sabato 18 agosto 2007

Il Foglio. "Il vero Fenomeno"

Con Zanetti l’Inter ha fatto 13. Oggi c’è un solo capitano. Accettava perfino i cambi di Cuper, ora è il ponte tra il Moratti sfigato e il Moratti campione

Era una maglietta con il numero 4
bianco della Umbro incollato dietro
la schiena, con nove bande verticali nere,
nove bande verticali azzurre, una
stella gialla cucita sopra una lunga P
dentro la cui pancia erano contenute le
lettere “irelli”, con un corsivo che appena
s’intravedeva, nascosto sotto l’azzurro
della maglietta, sotto il nero della casacca.
Nero, azzurro; nero, azzurro. Era,
o meglio, è un maglietta non molto grande,
una taglia L, con la manica destra
leggermente scucita sul bordo, con sette
lettere sopra il numero 4 e con tre parole
ricamate come fossero un sorriso, lì al
centro del petto, sopra lo sterno, sotto
un logo dentro il quale sono annodate,
una dentro l’altra, una C, una F, una I, e
una M che messe in ordine, una dopo
l’altra, non sono altro che le tre lettere
in corsivo nascoste tra le bande nere e
azzurre; F come federazione, C come
calcistica, I come Internazione e poi M,
come Milano. In basso, con il sorriso: Finale
Coppa Uefa 96-97. Non è una maglietta
come tutte le altre, è una maglietta
di Zanetti, una maglietta storica, una
partita terribile. L’allenatore era Roy
Hodgson, la squadra era l’Inter, la serata
era davvero molto bella. Era un giovedì,
era il 21 maggio del 1997. Minuto
numero 119. Inter-Schalke 04. Pagliuca,
Bergomi, Fresi, Paganin, Pistone,
Djorkaeff, Sforza, Ince, Zanetti, Ganz, Zamorano.
Tra un minuto cominciano i rigori,
è la seconda Inter di Massimo Moratti,
il capitano si chiamava Giuseppe
Bergomi. Javier Zanetti, per tutti Saverio,
per tutti “Pupi”, per tutti el “Tractor”,
per tutti, ora, “il Capitano”, aveva
24 anni, era alla seconda stagione all’Inter
ed era proprio come ora, con i capelli
squadrati che ballano alla sinistra e
alla destra di un’indistruttibile riga, con
gli occhi duri, gli zigomi alti, il mento
morbido, il naso un po’ lungo e due quadricipiti
enormi. Zanetti era appena arrivato,
ma era già un fenomeno; giocava
a destra, come terzino, ma per lui andava
bene ovunque. Destra, sinistra. Difesa,
centrocampo magari anche in attacco.
Roy Hodgson, un allenatore particolarmente
apprezzato dalla famiglia Moratti,
quella maledetta sera decise di sostituire
Zanetti con Nicola Berti. Il minuto
è il centodiciannovesimo, Zanetti si
volta verso la panchina, fa uno scatto, si
sfila la maglietta, avvicina le mani quasi
per accennare a un applauso, lancia
la maglietta verso l’allenatore e poi
scompare, va via (anche se negli spogliatoi
non ci entrerà mai, in realtà). Zanetti,
come dire, era piuttosto incazzato. La
maglietta rimane lì, di fronte ai mocassini
neri di uno dei quattordici allenatori
dell’era Moratti (non è da escludere
che Roy Hodgson sia ancora a libro paga
della famiglia, pur allenando la Finlandia),
ed è, quella, una maglietta storica;
una maglietta custodita in un segretissimo
armadio a muro (non milanese),
piegata dentro una scatola di scarpe e
avvolta all’interno di un panno verde; ed
è, quella maglietta, l’unica testimonianza
ufficiale di un qualsiasi gesto di “tensione”
del giocatore più forte della
squadra campione d’Italia; l’unico in 543
partite ufficiali giocate, in dodici anni di
campionati, di trionfali Coppe Uefa, di
tragiche Coppe Campioni e di splendide
coppe Italia durante le quali Javier Zanetti
ha visto cose che voi umani non potete
neppure immaginare. Ha visto passare
accanto a sé, Zanetti, importanti e
indimenticabili giocatori che hanno provato
a risolvere la crisi, anche qui, di
leader a sinistra, dell’ex Ambrosiana; ha
visto passare, accanto a sé, duttili e indubbiamente
interessanti giocatori come
Gianluca Festa, Massimo Paganin,
Salvatore Fresi, Alessandro Pedroni, Jocelyn
Angloma, Alessandro Pistone,
Matteo Ferrari, Fabio Galante, Francesco
Colonnese – detto Ciccio –, Luca
Mezzano, Luigi Sartor, Martin Rivas,
Massimo Tarantino, Taribo West, Zoumana
Camara, Mikael Silvestre, Cyril
Domoraud, Michele Serena, Vratislav
Gresko, Fabio Macellari, Pasquale Padalino,
Lalo Sorondo (è interessante notare
come di alcuni giocatori, oltre alla
difficoltà nel credere siano davvero esistiti,
si inizino a perdere le poche informazioni
somatiche rimaste in memoria)
e ancora, Daniele Adani, Carlos Gamarra,
Giovanni Pasquale, Jéréme Brechet,
Thomas Helveg, Pierre Wome, Nelson
Vivas, senza dimenticare l’ottimo Roberto
Carlos, intelligentemente, però, cacciato
da Roy Hodgson (“Era indisciplinato
tatticamente”) il quale avrà molto
probabilmente ceduto il più volte campione
del mondo per assicurarsi una
prelazione sul uruguagio Fabian Carini,
portiere sudamericano come Javier Zanetti
e ricordato da capitan Zanetti, più
che altro, per essere l’unico giocatore
della storia del calcio mondiale a essere
stato scambiato alla pari per un quasi
pallone d’oro come Fabio Cannavaro
(Carini ora è stato ceduto per una cifra
molto prossima agli euro zero). Perché
gli altri potranno continuare a inventarsi
doppi passi, biciclette, capriole e colpi
dello scorpione, potranno palleggiare
con più pelote su un piede solo e potranno
anche vincere palloni d’oro, Coppe
del mondo, coppe Campioni, ma negli
ultimi tredici anni, in Italia, non è esistito
nessun giocatore come Zanetti. E non
si tratta dell’incredibile balla del “non
ci sono più le bandiere di una volta”, come
in molti provano a convincerci dal
giorno in cui sono arrivati un po’ più di
stranieri in Italia. Balle. Cos’è Del Piero?
Cos’è Francesco Totti? Cos’è Paolo
Maldini? Solo che per capitan Zanetti è
un po’ diverso. Per un terzino destro è
sempre un po’ più difficile diventare, da
fenomeni, “Il capitano”; è un po’ più difficile
diventare un fenomeno di capitano
e riuscire a essere insieme, contemporaneamente,
un po’ come il grande
Giacinto Facchetti, un po’ come Sandro
Mazzola (superato da Zanetti come presenze
ufficiali), un po’ come Roberto
Carlos, un po’ come Giuseppe Bergomi;
specie quando quel signore che un tempo
aveva quei bellissimi baffi neri neri
da Mundial aveva giocato prima di te,
proprio su quei campi, su quelle fasce e
con quella fascia; specie dopo aver passato
dodici anni (dodici, sono davvero
tanti) attraversando ogni zona del campo,
vincendo una coppa Uefa, con Gigi
Simoni, quasi da terzino sinistro, giocando
da fantasista (è successo in una memorabile
partita contro l’Udinese in cui
Zanetti era evidentemente molto più
forte di Zinedine Zidane) con l’incompresa
Inter di Hector Raul Cuper (non è
da escludere che Cuper sia ancora a libro
paga della famiglia Moratti, pur allenando
il Betis); un allenatore, Hector
Raul, che per quasi due anni, se Zanetti
non giocava a centrocampo, al minuto
numero 75, lui lo prendeva e lo sostituiva
con l’enigmatico Nelson Vivas. Andava
sempre così, e mai una protesta. Zanetti
capiva; e poi usciva. Perché la figura
di capitan Zanetti è un ottimo esempio
per provare a spiegare il modo in
cui un po’ tutti gli allenatori interisti degli
ultimi anni hanno provato a risolvere
la crisi di leadership sulla sinistra,
che dopo Andy Brehme e dopo Roberto
Carlos ha trovato riscontri poco positivi
nelle figure di Macellari, Pistone etc. E
bisogna anche capirli, gli allenatori, dato
che, da quando c’è Alvaro Recoba all’Inter,
qualsiasi giocatore dotato di
“piede sinistro” deve, probabilmente
per contratto, utilizzare quel piedino
mancino in maniera tale da non turbar
troppo la sensibilità artistica del Chino
(l’ultimo mancino puro visto pascolare
sulla fascia sinistra dell’Inter è stato il
grintoso Grigoris Georgatos ed è da notare
come l’Inter, lo scorso anno, sia riuscita
a far assomigliare a Darko Pancev
anche il terzino sinistro più forte dei
Mondiali: Fabio Grosso).
Solo che Zanetti, che anche con Mancini
– per colpa di un brasiliano di nome
Maicon – ha dovuto adattarsi un po’
a destra, un po’ a sinistra, un po’ in difesa,
un po’ a centrocampo, ha sopportato
tutto, si è adeguato a ogni situazione e
in dodici anni di Inter (questo è il tredicesimo),
pur apprezzando i pittoreschi
tentativi dei giornali di colore rosa di
voler trovare, ogni anno, un nuovo “vero
leader” dell’Inter, lui in tutto questo
tempo è stato l’unico esempio di “acquisto
di coppia” riuscito dalle parti di Appiano
Gentile, laddove si allena l’Inter
(il gioco dei giornali “rosa” è questo. Si
prende un titolo come quello apparso la
scorsa settimana sulla Gazzetta dello
Sport: “Nel laboratori di Mancini Ibra si
è già preso l’Inter”, e si lavora su questo
titolo, ogni anno, cambiando gli addendi.
Al posto di Mancini ci vanno i vari
Lippi, Lucescu, Verdelli, Bianchi e al
posto di Ibra ci vanno i vari Adriano,
Branca, Zamorano, Centofanti, Macellari,
Pancev etc; con il risultato che l’Inter
tende a credere che, più che trovar un
dannato terzino sinistro, il problema sia
cercare ogni anno un leader in più).
Zanetti è, come si diceva, l’unico
esempio degli ormai mitologici “double”
nerazzurri: la nota formula di “due
giocatori al costo di tre”, ma a prezzo
speciale, che hanno caratterizzato i dodici
anni di Massimo Moratti. Si ricordano
casi come Recoba-Pacheco, Ronaldo-
Gilberto, Farinos-Peralta, Vampeta-Rivas
e poi, il primo di tutti, Zanetti-Rambert.
L’acquisto vero fatto dalla dirigenza
nerazzurra, che però non conferma,
era Sebastian Rambert: un attaccante
di sicuro valore che dopo le zero presenze
in campionato (a ottobre del 1995
venne subito ceduto) è stato avvistato
per l’ultima volta nel 2003 in una squadra
argentina di nome “Arsenal de Sarandì”.
Solo che Zanetti è rimasto all’Inter.
Solo che Zanetti è rimasto all’Inter,
perché lui è un giocatore un po’ particolare,
uno che difficilmente ti fa il doppio
passo e che da piccolo aveva anche
qualche difficoltà a infilare cento palleggi
uno appresso all’altro, ma Zanetti,
oltre a essere il capitano, è ormai l’ultimo
vero esempio dell’ormai smarrito
“orgoglio del terzino destro”. Non è un
fenomeno come Zambrotta, non è un
pendolino come Cafù, non è un pasticcione
come Zebina, Zanetti è invece l’ultimo
rappresentante di una categoria
un po’ trascurata che da anni, partendo
dai campetti meno famosi, cerca di far
comprendere a chi parla “di solitudine”
dell’ultraprotetta ala destra, che la verità,
drammatica, è un’altra: la verità è
che ormai nessuno si occupa più della
tutela del terzinaccio destro; di quel ragazzo
con i piedi un po’ fucilati che arriva
a giocare un po’ tardi a calcio, che
palleggia solo solo in un angolo del
campo di allenamento e che impara a
fare tre palleggi, uno appresso all’altro,
quando gli altri ormai già palleggiano
con le noci di cocco, che si nasconde lì,
accanto alla riga del fallo laterale per
mimetizzarsi tra le borracce appoggiate
di fronte alla panchina; perché il terzino
destro, inutile prendersi in giro, non
è un fenomeno, non lo è quasi mai, e
quando lo diventa è incredibile, è commovente,
è l’orgoglio di un’intera nazione
di “fluidificanti”. Perché lui è quello
che gli allenatori amano chiamare
“mezzo giocatore”, uno di cui, prima di
una partita, solitamente si intrecciano
le mani sperando che non faccia troppi
danni, non che faccia tanti numeri. Lui
è uno che non sogna di diventare come
Ronaldo o come Weah, ma sogna di essere
un incredibile trattorino come capitan
Zanetti. Sogna di potersi circondare
di così tanta leadership da non aver
bisogno di indossare, in alcuni casi,
neppure la fascia da capitano (quando
Ronaldo diventò capitano dell’Inter, la
fascia gliela diede direttamente capitan
Zanetti anche se poi, poco tempo dopo,
quel giocatore – che all’epoca aveva i
capelli corti corti – dopo aver vinto un
pallone d’Oro e una Coppa del mondo,
decise di trasferirsi a Madrid per poi
tornare a Milano e mettersi le mani dietro
alle orecchie, e sentir l’effetto che fa
segnare un gol al derby). Zanetti, negli
anni così così di Massimo Moratti, è
però stato fondamentale anche per un
altro motivo; era lui quello che ci credeva
sempre, era lui quello che ci credeva,
non per contratto (al Real Madrid,
un paio di anni fa, avrebbe guadagnato
parecchio di più), era lui che quando
entrava in porta con il pallone, come
farà certamente anche quest’anno,
prendeva la punta della maglietta e la
baciava come fosse la moglie Paula, e
correva sotto la curva nerazzurra. “Un
capitano. C’è solo un capitano”. E per
anni, forse solo chi è interista può capire,
era lui l’unica ragione per cui ogni
tanto tu guardavi l’Inter, la vedevi pareggiare
contro la Reggina, la vedevi
perder contro lo Schalke, la vedevi perdere,
pareggiando, contro il Milan e tu
credevi che, in fondo in fondo, non era
tutto finito; bastava guardare negli occhi
Zanetti per capire che se lui ci credeva,
se lui non la passava mai, se lui
entrava dentro la porta con il pallone (il
problema di Zanetti non è che la passa
poco, è che la passa troppo), allora, in
fondo, era meraviglioso crederci ancora.
Era meraviglioso sentirsi ancora interisti,
se c’era lui. Anche il 5 maggio
del 2002, quando l’Inter perse lo scudetto
all’Olimpico. Anche il 21 maggio del
1997, quando l’Inter perse la Coppa Uefa
contro lo Schalke 04. Perché sapevi
che lui sarebbe stato l’unico giocatore
in grado di prendere il posto di Giuseppe
Bergomi (chi almeno una volta nella
vita è stato in grado di toccare lo “Zio”,
racconta “l’incontro” con una misticità
paragonabile solo all’arrivo di Dante in
Paradiso, nel Canto XXXIII); perché tu
sapevi perfettamente, anche se non capivi
perché, che lui sarebbe stato il primo
a non voler più parlare di tutte
quelle parole che finiscono in “oggiopoli”
e “alciopoli”. Semplicemente perché,
solo grazie a lui, riuscivi a dare un
senso alle plusvalenze nerazzurre (Coco
per Seedorf, Carini per Cannavaro);
e solo con quella fascia gialla stretta sopra
il gomito, ma che sarebbe stata
stretta volentieri attorno al torace, tu
sei riuscito ad arrivare a vedere, su
quella maglietta, due scudetti cuciti sul
petto, uno dietro l’altro (seppur uno sia
stato vinto al telefono, seppur nella maglietta
che festeggia il centenario qualcuno
ha confuso la data di fondazione
dell’Inter scrivendo l’8 marzo al posto
di 9 marzo). Solo grazie a Zanetti il tifoso
interista è riuscito a sopravvivere alla
poco eccitante letteratura interista,
al micheleserrismo dell’“Inter è la metafora
del mondo”, all’acutissimo beppesevergninismo
che ha portato alla
composizione di piccoli capolavori come
“Il piacere di essere neroazzurri”,
“Altri interismi. Un nuovo viaggio nel
favoloso labirinto nerazzurro”, “Manuale
dell’imperfetto sportivo”, “Tripli
interismi! Lieto fine di un romanzo neroazzurro”.
E la sua, quella di Zanetti,
è esattamente la perfetta carriera del
terzino destro, anche se un terzino destro
vero non si fa espellere così poche
volte in tredici anni. E’ stato capitano
dell’Inter, è stato capitano dell’Argentina
e, in perfetto e drammatico spirito
interista, è diventato famoso per aver
perso una Coppa America contro il
Brasile di Adriano dopo aver condotto
mezza partita per 2 a 0 (Zanetti ha giocato
151 partite con la maglietta bianco
e azzurra della Nazionale, poi il suo
allenatore, dopo che Pelè lo inserì tra
i 100 giocatori più forti del mondo, decise
di non convocarlo più, e chissà
perché una delle Argentine più forti
da Maradona in poi – a parte il fatto di
avere Nicolas Burdisso sulla linea difensiva
– è stata eliminata ai quarti di
finale in Germania, l’anno scorso). Ma
Zanetti non è solo quell’eroe romantico
epicamente descritto come il Dartagnan
nerazzurro, lui è un vero genio, è
il fenomeno dell’esportazione dell’interismo
negli anni in cui, a dire Inter,
quasi ci si toccava, se non eri Severgnini;
l’unico grazie al quale, nell’Inter, c’è
ancora qualcuno che può permettersi
qualche doppio passo e che, ogni tanto,
poi qualche pallone d’oro lo vince pure.
E’ lui l’unico che, da solo, ha sopportato,
in ogni zona del campo, i 15
portieri, i 63 difensori, i 66 centrocampisti
e i 42 attaccanti che hanno deliziato
la Pinetina di Appiano Gentile
negli ultimi dodici anni; l’unico che sa
esattamente cosa intende Massimo Moratti
quando, per spiegare l’interismo,
parla di “un grande esercizio di pazienza”.
Ed è proprio per questo, che –
anche se non succederà mai – il giorno
in cui Zanetti finirà di giocare a calcio,
potrebbe essere lui il primo giocatore
nella storia dell’Inter a veder il suo numero
4 ritirato dal campo; dopo 543
partite con l’Inter, dopo tredici anni tra
Verdelli, Angloma, Domoraud, Silvestre,
Fresi, Farinos, Vampeta, dopo dodici
compleanni passati tra Helveg, Gamarra,
Gilberto, Gresko e Macellari e
con una sola, storica, maglietta buttata
per terra, non si può che chiederlo,
non si può che sognarlo, dato che Zanetti
ha appena fatto 34 anni: e li ha
fatti il dieci agosto, nove giorni fa,
quando le stelle cadono giù, e tu allora
esprimi un desiderio.
Claudio Cerasa
18/08/07

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Non c'azzecchi niente con Beppe Di Corrado, tu, vero?

Claudio Cerasa ha detto...

No,lui è un fenomeno.