domenica 26 agosto 2007

Il Foglio. "E' l'anno di Pavel"

Sei stagioni fa, il pallone d’oro arrivò alla Juve.Ora crede che gli scudetti bianconeri siano 29 (non 27) e a giugno lascerà il calcio. Ma, ovviamente, soltanto a una condizione

Quando Pavel Nedved non sa più cosa
fare, dopo aver completato la buca
quattro del parco torinese Della Mandria
(dove, ogni tanto, gioca a golf con
Del Piero e con Tacchinardi e dove, tra
l’altro, si trova anche la sua villetta), dopo
aver esaurito, a casa, i quaranta minuti
di tapis roulant quotidiani, Pavel esce
dal suo appartamento, si siede in giardino,
raccoglie le palline che Del Piero,
per dispetto, fa cadere dalla buca lì vicino,
prende per mano i due figli e così,
per “tonificare il quadricipite” – come
dice lui – inizia a giocare. Bambini, uno
qua, uno là. Pavel si mette in ginocchio e
comincia a saltare. Gli amici lo chiamano
il gioco della “rana”, ma Pavel questo
non lo sa. Lui, sorridendo, inizia a fare
un salto, inizia a farne due e supera, diciamo
in dribbling, i figli. Su e giù, su e
giù, su e giù, passando sopra la testa, prima,
passando lì, ai lati, poi. I ragazzi, nel
corso del pomeriggio (il gioco non dura
poco) lentamente si alzano, si tirano sempre
un po’ più su e Pavel salta sempre di
più, sempre più in alto. Su e giù, su e giù.
E’ l’unico momento, questo, in cui Pavel
Nedved – ex pallone d’oro, ex giocatore
della Lazio, ex capitano della Repubblica
Ceca, ex pupillo di Zdenek Zeman, di
Fabio Capello, di Marcello Lippi, di Didier
Deschamps e naturalmente, ora, anche
di Claudio Ranieri – accenna a un
dribbling, e salta un uomo. In campo, Pavel,
non ne ha bisogno. Niente doppi passi,
niente tacchi, niente giochini. A Pavel,
semplicemente, non servono. E non è un
caso, naturalmente, che a 35 anni (Nedved
festeggerà il compleanno il 30 agosto)
Pavel sia sempre lo stesso incredibile
fenomeno scoperto da Zeman ai tempi
della Lazio. Ecco, dove gioca, Nedved?
Gioca in attacco? Gioca sull’ala? Gioca
più al centro? Gioca più avanti? Sì, sì, sì,
sì, sì. Gioca dappertutto, Nedved; e lo fa
davvero, lo fa sempre, lo fa da quel giorno
in cui arrivò a Roma, a Formello, e in
cui – era un novembre, l’anno era il 1996
– Pavel si fermò un po’ di più, e dopo i
gradoni, dopo le tattiche, dopo gli angoli,
dopo i rigori, dopo le flessioni e dopo le
punizioni, i suoi due amici di allora –
Alessandro Nesta e Alessandro Grandoni
– spiegarono a Nedved che, questa sera,
caro Pavel, there is a big “giannetta”;
giannetta, nel senso di leggera brezza. E
fu quella la prima parola che Pavel Nedved
imparò in italiano. Poi, però, con Del
Piero, con Buffon, con Thuram e con
Cannavaro, a Torino, qualche altra parolina
continuò ad impararla. Per esempio
“scudetti”; per esempio “pallone d’oro”.
Ma c’è una sera che Pavel non è mai
riuscito a dimenticare. Era il 14 maggio,
l’anno il 2003. Ed era stato perfetto, Pavel.
Anche quella sera. Tre passi e palla
in rete. Uno. Poi due. Poi tre. Prima Trezeguet,
al volo, poi Del Piero, di collo, poi
Pavel, di esterno. E lui lì, in ginocchio
sotto la curva e in ginocchio sotto il fischietto;
con le braccia in cielo, con le
mani sugli occhi. Piangeva, Pavel, ma
era stato magnifico, anche quella sera;
era stato perfetto come il primo, come il
secondo, come il terzo gol della Juve;
perfetto come quella notte, come quel
maggio, come quella gara, come quella
Champions, contro il Real. Di qua la Juve,
di là il Madrid. Di qua Nedved, di là
Zidane. La Juve, poi, andrà in finale. Pavel,
però, quella partita non la giocherà.
Non la giocherà quell’anno e non la giocherà
mai più. Glielo chiedi, e Pavel ti risponde
così. Ti dice che è quello il giorno
che lui vorrebbe cancellare; ti dice
che è quella la sera che lui vorrebbe dimenticare.
Palla al centro, palla al Real,
Pavel si avvicina, fa due passi, ne fa un
altro, di fronte c’è Steve McManaman,
centrocampista inglese del Real; Pavel
lo stende, si alza un braccio, il cartellino
è giallo, Pavel va giù, si mette in ginocchio,
sotto il fischietto, e non guarda l’arbitro,
non protesta, non parla. Poi, però,
piange. Perché lui sapeva che, così, giocando,
avrebbe rischiato; glielo aveva
detto la moglie, Ivana, la mattina al telefono
e glielo aveva detto la sera prima,
con un semplice messaggio: “Pavel, ricorda:
sei diffidato”; lui invece no, giocò
tutta la partita, giocò novanta minuti, fece
quel fallo, perse la finale e quella sera,
Pavel, non la dimenticherà; mai più.
E lo dice lui stesso. Lo dice a Roma,
quando ritorna a Formello. Perché da
quando Zeman lo prese alla Lazio, da
quando Cragnotti lo diede alla Juve, dei
sei anni passati a Torino, dei cinque trascorsi
alla Lazio, di quelli in Nazionale,
tra quell’Europeo sfuggito (in finale, nel
1996), tra quei Mondiali persi (in qualifica,
nel 1998) solo quella sera non è mai
riuscito a dimenticare, Nedved. Perché
la Juve, quell’anno, perse in finale la
Champions (con il Milan, ai rigori), ma la
coppa con le orecchie, Pavel non la vedrà
più. E lo sa, Nedved, che lì fuori è un
po’ diverso. Certo, c’è lo scudetto, ci sono
i campionati, ci sono i tricolori, ma lui
che è stato l’ultimo giocatore ad alzare
una coppa europea con una squadra romana,
lui che nel 1999 a Birmingham,
contro il Maiorca – ai tempi della Lazio –
segnò il 2-1 e poi alzò l’ultima Coppa delle
Coppe della storia, quella sera Pavel
capì che il suo sogno sarebbe stato alzarne
un’altra, di coppa: quella un po’ più
grande, quella con un po’ più d’orecchie.
Era il 1999, due anni dopo, a casa di
Pavel, vicino Praga, arrivò un aereo un
po’ particolare. Pavel, però, quell’anno
aveva fatto una promessa. Aveva lasciato
una penna blu poggiata sul tavolino di
cristallo, di fronte alla televisione della
sua casa romana a pochi chilometri da
Formello – nel quartiere Olgiata – dove
Pavel Nedved viveva assieme alla moglie
Ivana. Aveva preso quella penna e non
l’aveva mai toccata; l’aveva lasciata lì e
aveva promesso che, con quella penna,
lui avrebbe firmato solo un contratto:
quello con la Lazio. L’aveva comprata a
maggio, la penna, e l’aveva comprata nel
2001, quando Pavel a Roma ci giocava da
cinque anni e quando, come ogni estate,
aveva discusso il suo futuro (e il suo contratto)
all’hotel Hilton, a Monte Mario, a
due chilometri da quello stadio Olimpico
dove lui, Nedved, una domenica sì e
una no sentiva le note di “Jeeg Robot” lì,
accanto al suo nome: “Pavel va’, cuore e
acciaio, Pavel va’, cuore e acciaio, cuore
di un ragazzo che… senza paura sempre
lot-te-rà”, e via. E lui avrebbe continuato
a giocare a Roma, anche tutta la vita; ma
quell’estate Nedved capì che c’era qualcosa
che non andava. E lo scoprì quando
su un foglio con l’intestazione di Corso
Galileo Ferraris, con i colori bianco e nero
stampati laggiù, in fondo alla pagina,
c’era la firma di Sergio Cragnotti, l’ex
presidente della Lazio che, per 75 miliardi
di lire, aveva deciso di vendere Pavel
Nedved proprio alla Juventus. Nedved
non sapeva nulla, lui continuava ad allenarsi,
mattina, pomeriggio e sera, continuava
a provare le punizioni, a Natale, e
continuava a passare, come ogni anno –
e come continua a fare oggi – le sue vacanze
nell’isola tunisina di Djerba, in un
albergo dove, ogni estate, mentre gli altri
vanno al Billionaire, Pavel si allena come
un pazzo. Lui, quell’anno, diceva di
essere pronto a firmare per la Lazio, ma
era la Lazio, in realtà, a non essere più
pronta a firmare con lui (anche se Pavel
la storia la racconta in maniera un po’ diversa,
ma non fa nulla). Poi, però, a Praga
arrivò un fantastico aereo con Luciano
Moggi e con Antonio Giraudo. Poche
ore dopo, quando Moggi aveva ormai
convinto Pavel a lasciare Roma, Nedved
arrivò a Torino, lasciò la penna sul tavolino
dell’Olgiata e firmò per la Juve. Fu
un affare, fu uno dei più importanti colpi
di Luciano Moggi. Alla Lazio andarono
75 miliardi di lire, a Nedved 12 miliardi
l’anno. Poche settimane prima, Zinedine
Zidane era finito al Real Madrid
per 120 miliardi. E fu un colpo terribile,
quello, per i tifosi juventini: perché provateci
voi a sostituire un campione del
Mondo, provateci voi a diventare un fenomeno
come Zidane. Ecco, Nedved c’è
riuscito, e ha fatto di più, se è possibile.
Perché in sei anni, Pavel, è arrivato primo,
praticamente ogni anno. Primo in
campionato nel 2002, primo in campionato
nel 2004, primo in campionato nel
2005, primo in campionato nel 2006, primo
in campionato nel 2007. Perché Pavel
è naturalmente uno di quei bianconeri
convinti che siano 29 e non 27. E’ uno di
quelli che i due scudetti, quelli conquistati
nel 2005 e nel 2006 e poi scuciti via
dalle maglie con i colori bianco e nero, ci
siano ancora, lì in bacheca. Ed è convinto,
Pavel, che il prossimo sarà lo scudetto
della stella: quello del 30, non del 28.
Non l’ha mai detto, Pavel, non ha mai fiatato,
non si è mai davvero lamentato; è
stato il primo pallone d’oro, in Italia, ad
andare in serie B; ed è stato soprattutto
lui – e non solo con i dodici gol segnati in
B – a riportare la Juve in serie A; è stato
lui uno di quelli che, assieme ai tifosi, ha
passato un anno intero così, a cercare di
trovare una partita truccata nei campionati
incriminati e poi a disperarsi per gli
scudetti assegnati, per i giocatori svenduti,
per i tricolori scippati; ed è stato un
anno intero, anche lui, a notare come negli
stessi anni in cui la Juve avrebbe vinto
gli scudetti con l’invia, con il ricevi,
con il t9 e con le sim card, c’era qualcuno
– a non molti chilometri da Torino –
che giocava con bilanci più che sospetti,
con gli ematocriti un po’ troppo alti, con
le patenti false e con i passaporti truccati;
come mai?, si chiedeva Pavel. Come
mai, a Torino “La Juventus Football
Club S.p.A”, in poco tempo, non è più “la
più grande squadra del calcio italiano”,
ma – come recita il nuovo sito Internet
bianconero – è solo “una delle principali
società di calcio professionistico a livello
internazionale”; come mai? Ecco,
in questi anni “di passaggio” – come li
chiama Pavel – il tifoso juventino, quando
in campo, al posto del Barcellona o
del Real, vedeva il Frosinone e l’Albinoleffe,
era solo con gli scatti di Pavel, con
i gol di Del Piero, con i cross di Camoranesi,
con i tuffi di Buffon guardati con la
pay tv il sabato pomeriggio, che riusciva
a non pensare a quegli incredibili tricolori
cuciti sulle maglie altrui; ed erano
loro, Pavel, Alex, Gigi e German, l’unica
ragione per continuare a credere che se
quella squadra con i colori nero e azzurro
non avesse avuto gente come Vieira e
gente come Ibrahimovic, se non si fosse
messa a comprare ex juventini, avrebbe
continuato a vincere tante magnifiche
Coppe Italia. Era Pavel, assieme ad Alex,
l’unico che riusciva a far ricordare il miracolo
del 5 maggio, quando sembrava
fatta – per l’Inter – e invece no, arrivò
Nedved e arrivò con il Piacenza, a due
giornate dal termine. L’anno era il 2002,
il minuto era l’ottantottesimo e Pavel tirò
fuori un sinistro incredibile: Piacenza zero,
Juventus uno; dopo che, per mezz’ora,
quel giorno, lo scudetto sembrava essere
ormai nerazzurro; dopo che, a tre minuti
dalla fine, l’Inter pareggiò a Verona e dopo
che la Juve, da meno cinque in classifica,
era passata a meno uno. Poi arriverà
il 5 maggio, con la Juve che vincerà
a Udine (con Nedved ma anche con Paramatti),
e con l’Inter che perderà a Roma
(con la Lazio ma anche con Gresko).
E fu quello il primo scudetto che Pavel
vinse al primo tentativo, al primo anno
(anche se a inizio stagione c’era qualcuno
che voleva cacciarlo); quello scudetto
che la Juve – con Zidane – era da quattro
anni che non vinceva più. Sì, Zidane.
Perché come diceva l’Avvocato – sorridendo
– “Zidane era più divertente che
utile”, mentre Nedved, più che divertente,
era – ed è – semplicemente fondamentale,
formidabile, incredibile, dunque
insopportabile, per gli altri. Lo sanno
bene a Roma e lo sanno bene alla Lazio,
dove i tifosi, da quell’estate, continuano
a convincersi che sì, “che bell’acquisto,
questo Liverani” e dove qualcun
altro, all’Olimpico si era anche messo a
cantare “Zoff: dacci tre parole, Mendieta,
Crespo e Fiore”, quando la situazione
era però ormai completamente sfuggita
di mano. Ecco, dopo quell’estate,
Nedved ha iniziato a trasformarsi in un
giocatore più importante di quello che è
Totti per la Roma, di quello che è Gerrard
al Liverpool, di quello che è Lampard
al Chelsea e di quello che è Kakà
al Milan. Perché c’è chi copre, c’è chi attacca,
c’è chi segna, c’è chi recupera; Pavel
invece fa tutto. E non è vero che lui
sarebbe disposto a giocare ovunque, pur
di giocare (non è nato a Montevideo, non
si chiama Álvaro), è, semmai, l’esatto
contrario: perché con Nedved è l’allenatore
che, davvero, è disposto a farlo giocare
dappertutto, pur di farlo giocare.
Punto. Ed è così, Pavel. E’ perfetto. E’ un
giocatore fantastico, ed è terribilmente
odiato da chi non è juventino, ed è indescrivibilmente
amato da chi juventino lo
è, da chi lo contemplerebbe ore e ore
con un “One love”, un “One blood”, un
“One life” infilato nelle orecchie e da
chi si accontenterebbe di guardarlo negli
occhi per capire che è 29, non 27. Perché
non esiste nessun altro giocatore al
mondo come Nedved, non esiste nessun
altro giocatore che riesca a essere una
perfetta sintesi tra quello che fu Michel
Platini e quel che fu Gaetano Scirea.
Perché Pavel attacca, difende, tira e poi
copre. Certo, è molto più semplice dire
che Pavel si butta, è molto più facile dire
che Pavel simula e che Pavel rotola
per terra; mentre poi, se il Pupo inciampa,
quello sì, era rigore, mentre se Nedved
cade no, bastardo, rialzati, sei un simulatore.
Ed è vero, è più facile guardarlo
così, è più semplice dargli del venduto,
dargli del cascatore, dargli del ladro,
dirgli “27”, non “29”; e lui ci ride, ci
scherza e ti dice che in fondo non ha bisogno
di simulare, perché – anche se
quando cade, Pavel, se la prende con comodo,
si rotola, si tocca, si controlla,
esce, poi zoppica e rientra saltellando –
a lui lo buttano giù davvero però così,
via, almeno, ogni tanto, un po’ si riposa,
laggiù a terra. E lo sa bene il suo amico,
il suo procuratore, l’uomo con cui più si
confida; un signore che, nel calcio, fa
paura solo nominarlo e un signore che –
quasi ogni giorno – parla con Pavel e gli
dà molti consigli; un signore che di nome
fa Mino e di cognome fa Raiola; lui
che oltre a essere il procuratore di Nedved
è anche quello di Ibrahimovic; lui
che, dopo aver lavorato per diversi anni
in un caffè olandese ad Amsterdam (dove
conobbe quasi tutti i giocatori dell’Ajax
e dove decise di diventare procuratore)
nel 2001 portò Nedved a Torino;
lui che sa perfettamente che questo sarà
l’ultimo anno di calcio per Pavel, sa che
l’anno prossimo, Pavel, allenerà i bambini
piccoli, sa che farà il talent scout in
Europa, sa che Pavel continuerà a giocare
solo se sentirà parlare di una Coppa,
sa che Pavel, dopo aver visto Ibra sventolare
il tricolore con i colori nero e azzurro,
non ha gradito, e ha spento la tv;
sa che quando Pavel ascolta il suo presidente
dire che “con Nedved non bisogna
fare nulla di particolare se non dimostrargli
la grande stima che abbiamo
per lui”, quel nulla di particolare, forse,
non è proprio la formula giusta da utilizzare,
per con uno come Nedved. Nulla
di particolare? Suvvia.
E’ per questo che a Roma dici Nedved
e scopri che c’è qualcuno che di notte, disperato,
continua con il “dammi tre parole”;
è per questo che c’è chi, ora, se
avesse un figlio lo chiamerebbe con quel
nome, e lo chiamerebbe “Pavel”, senza
sapere, però, che a Torino c’è una casa
dove Del Piero lancia le palline, dove la
“giannetta” non arriva da un pezzo e dove
c’è un bambino di otto anni che ha iniziato
a palleggiare, che fa il gioco della
“rana” e che ha lo stesso nome di papà:
si chiama Pavel e di cognome fa Nedved.
Claudio Cerasa
25/08/07

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