juventino lo
è, da chi lo contemplerebbe ore e ore
con un “One love”, un “One blood”, un
“One life” infilato nelle orecchie e da
chi si accontenterebbe di guardarlo negli
occhi per capire che è 29, non 27. Perché
non esiste nessun altro giocatore al
mondo come Nedved, non esiste nessun
altro giocatore che riesca a essere una
perfetta sintesi tra quello che fu Michel
Platini e quel che fu Gaetano Scirea.
Perché Pavel attacca, difende, tira e poi
copre. Certo, è molto più semplice dire
che Pavel si butta, è molto più facile dire
che Pavel simula e che Pavel rotola
per terra; mentre poi, se il Pupo inciampa,
quello sì, era rigore, mentre se Nedved
cade no, bastardo, rialzati, sei un simulatore.
Ed è vero, è più facile guardarlo
così, è più semplice dargli del venduto,
dargli del cascatore, dargli del ladro,
dirgli “27”, non “29”; e lui ci ride, ci
scherza e ti dice che in fondo non ha bisogno
di simulare, perché – anche se
quando cade, Pavel, se la prende con comodo,
si rotola, si tocca, si controlla,
esce, poi zoppica e rientra saltellando –
a lui lo buttano giù davvero però così,
via, almeno, ogni tanto, un po’ si riposa,
laggiù a terra. E lo sa bene il suo amico,
il suo procuratore, l’uomo con cui più si
confida; un signore che, nel calcio, fa
paura solo nominarlo e un signore che –
quasi ogni giorno – parla con Pavel e gli
dà molti consigli; un signore che di nome
fa Mino e di cognome fa Raiola; lui
che oltre a essere il procuratore di Nedved
è anche quello di Ibrahimovic; lui
che, dopo aver lavorato per diversi anni
in un caffè olandese ad Amsterdam (dove
conobbe quasi tutti i giocatori dell’Ajax
e dove decise di diventare procuratore)
nel 2001 portò Nedved a Torino;
lui che sa perfettamente che questo sarà
l’ultimo anno di calcio per Pavel, sa che
l’anno prossimo, Pavel, allenerà i bambini
piccoli, sa che farà il talent scout in
Europa, sa che Pavel continuerà a giocare
solo se sentirà parlare di una Coppa,
sa che Pavel, dopo aver visto Ibra sventolare
il tricolore con i colori nero e azzurro,
non ha gradito, e ha spento la tv;
sa che quando Pavel ascolta il suo presidente
dire che “con Nedved non bisogna
fare nulla di particolare se non dimostrargli
la grande stima che abbiamo
per lui”, quel nulla di particolare, forse,
non è proprio la formula giusta da utilizzare,
per con uno come Nedved. Nulla
di particolare? Suvvia.
E’ per questo che a Roma dici Nedved
e scopri che c’è qualcuno che di notte, disperato,
continua con il “dammi tre parole”;
è per questo che c’è chi, ora, se
avesse un figlio lo chiamerebbe con quel
nome, e lo chiamerebbe “Pavel”, senza
sapere, però, che a Torino c’è una casa
dove Del Piero lancia le palline, dove la
“giannetta” non arriva da un pezzo e dove
c’è un bambino di otto anni che ha iniziato
a palleggiare, che fa il gioco della
“rana” e che ha lo stesso nome di papà:
si chiama Pavel e di cognome fa Nedved.
Claudio Cerasa
25/08/07

lunedì 20 agosto 2007

sabato 18 agosto 2007

Il Foglio. "Il vero Fenomeno"

Con Zanetti l’Inter ha fatto 13. Oggi c’è un solo capitano. Accettava perfino i cambi di Cuper, ora è il ponte tra il Moratti sfigato e il Moratti campione

Era una maglietta con il numero 4
bianco della Umbro incollato dietro
la schiena, con nove bande verticali nere,
nove bande verticali azzurre, una
stella gialla cucita sopra una lunga P
dentro la cui pancia erano contenute le
lettere “irelli”, con un corsivo che appena
s’intravedeva, nascosto sotto l’azzurro
della maglietta, sotto il nero della casacca.
Nero, azzurro; nero, azzurro. Era,
o meglio, è un maglietta non molto grande,
una taglia L, con la manica destra
leggermente scucita sul bordo, con sette
lettere sopra il numero 4 e con tre parole
ricamate come fossero un sorriso, lì al
centro del petto, sopra lo sterno, sotto
un logo dentro il quale sono annodate,
una dentro l’altra, una C, una F, una I, e
una M che messe in ordine, una dopo
l’altra, non sono altro che le tre lettere
in corsivo nascoste tra le bande nere e
azzurre; F come federazione, C come
calcistica, I come Internazione e poi M,
come Milano. In basso, con il sorriso: Finale
Coppa Uefa 96-97. Non è una maglietta
come tutte le altre, è una maglietta
di Zanetti, una maglietta storica, una
partita terribile. L’allenatore era Roy
Hodgson, la squadra era l’Inter, la serata
era davvero molto bella. Era un giovedì,
era il 21 maggio del 1997. Minuto
numero 119. Inter-Schalke 04. Pagliuca,
Bergomi, Fresi, Paganin, Pistone,
Djorkaeff, Sforza, Ince, Zanetti, Ganz, Zamorano.
Tra un minuto cominciano i rigori,
è la seconda Inter di Massimo Moratti,
il capitano si chiamava Giuseppe
Bergomi. Javier Zanetti, per tutti Saverio,
per tutti “Pupi”, per tutti el “Tractor”,
per tutti, ora, “il Capitano”, aveva
24 anni, era alla seconda stagione all’Inter
ed era proprio come ora, con i capelli
squadrati che ballano alla sinistra e
alla destra di un’indistruttibile riga, con
gli occhi duri, gli zigomi alti, il mento
morbido, il naso un po’ lungo e due quadricipiti
enormi. Zanetti era appena arrivato,
ma era già un fenomeno; giocava
a destra, come terzino, ma per lui andava
bene ovunque. Destra, sinistra. Difesa,
centrocampo magari anche in attacco.
Roy Hodgson, un allenatore particolarmente
apprezzato dalla famiglia Moratti,
quella maledetta sera decise di sostituire
Zanetti con Nicola Berti. Il minuto
è il centodiciannovesimo, Zanetti si
volta verso la panchina, fa uno scatto, si
sfila la maglietta, avvicina le mani quasi
per accennare a un applauso, lancia
la maglietta verso l’allenatore e poi
scompare, va via (anche se negli spogliatoi
non ci entrerà mai, in realtà). Zanetti,
come dire, era piuttosto incazzato. La
maglietta rimane lì, di fronte ai mocassini
neri di uno dei quattordici allenatori
dell’era Moratti (non è da escludere
che Roy Hodgson sia ancora a libro paga
della famiglia, pur allenando la Finlandia),
ed è, quella, una maglietta storica;
una maglietta custodita in un segretissimo
armadio a muro (non milanese),
piegata dentro una scatola di scarpe e
avvolta all’interno di un panno verde; ed
è, quella maglietta, l’unica testimonianza
ufficiale di un qualsiasi gesto di “tensione”
del giocatore più forte della
squadra campione d’Italia; l’unico in 543
partite ufficiali giocate, in dodici anni di
campionati, di trionfali Coppe Uefa, di
tragiche Coppe Campioni e di splendide
coppe Italia durante le quali Javier Zanetti
ha visto cose che voi umani non potete
neppure immaginare. Ha visto passare
accanto a sé, Zanetti, importanti e
indimenticabili giocatori che hanno provato
a risolvere la crisi, anche qui, di
leader a sinistra, dell’ex Ambrosiana; ha
visto passare, accanto a sé, duttili e indubbiamente
interessanti giocatori come
Gianluca Festa, Massimo Paganin,
Salvatore Fresi, Alessandro Pedroni, Jocelyn
Angloma, Alessandro Pistone,
Matteo Ferrari, Fabio Galante, Francesco
Colonnese – detto Ciccio –, Luca
Mezzano, Luigi Sartor, Martin Rivas,
Massimo Tarantino, Taribo West, Zoumana
Camara, Mikael Silvestre, Cyril
Domoraud, Michele Serena, Vratislav
Gresko, Fabio Macellari, Pasquale Padalino,
Lalo Sorondo (è interessante notare
come di alcuni giocatori, oltre alla
difficoltà nel credere siano davvero esistiti,
si inizino a perdere le poche informazioni
somatiche rimaste in memoria)
e ancora, Daniele Adani, Carlos Gamarra,
Giovanni Pasquale, Jéréme Brechet,
Thomas Helveg, Pierre Wome, Nelson
Vivas, senza dimenticare l’ottimo Roberto
Carlos, intelligentemente, però, cacciato
da Roy Hodgson (“Era indisciplinato
tatticamente”) il quale avrà molto
probabilmente ceduto il più volte campione
del mondo per assicurarsi una
prelazione sul uruguagio Fabian Carini,
portiere sudamericano come Javier Zanetti
e ricordato da capitan Zanetti, più
che altro, per essere l’unico giocatore
della storia del calcio mondiale a essere
stato scambiato alla pari per un quasi
pallone d’oro come Fabio Cannavaro
(Carini ora è stato ceduto per una cifra
molto prossima agli euro zero). Perché
gli altri potranno continuare a inventarsi
doppi passi, biciclette, capriole e colpi
dello scorpione, potranno palleggiare
con più pelote su un piede solo e potranno
anche vincere palloni d’oro, Coppe
del mondo, coppe Campioni, ma negli
ultimi tredici anni, in Italia, non è esistito
nessun giocatore come Zanetti. E non
si tratta dell’incredibile balla del “non
ci sono più le bandiere di una volta”, come
in molti provano a convincerci dal
giorno in cui sono arrivati un po’ più di
stranieri in Italia. Balle. Cos’è Del Piero?
Cos’è Francesco Totti? Cos’è Paolo
Maldini? Solo che per capitan Zanetti è
un po’ diverso. Per un terzino destro è
sempre un po’ più difficile diventare, da
fenomeni, “Il capitano”; è un po’ più difficile
diventare un fenomeno di capitano
e riuscire a essere insieme, contemporaneamente,
un po’ come il grande
Giacinto Facchetti, un po’ come Sandro
Mazzola (superato da Zanetti come presenze
ufficiali), un po’ come Roberto
Carlos, un po’ come Giuseppe Bergomi;
specie quando quel signore che un tempo
aveva quei bellissimi baffi neri neri
da Mundial aveva giocato prima di te,
proprio su quei campi, su quelle fasce e
con quella fascia; specie dopo aver passato
dodici anni (dodici, sono davvero
tanti) attraversando ogni zona del campo,
vincendo una coppa Uefa, con Gigi
Simoni, quasi da terzino sinistro, giocando
da fantasista (è successo in una memorabile
partita contro l’Udinese in cui
Zanetti era evidentemente molto più
forte di Zinedine Zidane) con l’incompresa
Inter di Hector Raul Cuper (non è
da escludere che Cuper sia ancora a libro
paga della famiglia Moratti, pur allenando
il Betis); un allenatore, Hector
Raul, che per quasi due anni, se Zanetti
non giocava a centrocampo, al minuto
numero 75, lui lo prendeva e lo sostituiva
con l’enigmatico Nelson Vivas. Andava
sempre così, e mai una protesta. Zanetti
capiva; e poi usciva. Perché la figura
di capitan Zanetti è un ottimo esempio
per provare a spiegare il modo in
cui un po’ tutti gli allenatori interisti degli
ultimi anni hanno provato a risolvere
la crisi di leadership sulla sinistra,
che dopo Andy Brehme e dopo Roberto
Carlos ha trovato riscontri poco positivi
nelle figure di Macellari, Pistone etc. E
bisogna anche capirli, gli allenatori, dato
che, da quando c’è Alvaro Recoba all’Inter,
qualsiasi giocatore dotato di
“piede sinistro” deve, probabilmente
per contratto, utilizzare quel piedino
mancino in maniera tale da non turbar
troppo la sensibilità artistica del Chino
(l’ultimo mancino puro visto pascolare
sulla fascia sinistra dell’Inter è stato il
grintoso Grigoris Georgatos ed è da notare
come l’Inter, lo scorso anno, sia riuscita
a far assomigliare a Darko Pancev
anche il terzino sinistro più forte dei
Mondiali: Fabio Grosso).
Solo che Zanetti, che anche con Mancini
– per colpa di un brasiliano di nome
Maicon – ha dovuto adattarsi un po’
a destra, un po’ a sinistra, un po’ in difesa,
un po’ a centrocampo, ha sopportato
tutto, si è adeguato a ogni situazione e
in dodici anni di Inter (questo è il tredicesimo),
pur apprezzando i pittoreschi
tentativi dei giornali di colore rosa di
voler trovare, ogni anno, un nuovo “vero
leader” dell’Inter, lui in tutto questo
tempo è stato l’unico esempio di “acquisto
di coppia” riuscito dalle parti di Appiano
Gentile, laddove si allena l’Inter
(il gioco dei giornali “rosa” è questo. Si
prende un titolo come quello apparso la
scorsa settimana sulla Gazzetta dello
Sport: “Nel laboratori di Mancini Ibra si
è già preso l’Inter”, e si lavora su questo
titolo, ogni anno, cambiando gli addendi.
Al posto di Mancini ci vanno i vari
Lippi, Lucescu, Verdelli, Bianchi e al
posto di Ibra ci vanno i vari Adriano,
Branca, Zamorano, Centofanti, Macellari,
Pancev etc; con il risultato che l’Inter
tende a credere che, più che trovar un
dannato terzino sinistro, il problema sia
cercare ogni anno un leader in più).
Zanetti è, come si diceva, l’unico
esempio degli ormai mitologici “double”
nerazzurri: la nota formula di “due
giocatori al costo di tre”, ma a prezzo
speciale, che hanno caratterizzato i dodici
anni di Massimo Moratti. Si ricordano
casi come Recoba-Pacheco, Ronaldo-
Gilberto, Farinos-Peralta, Vampeta-Rivas
e poi, il primo di tutti, Zanetti-Rambert.
L’acquisto vero fatto dalla dirigenza
nerazzurra, che però non conferma,
era Sebastian Rambert: un attaccante
di sicuro valore che dopo le zero presenze
in campionato (a ottobre del 1995
venne subito ceduto) è stato avvistato
per l’ultima volta nel 2003 in una squadra
argentina di nome “Arsenal de Sarandì”.
Solo che Zanetti è rimasto all’Inter.
Solo che Zanetti è rimasto all’Inter,
perché lui è un giocatore un po’ particolare,
uno che difficilmente ti fa il doppio
passo e che da piccolo aveva anche
qualche difficoltà a infilare cento palleggi
uno appresso all’altro, ma Zanetti,
oltre a essere il capitano, è ormai l’ultimo
vero esempio dell’ormai smarrito
“orgoglio del terzino destro”. Non è un
fenomeno come Zambrotta, non è un
pendolino come Cafù, non è un pasticcione
come Zebina, Zanetti è invece l’ultimo
rappresentante di una categoria
un po’ trascurata che da anni, partendo
dai campetti meno famosi, cerca di far
comprendere a chi parla “di solitudine”
dell’ultraprotetta ala destra, che la verità,
drammatica, è un’altra: la verità è
che ormai nessuno si occupa più della
tutela del terzinaccio destro; di quel ragazzo
con i piedi un po’ fucilati che arriva
a giocare un po’ tardi a calcio, che
palleggia solo solo in un angolo del
campo di allenamento e che impara a
fare tre palleggi, uno appresso all’altro,
quando gli altri ormai già palleggiano
con le noci di cocco, che si nasconde lì,
accanto alla riga del fallo laterale per
mimetizzarsi tra le borracce appoggiate
di fronte alla panchina; perché il terzino
destro, inutile prendersi in giro, non
è un fenomeno, non lo è quasi mai, e
quando lo diventa è incredibile, è commovente,
è l’orgoglio di un’intera nazione
di “fluidificanti”. Perché lui è quello
che gli allenatori amano chiamare
“mezzo giocatore”, uno di cui, prima di
una partita, solitamente si intrecciano
le mani sperando che non faccia troppi
danni, non che faccia tanti numeri. Lui
è uno che non sogna di diventare come
Ronaldo o come Weah, ma sogna di essere
un incredibile trattorino come capitan
Zanetti. Sogna di potersi circondare
di così tanta leadership da non aver
bisogno di indossare, in alcuni casi,
neppure la fascia da capitano (quando
Ronaldo diventò capitano dell’Inter, la
fascia gliela diede direttamente capitan
Zanetti anche se poi, poco tempo dopo,
quel giocatore – che all’epoca aveva i
capelli corti corti – dopo aver vinto un
pallone d’Oro e una Coppa del mondo,
decise di trasferirsi a Madrid per poi
tornare a Milano e mettersi le mani dietro
alle orecchie, e sentir l’effetto che fa
segnare un gol al derby). Zanetti, negli
anni così così di Massimo Moratti, è
però stato fondamentale anche per un
altro motivo; era lui quello che ci credeva
sempre, era lui quello che ci credeva,
non per contratto (al Real Madrid,
un paio di anni fa, avrebbe guadagnato
parecchio di più), era lui che quando
entrava in porta con il pallone, come
farà certamente anche quest’anno,
prendeva la punta della maglietta e la
baciava come fosse la moglie Paula, e
correva sotto la curva nerazzurra. “Un
capitano. C’è solo un capitano”. E per
anni, forse solo chi è interista può capire,
era lui l’unica ragione per cui ogni
tanto tu guardavi l’Inter, la vedevi pareggiare
contro la Reggina, la vedevi
perder contro lo Schalke, la vedevi perdere,
pareggiando, contro il Milan e tu
credevi che, in fondo in fondo, non era
tutto finito; bastava guardare negli occhi
Zanetti per capire che se lui ci credeva,
se lui non la passava mai, se lui
entrava dentro la porta con il pallone (il
problema di Zanetti non è che la passa
poco, è che la passa troppo), allora, in
fondo, era meraviglioso crederci ancora.
Era meraviglioso sentirsi ancora interisti,
se c’era lui. Anche il 5 maggio
del 2002, quando l’Inter perse lo scudetto
all’Olimpico. Anche il 21 maggio del
1997, quando l’Inter perse la Coppa Uefa
contro lo Schalke 04. Perché sapevi
che lui sarebbe stato l’unico giocatore
in grado di prendere il posto di Giuseppe
Bergomi (chi almeno una volta nella
vita è stato in grado di toccare lo “Zio”,
racconta “l’incontro” con una misticità
paragonabile solo all’arrivo di Dante in
Paradiso, nel Canto XXXIII); perché tu
sapevi perfettamente, anche se non capivi
perché, che lui sarebbe stato il primo
a non voler più parlare di tutte
quelle parole che finiscono in “oggiopoli”
e “alciopoli”. Semplicemente perché,
solo grazie a lui, riuscivi a dare un
senso alle plusvalenze nerazzurre (Coco
per Seedorf, Carini per Cannavaro);
e solo con quella fascia gialla stretta sopra
il gomito, ma che sarebbe stata
stretta volentieri attorno al torace, tu
sei riuscito ad arrivare a vedere, su
quella maglietta, due scudetti cuciti sul
petto, uno dietro l’altro (seppur uno sia
stato vinto al telefono, seppur nella maglietta
che festeggia il centenario qualcuno
ha confuso la data di fondazione
dell’Inter scrivendo l’8 marzo al posto
di 9 marzo). Solo grazie a Zanetti il tifoso
interista è riuscito a sopravvivere alla
poco eccitante letteratura interista,
al micheleserrismo dell’“Inter è la metafora
del mondo”, all’acutissimo beppesevergninismo
che ha portato alla
composizione di piccoli capolavori come
“Il piacere di essere neroazzurri”,
“Altri interismi. Un nuovo viaggio nel
favoloso labirinto nerazzurro”, “Manuale
dell’imperfetto sportivo”, “Tripli
interismi! Lieto fine di un romanzo neroazzurro”.
E la sua, quella di Zanetti,
è esattamente la perfetta carriera del
terzino destro, anche se un terzino destro
vero non si fa espellere così poche
volte in tredici anni. E’ stato capitano
dell’Inter, è stato capitano dell’Argentina
e, in perfetto e drammatico spirito
interista, è diventato famoso per aver
perso una Coppa America contro il
Brasile di Adriano dopo aver condotto
mezza partita per 2 a 0 (Zanetti ha giocato
151 partite con la maglietta bianco
e azzurra della Nazionale, poi il suo
allenatore, dopo che Pelè lo inserì tra
i 100 giocatori più forti del mondo, decise
di non convocarlo più, e chissà
perché una delle Argentine più forti
da Maradona in poi – a parte il fatto di
avere Nicolas Burdisso sulla linea difensiva
– è stata eliminata ai quarti di
finale in Germania, l’anno scorso). Ma
Zanetti non è solo quell’eroe romantico
epicamente descritto come il Dartagnan
nerazzurro, lui è un vero genio, è
il fenomeno dell’esportazione dell’interismo
negli anni in cui, a dire Inter,
quasi ci si toccava, se non eri Severgnini;
l’unico grazie al quale, nell’Inter, c’è
ancora qualcuno che può permettersi
qualche doppio passo e che, ogni tanto,
poi qualche pallone d’oro lo vince pure.
E’ lui l’unico che, da solo, ha sopportato,
in ogni zona del campo, i 15
portieri, i 63 difensori, i 66 centrocampisti
e i 42 attaccanti che hanno deliziato
la Pinetina di Appiano Gentile
negli ultimi dodici anni; l’unico che sa
esattamente cosa intende Massimo Moratti
quando, per spiegare l’interismo,
parla di “un grande esercizio di pazienza”.
Ed è proprio per questo, che –
anche se non succederà mai – il giorno
in cui Zanetti finirà di giocare a calcio,
potrebbe essere lui il primo giocatore
nella storia dell’Inter a veder il suo numero
4 ritirato dal campo; dopo 543
partite con l’Inter, dopo tredici anni tra
Verdelli, Angloma, Domoraud, Silvestre,
Fresi, Farinos, Vampeta, dopo dodici
compleanni passati tra Helveg, Gamarra,
Gilberto, Gresko e Macellari e
con una sola, storica, maglietta buttata
per terra, non si può che chiederlo,
non si può che sognarlo, dato che Zanetti
ha appena fatto 34 anni: e li ha
fatti il dieci agosto, nove giorni fa,
quando le stelle cadono giù, e tu allora
esprimi un desiderio.
Claudio Cerasa
18/08/07

venerdì 17 agosto 2007

giovedì 16 agosto 2007

Il Foglio. "Viva chi vola alto a basso costo"

Con la classica scusa dell’impatto ambientale, invece che prenderla
a modello, in Italia e in Europa c’è chi vuole mettere il bastone tra le ali
di Ryanair, la compagnia “più amata” e più economica del mondo

Roma. La scusa è sempre la stessa, è la scusa che si classifica sotto la perfetta definizione di “impatto ambientale” ed è la scusa che fiorisce direttamente dalla bocca degli ultimi arrivati nel mondo dei “no”: sono i no fly dell’aeroporto romano di Ciampino e non vogliono Ryanair; o almeno, la compagnia low cost più famosa del mondo, non la vogliono così. Problema: il popolo del no fly, mese dopo mese, è riuscito a farsi fotografare di fronte al secondo aeroporto della capitale (quello, per capire, da cui la mattina alle 6.45 partono i voli Roma-Londra, a quindici euro) a braccetto con i vicesindaco di Roma e Ciampino, con il presidente della Regione Lazio e quindi con il segretario della Cgil di Roma sud, Fabrizio Buratti, convinto che “Ryanair evade i contributi previdenziali e fiscali per i propri dipendenti in Italia e li tiene in un regime di precarietà totale, sotto il ricatto del licenziamento”. Il risultato è che la prossima estate, a Roma, la Ryanair potrebbe anche non esserci più. O almeno, questa è la minaccia del presidente della Ryan, Michael O’Leary, dopo che l’Enac (l’Ente nazionale aviazione civile) ha deciso che, dal prossimo novembre, verrà ridotta del 30 per cento la capacità dell’aeroporto di Ciampino. Che volete che sia? Sono solo quattro aerei al giorno, dice la vicesindaco di Roma, Maria Pia Garavaglia. Sono invece, dice O’Leary, 66 voli in meno a settimana, 500 mila passeggeri in meno l’anno e 125 milioni di euro di incasso annuali. O’Leary ha così fatto ricorso al Tar, ha minacciato di andare via da Roma, ha ricordato che l’Enac aveva già messo il veto sulla rotta Roma-Alghero e ha poi spiegato come quelle accuse di inquinamento – che ricordano tanto le proteste anti Tav – non hanno neppure un vero riscontro, dato che né a Fiumicino né a Ciampino esiste una cosiddetta “scala di rumorosità”. Ecco, magari la Cgil non avrà gradito le parole di O’Leary su quella compagnia di bandiera italiana che, secondo O’Leary, oltre a essere “un gran casino” “potrà essere privatizzata solo senza questo modello supersindacalizzato di compagnia”, ma prima di prendersela con la Ryanair forse bisognerebbe contare fino a dieci e studiarsela un po’, la Ryan. Anche perché è già da un po’ troppo tempo che il signor O’Leary si ritrova i bastoni in mezzo alle ali. Prima, nel 2004, la Commissione europea (quella di Romano Prodi) ha avuto il coraggio di dire che la Ryan aveva ricevuto aiuti non legali in un aeroporto del Belgio (quello di Charleroi), poi, pochi mesi fa, la stessa Commissione, con improvviso spirito liberista, ha intravisto una minaccia monopolistica nell’acquisizione della compagnia irlandese Aer Lingus, e ha bloccato l’operazione (Commissione citata poi in giudizio da O’Leary). Peccato però che la Ryan, più che uno spauracchio, sia piuttosto uno straordinario esempio di come una vera liberalizzazione, come quella dei cieli, funzioni davvero. E pure a basso costo.
E’ così che la Ryan si è inventata i voli low cost europei, è così che ha iniziato a risparmiare non sulla sicurezza ma sui biglietti, i pasti a bordo, i check-in, è così che ha portato un po’ di sana concorrenza nel nostro paese (se Alitalia ha introdotto da qualche tempo dei voli low un motivo ci sarà), è così che pur riuscendo a proporre voli quasi a zero euro, negli ultimi tre mesi, Ryanair, data per giunta in crisi, ha incrementato del 20 per cento i suoi profitti, ha portato le sue azioni a un più 10 per cento, si è confermata la compagnia aerea più puntuale del mondo e quella – in Europa – con la minor media di bagagli smarriti. Ed è per questo che a giugno l’International Air Transport Association ha votato la Ryan come la compagnia aerea più amata al mondo: più di Lufthansa, più di Air France, più di American Airline. Non provate a toccarla. Viva Ryanair.
Claudio Cerasa
15/08/07

martedì 14 agosto 2007

Il Foglio. "L’incontenibile Fioroni d’agosto prepara l’opa sul Pd con un ombrello"

Il ministro è scatenato. Gira da Cortina ad Assisi, non spegne il telefono e per il compleanno ha pronto un bel regalo

Roma. E’ che quando gli altri non ci sono, quando gli altri vanno alle Maldive e quando gli altri spengono i telefonini e non leggono più i giornali e non rispondono più ai messaggini, lui non resiste proprio. E così, Fioroni, te lo trovi a Cortina a parlare di “Bulli e pupe”, te lo trovi alla Camera a discutere di “crediti scolastici”, te lo trovi a Montignoso, in Versilia, a parlare di Bindi, di Letta, di Partito democratico e poi, un giorno sì e l’altro sì, te lo trovi lì, a conversare con tanti, tantissimi giornalisti. E’ che quando arriva l’estate, Fioroni in quei “noiosissimi mesi” (la definizione è sua) che vanno da luglio a settembre, mentre c’è chi sostituisce il capo e chi sostituisce il leader, lui, Giuseppe Fioroni, fa da supplente semplicemente a se stesso. Il ministero è chiuso, ma il ministro è sempre lì, pronto a organizzare un convegno dei cattolici riformatori (a settembre, ad Assisi), pronto a ritagliare e a conservare in una cartellina blu, come ogni anno, tutte le sue migliori dichiarazioni (nel 2001 le raccolse in un volume che poi, in autunno, fotocopiò e distribuì tra i suoi amici), e pronto, naturalmente, a difendere la candidatura di Veltroni (e di Franceschini) dalle oligarchiche accuse di Arturo Parisi e Rosy Bindi. Ma questa volta, Fioroni sembra fare un po’ più sul serio, visto che da qui al 14 ottobre il ministro capirà che cosa farà da grande, che cosa farà dopo le primarie (il 14, tra l’altro, è anche il suo compleanno) e che cosa farà il giorno in cui, a Pd definito, si concluderà – assieme a quello di Romano Prodi – il suo mandato ministeriale. Perché dopo la rottura di quel patto di Chianciano da cui, nel settembre 2006, partì l’opa degli ex Ppi sulla Margherita (e su Francesco Rutelli), dopo “il tradimento di Letta” e dopo quello di Bindi, di quella triade popolare, l’uomo più scoperto, apparentemente, sembrerebbe Fioroni. Non è così.

I cattolici, i moderati, la vecchia idea
Poco prima delle candidature alle primarie di Letta e Bindi, il ministro dell’Istruzione aveva iniziato a far girare tra i suoi uomini una proposta ambiziosa, una sorta di contro opa questa volta però in salsa democratica: il progetto era una lista popolare per le primarie. Con le candidature di Letta e Bindi, i piani di Fioroni sono però saltati, tanto che il ministro è stato costretto a rivendicare, un po’ più spesso del dovuto, la sua idea per il Pd: i cattolici, nel Pd, devono sentirsi a casa propria e in quelle stanze il padrone di casa vuole essere lui. Lui che, in fondo, come gli rimproverava a inizio legislatura la stessa Bindi, è l’uomo che possiede la vera ciccia delle tessere della Margherita. Lui che, da quando Franco Marini siede alla presidenza del Senato, ha provato a ritagliarsi, con successo, parecchie simpatie cardinalizie. Lui che, comunque sia, a settembre, ad Assisi presenterà un manifesto (quello per i cattolici del Pd) a cui hanno già aderito sei europarlamentari, 71 parlamentari, 92 consiglieri regionali, 19 sindaci (di città capoluogo), 14 presidenti di provincia, 14 segretari regionali della Margherita e 77 segretari provinciali. Non male come bottino. Ma tra i Dl, e non solo da quelle parti, ci sono due modi diversi di guardare all’incontenibile Fioroni di mezz’estate. C’è chi, in area franceschiniana, convinto che il ministro viterbese sia ormai solo un popolare amministratore di condominio degli ex Ppi, gli regala robuste pacche sulle spalle, gli dice: “Ehi, Beppe, tu sei il nostro leader”, e poi quasi si mette a ridere (come successo a inizio agosto nel ristorante romano Romilo). E c’è chi, invece, ha capito che il ruolo di Fioroni, in realtà, è ben diverso da quello che si è ritagliato Goffredo Bettini nell’area veltroniana. Semmai, qui è proprio il contrario; ed è per questo che lo staff di Fioroni, scherzandoci un po’ su, da qualche giorno confessa di scambiarsi diversi sms dove, a proposito di ticket, viene citato il testo della terribile canzone estiva di Jay Z (“You can stand under my umbrella, ella ella eh eh eh”) e poi racconta che il patto con Franceschini sarebbe questo: Fioroni, fino alle primarie, garantisce all’area ex Ppi che dietro al progetto democratico di Franceschini si trova il suo robusto ombrello. Un ombrello che da un lato tiene compatto il fronte mariniano, dall’altro ripara il ticket veltroniano da una pericolosa dispersione di elettori cattolici, grazie ai quali, come detto ieri su Rep., sarà possibile trasformare il Pd nel “partito dei moderati”. In cambio se il ticket dovesse funzionare, in un possibile governo veltroniano, tra le altre cose, potrebbe essere riservato a Fioroni quel ministero che il quarantanovenne medico viterbese sogna da metà degli anni Novanta, quando lui era responsabile Sanità del Ppi, quando al ministero della Salute sedeva Rosy Bindi e quando, all’epoca, a Giuseppe Fioroni, con ironia veniva ancora detto così: “Hallo, mr. Bindo”.
Claudio Cerasa
14/08/07

domenica 12 agosto 2007

sabato 11 agosto 2007

Il Foglio. "La politica del tube"

Sarkozy e Hillary, Obama e Letta e poi Tonino e ora pure Walter. Chissà quante belle cose avranno letto prima di caricare i messaggi video su YouTube. Il risultato? Finora è quasi un disastro. Il WSJ spiega perché

Avranno letto parecchie cose prima
di provarci. Avranno letto che lì si è
candidata Hillary, avranno letto che lì si
è messo a ragionare Obama, avranno letto
che così, in Francia, ci si arriva pure
all’Eliseo, avranno letto che ogni anno,
di nuovi, ce ne sono 30 milioni, avranno
scoperto che un giorno sì e un giorno no,
lassù, si trova un Di Pietro “top rated”,
un Romney “most discussed”, un Capezzone
“top favorites”, un Sarkozy “most
linked”, una Merkel “most responded” e
poi, ancora, avranno saputo che a Downing
Street, a Londra, li utilizzano già da
un po’ e che alla White House, negli Stati
Uniti, vanno forte nella first oltre che
nella Second, di life. E si saranno sentiti
dire, un po’ tutti, che su via, basta: dovete
“riavvicinarvi ai cittadini”, dovete
“rivoluzionare la democrazia”, dovete
“svecchiare la politica”, dovete “rivolgervi
ai giovani”, dovete “condividere”,
“aggregare”, “scaricare”, naturalmente
“caricare” e avranno dunque capito che,
per farlo, non basta il blog di Pecoraro
Scanio, non basta la chat di Gentiloni,
non basta il post di Mastella e non basta
più un iPod, un Podcast o un iPhone. No,
no, no: qui serve una svolta, serve la rete,
serve l’online. Qui, signori, serve un
video: serve YouTube. E così ha fatto Enrico
Letta (per la sua candidatura), così
ha fatto Tonino Di Pietro (per il suo
blog), così ha fatto Daniele Capezzone
(per il suo network), così ha fatto Sarkozy
(per l’Eliseo), così continua a fare la cancelliera
Merkel (in Germania) e così
hanno già fatto, e continuano a fare, la
signora Clinton e il signor Obama, cioè i
due democratici americani che non solo
hanno deciso di affiancare alla propria
campagna elettorale (reale) un altrettanto
e solida campagna (virtuale), ma che,
poi, hanno fatto di più e lo hanno fatto la
scorsa settimana quando hanno scelto (e
non solo loro) di discutere di politica, di
Darfur, di Iran in diretta tv (sulla Cnn)
ma con le domande che arrivavano proprio
da YouTube. E funziona così, in
America, funziona così a Londra, funziona
così con la web tv di David Cameron
(il leader dei conservatori inglesi), funziona
così con l’“online vision” del New
Labour e funziona così con la video-chat
di Sarkozy e funziona, ma un po’ meno
bene, qui in Italia, con la tripla w prodiana,
con quel sito del premier italiano
dove – per dire – non c’è radio, non c’è
chat, non c’è tv, non c’è Cnn e non c’è
YouTube e dove il messaggio più forte,
quello più gagliardo, quello più giovanile
non è un video, è solo un audio: “Gennaio
2006: dichiarazione di Romano Prodi
sulla vittoria dell’Unione alle comunali
di Messina”. E poi, naturalmente, ci
sono tante, tante chiacchiere. Ci sono i
professori da post, e gli strategist da
chat. Quelli che parlano solo “di digital
revolution” e quelli che ne parlano convinti
e che ne parlano allarmati e che dicono
che il futuro è qui, che è già iniziato
e che è già arrivato, perché se il New
York Times scrive di “death of the print
edition” (la famigerata morte della carta
stampata, morte magnifica: visti i dollaroni
del Journal di Wall Street), vedrete,
presto toccherà anche a voi, toccherà
alla tv, perché il futuro è sull’online e il
futuro è proprio su YouTube. Bum! Non
esageriamo. Perché, è vero, sottovalutare
l’argomento potrebbe essere un errore,
ma sopravvalutarlo, oltre che a essere
ingenuo, è anche un po’ pericoloso.
La televisione non morirà, naturalmente.
Al massimo, migliorerà. E migliorerà
grazie all’online e migliorerà magari
proprio con YouTube. Ma non ora. Non
ora che su, su, su, in cima alle classifiche
di YouTube non ci sono né Tonino, né
Hillary, né Enrico, né Obama, ma c’è una
“Lama Dance”, con un bel lama (sì, proprio
il magnifico cammellino sudamericano)
che balla, suona e pure canta e
con un video – quello del lama – che vale,
come clic, il triplo di un video sul Pd.
Ma se proprio li vogliamo utilizzare,
questi video, meglio utilizzarli bene e
meglio studiarli un po’ di più. Meglio sapere
che il meraviglioso mondo dell’online
(come scritto dal Washington Post)
ha un impatto poco superiore al 4 per
cento sul peso di una campagna elettorale.
Meglio sapere che a destra, ancor
prima che a sinistra, non va così sottovalutato
il web, dato che (come ricordato
dal Post) sugli undici milioni di utenti
YouTube, oltre a cinque milioni di “indipendenti”,
ci sono tre milioni e 300 mila
repubblicani e tre milioni e 100 mila democratici.
Ed è proprio per questo che
c’è chi, come Patrick Ruffini (ex consigliere
di Bush nella campagna elettorale
2004), suggerisce a Rudolph Giuliani,
a John McCain e a Mitt Romney, di farle
anche loro le primarie un po’ online e
un po’ in tv e di fare anche loro, a settembre,
quel dibattito on air sulla Cnn
ma con le domande che arrivano dal popolo
YouTube. E così, negli stessi giorni
in cui Patrick Ruffini ha lanciato la campagna
“save the debate” (salvate il dibattito),
anche il Time di Londra si chiede
se davvero i repubblicani diranno no
a YouTube (Will the Gop say no to You-
Tube?), si chiede se davvero i politici
vorranno continuare a non pensare a
quella frazioncina di “voto giovane” (lo
“youth vote”) e si chiede se davvero si
vuol continuare a confondere il Tube di
Google con il MySpace di Murdoch (sorvolando,
naturalmente, sul fatto che in
alcuni paesi è già un miracolo che si
sappia cosa sia questo dannato aggregatore
di blog di nome MySpace). “Qualcuno
dovrebbe spiegare che qui, nel mondo
di YouTube, gli e-lettori con la ‘e-’ sono
molto più svegli degli elettori normali.
E se un video è fatto male – dice al Foglio
Jay Dedman, un giovane e famoso
esperto di video online americano – se
qualcuno dice una bugia, se qualcuno
non è coerente, qui ci mettono un attimo
a scoprirlo. Ci dicono, i politici, che non
hanno tanto tempo da perdere con l’online?
Come dite, prego? Abbiamo sentito
bene? Ma per favore, non scherziamo”.
Si parla di tube world. E ne parla il
giovane Dedman così come ne aveva
parlato sul Wall Street Journal, lo scorso
17 maggio, l’editorialista Micheal
Totty quando, con un lungo editoriale
sul Tube catodico, spiegava “how to be a
star in a YouTube world”: come essere
una star al tempo del YouTube world. E
il senso di quell’editoriale, Totty ce lo
riassume così: “Semplice. Si deve essere
coerenti, si deve arrivare subito al
dunque, si deve individuare un target, si
deve creare un network, si deve far percepire
un po’ di beauty, un po’ di bellezza
e si deve provare a essere belli, disinvolti,
chiari, precisi. Ecco, soprattutto disinvolti”.
Disinvolti.
E allora tu pensi ai fantastici video di
Sarkozy, pensi alla buona tv di Blair,
pensi alle prossime chat di Brown, pensi
ai super movie di Hillary e poi pensi
all’Italia e pensi al video di Letta, pensi
alla poltroncina di Di Pietro, pensi
all’“esclusivo” di Corona e pensi che,
con tutti quei video e con tutti quei messaggi,
ecco, forse Internet non è esattamente
un vero e proprio “viagra della
politica” (come da definizione dell’onorevole
Antonio Calmieri, di Forza Italia),
e pensi che, forse, il tube world italiano,
più che creare nuove star, rischia di essere
il perfetto esempio di come riuscire
a non essere una star del Tube. E lo
vedi con Enrico. Lo vedi con Tonino e lo
vedi con Fabrizio.
Che più bianco non si può. L’effetto è
proprio quello, quello del Dash: con la
signora che risponde alle domande, con
la signora che sorride e con la signora
che così, dà risposte che “spiazzano”. Risposte
secche. Decise. Rivoluzionarie.
Con la signora che si fa una domanda e
poi si dà una risposta e con la signora
che non scambierebbe mai il suo fustino
con gli altri due fustini. Perché più bianco
non si può. E allora eccolo qui il video
del giovane Letta. Con un gabbiano
bianco, con il cielo azzurro, con un piccolo
porto, con un mare blu, con una piscina
blu, con una barca blu, con un cielo
blu e quindi sì: la libertà, il gabbiano,
i ragazzi, la speranza, la nave che salpa,
un progetto che parte, i giovani che salgono
su e sono felici, davvero felici, parlano
in napoletano, in romano, in emiliano,
ballano la tarantella, sarebbero
pronti a mangiare la pizza, avrebbero
voglia di suonare il mandolino ma comunque
loro sì che sono felici, loro sì
che fanno tante domande, loro sì che
cercano tante risposte, loro sì che hanno
tanti dubbi ed Enrico, eccolo lì il giovane
Letta. Fermo, concentrato, seduto di
fronte a un computer. Esatto. Proprio come
te che mi guardi su YouTube. Non lo
vedi? Io, te, il partito, i democratici, siamo
così. Guarda, guarda bene: io guardo
il computer, tu guardi il computer. Proprio
così: sono uno di voi e anche io sono
qui di fronte al pc a studiare, come
voi, a cercare un leader, come voi, a
guardare lo spazio aperto, il cielo blu, a
cercare la libertà, a guardare quei ragazzi
giovani che non aspettavano altro
questo video su YouTube. Perché – si
legge sul sito di Enrico Letta – “Enrico ti
ascolta”, “Enrico ti risponde” e poi Enrico
è lì che si fa una domanda (cosa servirebbe
al partito?) ed è lì pronto a darsi
una risposta: ecco cosa serve al partito;
e con quella camicia un po’ aperta,
quel collo senza cravatta e con Enrico
che parla di “Erasmus”, che ama Mandela,
che legge Kundera, che guarda
Blade Runner, che ordina solo su Amazon,
che cerca solo su Google, che chatta
solo su Skype, che compra solo su eBay
e che, magari, il prossimo libro “Morire
per Maastricht” lo correggerà in un “Morire
giovani per Maastricht”, il prossimo
suo “Dialogo Intorno all’Europa” non lo
farà certo con Lucio Caracciolo, ma lo
scriverà, quantomeno, con il supergiovane
Mario Adinolfi. E allora Enrico finisce
di guardare il suo video, si fa tante
domande, si dà tante risposte e scopre
che c’è chi si emoziona (“Enrico facci sognare!”),
chi lo provoca (“quel gabbiano
sembra che abbia tanta voglia di farsi
una ca**ta”) e chi lo incoraggia (“Enrico,
sei forte, grazie… ma voterò comunque
Walter! Però mi piaci”). E che poi, Enrico,
fai bene a giocare tutto sul nome e fai
bene a non sfruttare quel magnifico cognome,
e fai bene a provarci, a metterci
la faccia, con il tuo gabbiano, il tuo Kundera
e il tuo firma per Enrico, il tuo scrivi
per Enrico; ed è vero: il tuo video non
è ancora ai livelli né di una scazzottata
liceale, né di una pomiciata ginnasiale,
ed è vero che per fortuna non canti, non
balli e non suoni (quel lama però è davvero
fantastico), ed è vero che il tuo Bruce
Springsteen, quello che ami, è sempre
giovane ed è sempre uno spasso. Anzi,
permetti: è una figata, uno sballo, un
trip. Ecco, però attento, Enrico. Attento
con tutto quel blu, con quel tuo voler
partire in libertà, con tutti quei giovani
vestiti di azzurro, con quel tuo scendere
in campo con un video; attento che poi,
magari, qualcuno si confonde, attento
che i Ds si emozionano, attento che Travaglio
si spaventa, attento che, magari,
poi l’Unità parla di te, parla del tuo video,
della tua libertà, del tuo blu, del tuo
magnifico cognome e così, sul più bello,
ci mette pure la tua foto, una foto bella,
una foto grande, con il gabbiano che non
si vede ma che comunque si capisce che
c’è. Però, dannazione, quella didascalia:
Mercoledì 25 giugno, 2007, Unità: Gianni
Letta annuncia la candidatura attraverso
il sito Internet. Foto Ansa.
Aiuto, salvatemi. Povero Tonino. In
fondo era stato proprio lui il primo a
“sfruttare la popolarità del video sharing”,
era stato lui il primo a “comunicare
con i cittadini”, era stato lui il primo
ad aprire i “nuovi scenari per la comunicazione”,
era stato lui a trasformare
la “politica in trasparenza”, era stato
lui ad aver “incontrato il favore dei
lettori”, era stato lui il primo ad aprire
un blog, era stato lui il primo ministro
italiano che, dopo il blog, si era dato anche
al Tube. E lo aveva fatto otto mesi
fa, quando ancora Di Pietro parlava di
durissime battaglie politiche, quando
ancora, il povero Tonino, faceva davvero
tremare i polsi solo con i suoi occhi,
e quando ancora, Tonino, diceva di voler
pensare ai giovani, diceva di voler
tutelare il cittadino, diceva di voler salvare
l’Italia e diceva che, per l’amor di
Dio, le autostrade devono restare italiane.
E lo diceva così, Tonino, lo diceva in
piedi, lo diceva su YouTube, e lo diceva
sorridente, sicuro, un po’ come Beppe
Grillo e un po’ come un Al Gore, ed era
gagliardo, in piedi, di fronte a un tricolore
e a una bandiera dell’Unione europea
e ancora ci credeva, ancora si
sforzava e quasi ballava e quasi cantava,
ed era lì, e diceva che l’italianità
non c’entra con Abertis (e vabbè), diceva
che si deve combattere, che si deve
pensare al pedaggio del cittadino, ed
era ordinato, sembrava quasi pettinato
e i suoi fan speravano (“siiiiiiiiiii: sei
l’ultimo degli onesti!!!!”), poi esultavano
(“Evviva Di Pietro! Evviva Internet!”),
quindi sognavano (“Tonino, non
vorrei mai svegliarmi da questo sogno”)
e Di Pietro era contento, sembrava
fiero, sembrava felice, continuava a
raccontarsi ai suoi cittadini (anche in
inglese), continuava a narrare dei
“suoi” Consigli dei ministri, e ci provava
con i costi della politica (Council of
Ministers: The costs of Politics), ci provava
con le intercettazioni, (Council of
Ministers. Intercepting Notables), ci
provava con l’effetto Felice Caccamo
(con una terribile immagine di Palazzo
Chigi alle spalle), ci provava con le liberalizzazioni
(Council of Ministers -
Liberalizations), e c’ha provato pure
con il partito nella Second Life e poi
però, Di Pietro, ha iniziato a chiedere
aiuto. Salvatemi. Fatemi uscire da questo
tubo. E lo si è capito quando, così,
dopo aver provato a salvare i risparmi
dello stato (Council of Miniters - the
State is saving money), Tonino scopre
che non lo vogliono al Pd, scopre che
nella Second life ha un concorrente
della First life, scopre che Mastella ha
un blog, scopre che Mastella bacchetta
Sgarbi (che l’aveva paragonato a Paris
Hilton) e poi così, arriva all’ultimo video,
Tonino. Un video drammatico, con
Di Pietro che guarda il Tube, con la
cravatta stropicciata, i capelli spettinati,
senza bandiera dell’Unione, senza
ballare, senza cantare e messo lì, seduto,
distrutto su un divano e con l’operatore,
esausto, che si sveglia per un paio
di zoom e con Tonino che parla dell’ennesimo
Consiglio dei ministri, dell’ennesima
riunione, dell’ennesima litigata,
dell’ennesimo “grappolo di decisioni”
e poi sembra voler chiedere rinforzi,
dice di voler sostituire i “suoi direttori
generali”, anzi dice di averlo già
fatto, dice che così si evitano “le tentazioni”
e per un attimo tremano i polsi
e tremano un istante, prima che finisca
tutto, prima che Tonino chiuda il Tube,
accenda il blog, apra il post e trovi gli
stessi fan che lodavano il loro eroe che,
ora sono perplessi, stanchi, delusi: “A
Tonì!!!!! State governando da
schifo!!!!!!”. Aiuto! Salvate Tonino!
L’ultimo dei supereroi. Il video inedito,
introvabile, unico, inestimabile e naturalmente
esclusivo, deve essere girato
con una telecamera piccola piccola piccola,
nascosta in una borsetta, incassata
tra le lenti degli occhiali e deve essere –
il video – serio, molto serio, deve essere
unico, deve essere uno scoop, deve essere
trasmesso al tg delle 20, deve passare
allo speciale delle 23 e poi deve essere
un po’ mosso, deve essere un po’ rubato,
deve essere un po’ sporco e sì, diciamolo:
un po’ zozzo. Deve essere un video
che deve rubare l’anima, deve essere un
video che si porta a casa lo scalpo, deve
essere un video che ti ruba un ricordo e
deve essere così: un botto, un colpo, uno
scoop sennò al massimo finisci su You-
Tube. Ed è anche così che (come successo
a Fabrizio Corona) si finisce su Vanity
Fair, ed è per questo che “il nostro inviato”
non ha più alcun senso se non
sarà almeno “un nostro intrufolato”, un
“nostro infiltrato”. E non sei proprio
nessuno se sul cellulare non hai una basilica
che crolla, se non hai una tragedia
da documentare, uno tsunami da raccontare,
un attentato da esorcizzare o
magari un divorzio da riportare. Ed è così.
Funziona così ed è la sindrome dell’esclusivo,
il desiderio dell’online, l’adrenalina
del “live”, l’eccitazione della tua
serratura in diretta tv. “Perché se prima
dell’immagine c’era il terrore, se prima,
di fronte al proprio volto su uno schermo,
c’era la sacralità, ora l’immagine
non la si doma più – dice al Foglio il critico
televisivo Aldo Grasso – ora invece
si prova a trovare un po’ di carisma con
un video, si pensa di diventare veri politici
con YouTube e si pensa che sia necessario
fissare il proprio volto da qualche
parte e si pensa che bisogna immortalarlo,
quello scalpo. Che bisogna filmarlo.
Che bisogna contemplarlo. Ma dico.
Che senso ha? E’ politica, questa? E’
tv, quella? Non lo si capisce che dopo lo
scalpo resta poco? Che resta solo un bel
cranio vuoto e completamente rasato?”.
E McLuhan, grazie al cielo, non c’entra
nulla: perché non è vero che il medium
è il messaggio, è che se hai un medium
così fico, una telecamera così nascosta,
una perizia così focosa, il messaggio non
serve più. Non serve a nulla, serve solo
il contenitore, serve solo la camera nascosta,
serve solo il recipiente e va bene
pure se sopra, sul recipiente, invece che
“press” c’è scritto trash. Perché tu comunque
sei lì. Sei in diretta. Sei live. Sei
con me. Sei qui con mia moglie. Sei qui
accanto a Katrina. Sei qui accanto all’uragano.
Sei qui nel mio reality. Sei qui,
con quell’immagine che ogni tanto è utile,
che può servire per beccare un terrorista,
per incastrare un ladro, ma spesso,
invece, serve solo per un “mandateci le
vostre immagini” del Corriere.it o un
mandateci i vostri video di
Repubblica.it. E il rischio con i divi, con
le star, con Corona, per quelli che riescono
a diventare una star del Tube
world, in questo modo, è quella di finire
così, con quell’immagine un po’ sporca,
un po’ rubata e diciamolo: un po’ zozza.
Perché, naturalmente, non si dice mai:
“Hai visto che bel video che ha fatto su
YouTube”, ma si dice solo: “Visto? Ha
fatto un video su YouTube”. Che c’era
dentro? E chi se lo ricorda. Ed è per
questo che un lama ballerino vale di più
di un video sul Pd. E’ per questo che un
bambino in tribunale vale più di un polso
di Tonino. E’ per questo che anche
Walter, che ha da poco lanciato il suo sito
e che dice di essere pronto per You-
Tube, dovrà star attento a non rimanere
intrappolato, dovrà stare attento a evitare
che lo star system dei nuovi video elimini
le star dei vecchi video, dovrà star
attento all’effetto “video killed the video
star”; e poi, se davvero si è pronti a sentirsi
un Walter “top rated” e un sindaco
“most risponded”, non dovrà fare, Walter,
come ha fatto da Fabio Fazio, qualche
tempo fa, con un video (in cui diceva
“andrò in Africa”) che finì su YouTube
e che poi fu misteriosamente cancellato.
Perché potrà pur iniziare a parlare
di “nord” (come Howard, premier australiano,
pochi giorni fa, sempre su
YouTube), potrà iniziare con i suoi post
su Ghandi, le sue chat su Kennedy, i suoi
forum sui taxi. Potrà far bella politica
anche con la tripla w. Però, prima, caro
W, almeno su YouTube lo dirai che in
Africa non ci andrai più?
Claudio Cerasa
04/08/07