domenica 5 aprile 2009

Il Foglio. "Due o tre ragioni per cui soltanto lo shopping ci salverà dai disastri economici"

Per chi non ama perdere pomeriggi interi lungo le strade della propria città – tenendo stretto tra le mani il cartone caldo dei bicchieri di Starbucks e provando soddisfazioni sincere nell’entrare e nell’uscire in modo nevrotico da tutti i negozi che si presentano a portata di carta di credito, scegliendo sempre con accortezza i momenti peggiori della giornata per districarsi tra commesse impazzite, turisti posseduti e cassiere incazzate – potrebbero sembrare persino normali, persino giustificate, le parole e gli sguardi con cui due giorni fa Renato Brunetta ha freddato gli inconsolabili professionisti dello shopping compulsivo. “Non voglio più che le signore scappino dagli uffici e dai tornelli per fare la spesa”, ha detto il ministro della Funzione pubblica trasformando in una piccola eroina degli shoppingari la collega ministra Mara Carfagna – che alle parole di Brunetta ha risposto proprio così: “Non fatevi scoraggiare. Non cadiamo nelle facili provocazioni”. Facile da dire: in un momento in cui la crisi strozza la fiducia di ogni genere di consumatore non esiste un rimedio più naturale per dare ossigeno all’economia dello sguinzagliare per le strade delle città i professionisti dello shopping compulsivo – ovvero quei preziosissimi tipi di consumatori che comprano in maniera allegramente nevrotica cose di cui potrebbero fare fortissimamente a meno e che sanno perfettamente che se i soldi non comprano la felicità invece i saldi una mano gliela danno di sicuro. Se non bastasse il fatto che in tempo di crisi non esiste un indicatore economico più efficace di un guardaroba per capire lo stato d’animo di un consumatore, e per calcolare con disinvoltura la sua propensione al risparmio, a spiegare che quella di Brunetta non è stata una mossa esattamente azzeccata ci pensa anche una parolina appena coniata da due famosi ricercatori americani; una parola che in inglese si scrive Yperopia, che si traduce come sindrome del risparmiatore e che è stata inventata da due professori piuttosto noti come Anat Keinan (Harvard) e Ran Kivetz (Columbia University).
“La gente – hanno spiegato i professori pochi giorni fa al New York Times – si sente colpevole nel confessare una predisposizione all’edonismo, ma via via che il tempo passa il senso di colpa scema. E a un certo punto accade il contrario: in pratica, ci si lamenta per i piaceri persi”. Di questi tempi, dunque, qualsiasi tentativo di mettere in circolo parole che possano rallentare l’unico antidoto possibile alle crisi isteriche, ancora prima di quelle economiche, dovrebbe essere quantomeno sconsigliato agli uomini di governo, e se c’è chi fa notare come le foto del nostro presidente del Consiglio – settimanalmente ripreso in mezzo a negozietti pieni di bancarelle zeppe di collanine, accanto alle quali non perdono occasione per nascondersi giornalisti travestiti da cactus – diano un apprezzabile sostegno a tutti gli spendaccioni che vivono nella speranza di poter sperperare il prima possibile i propri averi in cose perfettamente inutili e insignificanti, ci sono però alcune cose che andrebbero ulteriormente spiegate a chi non conosce la formidabile leva economica che si nasconde nel portafoglio dello shoppingaro compulsivo. Le persone poco lungimiranti, si sa, continueranno a circoscrivere in quota “irrazionalità” un certo tipo di approccio nei confronti dello shopping (è successo la scorsa settimana, quando gli psicologi inglesi dell’Università dell’Hertfordshire hanno sostenuto che per le signore la voglia di shopping matta e disperata è solo una “risposta allo stato d’animo tipico della sindrome premestruale”, e il sondaggio ha trovato subito però una degna risposta in una ricerca tutta italiana – “E tu di che shopping sei?” – che ha invece dimostrato come “nonostante la difficile congiuntura economica permane il desiderio di comprare ciò che piace senza pensare alla spesa” e come il 55 per cento delle persone sottoposte al sondaggio hanno dichiarato che “se vedono qualcosa devono averlo subito”).
La verità però è che nel mondo degli spendaccioni i sensi di colpa per le spese folli sono direttamente proporzionali alla percezione che si ha dello stato della bufera economica, perché non c’è dubbio che più grave la crisi viene percepita e più quegli interi pomeriggi passati, per esempio, nei meravigliosi camerini di Zara saranno vissuti sempre più come il proprio personale contributo nel far respirare l’economia, e nel convincere una volta per tutte il mondo intero che l’unico modo per non aggravare la crisi sono quei meravigliosi ormoni della crescita economica messi in circolo da tutti quegli spendaccioni che girano in centro tenendo in mano i bicchieri caldi di Starbucks.
Claudio Cerasa
6/04/09