lunedì 26 gennaio 2009

Il Foglio. "La mela ammalata"

Il corpo di Steve Jobs sta scomparendo dentro il suo maglione a collo alto. Ma cos’è il corpo di Jobs? Musica, immagini eteree e comunioni virtuali
Mentre lo vedi scomparire dentro il suo maglione a collo alto, mentre lo vedi parlare con le braccia che si allargano e che si avvicinano come ali di farfalla, mentre lo vedi camminare – con i soliti jeans, con i soliti occhiali e con le solite scarpe da ginnastica – sotto l’immagine fissa di uno schermo al plasma e mentre lo vedi lì, immobile di fronte a quelle parole con cui ha scelto di condividere col mondo la sua malattia – “The reports of my death are greatly exaggerated”, le voci sulla mia morte, ha ricordato lui stesso con un sorriso, sono oltremodo esagerate – ti accorgi che il corpo di Steve Jobs, che il corpo dell’inventore e dell’anima di quel gioiello che è la Apple, non è solo il corpo malato del grande manager che rischia improvvisamente di sparire, non è solo l’identificazione completa di un uomo con il prodotto da lui creato e non è solo la trasformazione, o forse la trasfigurazione, di una persona in un’immagine che ha ormai raggiunto sfumature a metà tra il mistico, il sacro e l’iconografico.

C’è molto altro nella storia più recente, e più drammatica, di Steve Jobs: nella sua convivenza con quella malattia, con quel tumore al pancreas che i medici dello Stanford University Medical Center di Palo Alto fotografarono dentro la sua pancia alle 7,30 di una mattina di ottobre di sei anni fa: con quei dottori che pochi giorni dopo gli dissero di andare a casa a mettere “ordine nei suoi affari” e con Steve – lo racconterà lui stesso pochi mesi dopo in una bellissima lettera inviata ai soci di Apple – che all’epoca non sapeva nemmeno che cosa fosse, quel maledetto pancreas. Glielo spiegarono subito i dottori, gli spiegarono che il pancreas produce ormoni molto importanti, che questi ormoni regolano il livello degli zuccheri nel sangue, che gli enzimi prodotti dagli ormoni consentono la digestione di una parte dell’intestino e che tutto questo ora nel suo corpo non funzionava più: il tumore aveva creato un effetto a catena, aveva moltiplicato rapidamente le cellule nella testa dell’organo e per questo – così gli avevano detto – aveva dai tre ai sei mesi di vita. Non di più. Steve cominciò così a perdere peso, come gli succede oggi: dimagrì dentro il suo maglione nero, scelse di curarsi con la medicina alternativa, seguì una dieta speciale per evitare di essere operato e lo fece fin quando, dopo aver fatto nuove analisi, scoprì che la massa tumorale era diventata ancora più grossa, e che a quel punto l’operazione era diventata semplicemente necessaria.

Era il 31 luglio del 2004: quel giorno le azioni Apple persero il due per cento del proprio valore, e la storia clinica del corpo di Steve continuerà a far fare su e giù, su e giù su e giù al titolo della Apple per altri cinque anni, fino ad oggi. Fino ad arrivare a quella lettera che Jobs ha inviato pochi giorni fa a tutti soci della Mela. Questa: “Sono sicuro che tutti voi siete a conoscenza della mia lettera della scorsa settimana, in cui ho condiviso elementi molto personali con la community Apple. Sfortunatamente, la curiosità sul mio stato di salute continua a distrarre non solo me e la mia famiglia, ma tutti in Apple. Inoltre, durante l’ultima settimana, ho appreso che i miei problemi di salute sono molto più complicati di quello che pensassi. Per sottrarmi dalle luci della ribalta e concentrarmi sulla mia salute, e per favorire la concentrazione di tutti in Apple verso i suoi prodotti straordinari, ho deciso di prendermi un congedo medico fino alla fine di giugno. Ho chiesto a Tim Cook di responsabilizzarsi per le operazioni quotidiane di Apple, e sono certo che lui e il resto dei dirigenti esecutivi faranno un ottimo lavoro. In qualità di Ceo ho chiesto di essere coinvolto per le decisioni strategiche quando sarò fuori. Tutto il consiglio di amministrazione mi ha appoggiato in questa scelta. Attenderò con ansia di vedervi tutti questa estate. Vostro, Steve”.

E’ stato subito panico: la lettera di Jobs ha fatto precipitare di dieci punti il titolo della Apple, i soci hanno cominciato a vendere azioni, la “comunità”, come la chiama Jobs, è entrata nel pallone e in poco tempo – come ha calcolato il Sole 24 Ore di martedì scorso – alla fragilità del corpo di Steve Jobs è stato dato anche un valore: due miliardi di euro, ovvero la differenza esatta tra la capitalizzazione di Apple dal giorno di chiusura delle borse e il momento in cui per la prima volta il suo mondo ha provato a immaginarsi una Mela senza uno Jobs. Era già successo nel 2004, quando Jobs scoprì di essere malato. Era già successo nel 2000, quando Steve si ritrovò nei pasticci per uno scandalo legato a una serie di azioni retrodatate. In quell’occasione Gene Munster, analista della Piper Jaffray, spiegò che in caso di dimissioni del numero uno Apple la società avrebbe perso qualcosa come il 20 per cento del capitale azionario. Il tutto sarebbe successo nel giro di una notte. Solo una notte.

Ma il corpo di Steve Jobs – un corpo oggi così debole, così sottile e naturalmente così fragile – è molto più che un semplice calcolo matematico: inevitabilmente, la sua malattia è in un certo senso anche la malattia di Apple, è un virus che diventa male non solo fisico, non solo economico ma anche informatico, persino multimediale, e non era mai successo prima d’ora che ci fosse qualcosa come il corpo di Steve che diventasse il punto di incontro perfetto tra un virus biologico e un virus digitale: qualcosa che riuscisse allo stesso tempo a mordere ora lo stomaco di un manager ora il corpo di un’azienda. Perché quello tra Jobs e la sua società è un rapporto viscerale, carnale, verrebbe da dire quasi erotico. Jobs è il Mac su cui scriviamo gli articoli. Jobs è l’iTunes da cui scarichiamo la musica. Jobs è l’iPod da cui ascoltiamo le canzoni. Jobs è la mela. Jobs è quasi ontologicamente la Apple, ed è lui il pezzo unico con cui la Mela morsa riesce a essere perfettamente completa. Unica. “Esistono pochi altri casi di condivisione e identificazione completa di un uomo con il suo prodotto, di un manager con la sua creatura, di un genio con la sua invenzione”, dice al Foglio Massimo Canevacci, esperto di nuovi media e professore di Antropologia culturale all’Università la Sapienza di Roma. Jobs non ha solo cambiato il modo di ascoltare musica. Jobs ha cambiato semplicemente il modo di fare musica.

Lui fa così: ti prende e ti trasforma. Fa così con la musica e fa così con il resto. Perché Steve è entrato a far parte della Apple con la stessa violenza con cui il malanno è entrato a far parte del suo corpo, e il paradosso del suo successo è che, mentre lui vede ancora oggi l’Apple come la sua azienda, in un lampo è riuscito a convincere sia gli azionisti, sia i soci, sia i clienti che la Apple è roba loro. “Il suo corpo – spiega Canevacci – non è solo il corpo del manager: è un corpo che ha in sé, e che incarna, tutto quello che può significare l’espressione nuova generazione. Il fatto è che quando hai in mano un iPod, un Mac o un iPhone tu Steve lo tocchi proprio. E’ un rapporto di condivisione carnale anche in questo senso. Uno dei protagonisti del film girato nel 1983 dal regista canadese David Cronenberg, “Videodrome”, sosteneva che ‘la lotta per il possesso delle menti, in America, dovrà essere combattuta in una videoarena, col videodrome, e che lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio’. Se mi è concesso, oggi quell’occhio penetrante – quell’occhio con cui abbiamo accesso alla tecnologia – non è altro che l’occhio di Steve Jobs”.

Ecco cos’è Jobs: Jobs è un volto, è un’immagine, è un icona, è quella scatolina bianca dell’iPhone, che quando la apri ti mette di fronte a un oggetto che ancora prima di scoprire, che ancora prima di capire se possa essere utile o no, e ancor prima di darti la possibilità di suddividere il mondo nello stesso modo schematico con cui lo fa Steve – “It is extremely great, or it just shit” – tu lo prendi e pensi solo questo. Che fico. Steve è così: non è solo “hype”, non è solo seduzione pubblicitaria e la sua non è solo una raffinata tecnica di vendere tappeti ad altissimo livello. E’ qualcosa che sta un po’ più in alto: Steve è la parola che diventa oggetto prima ancora di poterlo toccare, è la faccia senza cui un’azienda rischia di rimanere semplicemente senza volto. L’Apple senza Jobs è un’azienda senza leader, è un’iPhone senza foto, un iPod senza musica, un computer senza connessione, un comunista senza Enrico Berlinguer, un radicale senza Marco Pannella, un leghista senza Umberto Bossi, una Roma senza Francesco Totti. Attenzione: quando si parla di Apple e di Jobs, non va sottovalutato quello che potrebbe anche essere definito “effetto rincoglionimento”.

Quella sensazione che – senza una ragione apparente o senza una motivazione sensata – ti porta a osservare con occhi increduli cose che, a guardarle bene, non sono poi sempre così belle, ma che tu invece consideri magnifiche semplicemente perché non puoi fare altrimenti: è l’effetto “pasqualismo” (in omaggio a un film in cui Totò veniva scambiato per un tal Pasquale e schiaffeggiato) di cui parlava tre giorni fa sul Corriere della Sera Aldo Grasso; quella “strana malattia psicologica che intacca il centro della volontà e costringe il paziente a penose coazioni a ripetere davanti al televisore”. La malattia di Steve, però, è soprattutto la malattia del grande capo, e come capita spesso con tutti i capi che non sono in forma e che si scoprono fragili, vulnerabili e indifesi, la fragilità del numero uno diventa anche la fragilità del gruppo: cosa che se in politica si può tradurre in un’improvvisa e produttiva voglia di fare squadra, in una necessità di rinnovamento che ti porta a sostituire l’immagine del leader con la forza del gruppo e che può persino impedirti di farti crollare il mondo addosso, nelle grandi aziende invece non succede quasi mai: perché gli azionisti non sono elettori e appena i muri ballano loro spesso cominciano a vendere.

Politica, si diceva. Perché c’è qualcosa di molto politico nella vita e nella storia di Steve. Nella sua leadership più calda che carismatica. Jobs ironizza spesso sul modo messianico con cui viene raccontato dai giornalisti ma è difficile negare che il corpo del numero uno di Apple sia un corpo anche efficace. “Se la mela fosse divisa in due – conclude Canevacci – Barack Obama e Steve Jobs si troverebbero sui due lati della mela. Perché Obama riesce a utilizzare gli strumenti della comunicazione con la stessa forza e la stessa efficacia di come Jobs riesce a rappresentarli. Jobs traduce in oggetto un’emozione, Obama fa lo stesso con le parole. Steve è politica nella misura in cui vende la sua parola, e il suo credo, senza aver bisogno di uno spazio vero per farlo. Volendo volare un po’ più in alto, il misticismo di Jobs risponde a una domanda più che commerciale per certi aspetti quasi teologica, e che ha a che fare più con il telos, con il fine, che con il prodotto. Come dire che se Apple è Dio, Steve è suo figlio. Per questo, Jobs è la mela, il suo corpo ha la forma di una mela, e l’identificazione con quel prodotto – per come lo usiamo, per come ne parliamo, per come lo tocchiamo – è così forte che anche noi siamo parte di quella stessa mela”.

Una fragilità, questa, che nel caso di Jobs ha dentro di se un seme di possibile “distruzione creativa”, come direbbe Joseph Schumpeter. Una distruzione che Steve ha sperimentato almeno altre tre volte nella sua vita. Cinque anni fa con il tumore. Otto anni fa con la bolla tecnologica. Ma soprattutto trent’anni fa, quando Steve fu cacciato dalla Apple e quando fu così, vivendo nell’assenza di quello che amava, che capì cosa voleva veramente. Quel periodo della sua vita, Steve lo spiegò così: “Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita”. Fu anche grazie a quella forza che la Apple di Jobs è riuscita a sopravvivere senza troppi danni ai due uragani che la Mela hanno provato a risucchiarsela via due volte: nel 2001 con la bolla della new economy e in questi mesi lo tsunami economico mondiale. Tutto questo, prima che Steve cominciasse a perdere ancora una volta peso, prima che le cellule del Pancreas iniziassero nuovamente a moltiplicarsi e prima che Steve si ritrovasse alle prese con quello “scompenso ormonale” che ha ricominciato a rubare le proteine necessarie per la salute del suo organismo.

Jobs non potrà mai essere come Bill Gates. Perché Jobs ha qualcosa che a Bill non riescono a dare neppure i soldi. E’ la differenza tra l’essere uno degli uomini più ricchi del mondo (come lo è Gates) ed essere uno di quelli più potenti (fino a qualche anno fa, secondo la rivista Fortune, Steve era il venticinquesimo uomo più potente del mondo). Tra Steve e Bill, tra Apple e Microsoft c’è tutta la differenza che esiste tra una ragazza bellissima e una ragazza che ti fa perdere la testa: una che a poco a poco entra dentro di te in modo così violento che tu ne vuoi sempre di più, che tu ne cerchi sempre di più e che non puoi fare a meno di vederla di sentirla e di ricordarla in ogni cosa che ti passa accanto. Bellissima come Microsoft.

Perfetta – perché ti colpisce, ti smuove e ti mordicchia come se fossi una mela – come Apple. Certo, sarà pure un po’ rincoglionimento, o forse sarà solo un po’ fascino, o magari semplice passione, una semplice condivisione amorevole resa ancora più forte da un legame che si scopre fragile e che ti fa considerare unica e preziosa qualsiasi cosa che abbia a che fare con lei – “Come un attore hai scelto il ruolo/ di chi è sicuro di se,/ ma sai benissimo che la tua arte/ è nella parte fragile di te”, cantano i Tiromancino. Fatto sta che le cose probabilmente andranno così. Fatto sta che il possibile futuro della Apple senza Jobs sarà sicuramente un nuovo genio, sarà un genio che magari farà cose geniali, che magari avrà idee meravigliose, che magari sarà giovane, che magari sarà persino nero ma sarà un genio anonimo, ma sarà un genio senza volto. I sostituti possibili di Steve Jobs esistono già e si chiamano Tim Cook (oggi Ceo ad interim di Apple), Phil Schiller (vicepresidente marketing di Apple), Scott Forstall (vicepresidente della divione iPhone Software). Ma in questo momento nessuno ci fa caso, perché ci sarà pure qualcuno convinto che la Apple se la cavarà benissimo anche senza Jobs, che senza di lui – sostiene per esempio Ezra Gottheil, del gruppo Technology Business Research – Apple dovrebbe faticare solo un po’ di più per ottenere l’attenzione generale e che non c’è motivo di credere che queste cose non possano essere continuate senza di lui”.

Perché ci sarà sempre qualcuno che ironizzerà su di lui, qualcuno che continuerà a odiarlo, qualcun altro che continuerà a chiamarlo messia, ma la verità è che attorno a quel corpo, attorno a quel volto e attorno a tutte quelle voci oltremodo esagerate oggi c’è un mondo fatto di persone che si farebbero volentieri mordicchiare una parte di sé per non vedere scomparire definitivamente quella figura fragile dentro un bellissimo maglione a collo alto.
Claudio Cerasa

mercoledì 21 gennaio 2009

Il Foglio. "Delle meraviglie e delle astuzie sportive del Cav."

E’ una storia meravigliosamente berlusconiana quella di Kaká, e lo è forse più di ogni improvviso predellino delle libertà, più di ogni compagnia sottratta dalle manacce straniere e più di ogni città eroicamente salvata da montagne di rifiuti. Il berlusconismo che in un lampo si accende e si trasforma in sentimento nazionalpallonaro rimane il lato più efficace, e dunque più sexy, nel superomismo politico del Cav. Perché il Berlusconi che paternalisticamente salva il Milan, e salva pure un po’ se stesso, dalle sirene billionarie degli sceicchi sauditi – che avevano offerto per Kaká più o meno la stessa cifra con cui i capitani coraggiosi di Cai erano disposti a salvare Alitalia, circa 110 milioni di euro, e con cui il Milan avrebbe chiuso in attivo il bilancio dei prossimi due anni – è il presidente che sogna ogni elettore che abbia un minimo di confidenza con le tribune di uno stadio. E’ vero, ci sarà sempre qualcuno pronto a dire che il terzo salvataggio nel giro di pochi mesi del Cav. – prima Napoli, poi Alitalia e ora il piccolo Kaká – sia solo l’ultima espressione di un insostenibile conflitto tra pubblico e privato, e in altre parole tra fatti propri e fatti altrui.

Ma se il Cav. è il primo teorico della propria invincibilità – e se l’invincibilità del Cav. brilla con più forza quando il presidente è modestamente costretto a fare i miracoli, a sorridere anche quando tutto sembra andare a rotoli e a non scomporsi più di tanto anche quando inspiegabilmente i suoi ministri prevedono inutili apocalissi economiche – non c’è dubbio che alla fine della partita, soprattutto in questo caso, sarà lui ad aver vinto. Certo, magari si scoprirà che il Cav. ha fatto giochi di prestigio, magari da questa storia verrà fuori ancora una volta quella sfacciata e invidiabile abilità diplomatica che anche nel calcio caratterizza l’opera del Cav. Ma la verità è che non c’è gesto come quello che ha permesso di non perdere Kaká – il gesto del presidente che tira fuori dai pasticci la squadra, che protegge a tutti i costi i suoi uomini e che difende la bandiera sportiva come fosse quella di una società quotata in borsa – che non renda universalmente accettabile Silvio Berlusconi, anche per i suoi peggiori nemici.

I giornali riporteranno le parole seccate degli sceicchi sauditi – “ci sono state pressioni politiche”, “è inaccettabile quello che è successo con il Milan" – e spiegheranno che quella di Kaká e della società non è stata una scelta eroica, ma è stata solo frutto di una pressione della dirigenza milanista, terrorizzata dal ritrovarsi sotto i balconi di via Turati i tifosi con i forconi in mano. Ma comunque siano andate le cose in fondo le potenziali incazzature di Milanello non sono così diverse da quelle di Fiumicino e di Malpensa, e anche per questo il miracolo rossonero del Cav. somiglia molto a quello alitaliano.

Somiglia molto al tentato di salvataggio di una bandiera, che resterà tale – resterà un salvataggio – anche se un giorno la bandiera finirà in mano straniera: anche se l’Alitalia tra qualche anno verrà inghiottita da Air France e anche se il numero 22 di Kaká finirà presto stampato su una maglietta spagnola colorata di bianco. In un momento in cui i sondaggi non sono certo i migliori per il premier, è difficile negare che salvando Kaká il Cav. ha evitato che la sua sfera pubblica fosse per la prima volta condizionata in negativo da quella privata e sportiva: e se è vero che molti tifosi milanisti considerano Kaká sintesi perfetta tra la classe di Rivera e la forza dello spirito santo, e se è vero che convincendo Kaká a rimanere a Milano il Cav. ha fatto una cosa ai confini tra il superomismo e il paranormale (“Quello che ha fatto Kaká non è normale”, ha confermato in serata Sacchi) allora è vero che più che come formidabile capo d’azienda e più che come buon padre di famiglia, il premier in fondo da ieri è un po’ di più quello che ha sempre desiderato: semplicemente il presidente che sotto sotto tutti vorrebbero.
Claudio Cerasa
22/01/09

martedì 20 gennaio 2009

Il Foglio. "Come, quando e perché Max e Marini hanno programmato il dopo Walter"

Roma. Molte di quelle voci maliziose che in queste ore hanno raccontato di famigerati “piani” pronti per accelerare, già da oggi, la sostituzione di Veltroni alla segreteria del Pd potrebbero trovare conferma in un incontro che pochi giorni prima della fine dell’anno ha messo di fronte Massimo D’Alema e Franco Marini. Un incontro che alcuni parlamentari del Pd considerano il primo vero tentativo di arrivare alle elezioni della prossima primavera con forze nuove alla guida del partito: in altre parole, senza Walter Veltroni. E’ successo così che durante le feste di Natale il presidente della fondazione ItalianiEuropei ha deciso di andare a trovare l’ex presidente del Senato, per spiegargli in prima persona cos’è che non va e per suggerire allo stesso Marini la seguente soluzione: sostituire il segretario già prima delle europee. “Ti pare possibile – ha detto D’Alema – andare avanti per cinque mesi così?”. Per chi non fosse a conoscenza degli ultimi complicatissimi e in effetti poco appassionanti equilibri di potere tra le correnti del Pd, il fatto nuovo è che uno dei grandi sponsor e grandi difensori finora di Veltroni, Marini appunto, si stia muovendo in prima persona per promuovere il ricambio di leadership nel partito: Marini rappresenta il vertice più prezioso di quel solido triangolo politico che fino a oggi ha scortato W. nella sua avventura nel Pd – e che ai due vertici bassi ha Franceschini (vicesegretario del partito) e Fioroni (capo dell’organizzazione del Pd). Non a caso, nel breve incontro che i due hanno avuto durante le vacanze, più che le parole di Max sono state quelle dello stesso Marini a essere espressione diretta di una certa insofferenza nei confronti del segretario: “Io che ho sempre detto che bisognava aspettare oggi mi rendo conto che non c’è più nulla da aspettare”. Naturalmente, quando sentono parlare di complotti dalemian-mariniani i veltroniani sorridono e ti rispondono dicendo che non c’è nessuna alternativa a Walter, che i dalemiani sono sovrastimati, che i mariniani non contano più come un tempo e che Red comunque non ci fa per nulla paura. Sarà. Il fatto è che dopo l’incontro tra Marini e D’Alema la corrente degli insofferenti ha trovato un nome su cui convergere definitivamente. Niente Soru, niente Cuperlo e Nicola Zingaretti. Il nome su cui il “Pd degli insoddisfatti” punterà per il dopo W. è quello di Pierluigi Bersani: nome ora gradito non solo a D’Alema ma anche a Marini e che prevedendo in un ipotetico ticket l’affiancamento di Enrico Letta suonerebbe come una bocciatura sia per Fioroni sia per Franceschini. Raccontano dal Pd che Marini è “insoddisfatto” sia di come Franceschini ha gestito la sua vicesegreteria sia di come Fioroni ha gestito la macchina del partito. “I rapporti tra Marini e la coppia Franceschini-Fioroni non sono mai stati cattivi come in questi tempi. Marini – racconta un parlamentare del Pd, che chiede l’anonimato – crede che Franceschini non sia stato abile a costruirsi un profilo da prima alternativa a Veltroni. Per quanto riguarda l’organizzazione del partito il punto non è il peso quantitativo che i cattolici hanno nel Pd. Il punto è che quando si è in emergenza e quando per esempio il partito ha bisogno di commissari straordinari, i nomi che escono fuori sono sempre uomini vicini a Walter. Enrico Morando a Napoli, Massimo Brutti in Abruzzo, Vannino Chiti in Toscana, Achille Passoni in Sardegna. Inoltre – continua il parlamentare del Pd – c’è qualcuno che nel partito comincia a fare questo ragionamento e inizia a pensare che sostituire Veltroni prima delle elezioni potrebbe essere non solo una scelta politica ma anche una precauzione. Il rischio è che le indagini sul caso Romeo siano letali anche per la vecchia amministrazione comunale della capitale. Ed è evidente che l’impatto su un partito come il nostro sarebbe molto meno violento se il giorno in cui quelle indagini si concluderanno, a guidare il Pd non ci sarà più l’ex sindaco di Roma”.
Claudio Cerasa
20/01/09

martedì 13 gennaio 2009

Il Foglio. "Rignano's Way"

Indagini, proscioglimenti, rinvii a giudizio, castelli e caccia alle streghe. Il passo lento della gogna mediatica spiegato a 38 km da Roma

C’avevano raccontato una storia diversa. C’avevano raccontato una storia dove tutto sembrava essere scritto prima ancora di poter avere in mano qualsiasi cosa: qualcosa come una foto, qualcosa come un video, qualcosa come una voce, qualcosa come un indizio, qualcosa come una prova che sia una. Una prova “seria e robusta”, come direbbero gli investigatori. Invece no. Invece sono passati quasi tre anni dal giorno in cui i genitori di Rignano Flaminio si sono ritrovati a parlare di abusi sessuali nella piccola caserma dei carabinieri di Bracciano. Sono passati tre anni dal giorno in cui cinque famiglie sono arrivate lì, in quel paesino a trentanove chilometri da Roma, per scrivere il primo capitolo di quella storia infinita che è Rignano. Una storia che non potrà mai essere come le altre: non lo potrà mai essere perché non ci potrà mai essere nessuna reazione, nessuna dichiarazione e nessuna trasmissione che possa essere davvero razionale quando ci sono accuse che raccontano casi di bambini che sarebbero stati violentati, abusati e persino seviziati. E’ anche per questo che la storiaccia di Rignano, comunque la si guardi, brucia come un girone infernale, dove tutti i vizi, tutte le leggerezze, tutti gli errori e tutte le patologie di quel sistema che vive a cavallo tra il mondo della giustizia e quello dei media, dei giornali, della televisione, superano con più facilità i livelli di guardia.

Ebbene, sono passati quasi tre anni e che cosa è successo? E’ successo che tre maestre, una bidella, un ex addetto a un distributore di benzina, un autore televisivo sono finiti in galera quasi un anno fa; è successo che quelle persone sono state scarcerate dopo quattordici giorni di detenzione; è successo che un collegio fatto di tre giudici, e poi una Corte di Cassazione, ha smontato passo per passo le pubbliche accuse sull’asilo degli orrori; è successo, inoltre, che da quasi un anno ci sono ventiquattro bambini interrogati da un tribunale – quello di Tivoli – dove ci sono avvocati, pm e consulenti che cercano di capire se in quella scuola, in quel paese, in quelle case, in quelle classi, in quelle strade a pochi minuti da Roma è successo davvero quello di cui abbiamo letto per mesi, mesi e mesi su ogni pagina di giornale. Se davvero le maestre davano quelle caramelle che facevano venire sonno. Se davvero i bambini dovevano fare il gioco del lupo e dello scoiattolo. Se davvero facevano ogni volta un gioco diverso quando andavano a casa della maestra. Se davvero facevano il gioco del dottore, il gioco dello scatolone, il gioco del tavolo. Se davvero chi era più bravo vinceva merendine di cioccolata. Se davvero un uomo vestito di nero li faceva incappucciare tutti quanti, e gli faceva bere del liquido rosso. Se davvero venivano tutti narcotizzati per non sentire male. Se davvero, gli orchi, li prendevano e li portavano con un pulmino a casa di una delle insegnanti. Se davvero li mascheravano. Se davvero ne abusavano. Se davvero li violentavano. Ecco: in tre anni, nulla di tutto questo è stato pienamente dimostrato, ma ora che qualcuno ha parlato di “castelli”, ora che qualcun’altro ha parlato di “fortezze”, le indagini potranno andare avanti, e con ogni probabilità tra pochi giorni il pubblico ministero chiederà il rinvio a giudizio per quattro degli otto indagati. Perché le ultime notizie su Rignano Flaminio raccontano di un caso che sembra essersi improvvisamente riaperto, con quel casale di campagna “riconosciuto” come l’ultimo grande luogo dell’orrore.

Di nuovo, però, a Rignano non sembra esserci granché: in due anni di indagini è stato fatto tutto quello che si poteva fare, sono state perquisite decine di case, sono stati interrogati ventiquattro bambini, sono state fatte perizie e intercettazioni, sono state registrate conversazioni ambientali, sono state fatte analisi sui peluche trovati nelle case, sui capelli scovati nelle macchine, sui computer sequestrati negli appartamenti, e sono stati ascoltati genitori, maestre, supplenti, poliziotti e alla fine quello che resta di concreto sono però sempre e solo le parole, i racconti, i disegni e i video dei bambini. Nient’altro. Non sono state trovate foto e non ci sono immagini, non ci sono testimonianze, non ci sono registrazioni, non ci sono tracce di dna e non c’è nulla di sospetto che riesca a non dare l’impressione che quella di Rignano è sempre qualcosa di più simile a una vera caccia alle streghe. Perché c’è tutto nel caso di Rignano. C’è la storia delle famiglie convinte di aver subito un abuso che però non riescono a dimostrare. C’è la storia di un’accusa che diventa condanna ancora prima di diventare processo. C’è la storia di quindici bambini schiacciati dal peso di questa vera o presunta caccia alla streghe. C’è la storia del mostro che è mostro per quel che si dice su di lui, a prescindere da quello che ha realmente fatto.

C’è la storia di sei persone che si sono improvvisamente ritrovate in galera senza una prova che sia altro che la parola di un bambino. C’è la storia di tanti papà e tante mamme che qualcosa hanno visto, che qualcosa hanno sentito, che da qualcosa saranno partiti, che – comunque andranno le cose – un soffio di male negli occhi e nelle parole dei propri figli l’avranno percepito, e per questo nessuno si sognerebbe mai di dire che hanno inventato tutto. Infine c’è la storia di un’indagine difficile, spesso sfortunata, ma che stando a quello che ha prodotto fino a oggi non sembra ancora in grado di dimostrare che a Rignano sia successo quello che finora c’hanno raccontato. Così, dallo scorso diciassette luglio, i pm hanno fatto quello che i periti avrebbero dovuto fare all’inizio delle indagini. Hanno convocato uno a uno i bambini, hanno ascoltato dietro i vetri a specchio del tribunale di Tivoli le loro parole, le hanno registrate, le hanno riascoltate e alla fine i fatti nuovi non sono confessioni e non sono neppure prove ulteriori. Sono sempre le parole e i ricordi spesso confusi dei bambini. In particolare, i ricordi di una terza casa dove secondo la pubblica accusa i piccoli della Olga Rovere sarebbero stati abusati. Una casa – un indizio chiave per poter prolungare le indagini e poter arrivare alla richiesta di rinvio a giudizio – che è stata perquisita dai carabinieri lo scorso luglio e che sarebbe stata riconosciuta direttamente dai bambini senza che in quell’occasione sia stata data la possibilità agli avvocati difensori di ricevere un decreto di perquisizione.

Chi ha partecipato agli incidenti probatori, inoltre, racconta che tutte quelle vecchie accuse, tutte quelle storie di croci capovolte, di frustate, di bambini legati alle sedie, di tunnel, di pedofili e di diavoli con il cappuccio, ecco, di tutto questo i bambini non hanno parlato. Altre cose però le hanno dette. Hanno detto che “le maestre sono cattive perché dicevano cose brutte ai bambini, me lo ha detto la mamma”. Hanno detto che “io certe cose non le ho mai vissute”. Hanno detto che “a me queste cose brutte non sono mai capitate, ma me le ha raccontate mia madre”. Hanno detto che “io queste cose fortunatamente non le ho subite ma le ho sentite dalla mamma e le ho sentite in televisione”. Inoltre, come ricordato da Carlo Bonini su Repubblica tre giorni fa, una delle bambine che ha raccontato di non aver visto nulla è una di quelle bimbe considerate dalla pubblica accusa come una delle testimoni più credibili degli abusi subiti: la piccola nei cui capelli sono state trovate tracce di “benzodiazepine”, quella sostanza contenuta sia nei tranquillanti sia nei sonniferi e che per i genitori di Rignano sarebbe una delle prove con cui si dimostra che quegli abusi ci sono stati davvero. Che quel “sistema” di pedofili non è una finzione, ma è verità. Perché in fondo siamo sempre allo stesso punto. Perché possono cambiare i casi, le accuse e gli incriminati, ma quando le indagini non riescono a prendere il là, quando la pistola fumante semplicemente non si trova, finisce sempre così: che non basta la testimonianza di un pentito, che non basta il nastro di una intercettazione e che non basta la semplice testimonianza di un bambino. “In una testimonianza – dice il professor Alberto Oliverio, docente di Psicobiologia all’Università La Sapienza – già gli adulti possono essere suggestionati e sviati da eventuali suggerimenti da parte di altri testimoni o di chi raccoglie la testimonianza.

Soprattutto nelle persone poco sicure di sé, e i bambini sono molto dipendenti dall’adulto, una testimonianza può trasformarsi in seguito a involontarie o maliziose imbeccate: così l’autore di una rapina può diventare da alto e biondo, di media corporatura e castano, solo perché un altro testimone, un agente di Polizia o un magistrato hanno insinuato un’altra versione dei fatti. Nel caso dei bambini è ancora più facile che una testimonianza venga inficiata, sia perché ritengono che il punto di vista dell’adulto sia più valido del loro, sia perché non vogliono contraddire una figura di attaccamento come può essere uno dei genitori, sia infine perché la loro mente incorpora più facilmente elementi che alterano la memoria. Ciò è tanto più vero se un bambino, soprattutto attraverso la tv, ha assistito a una ricostruzione degli eventi in cui si delinea uno scenario che propone immagini che penetrano e si insinuano nella sua mente. Insomma la memoria infantile è corretta se non è stata sviata da domande o suggerimenti impropri, se il tempo trascorso non supera qualche mese e se gli adulti non hanno fatto incaute insinuazioni o commenti fuorvianti”.

Comunque vadano le cose, i genitori di Rignano Flaminio è comprensibile che non potranno mai ammettere che ci sia stata suggestione, che ci sia stato qualche errore e che possano aver frainteso qualcosa nel racconto dei propri bambini. E poi, certo, i genitori potranno fare ciò che vogliono, potranno continuare a credere che chiunque vada contro la pubblica accusa voglia mettere in discussione la loro buona fede e che voglia accusarli di essere genitori in malafede, quando invece se mai dovesse essere dimostrato che a Rignano non è successo nulla, che in questo paese a pochi chilometri da Roma tutto è nato per quella che potrebbe essere definita una forma di “isteria collettiva”, “un condizionamento a catena”, la verità è che gli unici eccessi che potrebbero essere contestati ai genitori sono quelli di buona fede, di quel non poter far altro che fidarsi ciecamente della capacità di riconoscere il linguaggio dei propri figli. Eppure sarebbe un approccio naturale quello di non poter considerare vere tutte le cose che raccontano i bambini. Il giudice per le indagini preliminari di Rignano, Elvira Tamburelli, ha sostenuto invece che “la particolarità dei contenuti dei racconti, la loro articolazione dettagliata e complessa, non sembrano poter essere frutto di una suggestione, perché difficilmente possono essere assimilati e mantenuti nel tempo racconti suggestivi che presentano tali caratteristiche”.

Questa interpretazione non è stata soltanto criticata da alcuni tra gli psicologi che sono intervenuti nel gran pasticcio di Rignano, ma è stata contestata sia da un Tribunale del Riesame (10 maggio 2007) sia poi da una Corte di cassazione (18 settembre 2007). E’ stato proprio il riesame che ha ricordato che le denunce dei genitori dei bambini sono state fatte con modalità “se non sospette sicuramente particolari”, che ha ricordato come i genitori si siano riuniti numerose volte e confrontati anche in presenza dei bambini, che ha spiegato che le prove andavano raccolte nella prima fase delle indagini e che per poter andare avanti nelle stesse indagini occorre “la presenza di seri e robusti elementi di riscontro che (…) non sono ravvisabili”. Infine, è stato sempre prima il tribunale – e poi la Cassazione – a ricordare che da parte dei genitori c’è stata “una forte e tenace pressione sui minori, una forte opera di induzione e di suggerimento delle risposte” che hanno portato a manifestazioni anche di stanchezza e di ostilità da parte dei piccoli alle “insistenti pressioni genitoriali”. Tanto che, in uno di quei video dove i genitori di Rignano hanno registrato le “confessioni” dei propri figli, tutti ricorderanno di quella bambina che rivolta al padre diceva così. “Io non sono una bugiarda. Sei tu, sei tu che sei un bugiardo, papà”. E così, capita che nel caso di Rignano chi parla di possibile suggestione, chi parla di possibile psicosi, chi semplicemente si comporta da garantista diventa in un lampo un’innocentista. Diventa la persona che vuole negare un fatto. Diventa la persona che non vuole riconoscere un abuso. Ed è tutto qui il cortocircuito. E’ tutto nel voler dimostrare che qualcosa sia accaduto senza aver i mezzi per poterlo dimostrare.

Perché qui il mostro diventa mostro non per quello che ha realmente fatto, ma per quello di cui è accusato. Le streghe cominciano a esistere non quando vengono viste, ma quando vengono nominate, e aveva naturalmente ragione Voltaire quando diceva che “le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle”. Come se non bastasse, negli ultimi mesi la lotta dura e pura contro le streghe, e dunque un po’ anche contro il diritto alla presunzione di innocenza, è finita persino al centro dell’ultima campagna elettorale del Pd, e una mamma di Rignano si è candidata al Senato nelle liste dell’Italia dei valori – per “rappresentare il diritto delle famiglie di mettere il proprio figlio in una scuola senza temere che finisca in un giro di pedofili” – e ha ottenuto qualcosa come il 5,4 per cento dei voti nel suo paese. Ma naturalmente non c’è stato nessuno pronto a ricordare che se c’è una mamma che ha il suo spazio politico perché combatte per mandare in galera i mostri di Rignano, dall’altra parte sarebbe stato giusto aspettarsi che lo stesso partito avesse messo in lista qualcuno in grado di rappresentare in Parlamento l’altra faccia della medaglia. Una cosa molto semplice. Essere innocenti fino a prova contraria. L’atmosfera malvagia di Rignano è tutta qui. E’ tutta in quel continuare a dire che suvvia, con quelle accuse, con quelle frasi, con quelle facce, qualcosa deve essere pur successo. E la sintesi dell’atmosfera malvagia è in quella parola che si ritrova spesso nei casi meno fortunati di indagini giudiziarie. Sistema.

E’ un sistema, una rete, una cupola quella di Rignano così come un sistema doveva essere quello che era stato ipotizzato in uno dei casi più clamorosi di psicosi collettiva: quello che è stato il più lungo e più costoso processo penale nella storia degli Stati Uniti, che cominciò con l’accusa di pedofilia nei confronti di alcuni insegnanti della scuola materna McMartin e che dopo sei anni e dopo quindici milioni di dollari spesi dal governo dello stato della California si è concluso con una piena assoluzione degli imputati. Un sistema, dunque, simile a quello dell’asilo Sorelli di Brescia, dove pochi anni fa sono stati rinviati a giudizio – per pedofilia – un bidello, un prete e sei maestre, dove l’accusa aveva chiesto fino a vent’anni di carcere, dove i genitori dei bambini sostenevano che “a Brescia è in atto un’operazione per far passare i racconti dei bambini come non attendibili” e dove poco meno di un anno fa la storia degli otto presunti pedofili è stata raccontata più o meno con queste parole dalle cronache locali. “L’indagine sui presunti atti di pedofilia in un asilo di Brescia fu frutto di un ‘condizionamento a catena’ che portò un gruppo di famiglie a suggestionarsi a vicenda e soprattutto a ‘inquinare’ le testimonianze dei bambini. Le indagini, inoltre, sarebbero state molto lacunose. Lo scrivono i giudici del tribunale nelle 538 pagine con cui è stata motivata l’ assoluzione di otto persone (maestre, bidelli e due sacerdoti) indagate a partire dal 2003 per una serie di abusi sugli alunni di una scuola materna. Abusi – si legge sui quotidiani di quei giorni – rivelatisi semplicemente inesistenti”.