mercoledì 25 marzo 2009

Il Foglio. " Le affinità elettive (ed elettorali) tra i due gagliardi “partiti puzzoni”

Per provare a rubacchiare voti alle ritrovate vocazioni maggioritarie del Partito democratico e del Popolo della Libertà, capita ormai da un po’ di tempo che i due partiti più smaliziati di questa legislatura – la Lega e l’Italia dei valori – si ritrovino sempre più spesso a condividere posizioni non più così distanti l’una dall’altra. E’ successo ieri alla Camera con il disegno di legge sul federalismo (a differenza del Pd, la Lega ha votato a favore), è successo due settimane fa con gli emendamenti presentati dalla Lega sulla castrazione chimica, è successo dieci giorni fa quando il governatore Mario Draghi ha promesso nuove regole sulle remunerazioni previste per i manager italiani, accadrà tra qualche giorno quando si inizierà a discutere davvero su dove mettere la crocetta al prossimo referendum elettorale e accade ormai con una certa continuità persino all’interno di alcuni consigli comunali del centro Italia (due settimane fa, per esempio, al comune di Fabriano, Lega e Idv hanno votato insieme un provvedimento di assegnazione delle case popolari).

Parlare di asse sarebbe semplicemente una forzatura, ma è un fatto che la Lega nord e l’Italia dei valori stiano imboccando la strada che porta alle elezioni di giugno con strategie politiche decisamente simmetriche. Prendete per esempio le parole rilasciate ieri anche a questo giornale dal capogruppo dell’Italia dei valori alla Camera, Massimo Donadi. “Votiamo sì al federalismo perché questo è il primo atto, in un anno di legislatura, davvero frutto dell’attività del Parlamento. Per dieci giorni la Camera è tornata a essere il luogo dove si fanno le leggi. Di questo ringraziamo il ministro Calderoli. Al quale diamo voto dieci per come ha accettato che fosse proprio il Parlamento il vero protagonista di questo disegno di legge, riappropriandosi delle sue funzioni”.

Il dieci in pagella al ministro della semplificazione è un dato politico che però potrebbe far sorridere pensando a quello che successe nemmeno due anni fa, quando l’Italia dei valori – durante le elezioni politiche – scelse di scimmiottare le vecchie campagne elettorali della Lega tappezzando il nord di manifesti simili a quelli realizzati solo qualche mese prima dal partito di Bossi. Il messaggio politico dei manifesti leghisti – “Sveglia padano! Con la Lega nord contro Roma ladrona” – era ben riassunto dall’immagine di una giovane gallina padana le cui uova d’oro finivano dritte dritte nel cesto di una poco aggraziata signora meridionale. Qualche mese dopo, con ironia, la gallina dalle uova d’oro veniva riprodotta sui manifesti elettorali dell’Idv con uno sguardo decisamente spaesato accanto a parole che criticavano la stessa legge votata ieri dal partito di Di Pietro: “Il federalismo di Berlusconi? Il conto lo paga il nord”.

Che cosa è successo in questi mesi? Com’è possibile che l’Italia dei valori sia diventata così leghista da non voler votare il piano casa del Cav. proprio perché metterebbe a rischio il federalismo appena approvato alla Camera? Dice al Foglio Angelo Panebianco, professore di Scienze politiche all’Università di Bologna ed editorialista del Corriere della Sera. “Non è un caso se per certi versi sembrano sovrapponibili le scelte politiche di Lega e Italia dei valori. Questo capita anche perché in situazioni di crisi economica il messaggio un po’ più estremista ha sempre più chance del messaggio moderato, e la Lega e l’Idv, dunque, potrebbero sfruttare la crisi per tentare con successo di aumentare il proprio bacino di consenso. Dall’altro lato, però, la Lega sembra abbia intenzione di sfruttare lo spazio lasciato libero dall’aggregazione di due partiti come Forza Italia e An per riuscire a trasformarsi sempre più in un’indispensabile cerniera tra il centrodestra e tutto il centrosinistra”.

Dietro alle recenti strategie simmetriche della Lega e dell’Idv c’è però qualcosa di più. C’è qualcosa legato al tentativo dei due partiti di andare a sedurre gli elettori laddove non li avevano mai conquistati. Perché se da un lato Di Pietro sta preparando la sua scalata al nord dall’altro è ormai ufficiale che Bossi è pronto a portare il suo partito al sud dell’Emilia Romagna. “Io penso – dice al Foglio il deputato della Lega Matteo Salvini – che più che una voglia di dialogo, l’Italia dei valori ha semplicemente capito che se vuole sfondare qui in Padania gli unici argomenti che hanno un certo peso sono quelli della Lega”.

Ma se era scontato che Di Pietro provasse a fare concorrenza al Pd anche al nord (dove gli ultimi sondaggi proiettano l’Idv al sei per cento) era invece meno prevedibile quello che sta cercando di fare al sud il partito di Bossi, perché quando tra dieci giorni la Lega presenterà la lista completa dei suoi candidati alle amministrative e alle europee ci sarà una sorpresa che il senatore leghista Gianni Fava anticipa al Foglio: “Al sud – dice Fava – abbiamo tre obiettivi: raggiungere i 200 mila voti, eleggere due parlamentari nati proprio da queste parti e presentare i nostri candidati alle amministrative in alcune città dell’Abruzzo, della Sardegna e del Lazio. Oggi come oggi, sinceramente, posso dire che sono tre obiettivi alla nostra portata”.
Claudio Cerasa
25/03/09

mercoledì 18 marzo 2009

Il Foglio. "Il Cattovelocista"

E’ rimasto scottato con Marini, ha un buon rapporto con Bagnasco, ha uno staff ristretto di fedelissimi e alla sera racconta barzellette così così
La metafora che Walter Veltroni utilizzava spesso per descrivere il percorso politico del Partito democratico era quella di un giovane e generoso maratoneta a cui improvvisamente veniva chiesto di scendere in pista per gareggiare su distanze molto diverse, e molto più difficili, rispetto a quelle su cui si allenava da anni. Veltroni credeva che il Pd fosse un progetto che nel bene e nel male doveva essere valutato soltanto nel momento in cui il partito sarebbe stato messo nelle condizioni di correre l’unica gara per la quale non ci sarebbero state più scuse in grado di nascondere una sconfitta: il che naturalmente significava non prima delle prossime elezioni politiche. La bella metafora di Veltroni, però, non è servita a creare attorno al partito quella pazienza che l’ex sindaco considerava necessaria per non uccidere il progetto del Pd, e così non può certo sorprendere che la prima piccola rivoluzione della segreteria Franceschini sia stata proprio quella di togliere al Pd le scarpette da maratoneta e sostituirle una volta per tutte con quelle leggere e chiodate, fatte per correre come i centometristi quei novanta giorni che restano al nuovo segretario per tentare di far rinascere il partito, e perché no per provare persino a conquistarlo. E’ anche per questo che chi conosce bene il politico che per i prossimi tre mesi guiderà il più importante partito dell’opposizione un po’ sorride oggi quando rilegge quelle parole rilasciate in questi giorni dal segretario. “Lo ripeto: il mio lavoro finisce a ottobre”.

Quello che però tutti sanno nel gruppo dei parlamentari e dei collaboratori che lavorano ogni giorno a stretto contatto con Franceschini è che se le elezioni della prossima primavera non saranno percepite dall’elettorato del Pd come così disastrose, e se il Pd riuscirà a superare senza troppe difficoltà quota venticinque per cento, l’ex vice di Veltroni, l’ex vice di Rutelli, l’ex vice di Marini e l’ex spalla di D’Alema ai tempi di Palazzo Chigi sarà senza dubbio candidato a guidare il partito fino alle elezioni politiche. Per questo, nelle prossime settimane Franceschini cercherà di fare la stessa cosa che gli riesce ormai con un certo successo da circa trentacinque anni; la stessa cosa che un giorno fece confondere Francesco Cossiga (che in un’intervista a Libero definì Franceschini “un ex ds”, e Franceschini fu persino costretto a precisare che sinceramente nei Ds lui non c’era mai stato); la stessa cosa sulla quale il “cattocomunista” Franceschini ha ironizzato ieri in un’intervista all’Espresso (“La mia deriva a sinistra è inarrestabile”); e la stessa cosa che gli riuscì per la prima volta nella sezione E del liceo scientifico più importante di Ferrara, il Roiti, quando il futuro segretario del Pd scoprì qual era il trucco per fare innamorare di sé la sinistra.

All’epoca, Dario aveva sedici anni, aveva i capelli molto lunghi, sedeva al terzo banco della fila centrale con Alessandro Bratti (oggi deputato del Pd) e adorava le lezioni di filosofia di uno strano professore che fumava in classe e insegnava ai ragazzi soltanto tutto quello che secondo lui politicamente era alla sinistra di Marx. Al terzo anno di liceo, Franceschini si candidò come delegato di istituto e fu in quell’anno, alle elezioni del 1976, che Dario presentò una lista con quelle tre parole scritte in nero su uno sfondo bianco (Asd, associazione studentesca democratica) con le quali vinse la prima elezione della sua vita. Di lì a poco, Franceschini sarebbe diventato prima consigliere comunale, poi assessore alla Cultura, avrebbe sfidato al comune l’allora sottosegretario di Giulio Andreotti, Nino Cristofori, e avrebbe continuato a studiare il mondo della sinistra nella vecchia sezione degli Enti locali del Partito comunista ferrarese: dove Dario giocava spesso a carte con gli amici e dove il padrone di casa era proprio il papà del suo compagno di banco Alessandro.

Ex partigiano, così come ex partigiano è stato il papà del segretario. “Se dobbiamo valutare le prime due settimane di segreteria – racconta un importante dirigente ex ds, molto vicino a Walter Veltroni, e che per questo chiede l’anonimato – Dario Franceschini sta facendo molte cose persino più a sinistra di quelle che poteva permettersi Walter. Il fatto è che, a differenza di Veltroni, Dario può permettersi di spostare il baricentro del partito a sinistra, e può fare questo perché al centro si sente più che coperto, perché da cattolico praticante non avrà difficoltà per sfondare al centro, e sarà anche per questo che se si va avanti così alla fine saremo noi ex diessini a volerlo votare a ottobre”.

C’è però una ragione precisa per cui il nuovo segretario del Partito democratico è sempre molto prudente quando parla del suo futuro politico. Sarà pur vero che i democristiani non si candidano mai a cariche politiche, e si limitano semmai ad approvare “per spirito di servizio” gli incarichi che il partito chiede loro di accettare. Ma il fatto è che ci sono almeno un paio di episodi nella vita politica di Franceschini che spiegano bene come l’unica volta in cui il segretario del Pd era stato considerato il candidato ideale per un’importante carica di partito non gli andò mai molto bene. Dunque, meglio diffidare.

L’episodio più significativo risale al 1999, ed è un episodio che lega Dario Franceschini in modo traumatico a Franco Marini. In quell’anno, a Rimini, poco prima del congresso del Partito popolare, il segretario dimissionario Franco Marini aveva appena scelto il suo successore, e tutto era deciso: Franceschini (che all’epoca aveva trent’anni e che era vice dello stesso Marini) era stato indicato come l’unico politico in grado di far compiere ai vecchi democristiani un vero “salto generazionale”. Per settimane e settimane le parole di Marini erano state queste: “Dopo di me c’è solo Dario Franceschini”. Il giorno prima del congresso, però, Marini chiamò Franceschini nella sua stanzetta di Piazza del Gesù, gli chiese improvvisamente di ritirare la sua candidatura e gli spiegò che in quel momento il partito voleva puntare su un altro nome: Pierluigi Castagnetti. A quel punto, Franceschini convocò una conferenza stampa, decise di non rinunciare alla candidatura, affrontò Castagnetti, raccolse il sedici per cento dei consensi totali e arrivò secondo. Fu una batosta, e sotto sotto quello scherzetto Franceschini a Franco Marini non gliel’ha mai perdonato. Mai: neppure oggi che uno dei tre vertici di quel triangolo popolare da Marini, Fioroni e Franceschini è diventato il capo del secondo partito d’Italia.

Perché una delle storie politiche forse più interessanti da raccontare in questo momento nel Pd è quella che riguarda il rapporto che esiste oggi tra gli ex dirigenti del Partito popolare. Per chi non fosse perfettamente informato su tutta la complessa e forse poco appassionante geografia politica del Pd, i popolari sono l’ossatura su cui si è formata la leadership di Walter Veltroni, sono i parlamentari e i dirigenti che più degli altri sono stati fedeli all’ex sindaco di Roma, sono una delle forze più rappresentate nel partito, una delle più importanti nel Parlamento (tra Montecitorio e Palazzo Madama ci sono almeno sessantacinque parlamentari di rito popolare) e come è facile immaginare c’è chi nel Pd non ha mai apprezzato il modo in cui questa piccola corrente che un tempo fu della Dc e un tempo della Margherita sia diventata così potente, tanto che non è difficile trovare qualche ex diessino indispettito che parlando dei popolari alla fine la mette così. “Il crocifisso nelle nostre stanze noi sinceramente non lo vogliamo più”.

Il dato paradossale però è che l’elezione di Franceschini ha avuto l’effetto imprevisto di complicare i rapporti tra gli ex popolari. Nei quindici mesi di interregno veltroniano Fioroni e Franceschini avevano provato in tutti i modi a sottrarre spazio a Franco Marini, e avevano così costretto l’ex presidente del Senato a riavvicinarsi sempre di più a Massimo D’Alema – non è certo un caso che poco prima della fine dell’anno in un incontro riservato D’Alema e Marini hanno deciso di puntare le proprie fiches per il futuro del partito su Pier Luigi Bersani. Da quando però Franceschini è diventato segretario nazionale la situazione si è ribaltata: il leader del Pd ha tolto la macchina del partito dalle mani di Fioroni per affidarlo al fassiniano Maurizio Migliavacca, e chi conosce bene Fioroni giura che l’ex ministro dell’istruzione (ora responsabile educazione del Pd) sia ormai pronto a dare battaglia a Franceschini, soprattutto sui temi di bioetica.

Perché sarà proprio su questi temi che Franceschini troverà forse più difficoltà nel suo partito. Perché Franceschini si considera un “cattolico adulto”, perché ai tempi della Margherita fu lui a guidare il piccolo plotone dei popolari che si dimistrò favorevole sia ai Dico sia al testamento biologico, perché pur essendo molto buoni i suoi rapporti con il mondo della chiesa (il segretario del Pd conosce bene sia monsignor Paglia – vescovo di Terni e grande tessitore della Comunità di sant’Egidio – sia l’arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra, sia il presidente della Cei Angelo Bagnasco) le sue posizioni sui temi bioetici vengono considerate dal cuore cattolico del Pd – soprattutto quello più vicino a Francesco Rutelli – un po’ troppo deboli. “Dario – spiega al Foglio il senatore Francesco Saverio Garofani – si considera un cattolico adulto e naturalmente democratico, e come tutti noi ha studiato sui testi di Jacques Maritain, di Giuseppe Lazzati e di Giorgio la Pira. Dario è democratico nel senso conciliare del termine: nel senso della piena assunzione della propria responsabilità politica e nel senso della distinzione dei piani di impegno tra fede e politica”.
Poi però c’è tutto il capitolo che riguarda i suoi rapporti con Massimo D’Alema. C’è chi dice che l’abbraccio che l’ex ministro degli Esteri sta offrendo in questi giorni al nuovo segretario potrebbe essere fatale e che potrebbe avere lo stesso effetto di quel morso dello scorpione già assaggiato negli ultimi mesi da Walter Veltroni.

Ma se oggi D’Alema dice che “Franceschini ha dato un profilo più chiaro alla nostra opposizione”, che il segretario “si sta muovendo bene” e che ora “c’è un clima più sereno nel partito”, forse però c’è anche qualcosa di più. Nel mondo di Franceschini sono in molti i dirigenti di partito convinti che con D’Alema esiste in realtà un feeling che risale agli anni in cui a Palazzo Chigi Max nominò Franceschini sottosegretario alla presidenza del Consiglio. In quel periodo, l’allora numero due di Franco Marini era il politico che aveva l’incarico di trattare sulle riforme con il centrodestra, e fu in quei mesi che Franceschini conobbe sia Gianni Letta sia Silvio Berlusconi (con Letta, tra l’altro, Franceschini è legato anche da una curiosa vicenda familiare: la mamma del segretario è stata compagna di liceo ad Avezzano proprio di Letta). La battaglia più importante che D’Alema e Franceschini combatterono insieme fu il tentativo di trasformare in francese il nostro sistema elettorale. In quegli anni, poi, ci fu però qualcosa che non funzionò, e l’asse tra Franceschini-Marini e D’Alema si spezzò clamorosamente quando – sono parole dei popolari – “D’Alema non rispettò il patto con noi sul candidato da presentare per la presidenza della repubblica (doveva essere Rosa Russo Jervolino)” e quando i popolari liquidarono pubblicamente il premier con queste parole. “Non sono arrabbiato con D’Alema – disse Marini – sono furibondo. Io mi sono fidato di una persona sola: lui mi ha fregato”.

C’è però un altro aspetto da non sottovalutare del mondo franceschiniano ed è il rapporto del segretario con l’establishment italiano. Franceschini è uno dei pochi leader del centrosinistra ad avere ancora oggi una solida rete di conoscenze sia nel mondo della finanza sia in quello dell’imprenditoria. Carlo De Benedetti è molto affezionato al nuovo segretario, l’ingegnere invita l’ex vice di W a cena almeno una volta al mese e c’è chi dice che consideri Franceschini come l’ultima carta possibile da giocare nel Pd dei suoi sogni – e non è certo un caso, poi, che il nuovo segretario sia il dirigente del Partito democratico più intervistato da Repubblica negli ultimi due anni (diciannove volte) e non è neppure un caso che la prima intervista concessa a un giornale dal Franceschini segretario sia stata pubblicata sul settimanale di cui CDB è editore: l’Espresso.

Ma la rete di Franceschini non si ferma soltanto a CDB, perché il segretario ha ottimi rapporti anche nel mondo della finanza: a Siena, i migliori sono quelli che Franceschini ha con due tra i più importanti uomini della Monte dei Paschi – ovvero con Giuseppe Mussari (presidente di Mps) e Gabriello Mancini (numero uno della fondazione Mps); a Brescia, Franceschini è legato da una vecchia amicizia con Giovanni Bazoli; a Milano, l’ex vice di Walter Veltroni ha invece un ottimo rapporto con il presidente della Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti. Racconta un senatore del Partito democratico che molte di queste amicizie sono nate negli anni in cui Franceschini è stato nominato membro del collegio dei revisori dell’Eni. Era il 1988, e la scalata di Dario comincia anche da qui.

Oggi l’idea di Franceschini – racconta un senatore del Partito democratico che lo conosce bene – è quella di provare ad appoggiarsi anche su questa rete per provare a trasformare se stesso in una sorta di versione ringiovanita di Romano Prodi. E’ proprio questo uno dei motivi per cui Silvio Berlusconi un po’ Franceschini lo teme davvero: il presidente del Consiglio non soltanto considera Franceschini un politico efficace in televisione, ma quello che forse più teme il premier è di doversi confrontare alle elezioni con un leader che non può essere certo accusato di essere stato semplicemente un comunista”.

Uno degli aspetti politici che potrebbe segnare un importante punto di discontinuità tra il vecchio e il nuovo segretario potrebbe essere anche il rapporto con Antonio Di Pietro, perché ancor più di Walter Veltroni Franceschini considera “innaturale” l’alleanza elettorale con l’Italia dei valori, e le idee del segretario su Di Pietro oggi non sono molto diverse da quelle che aveva qualche tempo fa: “L’elettorato cattolico – è sempre stato il pensiero del segretario – non sarà disposto a votare gente come Di Pietro”.
Ma a quasi un mese dal passaggio di consegne tra Veltroni e Franceschini c’è un altro aspetto del mondo franceschiniano molto diverso rispetto a quello del suo predecessore: lo staff. Gli uomini che lavorano a stretto contatto con l’ex vice di W. hanno una storia più radicata nella politica rispetto a quelli che fino a poche settimane fa scortavano Walter, e se c’è un tratto che più degli altri accomuna i cinque uomini che il segretario convoca una volta a settimana nella sua stanzetta al secondo piano di Largo del Nazareno – dove Franceschini parla delle sue idee, anticipa i suoi discorsi, prepara gli appuntamenti della settimana e dove spesso ripete che lui non avrà certo bisogno di un vicesegretario – è la comune provenienza politica.

Piero Martino (portavoce), Alberto Losacco (deputato, cresciuto con Arturo Parisi), Francesco Saverio Garofani (deputato e responsabile di Quarta Fase: la Red di Franceschini), Antonello Giacomelli (deputato) e Gianluca Lioni (ghost writer del segretario e responsabile del terzo settore del Pd) sono tutti ex Ppi, hanno militato tutti quanti nelle giovanili dei popolari e tra di loro sono in molti quelli a essere cresciuti nel vecchio quotidiano della Dc, il Popolo. Garofani è stato l’ultimo direttore, Martino – prima di diventare potente portavoce di Marini – è stato caporedattore e persino il più piccolo del gruppo, Lioni, dieci anni fa curava le pagine dei giovani del Popolo. Nello staff di Franceschini raccontano però che chi conosce meglio di tutti il segretario è una persona che lo segue dalle giovanili, che lo ha scortato nelle stanze di piazza del Gesù, di Palazzo Chigi, di Largo del Nazareno e che lo accompagna in giro per l’Italia da quasi trent’anni.

Si chiama Roberto Prudente, è stato autista della Dc, dei Ppi, della Margherita e del Pd, è l’unico che riesce a tenere testa alle barzellette che il segretario racconta ogni sera a fine cena – e che racconta soltanto dopo aver appuntato su un foglietto di carta tutte quelle ascoltate dagli altri – ed è anche uno dei pochi amici di Franceschini che era presente quel pomeriggio del 1976 a Roma, al Palaeur, quando Dario aveva diciotto anni, quando era stato appena nominato delegato della Democrazia cristiana, quando il congresso della Dc preferì Benigno Zaccagnini ad Arnaldo Forlani e quando alla fine della giornata il futuro segretario festeggiò l’elezione di Zac alla segreteria quasi come se fosse un vecchio comunista, cantando e ballando sulle note di Bella ciao. Alla fine di quel congresso, Zaccagnini disse che sarebbe stato un leader di “transizione” e che mai si sarebbe ricandidato alla segreteria della Dc. Quattro anni dopo Zaccagnini era ancora lì.
Claudio Cerasa
14/3/09