giovedì 27 novembre 2008

Il Foglio. "Altro che Sardegna. Tra Unità, CDB e Max, Soru è pronto a scalare il Pd "

Giornale, quattrini, rete di potere, amicizie trasversali, Confindustria. Cosa c’è dietro alle mosse di “Surei”
Le dimissioni di Renato Soru dalla presidenza della regione Sardegna hanno avuto l’effetto di irrobustire il profilo politico di uno dei dirigenti più in ascesa nel Partito democratico. La mossa di Soru rientra all’interno di una strategia ben studiata – e concordata con il segretario Walter Veltroni – che permetterà all’ex numero uno di Tiscali di arrivare alla campagna elettorale delle regionali del 2009 forte di un sostegno che la dirigenza del Pd non farà a meno di offrirgli anche nelle prossime ore. Ieri i complimenti al governatore dimissionario sono arrivati da alcuni tra i più importanti esponenti del partito (i più significativi sono stati quelli di Veltroni e di Letta) e le parole di Soru lasciano intendere che l’avventura nel Pd non si fermerà certo per un emendamento bocciato dalla sua giunta regionale. “Non è l’ultimo atto della mia esperienza politica”, ha ripetuto in queste ore Soru. Nel Pd, però, qualcuno comincia a osservare con preoccupazione la vivacità dell’imprenditore sardo, perché se il primo obiettivo del governatore è quello di non perdere la sua Sardegna è difficile negare che Soru “abbia ormai tutte le carte in regola per essere considerato come un leader utile per il partito a livello nazionale”, dice al Foglio il senatore lettiano del Pd Francesco Sanna.

Chi conosce bene Soru racconta che “l’esperienza maturata in questi anni ha dato la possibilità a Renato di essere pronto per sbarcare davvero sul continente”, e in teoria Soru avrebbe tutto quello che servirebbe per il grande salto: ha una liquidità non indifferente, ha amicizie trasversali, ha un giornale tutto suo, ha un consenso che va al di là della sua esperienza politica, piace tantissimo a Confindustria (il Sole 24 Ore gli ha dedicato due giorni fa un ritratto lusinghiero in cui Soru – “Un uomo solo al comando” – veniva descrito come un politico in grado di “contraddire tutti i pedigree dei leader italiani dall’Unità a oggi”). Inoltre, “Surei” – come lo chiamano a Cagliari – è uno dei pochi dirigenti ad aver creato un’armonia quasi impossibile tra il mondo di Walter Veltroni, di Franco Marini, di Enrico Letta, di Massimo D’Alema, di Piero Fassino e di Carlo De Benedetti. I rapporti con l’Ingegnere si sono consolidati all’inizio di quest’estate, e mentre il 5 giugno Soru acquistava d’intesa con Veltroni il pacchetto di maggioranza dell’Unità (sedici milioni di euro) CDB si preparava a diventare il secondo azionista della società fondata dal governatore – Tiscali – versando nelle casse di Soru sessanta milioni di euro e arrivando così ad acquistare con la sua Management & Capital il 6,9 per cento del pacchetto azionario.

Per quanto Soru sia ancora oggi un alleato fedele di Veltroni, il governatore dice però di “non sentirsi affatto un veltroniano”. Soru – che i suoi estimatori considerano una perfetta sintesi tra il veltronismo e il berlusconismo – in effetti ha tratti in comune più con il mondo dalemian-lettiano che con quello veltroniano. Se fino a poco tempo fa quella con D’Alema e Letta era una “semplice sintonia di vedute politiche” gli amici di Soru raccontano che questi tre mondi oggi sono più vicini. D’Alema ha conosciuto Soru dieci anni fa (da segretario del Pds lo invitò a un convegno organizzato dal suo partito), Letta ha invece avuto modo di migliorare i suoi rapporti con il governatore negli ultimi due anni passati a Palazzo Chigi, dove Soru andava spesso a trovarlo. Letta e D’Alema, inoltre, sono stati i due grandi protagonisti della discesa in campo del manager sardo: furono loro che nel 2003 – il 17 luglio, a pochi giorni dalla candidatura ufficiale di Soru – convinsero l’imprenditore a presentarsi alla guida della regione, nel corso di un convegno organizzato per progettare proprio il futuro del Pd.

Soru – spiegano dal Pd – ha intenzione di guidare la Sardegna anche per i prossimi cinque anni, uscirà rafforzato dalle dimissioni presentate due giorni fa, ma chi lo conosce bene sa che quella pazza idea di candidarsi un giorno alla guida del Partito democratico oggi è diventata un’idea tutt’altro che impossibile. “Soru per la politica sarda – racconta al Foglio Gianluca Lioni, dirigente popolare del Pd– è stato una sorta di Martin Lutero, ha portato un cambiamento radicale in uno scenario prima piuttosto asfittico. Ha un caratteraccio ma è moderno, post-ideologico, è un decisionista e sa comunicare, ci vorrebbe la sfera di cristallo per escludere che, in futuro, non giocherà sul palcoscenico nazionale”.
Claudio Cerasa
27/11/08


mercoledì 26 novembre 2008

Il Foglio. "W. resiste ai dalemiani e prepara così la sua campagna elettorale"

Veltroni (per ora) rinvia il congresso e riceve la fiducia del partito. Gli ex Ppi esultano. Parla Chiamparino


Roma. Alla fine, ieri ha vinto Walter: il congresso del Pd non verrà convocato prima del prossimo autunno, il coordinamento riunito per due ore e mezza a Largo del Nazzareno ha scelto di rinviare ancora una volta lo scontro veltroniani-dalemiani, e quello che doveva essere uno dei momenti chiave per capire con quale passo si sarebbe mosso il Partito democratico – da qui alle europee – è stato invece il giorno in cui il segretario del Pd ha ricevuto un forte appoggio alla propria linea politica. “Il coordinamento del Pd ha condiviso l’invito fatto da Veltroni a ritrovare la capacità di fare squadra e di avere una maggiore coesione”, ha spiegato a metà pomeriggio l’ex segretario dei Ds, Piero Fassino. Almeno per il momento, dunque, niente conteggi, niente confronti e niente discussioni sulla leadership del Pd. E poi? “L’idea di Walter – spiega al Foglio uno stretto collaboratore di W. – è quella di dire va bene, siamo qui: c’è chi non è d’accordo con me, ma ora è il momento di capire come proseguire nell’innovazione della struttura, perché siamo in una fase in cui, anche grazie al successo di Obama, il Pd ha la possibilità di esprimere tutte le sue novità”. Così, ieri Veltroni ha ricevuto dalla cabina di regia del partito l’appoggio che si aspettava (contrari all’idea di rinviare il congresso erano Goffredo Bettini e Giorgio Tonini, favorevoli invece Fassino, Letta e Bersani), ma la mossa che ha ora in mente il segretario è quella di preparare un “Lingotto due”, ovvero un discorso simile a quello con cui aveva lanciato un anno fa a Torino la propria candidatura alla segreteria. Segnatevi la data: 19 dicembre. “Walter farà una relazione cazzuta parlerà di legge elettorale, di alleanze e di ‘forma partito’, e alla fine metterà la sua relazione ai voti”, confessa uno stretto collaboratore del leader del Pd. Prevista per il 15, la direzione è stata rinviata di cinque giorni per evitare sovrapposizioni con lo spoglio delle elezioni regionali abruzzesi. In altre parole, Veltroni ha scelto di presentarsi di fronte ai membri della dirigenza con i risultati abruzzesi in tasca: una mossa che se a prima vista potrebbe apparire suicida (gli ultimi sondaggi danno il Pd in Abruzzo su livelli non distanti da quelli dell’Italia dei valori, dunque un disastro) in realtà lascia intendere che il segretario sia profondamente convinto che l’Abruzzo sarà di grande aiuto per difendere la propria leadership. “A quanto ci risulta – spiega un dirigente del Pd – l’Abruzzo ridimensionerà il peso del partito di Di Pietro”.

“Basta parlare di congressi!”
Nonostante il confronto piuttosto vivace tra il mondo veltroniano e quello dalemiano, la tenuta al coordinamento di ieri dimostra che l’ex sindaco di Roma ha ritrovato fiducia rispetto a qualche tempo fa. Le critiche sono arrivate anche ieri pomeriggio (“Contesto a Veltroni soprattutto la gestione quotidiana del partito, e la contesto anche a chi, venendo dalla mia storia, lo aiuta in questa gestione”, ha detto la vicepresidente della Camera, Rosy Bindi). Ma dopo l’ottimo risultato del Circo Massimo, dopo l’accordo sulla Rai e dopo i successi ottenuti da W. nelle elezioni del numero uno del partito nel Lazio (con Roberto Morassut) e a Perugia (con Alberto Stramaccioni), la giornata di ieri offre a Walter qualche possibilità in più di preparare la campagna elettorale delle europee e delle amministrative senza troppa pressione. Al centro degli equilibri del partito, però, ci sarà ancora per parecchio tempo la telenovela sulla questione “congresso sì congresso no”. Bettini, che ieri ha detto di non credere “che esista una leadership più forte di quella di Veltroni”, è ancora pessimista e ha spiegato che “se il 19 dicembre ci sarà condivisione profonda si andrà alla conferenza programmatica, in caso contrario si tornerà al nostro popolo”. A questo proposito, interpellato dal Foglio, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, invece, la mette così. “Il congresso non serve a nulla e non ha davvero senso continuare a parlarne. Il Pd deve capire, prima di tutto, che oggi siamo diventati più che un partito una federazione di correnti, e invece che pensare troppo al giorno in cui il congresso verrà convocato e invece che parlare troppo di ‘europee’ c’è un appuntamento chiave per capire se la leadership del partito potrà arrivare alla fine dell’anno: le elezioni amministrative. Sarà quello il momento in cui si verificherà davvero la tenuta dei gruppi dirigenti del Partito democratico”.
Claudio Cerasa
26/11/08

martedì 25 novembre 2008

Il Foglio. "Così nasce la prima vittoria di W. (e Marini) contro i dalemiani"

C’è una ragione precisa per cui l’elezione di Roberto Morassut alla segreteria laziale del Partito democratico ha un interesse politico che va ben oltre i confini del Raccordo anulare. Vista dai veltroniani – dopo la riuscita manifestazione del Circo Massimo, dopo l’accordo sulla Vigilanza Rai, dopo il successo nella scelta di Alberto Stramaccioni come numero uno del partito a Perugia – la nomina dell’ex assessore del comune di Roma è uno dei segnali chiave per capire il momento positivo in cui si trova il segretario democratico. Al coordinamento del Pd regionale, Morassut è stato scelto da una maggioranza schiacciante: 264 delegati hanno votato a suo favore, 54 contro, 17 hanno lasciato bianca la scheda e 23 l’hanno annullata. Risultato: 73 per cento dei consensi, modello Roma che resiste, dalemiani tecnicamente sconfitti e veltroniani al comando nella terra di W. Dietro a questi risultati, però, si nascondono alcuni aspetti che dimostrano come lo scontro tra il mondo di Max e quello di W. non sia affatto un’invenzione giornalistica. Tutt’altro: il nuovo segretario del Pd laziale non è stato votato né dai dalemiani, né dai lettiani né dai bindiani, e se quel 73 per cento di consensi potrebbe far credere che quello di Morassut sia stato un successo pieno, c’è invece un dato che non può essere sottovalutato. “Tra assenti e contrari, il 47 per cento dell’assemblea nei fatti non ha votato per Morassut”, ha ricordato ieri Claudio Mancini, assessore regionale e uno dei più fedeli dirigenti dalemiani nel Lazio. Nelle stesse ore il braccio destro di D’Alema – Matteo Orfini – aggiungeva che continuare a “dirigere un partito così è un errore drammatico”.
Comunque la si voglia vedere, la nomina di Roberto Morassut rientra in una strategia programmata da Walter Veltroni alla fine della scorsa estate, quando – per preparare al meglio le elezioni del 2009 – l’ex sindaco di Roma aveva confessato ai suoi collaboratori gli obiettivi da raggiungere entro la fine dell’anno: “Ripartire da Roma e dal Lazio, conquistare la base e indebolire l’opposizione alla segreteria”. Ma l’immagine dell’elezione laziale dimostra ancora una volta che la solidità della leadership veltroniana dipende sempre più dall’alleanza tra W. e gli ex Popolari di Franco Marini, Giuseppe Fioroni e Dario Franceschini. Come spiega al Foglio il senatore romano del Pd, Lucio D’Ubaldo, “in questi giorni i dalemiani del Lazio hanno effettivamente provato a trovare un accordo con noi, ma proporci di formare una logica alternativa con D’Alema al posto di Veltroni è stato un atteggiamento controproducente: D’Alema non è un’alternativa a Walter, anche perché – come si dice dalle nostre parti – ‘peppa per peppa è meglio peppa mia’. I veltroniani – aggiunge D’Ubaldo – devono però capire che se il Pd ha bocciato i dalemiani il merito è soprattutto dei popolari. Senza di noi non sarebbe mai esistito alcuna soluzione Morassut, e questo bisogna che qualcuno un giorno se lo ricordi”. I dati sull’elezione del nuovo segretario offrono in effetti un quadro chiaro degli equilibri interni al Pd. L’appoggio dei popolari (soprattutto quelli di rito mariniano) è stato decisivo per il successo di Morassut: gli ex Ppi hanno votato in novanta per l’ex assessore, i bettiniani (così come i rutelliani) sono stati trenta in meno e alla fine sono sempre i “WalterPop” (veltroniani+popolari) ad avere ancora oggi in mano il Partito democratico.
Così, se tra i dalemiani c’è chi non ha gradito affatto lo scarso interesse che l’ex ministro degli Esteri ha dedicato agli ultimi giorni di campagna laziale (Walter Tocci, ex vicesindaco di Roma e considerato oggi assai vicino a Max, domenica ha lanciato questa frecciata a uno dei consiglieri più fedeli di D’Alema: “Nicola Latorre nel Pci non sarebbe durato un giorno come vice capogruppo del Senato, dopo aver appoggiato l’avversario in diretta televisiva”), dall’altro lato i veltroniani sono euforici, considerano salvo il vecchio modello Roma di Bettini e per riassumere il senso del successo politico dell’elezione di Morassut continuano a inviarsi messaggini di questo tipo, anche in queste ore: “I dalemiani hanno fatto i coatti tutto questo periodo, dovevano candidare Cuperlo, poi – visto che sono quattro gatti e hanno paura di contarsi – alla fine, semplicemente, non hanno votato”.
Claudio Cerasa
25/11/08

mercoledì 19 novembre 2008

Il Foglio. "Il tesoretto del Pd (e l'opa). D’Alema va forte al nord (e all’Europarlamento), Veltroni si rifà in Emilia. Torino ago della bilancia"

Il nostro mondo deve essere come una signora della buona società inglese,
che va sui giornali soltanto quando nasce e soltanto quando muore”.

Stralci di un discorso di Enrico Cuccia e Adolfo Tino ai dipendenti Mediobanca

Tra Milano, Torino, Brescia e Bologna il politico più a suo agio tra imprenditori, banchieri e capitani d’industria è ancora Massimo D’Alema. Ieri, peraltro, il Parlamento europeo ha respinto la richiesta della magistratura italiana di revocargli l’immunità parlamentare, in riferimento alle intercettazioni telefoniche sul caso Bnl-Unipol. Per scoprire i nuovi confini del mondo della finanza – un po’ rossa e un po’ paonazza – il modo migliore è partire da Milano, dove l’universo dalemiano mostra il suo profilo più deciso, più chiaro, più efficace, persino più trasversale. Red, per fare un esempio, è una cartina di tornasole utile per studiare le sfumature dell’opa politica lanciata da D’Alema sul Partito democratico. La costola della fondazione ItalianiEuropei, in pochi mesi, ha raggiunto quota cinquemila iscritti, ha aperto comitati in mezza Italia, ha inaugurato (sei giorni fa) la sua sede nazionale a Roma, in Piazza Campitelli numero uno, ed entro la fine di novembre inizierà il proprio tesseramento anche a Milano e a Bologna. Già oggi basta curiosare tra i nomi (ancora sotto embargo) dei tesserati e degli amici di Red per capire la solida rete di potere costruita dall’ex presidente del Consiglio.

A Milano, chi si occuperà di mettere in piedi il comitato dell’associazione dalemiana “Riformisti e democratici” è un avvocato milanese candidato due anni fa alla poltrona di vicesindaco, in ticket con Bruno Ferrante, e considerato oggi il vero pivot dalemiano nella finanza lombarda. Il suo nome è Carlo Cerami. Massimo D’Alema lo ha scelto per dirigere la sede lombarda di ItalianiEuropei e Cerami in pochi mesi è riuscito a migliorare i rapporti tra ex vicepremier e mondo della finanza cattolica. Dopo la candidatura al comune di Milano, Cerami ha abbandonato la politica ed è diventato uno dei personaggi chiave nel nord dalemiano: l’avvocato è buon amico del presidente della Cariplo, Giuseppe Guzzetti, è uomo assai ascoltato dal presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, ha un buon feeling con il sindaco Letizia Moratti e da membro del consiglio di amministrazione di Cariplo ha costruito un ottimo rapporto con Bruno Ermolli. Grazie a Cerami, il Cav. e Max trovano nuovi punti di contatto, e quando la prossima settimana il governo sceglierà i cinque consiglieri che faranno parte del consiglio di amministrazione della società che gestirà l’Expo non ci si dovrà sorprendere, dunque, se uno dei nomi candidati a entrare in consiglio è proprio quello di Carlo Cerami.

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Oltre a Red e a ItalianiEuropei ci sono altri aspetti che spiegano bene come l’ex ministro degli Esteri sia riuscito a piantare al nord le sue più importanti bandierine di potere. “L’unico uomo del centrosinistra – racconta un importante consigliere di amministrazione di Generali, dietro la garanzia dell’anonimato – che a Milano può alzare il telefono e parlare senza problemi come e quando vuole con Cesare Geronzi, con Vincent Bollore e con Fabrizio Palenzona è sempre lui: D’Alema”.
Un caso interessante è quello che riguarda la prima banca italiana, IntesaSanPaolo. Le affinità tra D’Alema e Intesa sono state consacrate pubblicamente grazie al famoso caffè offerto da Giovanni Bazoli all’ex presidente del Consiglio, il 24 maggio di un anno fa. I rapporti tra i due sono tuttora cordiali, ma i contatti migliori nella prima banca d’Italia D’Alema li ha con altri due dirigenti. Il primo è il direttore generale Pietro Modiano. Il secondo è l’amministratore delegato Corrado Passera.

Modiano è da tempo legato con il vecchio mondo che fu dei Ds e ancora prima del Pds. Sua moglie è l’ex ministro per le Pari opportunità del governo Prodi (Barbara Pollastrini) e, tre anni fa, è stato il manager sul quale D’Alema dicono avesse puntato per provare a sostituire (senza successo) Matteo Arpe nel ruolo di amministratore delegato di Capitalia. Tra i due, però, il clima è peggiorato, e se c’è un manager con il quale oggi D’Alema ha un ottimo rapporto è Corrado Passera (ovvero il più forte, oggi, tra i tre capi di Intesa). L’ex ministro degli Esteri e l’ad si conoscono da tempo, condividono una vecchia amicizia con il numero uno di Air One (Carlo Toto) e sono rimasti in contatto stretto anche nei giorni in cui la Cai di Roberto Colaninno (anche lui non certo distante da D’Alema) ha formalizzato la sua prima offerta per acquistare Alitalia. Nel corso dell’estate il presidente di ItalianiEuropei è stato il politico di sinistra che più si è impegnato per evitare che la cordata Cai si trasformasse in un flop. E di quella cordata si è fatto garante anche Enrico Letta. Negli ultimi mesi, il ministro ombra del Pd, nipote di Gianni, ha costruito un ottimo rapporto con il network legato alla Confindustria di Emma Marcegaglia (che in Cai ha investito personalmente dieci milioni di euro), e la ragione di questo legame sta nella buona amicizia tra Letta e la presidente della Confindustria dell’Emilia Romagna, Anna Maria Artoni, fondatrice dell’associazione Vedrò di cui lo stesso Letta è presidente.

Dal punto di vista politico, l’immagine migliore per comprendere l’origine del “dalettismo” (D’Alema più Letta) è ancora quella di Red (il presidente Paolo De Castro è l’uomo che ha organizzato la campagna elettorale di Letta, alle primarie del 2007, e il direttore, Ernesto Carbone, con Letta si è candidato all’assemblea costituente del Pd). Anche per quanto riguarda i rapporti tra finanza e politica, i punti di contatto tra Letta e D’Alema sono sempre di più. “Letta – spiega ancora il consigliere di amministrazione di Generali – sta ereditando gran parte di quella rete di potere che fino a qualche mese fa era salda nelle mani di Romano Prodi”. L’ex presidente del Consiglio – oggi uomo Onu per l’Africa – ha deciso di condividere con il suo ex sottosegretario molte relazioni costruite negli ultimi dieci anni. Un po’ perché Prodi si fida di Letta. Un po’ perché Letta viene considerato da Prodi l’ultimo figlioccio politico dell’ex ministro dell’Industria, e inventore dell’Ulivo, Beniamo Andreatta. (Letta è stato capo della segreteria di Andreatta dal 1993 al 1994 e oggi è presidente del centro studi fondato dallo stesso Andreatta: l’Arel). Nel Pd, Letta ha oggi i rapporti migliori sia con Alessandro Profumo sia con Giovanni Bazoli (il nipote di secondo grado del numero uno di Intesa, Alfredo Bazoli, è segretario provinciale del Pd bresciano ed è vicino a Enrico Letta).

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Tutta l’attenzione che Walter Veltroni aveva dedicato al nord, nel corso della sua campagna elettorale, non ha permesso al segretario del Pd di incassare un sostegno diretto da parte dell’establishment lombardo. Veltroni ha un buon rapporto sia con il mondo confidustriale legato a Matteo Colaninno (deputato del Pd e fino a pochi mesi fa presidente dei giovani di Confindustria) sia con il numero uno di Telecom, Franco Bernabé. Con Profumo, però, le relazioni non sono più buone come un tempo. Dice un dirigente del Pd, che chiede l’anonimato, che “se nel corso dell’ultima campagna elettorale Veltroni aveva pensato persino di offrire un incarico politico a Profumo, e se fino ad aprile non era difficile incontrare Profumo dalle parti del Loft, ultimamente il numero uno di Unicredit ha raffreddato i rapporti con il segretario”.

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Una città non ostile all’universo veltroniano c’è, ed è Torino. Il sindaco Sergio Chiamparino – che di Veltroni è sponsor e alleato – ha costruito uno degli ultimi fortini politici (sostenuto anche dalla Fiat) in grado di confrontarsi con il sistema dalemian-lettiano. Soprattutto grazie al ruolo dell’avvocato Angelo Benessia. Benessia – nome importante per comprendere da dove nascono i recenti bisticci tra i banchieri milanesi e quelli torinesi di Intesa San Paolo – è stato vicepresidente della Fiat e del gruppo Rcs, mentre nel 1999 è stato scelto dall’azienda torinese per rappresentare il Lingotto in Telecom Italia. (Da Telecom Benessia uscì dopo un durissimo litigio con l’allora numero uno Roberto Colaninno). Oggi, è il presidente della fondazione San Paolo, è il primo azionista singolo di Intesa San Paolo (con il 7,6 per cento) ed è anche l’uomo che Chiamparino ha scelto come principale consulente del suo comune. Lo si è scoperto a luglio, quando il sindaco di Torino, commettendo un piccolo errore, ha distribuito ai consiglieri comunali il programma economico della città dimenticandosi però di cancellare dall’intestazione del documento la firma dello studio legale che aveva scritto il progetto: quello dell’avvocato Angelo Benessia. Chiamparino vuole puntare su di lui per dare una nuova centralità al capoluogo piemontese. Lo scontro in corso tra Pietro Modiano e Corrado Passera segnala anche i difficili equilibri politici-finanziari tra Torino e Milano. La fusione tra Intesa e San Paolo (registrata nelle pagine del gossip finanziario come l’operazione in cui i “pallidi” hanno sconfitto gli “abbronzati”: dove per abbronzati si intendono i dirigenti di San Paolo che furono richiamati dalle vacanze solo al termine della fusione che i “pallidi” dirigenti di Intesa avevano studiato in segreto nei mesi estivi) è vista ancora oggi come una genuflessione di Torino nei confronti di Milano.

Per provare a pesare di più, l’idea di Chiamparino è di dare la possibilità all’avvocato Benessia di diventare il numero tre di Intesa San Paolo: operazione che richiede il sacrificio dell’uomo che da sempre rappresenta Torino nella banca di Bazoli e Passera: Enrico Salza, presidente del consiglio di gestione. Due episodi significativi. Il primo riguarda il progetto di un grattacielo che Intesa vuole costruire a Torino. Un grattacielo che Salza vuole con insistenza e sul quale il sindaco Chiamparino e l’avvocato Benessia invece non sono d’accordo. Il secondo, che segnala una certa pressione politica sulle spalle di Salza, è raccontato nell’articolo qui in basso. C’è chi dice, inoltre, che una delle grandi scommesse politico-finanziarie dell’universo dalemiano-lettiano sia quella di riuscire a costruire un legame con Chiamparino. Pur non avendo buoni rapporti né con D’Alema né con Letta, qualche tratto in comune tra i due mondi è stato notato. Tre settimane fa, Letta e Chiamparino sono stati i principali artefici di un’operazione che ha messo insieme i due colossi energetici del Piemonte e dell’Emilia Romagna (Enia e Iride). Un’operazione che ha indispettito il sindaco di Bologna Sergio Cofferati e che ha visto come principali artefici del progetto Chiamparino da un lato e il sindaco lettiano di Piacenza, Roberto Reggi, dall’altro.

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Ma per seguire il filo che mette insieme Roma, Siena, Brescia, Milano e Torino, bisogna fermarsi in quella regione considerata la vera polpa della finanza rosso paonazza: l’Emilia Romagna. A Bologna, l’universo di Unipol oggi ha un profilo diverso rispetto a quello che aveva negli anni in cui regnavano Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti. Se Sacchetti e Consorte – che nell’estate di tre anni fa provarono a costruire con poco successo un polo bancario assai gradito al centrosinistra – erano manager molto legati a Pierluigi Bersani e a Massimo D’Alema, oggi i due nuovi numeri uno di Unipol sono simbolo della discontinuità con i vecchi equilibri politici. Pierluigi Stefanini e Carlo Salvadori (presidente e amministratore delegato) sono vicini a Veltroni, tanto che una delle possibili soluzioni indicate in un primo momento dal segretario del Pd per la successione di Cofferati a Bologna era stata proprio quella di Stefanini.

Il mondo delle cooperative, e quello politico-finanziario dell’Emilia Romagna si intreccia ancora una volta con quello di D’Alema grazie a Red. Tra i nuovi iscritti all’associazione dalemiana si trovano nomi interessanti: Pietro Cavrini (vicepresidente della Società Cooperativa Agricola Co.Pro.B. e uomo ponte di D’Alema con le confcooperative), Luciano Sita (presidente di Legacoop Agroalimentare), Giuseppe Politi (presidente della confederazione italiana agricoltori e in buoni rapporti con i vertici Unipol), Francesco Pugliese (direttore generale di Conad Italia) e soprattutto Federico Minoli, ex amministratore delegato della Ducati, presidente della Fiera di Bologna e uno dei punti di riferimento di D’Alema nell’establishment emiliano.

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Sarà un po’ meno rossa di un tempo, sarà diventata un po’ paonazza, ma resta il fatto che quel mondo fatto di banchieri, politici e capitani d’industria, quel mondo che si ritrova perfettamente nelle parole che Cuccia e Tino (fondatori di Mediobanca) usavano per introdurre i dipendenti all’interno della propria banca (“Il nostro mondo deve essere come una signora della buona società inglese, che va sui giornali soltanto quando nasce e soltanto quando muore”), ecco, quel mondo ancora oggi offre una delle prospettive migliori per comprendere gli equilibri di potere che si nascondono sotto il corpaccione del centrosinistra e per capire perché l’opa di potere sul Partito democratico comincia proprio da qui. (2.fine)

sabato 15 novembre 2008

Il Foglio. "Il Pd si allontana dalla Cgil e la Rai si ritorce su W."

Alla Vigilanza il Pdl vota Villari (col CaW che si dimette). E c’è un Orlando felice

Il Pd comincia a scaricare Epifani. Le reazioni imbarazzate del Partito democratico alla notizia dello sciopero generale convocato a dicembre dalla Cgil sono solo l’ultimo segnale dei difficili rapporti tra mondo democratico e mondo sindacale. Se è vero che il feeling personale tra Veltroni ed Epifani resta molto buono (Epifani è uno dei possibili candidati del Pd alle elezioni europee) è vero anche che mai come oggi la linea del Pd si sta allontanando dal più grande dei sindacati confederali – la Cgil – dando così la possibilità ai Popolari di Marini, Fioroni e Franceschini di consolidare le proprie relazioni con il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni. Parlando con il Foglio, Giuseppe Fioroni e Giorgio Tonini (membri del coordinamento del Pd) spiegano perché per il Pd è troppo rischioso restare “imbrigliati” nell’oltranzismo della Cgil. “Un partito riformatore come il nostro – dice Fioroni – non può non lavorare perché l’innovazione e il cambiamento che vuole portare nella società non riguardino anche il sindacato e quei sindacati che più di altri restano ancorati a una ormai superata visione massimalista”.

Il CaW e la nomina di Orlando (Andrea). L’imbarazzo del Pd nei confronti dello sciopero della Cgil si spiega anche per un’altra ragione. Se una grande parte del partito considera dannoso il “massimalismo” della Cgil è perché da qualche giorno Walter Veltroni ha ufficialmente riattivato i canali con il mondo del Cav. Non si può parlare di CaW, certo, ma nel Pd confermano che Gianni Letta e W. hanno ricominciato a dialogare con costanza. Gran parte del merito va dato al lavoro diplomatico svolto da Goffredo Bettini. Il segnale del riavvicinamento tra Veltroni e l’inventore del modello Roma si può individuare anche in un incarico di partito che il segretario annuncerà tra oggi e lunedì, quando W. nominerà portavoce uno dei dirigenti sui quali ha investito Bettini per provare a rinnovare il partito: Andrea Orlando.
Claudio Cerasa
14/11/08

Il Foglio. "Perché Riccardo Villari è il migliore presidente che poteva sognare il Pd"

Il senatore dice di essere pronto a mollare, nel Pd c’è chi crede sia molto meglio di Orlando e lui ora si gode il momento

Roma. Resta non resta si dimette non si dimette è un traditore è un bugiardo è una provocazione è uno strappo è uno scandalo è un regime è una dittatura, e se lui è come De Gregorio quell’altro è proprio come Videla. Il senatore Riccardo Villari, eletto due giorni fa alla presidenza della commissione Vigilanza Rai dopo 152 giorni di tentativi falliti e dopo 43 riunioni andate tutte puntualmente a vuoto, ieri ha spento i suoi telefonini e per qualche istante si è goduto la nomina più importante della sua vita in un piccolo bar romano a pochi passi da Viale Mazzini. Niente telefonate, niente messaggini, niente scocciature, grazie. Comunque la si voglia vedere, fino a giovedì prossimo il senatore sarà a tutti gli effetti il nuovo presidente della Vigilanza Rai, e prima che Villari incontri sia il presidente della Camera (martedì) sia quello del Senato (giovedì, mentre con Giorgio Napolitano non ci sarà alcun colloquio formale) la sua nomina “è purtroppo il frutto di una normale decisione democratica varata da un organismo democratico”, come ammette sconsolato al Foglio il senatore Giorgio Merlo. Due giorni fa, Veltroni aveva assicurato che Villari si sarebbe “immediatamente” precipitato dai due presidenti delle Camere per presentare le sue dimissioni. Villari – che ufficialmente dice di essere pronto a dimettersi se il Pd troverà un nuovo nome sul quale convergere – però è ancora lì, e a lui non sembra dispiacere affatto. Ma più che il suo slalom tra un partito e un altro; più che la sua contemporanea appartenenza a una manciata di correnti del Pd (Villari ha la caratteristica di essere considerato allo stesso tempo un perfetto dalemiano, mariniano, franceschiniano, rutelliano, mastelliano e persino demitiano), quello che nessuno ha il coraggio di dire ad alta voce è che, in fondo, Villari è il miglior uomo che il Pd potesse sognare per quel ruolo nella Vigilanza. “Villari – spiega con un sorriso l’ex direttore generale della Rai, Pier Luigi Celli – in teoria avrebbe tutto quello che deve avere un buon presidente della Vigilanza. Per quel ruolo occorre appartenere all’opposizione, occorre essere scelti dalla maggioranza, occorre essere competenti e occorre essere trasversali per garantire gli equilibri dell’azienda e dialogare con i vertici. Se non fosse che la formula con cui è stato eletto è decisamente inusuale, Villari sarebbe un buon presidente, più di Orlando”.

“Mi dimetterò solo se c’è un’intesa”
Ma se prima del caso Villari nessuno – neanche il Cav. – era riuscito a convincere W. della presenza nel paese di un “regime”, ecco, una ragione c’è. Villari è una delle espressioni di una certa insofferenza politica nei confronti di Veltroni, e non deve stupire che nel Pd ci sia qualcuno convinto che l’operazione che ha portato a eleggerlo alla Vigilanza sia uno dei tanti segnali possibili dell’offensiva dalemiana. Il senatore napoletano – che ha dimostrato che W. può perdere da un momento all’altro il controllo del partito – è stato uno dei primi ad aver spiegato che nel Pd c’è un piano B, ed è quello di D’Alema. “La musica è cambiata: i nostri elettori avvertono la necessità di ricalibrare la posizione del partito e riconoscono a D’Alema un’affidabilità che altri non hanno… Massimo, con Marini, costituirebbe una coppia solida per il futuro del Pd… Red è l’ultima scialuppa per il partito”, ha raccontato Villari un mese fa a questo giornale. Pur avendo promesso che seguirà gli ordini del suo partito,Villari è stato tutt’altro che sorpreso dall’elezione alla Vigilanza: già da lunedì, chi ha avuto la possibilità di parlare con lui sapeva che la sua nomina era ormai cosa più o meno decisa (“Evidentemente ho estimatori bipartisan”, scherzava il senatore con gli amici). Tra le altre cose – con quel vento nuovo che soffiava in Rai e con quell’aria da fase due che si respira da tempo nel Pd – Villari raccontano che si stesse cominciando un po’ a “divertire”. “Fosse per lui – dice un ex dirigente della Margherita – a quel ruolo col cavolo che Riccardo ci rinuncerebbe”. Ieri il Pd (con D’Alema e Tonini) ha ricordato che se Villari non presenterà le dimissioni verrà espulso, e alla fine il senatore sarà costretto a lasciare l’incarico. Ma vista da Villari, la situazione un po’ paradossale lo è: perché provateci voi a mettervi nei panni di questo senatore eletto a capo di una commissione che ha sempre sognato, in un ruolo che ha sempre amato, in un’azienda per cui ha sempre lavorato, e che si ritrova con compagni inbufaliti, con segretari indiavolati quando nel Pd sarebbero invece molti quelli che pur di farla finita con questa storia della Rai (e con la candidatura di Orlando) cominciano a sognare che sia proprio lui il nuovo presidente di questa dannata commissione di Vigilanza.
Claudio Cerasa
16/11/08

giovedì 13 novembre 2008

Il Foglio. "I soldi, le banche e la sinistra"

Veltroni, D’Alema, De Benedetti, Caltagirone, Bazoli, Mussari. Ma scusate, che fine ha fatto la finanza rossa? Tra banchieri, politici e capitani d’industria, ecco perché l’opa dalemiana sul Partito democratico comincia da qui







“Colori di Fantozzi: rosso, rosso pompeiano, arancio aragosta, viola, viola addobbo funebre, blu tenebra. Sul blu tenebra Fantozzi andò in coma cardiorespiratorio”.
(Il ragionier Ugo alla cena di gala, alle prese con la cosa più difficile da mangiare in natura, il tordo. “Il secondo tragico Fantozzi”, 1976)

Due immagini. La prima è quella di un Walter Veltroni sorridente, con la fascia da sindaco, con il pollice destro tirato su verso il cielo e con lo sguardo fisso sul parquet di un campo da basket romano. Lui al centro e tutti gli altri al suo fianco: imprenditori, banchieri, costruttori e capitani di industria. Tutti allo stadio. Tutti a tifare. Tutti attorno a Walter. Data: giugno 2007. Città: Roma. La seconda immagine è una colazione informale, è una tazzina di caffè poggiata su un vassoio di cristallo, è un tavolino di un ufficio milanese attorno al quale ci sono Massimo D’Alema e Giovanni Bazoli, dove si discute della fusione tra Capitalia e Unicredit, della banca IntesaSanPaolo e della nuova geopolitica del sistema finanziario. La data è il maggio 2007. Poi succede che Veltroni perde le elezioni, che l’ex sindaco abbandona quel parquet dorato dove aveva governato per quasi otto anni e improvvisamente si ritrova di fronte a un mondo completamente diverso, inaspettato. Un mondo dove i vecchi equilibri politici, economici, finanziari, e non solo, sono saltati tutti per aria. Perché quell’universo fatto di banchieri, costruttori e imprenditori, quella fetta di establishment che il segretario del Pd era riuscito a riunire attorno a una festa del cinema e a un palazzetto dello sport oggi si è sciolto come neve al sole, e quello che in molti consideravano come l’unica evoluzione possibile del mondo legato alla finanza rossa ha dimostrato di essere un ambiente troppo fragile, troppo precario, troppo debole per sostenere l’urto di una sconfitta elettorale. Troppo diverso, per esempio, da quello che Massimo D’Alema ha costruito con successo negli ultimi dieci anni: in modo più informale, più silenzioso e meno vistoso, magari, ma certamente senz’altro più efficace.
Ecco, chiamatela finanza rossa, chiamatela pure finanza paonazza: fatto sta che per capire quali sono i rapporti di forza tra i più importanti dirigenti del centrosinistra, bisogna partire da qui. Da questi fotogrammi. Dalla Roma di Veltroni e Bettini. Dalla Milano di Passera e D’Alema. Dalla Torino di Chiamparino e Benassia. Dalla Brescia di Bazoli e Letta. E alla fine il risultato è sempre lo stesso. Alla fine dei giochi, comunque questo mondo lo si voglia guardare, alla fine c’è sempre lui. C’è sempre lo zampino di Max.

***

Roma è senz’altro la città che meglio delle altre offre oggi un’immagine chiara della nuova stagione della finanza rossa: bisogna partire da qui, da quella città che il centrosinistra ha amministrato negli ultimi quindici anni (prima con Francesco Rutelli e poi con Walter Veltroni) per capire quale è stato il destino della rete di potere cresciuta attorno al famoso “modello Roma”. Una rete, questa, che aveva avuto la sua massima espressione in quella scacchiera politica che era la Festa del cinema di Roma: lì dove Goffredo Bettini (braccio destro di W.) era riuscito a mettere insieme i volti forti del veltronismo candidato a governare il paese. Ricorderete: c’era Luigi Abete (presidente della vecchia Bnl), c’era Andrea Mondello (ex vicepresidente di Confindustria e presidente della Camera di commercio romana), c’era Massimo Tabacchiera (ex presidente della Federlazio), c’era la famiglia Toti (costruttori molto attivi negli anni in cui W. ha governato sulla città), c’era Innocenzo Cipolletta (ex numero uno delle Ferrovie dello stato e consigliere di amministrazione della prima festa del cinema), c’era Paolo Cuccia (già vicepresidente di Capitalia). Ma quell’intreccio di potere oggi rischia di essere coniugato soltanto con verbi al passato: la conquista della Festa di Roma, per il nuovo sindaco Gianni Alemanno, ha avuto l’effetto di sottrarre al segretario del Pd l’appoggio di quell’establishment (un po’ finanziario e un po’ imprenditoriale) che di questi tempi non avrebbe certo fatto male a W.
L’immagine più limpida della nuova geopolitica romana è certamente la fotografia della commissione per le riforme voluta dal sindaco Gianni Alemanno. Nei confronti dei nuovi colori politici della capitale, l’Attali di Alemanno segnala un atteggiamento “non pregiudiziale” del vecchio blocco di potere veltroniano, tanto che la commissione per le riforme guidata da Antonio Marzano comprende alcuni uomini fino a pochi mesi fa considerati piuttosto organici al mondo veltroniano: Luigi Abete, Innocenzo Cipolletta e Andrea Mondello (anche se per quest’ultimo il discorso è un po’ diverso, perché Mondello è legato da sempre ai due grandi king maker della città: Goffredo Bettini e Gianni Letta) hanno accettato di far parte dell’Attali romana, e molti osservatori notano che con Veltroni è rimasto soltanto Matteo Arpe, ieri amministratore delegato di Capitala, ora numero uno della Sator. Racconta un ex assessore romano che i rapporti di amicizia tra i due sono molto buoni, e la vicinanza di Arpe al mondo di W. è segnalata anche dalla presenza di Luigi Spaventa (presidente della stessa Sator) negli organi dirigenti del Partito democratico (Spaventa è membro del collegio sindacale del Pd).
“La differenza tra Veltroni e D’Alema – spiega al Foglio un senatore romano del Partito democratico, che vuole tenere l’anonimato per la delicatezza del tema – è fatta anche di queste cose: il primo ha dato vita a Roma a una rete di potere troppo legata a singoli atti amministrativi, che si è liquefatta dal giorno in cui sono cambiati gli equilibri politici romani. Il secondo, invece, nei confronti di quello che voi chiamate ‘mondo della finanza rossa’ ha un tipo di impostazione più pragmatico, basato più su quei rapporti personali che restano nel tempo a prescindere dal proprio ruolo politico: un approccio in questo senso molto efficace e molto berlusconiano”.
Un discorso a parte va invece fatto per una famiglia tradizionalmente amica di W: i Toti. Negli anni di governo veltroniano, la stella della famiglia romana aveva brillato anche grazie alle importanti opere realizzate: ex mercati generali dell’Ostiense, Galleria Colonna, Globe Theatre. C’è chi dice che il buon feeling tra Veltroni e i Toti (favorito anche dalla passione in comune per il basket: Veltroni è tifoso della squadra di cui i Toti sono presidenti, la Virtus) sia stata la vera ragione che ha portato alla rottura dei rapporti tra l’ex sindaco di Roma e l’editore del Messaggero Francesco Gaetano Caltagirone. Oggi, invece, la realtà è che i Toti non hanno alcun imbarazzo a rivendicare il proprio appoggio alla nuova amministrazione della capitale. Tanto che, raccontano, non è impossibile immaginare che gli stessi Toti prendano parte a una futura cordata romana per entrare nel capitale sociale della nuova Alitalia, insieme con le famiglie Garofalo, Angelucci e Santarelli e sostenuti proprio dal sindaco Gianni Alemanno.
In questo mondo veltroniano, però, ci sono altri aspetti che non possono essere trascurati. Il primo riguarda il rapporto tra Walter Veltroni e Carlo De Benedetti, perché se tre anni fa l’editore del gruppo Espresso aveva detto di essere disposto persino a prendere la tessera numero uno del Partito democratico (“La tessera numero uno del Pd la prendo io, se volete”, disse De Benedetti il primo dicembre del 2005) oggi le sue parole sono più dure, sono più critiche e sono più distaccate rispetto a qualche anno fa. A tal punto che il 27 settembre l’Ingegnere ha detto “non ho mai avuto, non ho e non avrò mai la tessera di alcun partito” e soltanto un mese dopo, rivolto al Pd e a Walter Veltroni, ha aggiunto che “in Parlamento l’opposizione non c’è”. “L’ingegnere – racconta un dirigente del Pd che bene conosce l’editore del gruppo Espresso, e che vuole riservatezza proprio per questo – non ha più con Veltroni quel rapporto esclusivo di un tempo. I due si sentono e si frequentano ancora, ma il rapporto in questo momento è un po’ freddo, e Repubblica, non a caso, non è più accecata dal veltronismo”. I veltroniani più smaliziati, poi, sostengono che il mondo prodiano sia tornato a suscitare un certo e inaspettato fascino dalle parti di Repubblica (vedi le pagine bolognesi ultimamente poco tenere nei confronti dell’ex sindaco Sergio Cofferati). Ma la verità è che nel Partito democratico l’unico politico con cui Carlo De Benedetti ha ancora ottimi rapporti non è Walter Veltroni, ma è il vicesegretario di W., Dario Franceschini, di cui l’Ingegnere ha una gran stima e con il quale ogni tanto si incontra a cena.

***

A poco più di duecento chilometri di distanza da Roma, però, c’è un altro volto della capitale che offre altre preoccupazioni al mondo di W. Quella città è Siena e il volto è ancora quello di Francesco Gaetano Caltagirone. Dopo aver chiesto con successo nell’ultima campagna elettorale una “discontinuità” nella guida della capitale, Caltagirone ha continuato ad attaccare l’ex sindaco di Roma con una certa costanza. L’ultima volta è capitata un mese fa, al piano terra dello spazio Etoile a piazza San Lorenzo in Lucina, a Roma, dove l’editore del Messaggero ha tracciato un bilancio molto severo dell’amministrazione veltroniana. “La mancanza di guida che ha avuto negli ultimi anni – ha detto – ha fatto scivolare Roma là dove voleva andare da sola… L’economia romana negli ultimi cinque anni si è sfaldata. Paga una carenza significativa in termini di infrastrutture, a causa dell’assoluta priorità che si è data a qualsiasi altra cosa che non fosse la modernizzazione della città…”. Il fatto che Caltagirone abbia attaccato in modo così duro il segretario del Pd mentre sedeva accanto al numero uno della banca più a sinistra d’Italia – Giuseppe Mussari, presidente della Monte dei Paschi di Siena – è un elemento che non può essere sottovalutato: Mussari – nominato alla guida della banca da una fondazione (la Mps) composta per lo più da manager vicini al mondo del Partito democratico – è un elettore del Pd, è stato iscritto prima al Pds e poi ai Ds e sarebbe stato scontato aspettarsi una difesa del segretario del Pd. Invece non è successo. Perché?
Come sembra essere ormai evidente, nella terza banca più grande d’Italia (Mps-Antonveneta) gli equilibri sono completamente cambiati, e il rapporto tra Mps e Pd è più complesso rispetto a qualche tempo fa. Fino alle elezioni dello scorso aprile, Mussari non ha fatto nulla per nascondere la sua simpatia per il segretario del Pd. Era stato Mussari ad accompagnare Veltroni in Toscana nell’agosto del 2007, ed era stato Mussari a seguire da vicino l’ultima campagna elettorale di W. Inoltre, il recente ingresso di alcuni manager legati alla Sator di Matteo Arpe in Mps (si tratta di Carmine Mancini e Giulio Pascazio) sembrava fosse il segnale evidente di un forte radicamento del veltronismo anche in territorio senese. “I due – spiega un dirigente del Pd, che sceglie anche lui l’anonimato – si conoscono da tempo: Mussari è stato un militante dei Ds e prima ancora del Pds, e con Veltroni ha sempre avuto una buona intesa. In questi anni, inoltre, i due hanno anche condiviso la passione per il basket, seguendo spesso insieme allo stadio le gare delle proprie squadre del cuore: Mussari è un gran tifoso della Monte dei Paschi di Siena, squadra di cui la sua banca è anche sponsor ufficiale; Veltroni lo è invece della Virtus Roma”. Oggi però tra i due non c’è più una grande cordialità. Tutt’altro.
E ancora una volta ci sarebbe lo zampino di Francesco Gaetano Caltagirone. In meno di due anni, l’editore del Messaggero è riuscito a radicarsi con successo in territorio senese, diventando sempre più influente nella banca di Mussari e nella città che un anno fa ha ospitato il matrimonio tra la figlia Azzurra e Pier Ferdinando Casini. Caltagirone oggi è numero due della Monte dei Paschi, è il primo azionista privato della Mps, possiede il 4,7 per cento della banca, è vicepresidente dello stesso istituto, e dallo scorso anno, con il logo giallo del quotidiano free press di sua proprietà (Leggo), è sponsor anche della squadra di basket campione d’Italia: la Monte dei Paschi. Non deve stupire dunque che la banca per ragioni storiche più legata al centrosinistra sia tutto oggi tranne che una banca veltroniana. Ma credere che la Monte dei Paschi sia diventata una realtà estranea al mondo del centrosinistra sarebbe un errore da matita blu. Mussari ha ancora ottimi rapporti con i dirigenti nazionali del Partito democratico, è legato al Pd anche grazie a una stretta amicizia con il tesoriere umbro del partito (Mauro Agostini). Ma l’uomo che più compare sulla sua agenda è ancora il vice di W., Dario Franceschini. Come spiega uno degli osservatori più attenti agli intrecci tra la politica e la finanza senese (Raffaele Aschieri, autore di un libro sulla presunta “Casta di Siena”), il rapporto tra il vicesegretario del Pd (fedele a W., ma allo stesso tempo abile a costruire attorno a sé un mondo autonomo dal veltronismo) e Mussari nasce grazie a un’amicizia che i due hanno in comune con Gabriello Mancini, presidente di quella Fondazione Mps che nomina i dirigenti della banca ogni quattro anni. Mancini era iscritto allo stesso partito di Franceschini (la Margherita) e un anno e mezzo fa, nel corso del tour elettorale delle scorse primarie, era stato lui a presentare Mussari al vice di W.
Siena, però, è anche la città in cui i fili che tengono insieme i mondi di Enrico Letta e Massimo D’Alema cominciano a intrecciarsi sempre di più. Se da un lato Letta è riuscito a entrare in contatto stretto con alcuni volti influenti dell’universo Mps (sono il professor Andrea Paci – membro del consiglio direttivo della fondazione Monte dei Paschi e rappresentante della regione Toscana in Mps – e la dottoressa Isabella Falautano – responsabile studi e relazioni Internazionali del gruppo Montepaschi Vita), dall’altro lato la sponda dalemiana in territorio senese è un volto particolarmente conosciuto da queste parti: si chiama Franco Ceccuzzi, è un parlamentare di quarantuno anni, è stato segretario del Pd senese (eletto con il 91,7 per cento dei voti), consigliere provinciale del partito, responsabile economico del Pd toscano e raccontano sia lui il futuro candidato al comune di Siena nel 2011. Ceccuzzi – che viene considerato il vero anello di congiunzione tra l’universo della banca senese e quello del Partito democratico – dallo scorso luglio ha in tasca la tesserina rossa di Red, e nelle prossime settimane sarà lui (insieme con il deputato Michele Ventura) uno dei democratici grazie ai quali la costola politica della fondazione dalemiana ItalianiEuropei consoliderà il suo tesseramento anche in Toscana. Perché l’opa silenziosa lanciata da Massimo D’Alema sul Partito democratico comincia anche da qui. Comincia da Siena, arriva a Torino, arriva a Milano, a Brescia, a Bologna e mette insieme il mondo di Giovanni Bazoli, di Cesare Geronzi, di Enrico Letta e di Romano Prodi. Perché – qualsiasi inquadratura si voglia scegliere e quale che sia la tonalità di rosso con cui si voglia colorare il mondo della finanza rossa – alla fine dei giochi c’è sempre lui. C’è sempre lo zampino di Max.
Prendete, per esempio, il caso di Milano. (1. continua)

mercoledì 12 novembre 2008

Il Foglio. "Così il Pd scopre che la Lega nord oggi ha un piano per il sud"

• Trento dimostra che il W. può allearsi anche con la Lega. Bossi inizia la campagna meridionale e prepara una sorpresa europea

Roma. Le elezioni provinciali di Trento hanno dimostrato che la Lega è certamente il partito del nord più in salute di tutto il centrodestra. Ma dietro agli ottimi risultati registrati in Trentino (18,3 per cento dei voti complessivi) esistono alcuni aspetti che spiegano bene come il partito di Umberto Bossi stia cercando di indossare sempre più l’abito di vera forza nazionale. Non deve dunque stupire che negli stessi giorni in cui i leghisti hanno organizzato la campagna elettorale di Trento, alla sede della Lega di via Bellerio, a Milano, siano arrivate sempre più richieste e sempre più lettere di elettori pronti a sostenere il partito di Bossi non solo dal nord ma anche dal sud. Come spiega al Foglio il presidente della Lega, Angelo Alessandri, “il nostro partito ha intenzione di andare al di là dei confini del nord, ha intenzione di radicarsi in Umbria, in Toscana, in Emilia Romagna, in Calabria, in Puglia, in Campania e persino in Sicilia. Le ultime politiche hanno dimostrato che la Lega è un partito con ambizioni nazionali che non può che ascoltare quegli elettori che, in queste ore, a Bari, a Foggia, a Trapani, a Frosinone, a Napoli, a Salerno, a Palermo e ad Agrigento, ci stanno chiedendo di offrire qualcosa di più che un semplice comitato elettorale. Per questo – continua Alessandri – all’inizio del prossimo anno potremmo pensare di modificare lo statuto, di aprire alcune sezioni della Lega al sud e, perché no, di far nascere da queste parti liste elettorali autonome già dalle prossime elezioni europee”. Fino a oggi, l’influenza leghista nel sud era testimoniata dalla presenza di una costola della Lega, quella “Alleanza federalista”, di cui è segretario il deputato Giacomo Chiappori, che ha scelto di presentarsi alle prossime elezioni abruzzesi e che il prossimo 23 gennaio formalizzerà il tentativo di opa leghista nel meridione inaugurando il primo Parlamento del sud. “I sondaggi – spiega il deputato leghista, Chiappori – ci dicono che Lega e Alleanza federalista, per esempio in Abruzzo, viaggiano su risultati vicini all’8 per cento, e i dati che abbiamo in mano dimostrano inoltre che il bacino elettorale leghista al sud, oggi, si avvicina ai 600 mila voti”. Il deputato leghista conclude così il suo ragionamento: “Attenzione: la caratteristica di essere anche realtà territoriali impone a partiti come il nostro alleanze con schieramenti di ogni colore. Il nostro interlocutore non è di destra né di sinistra, e se ci trovassimo un giorno a ragionare su alleanze differenti, niente da dire, purché ci portino da qualche parte”.
Claudio Cerasa
12/11/08

sabato 1 novembre 2008

Il Foglio " Lettera di una maestra unica"

Storia di una combattiva insegnante elementare alle prese con una riforma che ha deciso di non applicare
Le avete viste sfilare dovunque. Fuori dalle scuole, di fronte al Parlamento, sotto il palco del Circo Massimo e lungo le strade della Capitale. Maestre. Maestre imbufalite e preoccupate. Maestre deluse e rassegnate. Maestre stabili e precarizzate. Maestre che studiano decreti, che firmano petizioni, che scoprono dati, che leggono inchieste, che scrivono ai ministeri e che provano a spiegare che no, signor ministro, questa riforma non ci sta bene. E lo fanno anche così. Con queste parole. Con questi esempi. Con queste storie, come quella di Maria. Ecco. Maria non è incazzata. Delusa, quello un po’ sì. Delusa, perché lei che nella scuola ci è cresciuta più di quei bambini che ha visto crescere sotto i suoi occhi, ogni giorno della sua vita, crede che in questi giorni ci sia qualcuno che con un decreto, con una “disposizione urgente in materia di istruzione” e con tre paginette tre, approvate pochi mesi fa dal Cav prima e dalla Camera e dal Senato poi, stia cancellando una parte della sua esistenza. O più semplicemente, una parte della sua scuola.

Ha detto maestro unico, gentile ministro? Maria è un’insegnante di scuola elementare, ha cinquantacinque anni, insegna storia, geografia e italiano da quando di anni ne aveva venti, ha una splendida quarta elementare, una scuola da dove ogni mattina si affaccia per vedere tutti i colori della Capitale e tra un anno diventerà maestra unica, quando dovrà insegnare non solo storia, geografia e italiano ma anche matematica, scienze, musica, attività motoria, educazione all’immagine. Tra dodici mesi.
Prima d’oggi, Maria non aveva mai pensato di smettere di insegnare. Mai: neppure in quelle seratacce in cui si presentava ai colleghi del marito e si accorgeva che alla parola “maestra” tutti la guardavano così, con gli occhi incerti di chi ti stava osservando senza pensare al tuo lavoro ma solo al tuo conto in banca. Mille e cinquecento euro al mese: come se la bellezza della tua vita fosse un estratto conto con uno zero in più o uno in meno. Stronzate, e comunque chissenefrega.

Se potesse tornare indietro, Maria, rifarebbe lo stesso percorso che le ha permesso di arrivare fin qui. Lo stesso, con gli stessi intoppi, gli stessi gradini, gli stessi traguardi. Ripartirebbe da Sciacca, ripasserebbe da Palermo, da Corleone, da Ribera e si trasferirebbe un’altra volta a Roma, nella stessa città in cui Maria insegna a ventidue bambini di nove anni. Nella stessa città in cui ha imparato a diffidare di quelle persone che quando parlano di scuola si lasciano scappare la parola “azienda” e dove ha capito che quelle che spesso vengono chiamate “esigenze pedagogiche” non potranno mai essere perfezionate con una sforbiciata a un capitolo di spesa. Certo, i ministri dicono che il paese deve essere messo a dieta e che alla dieta non c’è parte del corpo che oggi si possa sottrarre. Nessuna. Maria non la pensa così.

Di tutta questa storia, di tutti questi commi e questi emendamenti da riforma scolastica a Maria poi non è che gliene dovrebbe fregare molto. Nel senso. C’è chi si preoccupa per i tagli al personale, c’è chi si preoccupa per la fine del tempo pieno, c’è chi si preoccupa delle differenze tra le parole “unico” e “prevalente”, c’è chi si preoccupa per le possibili conseguenze di un sei in condotta, c’è chi si preoccupa di come indossare un grembiulino e c’è chi si preoccupa per un figlio che non avrà più gli stessi spazi che aveva prima per continuare a studiare. Maria no. Lei potrebbe rimanere lì, a scuola, senza aver paura di finire in mezzo a una strada e senza aver paura di non veder più crescere di fronte a sé quei bambini che hanno imparato a seguirla come se fosse una madre.

Troppi anni di insegnamento per essere fatta fuori. Trentacinque anni sono tanti anche per un governo che deve tagliare otto miliardi di spese scolastiche nei prossimi tre anni. Otto miliardi. Per capire: la stessa cifra che lo stato si vede scippare sotto il naso ogni anno da tutti quegli evasori fiscali che alla cassa non stampano gli scontrini. Epperò. E però ora cambia tutto lo stesso, dice Maria. Cambierà la sua vita e cambierà la sua scuola. Meno ore in classe, meno colleghi con cui lavorare, più studenti ma meno tempo per farli studiare. Maria sa che tutti quegli universitari che scendono a battagliare in piazza, tutti quei liceali che chiudono i lucchetti delle scuole, tutti quegli studenti che si schierano al fianco dei baroni e tutte quelle maestre che sfilano per protestare contro un ministro sono stati infiammati da un’unica scintilla. Hanno toccato i bambini, dice Maria, e i bambini non si toccano neppure con un fiore.

“Per la scuola primaria tornare al maestro unico risponde a un’esigenza pedagogica. I bambini hanno bisogno di avere un punto di riferimento preciso anche fuori dalle pareti domestiche”.

Maria ha cominciato a lavorare in Sicilia, a Palermo, in una scuola immersa nei colori morbidi e rimbombanti del mercato Vucciria: con una classe piccola, molto vivace e per certi versi persino appassionante. Tra quegli alunni di sette e otto anni c’erano anche molti figli di genitori finiti dietro le sbarre dell’Ucciardone. Bambini che arrivavano a scuola solo perché costretti dalla legge, dall’obbligo scolastico, e che lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenerli lontani da quella merda. Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione, diceva Victor Hugo, e aveva ragione. Fu lì che Maria capì in che senso doveva essere “maestra”. Lei, che a quei tempi era ancora inesperta, insicura e che si sentiva inadeguata di fronte a tutte quelle maestre che considerava cazzute perché orgogliose ancora più di lei di lavorare in un terreno arido ma pieno di fiori pronti a sbocciare, ecco, lei però aveva capito che non era l’insegnante che doveva essere il punto di riferimento dell’alunno. Doveva essere la scuola e doveva essere il corpo di cui faceva parte a difendere quei bambini che non arrivavano nelle aule per trovare un’altra mamma, ma che arrivavano lì per imparare a studiare. Per cominciare a crescere.
Doveva essere la scuola che doveva convincere i genitori a far uscire di casa i suoi bambini. E più si era e meglio era, ché con i bambini, dice Maria, risparmiare è una sciocchezza.
In trentacinque anni di insegnamento, Maria ha capito come si fanno crescere i bambini. Lo aveva capito ieri e lo vorrebbe ricordare oggi.

Una sola maestra non basta e non bastava. Non è sufficiente: nella scuola non basta insegnare a vivere e a studiare. Si imparano altre cose, che se oggi erano più semplice da insegnare e da domani saranno un po’ più difficili da fare. O almeno, non sarà facile come lo è oggi. Certo, è tutto vero. E’ vera la storia che si sente in questi giorni. Quella dell’insegnante che deve essere guida. Quella del maestro che deve essere maestro non solo di studio. Quella della maestra che, soprattutto, deve aiutarti a tracciare un percorso solido nei primi anni della tua vita. Ma perché uno? E se proprio vogliamo metterla così, perché un solo maestro di vita invece di due? Meglio scegliere, no? Perché unico significa anche senza appello. Perché ogni bimbo deve essere sicuro che sarà lui a decidere qual è l’insegnamento buono e qual è invece quello sbagliato. Perché il maestro e la maestra unico e unica lo erano vent’anni fa, e vent’anni dopo, cioè oggi, la scuola elementare è cambiata. Ed è cambiata bene. Maria, che qualche ricerchina e qualche dato li ha letti, ha scoperto un paio di cose interessanti. E ha pensato: perché chiedere alle scuole elementari di correre con il vecchio motore di Gilles Villeneuve invece che con quello più fresco, più nuovo e rodato di Micheal Schumacher? Ha scoperto questo. Ha scoperto che l’Italia è il paese che in Europa investe più di tutti nelle scuole primarie. Ha scoperto che l’Italia è il paese dove gli insegnanti hanno i salari più bassi di tutti. Ha scoperto che negli ultimi dieci anni gli stipendi degli insegnanti sono cresciuti meno del resto d’Europa (undici per cento contro 19 per cento); e allora ha pensato che se il nostro paese spende ogni anno circa seicento euro in più per ogni studente di scuola elementare, beh, questo non significa essere spendaccioni. Forse significa fare un investimento. Forse, come dicono i ministri, significherà pure mettere a dieta il corpo del paziente, ma almeno il cuore, dice Maria, almeno quello lasciatecelo così com’è, grazie.

“I nostri insegnanti lavorano poco, quasi mai sono aggiornati e in maggioranza non sono neppure entrati per concorso ma grazie a sanatorie. E poi 1.300 euro sono comunque due milioni e mezzo di vecchie lire, oggi l’insegnamento è part-time e come tale è ben pagato”.


Maria arrivò a Roma circa vent’anni fa, e dopo aver lavorato in due paesini ai confini della provincia romana (a Morlupo e Sacrofano) passò sei anni in una bellissima scuola a tempo pieno, una scuola a pochi chilometri dalla nuova sede Rai di Saxa Rubra, che oggi verrebbe definita sperimentale e che secondo lei aveva tutto ciò che era necessario per raggiungere il modello di scuola ideale. Tempo pieno. Campi scuola. Due, a volte tre o quattro, insegnanti per ogni classe. E poi. Maestre competenti, motivate, aggiornate. Collaborazione con i genitori. Laboratori. Gruppi di formazione. Visite culturali. Più input. Più insegnamenti. Più qualità. Più aiuto ai bambini con ritardi nell’apprendimento: ché non è uno spot, ma che è la scuola che oggi c’è e che domani non ci sarà. E poi, alla fine di ogni mese, un programma di studio rivisto, pensato a due voci e scritto a quattro mani. Anche di notte. Sissignore: si lavora anche di notte. Si lavora persino la sera, anche se nei “due milioni e mezzo di vecchie lire” gli straordinari non c’erano, non ci sono e non ci saranno mai, purtroppo. Ecco. Maria avrebbe voglia di fissare sul tavolo della sua stanza da pranzo una telecamera collegata con gli uffici del ministro Brunetta. La collegherebbe di notte e la indirizzerebbe verso le pile alte così di compiti da correggere, verso i nuovi libri di storia da studiare, verso gli appunti di ogni genere di materiale didattico. Si chiama orario non curriculare: si organizzano le lezioni, si elaborano compiti in classe, si preparano prove di verifica. La maestra fa la maestra anche quando non timbra il cartellino.

Maria, ecco il punto, crede che la scuola che ha in mente il ministro Gelmini non sia all’altezza dei compiti degli insegnanti. Crede che la riforma cancellerà quell’istruzione elementare che negli ultimi vent’anni aveva visto tanti insegnanti contribuire a disegnare quella scuola che qualcuno definisce vecchia, viziata e spendacciona ma che lei credeva, e crede, fosse semplicemente migliore. Poi ci sono i genitori, certo: perché si capisce che i papà e le mamme dei bambini che oggi hanno cinque, sei, sette, otto, nove e dieci anni in fondo in fondo siano convinti che con un maestro in più o uno in meno che cosa vuoi che cambi. Facile: il maestro unico, loro, i genitori, lo hanno sempre avuto. Con una sola maestra, o con un solo maestro, loro ci sono cresciuti, ci sono cresciuti bene e così – se non hanno altri figli, se non conoscono altre esperienze – dite: per quale razza di motivo dovrebbero perdere tempo a scendere in piazza con le maestre? Si sa: i genitori credono che il maestro, che deve essere maestro di vita, possa anche essere uno, basta che sia bello bravo e buono. Uno solo. Perché l’insegnamento elementare, pensano, non occorre che sia specialistico. Perché i bambini delle elementari, credono, devono imparare a essere buoni alunni nel futuro. Perché a sette, otto, nove anni, sostengono, quel che conta è leggere, scrivere, dividere, moltiplicare, sottrarre, imparare a studiare, stare con gli amici. E allora? Allora servono persone che siano in grado di offrire ai propri piccoli i giusti strumenti per l’apprendimento futuro. E uno basta e avanza, no? No, dice Maria. Non basta.

“Le ragioni della protesta francamente non le comprendo, e sono sempre più convinta che in realtà molti di quelli che scendono in piazza non hanno letto il provvedimento. Si protesta nelle università e si fanno manifestazioni nelle scuole secondarie quando il provvedimento non li tocca minimamente, perché riguarda prevalentemente la scuola elementare e media”.

In vent’anni di passaggio, in vent’anni di transizione dal mondo del maestro unico a quello del maestro multiplo, dice Maria, tutto si è perfezionato. Quando si dice che quella di oggi non è una riforma ma una capriola all’indietro si dice il vero. Maestro unico, continua la maestra, significa cancellare le uscite didattiche, significa cancellare i campi scuola, significa disegnare il futuro dei bambini a due invece che a quattro mani, significa non capire che la scuola di oggi è cresciuta, che lavorare con più maestre, che avere più tempo per i bambini in difficoltà, che avere la possibilità di formare gruppi di lavoro, inventare laboratori, portare a spasso i bambini per i musei della città e dare loro il doppio degli stimoli di un tempo, beh, non è uno spreco. E’ una ricchezza. E poi. E poi è sbagliato – aggiunge Maria – dire che a quell’età i ragazzi devono “apprendere” solo un metodo di studio. Che devono avere una guida e che non devono imparare a conoscere un gran numero di materie. Si può decidere di voler sacrificare tutto questo, si può dire di non avere altre soluzioni ma si deve ammettere che tutto questo non è per il bene della scuola. Per il bene dei bambini. No, dice Maria, non lo è.

“Abbiamo meccanismi che appesantiscono la vita dei professori. Il docente non è chiamato più solo a insegnare, ma a una serie di incombenze, di riunioni, di adempimenti burocratici che non servono a nulla”.

Poi c’è la storia del tempo pieno, per esempio. Il ministro Gelmini, dice Maria, è convinto che non ci sarà alcun problema. Che tutto sarà confermato e che verrà persino incrementato. Sì, ma come? Come faranno a insegnare il pomeriggio quelle maestre che per legge dovranno rimanere in classe ventiquattro ore a settimane, e dunque per quattro ore al giorno? Come faranno a “rispondere a un’esigenza pedagogica” quelle maestre che dovranno insegnare con meno soldi, con meno colleghe e con più studenti? Semplice, non potranno. Andranno laddove sarà possibile permetterselo – chissà, magari nelle scuole private. Così cosa succede. Succede che il tempo pieno diventerà un dopo scuola. Succede che, con meno maestre a disposizione per ogni classe, i campi scuola rischiano di essere rimossi. Succede che i programmi verranno ristretti. Succede che le elementari non saranno più “un’anomalia”. Saranno, diciamo, come le altre scuole italiane. Nella norma. Così così. Poi, certo, dicono che il maestro non sarà unico, che sarà prevalente, che ce ne sarà uno di inglese e uno di religione, che – ancora – “l’anomalia” dei tre insegnanti è un’anomalia solo italiana e che in fondo, quando fu introdotto il modulo (due maestre per ogni classe, anno 1989), la sinistra si schierò con forza per impedire l’introduzione dei tre maestri. Certo. Ma alla fine il risultato quello è. Il risultato è che la maestra di oggi dovrebbe essere come quella di diciannove anni fa. E allora sì: gli studenti continueranno a scendere in piazza per dimostrare che il ministro non è competente, che non è in grado di governare l’istruzione e che non è capace di partorire un decreto che faccia il bene della scuola.

Ma il cuore della protesta, oggi, resta quello, e la scintilla che ha acceso il cuore della rivolta nasce da lì. Dalle maestre. Dalle scuole elementari. Dalla sensazione che si vogliano toccare i bambini. Dall’impressione che si voglia cancellare una parte della scuola. Dall’idea che saranno sforbiciati diciannove anni di storia. La storia di tutte quelle persone come Maria. Persone che hanno visto crescere di fronte a sé bambini che oggi confondono le maestre con le mamme. Persone che non vogliono concludere la propria carriera scolastica con una cosa già vista, già fatta, già superata, che hanno costruito una scuola che credevano migliore, che credono che domani lo sarà un po’ meno e che in fondo in fondo, come diceva il vecchio saggio, sono convinte di questo. Che chi non fu mai scolaro non potrà mai essere buon maestro, gentile ministro.

Il Foglio "D’Alema prova ad aprire la fase due del Pd anche nel Lazio di W.

Roma. Con il vento del Circo Massimo che soffia ancora forte sulle vele del segretario, oggi resta solo da capire quali saranno le mosse con cui Veltroni proverà a mantenere la sua leadership sopra i livelli di guardia. La seconda giovinezza di Walter è un dato difficile da contestare, ma sarebbe sbagliato credere che da qui alle elezioni europee non arriveranno nuovi attacchi alla cabina di comando del Pd. Così, se Veltroni e D’Alema continueranno a incrociare le loro lame e se l’ex ministro degli Esteri proverà a condurre in prima persona la battaglia per offrire una “nuova fase” politica al suo partito, per avere un’immagine chiara di come si andrà a disegnare l’eterno scontro tra i due miglior nemici del Pd non c’è fotografia migliore di quella che offre il Lazio. Nella regione dove il mondo veltroniano ha costruito il suo più solido bacino di consenso elettorale, il “confronto” tra mondo dalemiano e veltroniano è ormai sotto la luce del sole. Che ci si creda o no, il Lazio oggi è l’unica regione d’Italia che si ritrova a non avere ancora un segretario: il presidente della provincia Nicola Zingaretti è dimissionario dallo scorso maggio, il partito non ha ancora trovato un nome per la sua successione e su questo terreno lo scontro tra Veltroni e D’Alema non è morbido. “Il rischio – racconta uno dei più importanti dirigenti del Pd romano – è che oggi si scelga il Lazio per dare sfogo allo scontro che esiste a livello nazionale tra Veltroni e D’Alema”. Entro il quattordici novembre, il Pd dovrà trovare un nome per amministrare la macchina del partito regionale, e se il mondo dalemiano nel Lazio aveva finora trovato una certa difficoltà a districarsi sotto il dominio del modello Roma (quello di Goffredo Bettini), ora è vero il contrario. Dalle elezioni dello scorso aprile i “dalebani” (come vengono ironicamente chiamati i dalemiani di rito laziale) si sono sottratti dal controllo bettiniano e i segnali della maggior presenza sul territorio di un Pd con i baffi di certo non mancano. E’ dalemiano l’assessore regionale all’industria (Claudio Mancini). E’ dalemiano il coordinatore della segreteria romana del Pd, Piero Latino. Ma soprattutto dalemiano è anche il numero uno dell’opposizione al comune di Roma, Umberto Marroni. “Purtroppo – racconta al Foglio il senatore del Pd Lucio D’Ubaldo – sono molti i dirigenti del partito pronti a combattere per non riconsegnare Roma e il Lazio a Veltroni e Bettini”. Non deve dunque sorprendere che i dalemiani siano ora disposti a sfidare il mondo veltroniano sui candidati alla segreteria regionale del Pd. Il risultato è che Roberto Morassut sarà il candidato di W. mentre ancora oggi D’Alema ha intenzione di aprire la “nuova fase” del Pd romano con la candidatura di Gianni Cuperlo. Certo è che dietro le trattative di queste ore c’è un altro dato significativo, perché l’asse schierato contro il mondo veltroniano è formato non solo dai dalemiani, ma anche da una parte del mondo legato a Enrico Letta, a Francesco Rutelli e al governatore Piero Marrazzo: non è un caso che, quando mercoledì il Pd ha messo ai voti il regolamento regionale sulle primarie, i veltroniani si sono ritrovati contro lettiani, dalemiani e marrazziani. Ma per comprendere il peso della partita politica locale tra Veltroni e D’Alema bisogna guardare anche agli equilibri presenti all’interno della stessa regione, dove i “dalebani” raccontano di essere disposti a ritirare la candidatura di Cuperlo a condizione che i veltroniani accettino di candidare nel 2010 il governatore Marrazzo, che da qualche mese è in ottimi rapporti con D’Alema e soprattutto con il mondo di Red. C’è chi dice, poi, che dietro alle manovre dalemiane nel Lazio non ci sia soltanto l’idea di far saltare il modello Roma, ma ci sia anche il tentativo di ostacolare la crescita di Nicola Zingaretti, provando a portare il presidente fuori dal mondo legato a Bettini. Zingaretti, che ieri ha presentato il suo primo manifesto politico, sorride, e la mette così: “Il problema del Pd – dice al Foglio – è che tutte le correnti con cui abbiamo a che fare oggi stanno assumendo una dimensione identitaria maggiore di quella del partito stesso. La sfida del Pd, anche a livello locale, dovrebbe invece essere quella di aprire una fase che ci proietti oltre le vecchie componenti politiche. Perché, statene certi, chi ci riuscirà rappresenterà il futuro del partito”.
Claudio Cerasa
1/11/08