martedì 30 settembre 2008

Il Foglio. "Piddimetro, ecco chi comanda nel Pd"

Le parole di D’Alema e le nomine di Veltroni spiegano dove nasce l’accerchiamento del segretario. Le truppe del leader contano per il 29 per cento. Bettini si smarca, mentre Letta (Enrico) sale


Roma. Per una ragione o per un’altra, non c’è notizia, non c’è dichiarazione, non c’è iniziativa, non c’è proposta e non c’è intervista che nel Partito democratico non sia ormai letta come il sintomo più evidente dell’imminente crisi della leadership veltroniana. Basta un motivo qualsiasi, basta un Veltroni che scrive a Berlusconi (e dagli all’inciucio!), basta un Veltroni che parla con Casini (e dagli al centrismo!), basta un Veltroni che non discute con D’Alema (e dagli al correntismo!) e basta un Veltroni che dialoga con il Cav. (e dagli al dialogo!) per mettere gli osservatori politici nelle condizioni di dire che il segretario ormai è finito, che la leadership è ormai sfiorita e che nel partito non esiste dirigente alcuno che non sia convinto che sarà il flop delle prossime elezioni europee a certificare il necessario ricambio della classe dirigente del Partito democratico. A quasi un anno dalle primarie dello scorso 14 ottobre, però, è un po’ difficile provare a ragionare sui reali equilibri del Pd, e sul suo stato di salute, senza conoscere l’effettiva geografia interna del maggior partito dell’opposizione. Non è soltanto un discorso relativo al peso che possono avere in questo momento le correnti veltroniane, popolari, dalemiane, fassiniane, rutelliane o magari bersaniane. Si tratta piuttosto di andare a scoprire l’immagine più efficace per provare a capire il modo in cui le truppe del Partito democratico si andranno via via a schierare da qui alle elezioni europee. Facendo due calcoli, prendendo in considerazione le cariche più importanti assegnate all’interno del partito e mettendo insieme i membri del governo ombra (che tra ministri ombra, viceministri e sottosegretari arriva a contare 38 effettivi) e i più importanti organi dirigenti del partito (tra segreteria politica, tesoriere, area organizzazione, area comunicazione, area ricerca, area formazione, area relazioni internazionali, area forum, area sport, area terzo settore, coordinamento dell’iniziativa politica, responsabile propaganda, dipartimento Relazioni Internazionali, arrivano a un totale di trentadue) il risultato è che sembra essere sempre più evidente il modo in cui si va a configurare il progressivo accerchiamento attorno al segretario. Veltroni è naturalmente il leader più rappresentato all’interno del suo partito, ma dietro di lui può essere interessante scoprire quali sono le evoluzioni dei rapporti che esistono in questo momento tra popolari, bettiniani, rutelliani e naturalmente dalemiani. A oggi, il segretario del Pd si ritrova con venti dirigenti riconducibili all’universo veltroniano (da Tonini a Realacci, da Morando a Colaninno), dunque circa il 29 per cento del totale. Il leader del Pd sostiene da sempre che una delle caratteristiche della sua storia politica è stata quella di non aver mai creato attorno a sé alcun tipo di corrente (“Sulla mia tomba voglio che sia scritto che non ho mai promosso o aderito a una corrente”, ha detto Veltroni anche a questo giornale). Ma viste come stanno le cose oggi, e visto l’equilibrio precario della sua leadership, all’interno del Pd c’è già chi sostiene che il fatto di non essere riuscito a dare vita a una corrente tutta sua potrebbe essere piuttosto una delle tante armi a doppio taglio di W.: ieri segretario autonomo e indipendente, oggi semplicemente segretario isolato. Spiega al Foglio un dirigente del Partito democratico: “Vogliamo dirla tutta? Oggi, tra correnti e fondazioni, il Pd vive in uno stato surreale. Come tutti sanno, esiste un armistizio armato firmato da Veltroni e D’Alema. Un armistizio nato formalmente con la lettera che poco prima dell’estate Goffredo Bettini ha inviato all’Unità. Ma un armistizio che ha sul suo timer una data di scadenza precisa: le elezioni europee. Fino a quel giorno bisogna osservare con attenzione, da un lato, il modo in cui ci si andrà a posizionare accanto al segretario. Dall’altro, il modo in cui ogni corrente tenderà con forza a rivendicare la propria autonomia. Oggi, quando si parla di veltroniani si intendono nuovi dirigenti come Matteo Colaninno, vecchi ambientalisti come Ermete Realacci, riformisti come Enrico Morando e cattolici come Giorgio Tonini. Per il resto, la situazione è complicata. Le stesse parole di Goffredo Bettini sono oggi molto meno in sintonia con quelle di Veltroni, tanto che poco prima dell’estate è stato lo stesso ex braccio destro di Veltroni a ricordare che, per quanto lo riguarda, lui veltroniano non è – e non è un caso che anche sulla candidatura alla presidenza della Rai Bettini abbia detto una cosa (Pietro Calabrese) e Veltroni un’altra (Claudio Petruccioli). Inoltre, proprio in vista delle europee, tutti quei dirigenti che fanno capo a Pierluigi Bersani tendono ormai a distaccarsi sempre di più dalla stretta dei dalemiani. Semplicemente vogliono essere un’altra cosa. Dall’altra parte, invece, chi in questo momento dà un forte appoggio al segretario, oltre ai fassiniani, sono naturalmente i popolari. Ma anche in questo caso l’impressione che si ha nel partito è che i vari Fioroni e Franceschini si stiano anche loro preparando alla tempesta delle prossime elezioni, e che per questo si stiano muovendo per essere via via sempre più autonomi dallo stesso segretario”. Così, oggi, potrebbe essere sufficiente parlare con un qualsiasi dirigente del Pd per capire qual è il notevole peso raggiunto dai dirigenti di origine popolare. C’è Dario Franceschini, vicesegretario. C’è Beppe Fioroni, capo dell’organizzazione del partito. C’è Antonello Soro capogruppo alla Camera. E, con ogni probabilità, da gennaio ci sarà anche un riconoscimento per Franco Marini.

Dall’armistizio al seminario
A conti fatti, però, all’interno del Partito democratico gli ex Ppi sono arrivati a rappresentare circa il 22 per cento del totale (15 dirigenti). Un 22 per cento che per la prima volta si conterà ad Assisi il prossimo 10 ottobre, quando in Umbria i Popolari organizzeranno il primo grande convegno postelettorale. Oltre ai veltroniani e agli ex Ppi, tra gli organi dirigenti del partito vi sono anche sei rutelliani (che in tutto sommano il 9 per cento) e altri sei bettiniani. Mentre ancora più in giù si trovano rappresentati dalemiani, bersaniani e fassiniani, tutti con quattro dirigenti per uno. Certo, forse non sarà molto, ma nel Pd oggi sono in tanti a credere che in quell’armistizio armato firmato tra Veltroni e D’Alema ci sia di mezzo anche la composizione della geografia interna del Pd. E’ anche a questo a cui si riferisce sia il Massimo D’Alema che si lascia scappare frasi come quella di Firenze (“Tutti devono dare una mano, il mio ruolo lo devono stabilire Veltroni e i dirigenti del partito”) sia quelo un po’ minaccioso del libro di Bruno Vespa (“Nel Pd c’è qualche ‘pasdaran’, come Stefano Ceccanti e Giorgio Tonini, che si presenta come veltroniano in aperta e violenta contestazione delle cose che dico io”). E’ anche a questo a cui si riferisce quel Franco Marini che ragiona sui futuri equilibri del Pd (“Serve un coordinamento rappresentativo di tutti”, ha detto poco tempo fa l’ex presidente del Senato). Certo è che – per comprendere come il Pd si schiererà prima delle prossime europee, per comprendere i giochi di forza interni al partito – per il segretario del Pd – per salvare la propria leadership e per difendersi dall’accerchiamento nel partito – sarà un po’ difficile prescindere anche da questi numeri. Ed Enrico Letta? Per ora non ha quasi nessuno, tranne se stesso, ben piazzato ai piani alti di quello che un tempo si chiamava loft. Dove il quasi – dicono – sta per Massimo D’Alema.
Claudio Cerasa
30/09/08

mercoledì 24 settembre 2008

Il Foglio. "“Siamo disperati, accetteremmo pure un allevatore di trote”

Roma. “Io non sono incazzato, io sono deluso. In questa compagnia io ci sono diventato uomo, c’ho conosciuto mia moglie, c’ho fatto volare i miei bambini, c’ho lavorato per ventisei anni, c’ho messo il cuore, c’ho messo l’anima, c’ho messo la mia vita, c’ho messo le pezze quando le pezze andavano messe, c’ho visto fare le schifezze che tutti quanti avete visto, c’ho visto arrivare i peggio manager che ci potevano capitare, c’ho visto passare persone che mi scambiavano per un bibitaro, e io, come tutti, ho sempre sorriso. Ho sorriso al passeggero che sale sull’aereo e mi manda a fanculo perché gli ho messo i cubetti di ghiaccio nel bicchiere con la Coca cola. Ho sorriso al cliente che mi chiede di atterrare in mezzo all’oceano perché all’improvviso lui è lì e ha paura che l’aereo possa cadere da un momento all’altro. Ho sorriso quando ho incontrato un ragazzo che prima di un volo di lungo raggio era molto spaventato e mi ha chiesto se potevo rimanere con lui a fargli tutto d’un fiato l’elenco di quello che non si può portare in aereo nel bagaglio a mano (fucili, rivoltelle, coltelli, fuochi d’artificio, catapulte, frecce, dardi, chiodi, lance, giavellotti, pattini da ghiaccio, lame, spade, sciabole, mannaie, bisturi, forbici, borchie, martelli, scarponi da montagna, mazze da baseball, mazze da cricket, mazze da golf, mazze da hockey, stecche del biliardo, pugni di ferro, detonatori, mine anti uomo, granate e barattoli di butano). Ho sorriso anche quando, appena quattro anni fa, la società ha deciso di aumentare le mie ore di lavoro, quando mi hanno tagliato lo stipendio del trenta per cento, quando ho perso cento euro al mese e quando infine mia moglie è andata in maternità e l’azienda l’ha fatta lavorare, e guadagnare, molto meno di quanto le sarebbe spettato. Ho sorriso quando sui giornali avete scritto quella parola che vi piace tanto. Casta. Come no. Casta. Ecco. Io non mi vergogno, non ho nulla da nascondere. Quant’è che guadagnamo, noi assistenti di volo? Quattromila? Cinque mila? Seimila euro al mese? Balle. Tutte balle. Io lo so che il nostro è nella sua natura un lavoro da privilegiati, perché per noi lavorare significa volare dentro un tubo colorato a diecimila metri dal mare e so perfettamente che c’è chi pagherebbe per poter vivere come noi, qui, a un soffio dalle nuvole. Ma noi non siamo qui a difendere i privilegi. Non siamo matti, siete voi che siete scorretti”.

Quanto avete detto?
“Quant’è che avete detto? Tremila? Quattromila euro al mese? Bene: io sono ventisei anni che lavoro in Alitalia. Sono responsabile di bordo, ho la responsabilità su tutto quello che succede dentro la cabina di un aereo, ho un Cud di ventunomila euro l’anno e guadagno mille e settecento euro al mese con un minimo di mille e trecento euro. A volte può capitare che possa arrivare anche a tremila euro, ma capita soltanto quando lavoro ventidue giorni al mese per un totale di circa ottanta ore di volo. Dicono: e volate di più. Ma certo, noi di più voleremmo molto volentieri. Non siamo mica matti: più voliamo e più guadagnamo. Siamo pagati a cottimo, noi. Io, per quanto mi riguarda, volo ottocentosessanta ore l’anno, ma forse vi sfugge che per legge non è possibile arrivare a più di novecento ore. E’ p-r-o-i-b-i-t-o. Con Lufthansa, per fare un esempio, si arriva a ottocentosettanta ore in totale. Con Iberia a ottocentocinquanta. E’ molto di più? Direi proprio di no. Vede, noi non siamo fancazzisti. Noi la proposta della Cai l’abbiamo letta e l’abbiamo letta molto bene. C’hanno proposto un minimo di 590 euro al mese con un massimo di 1.120 per tutti coloro che avessero raggiunto i ventitré anni di anzianità. Infine hanno proposto di assumere 12 mila persone quando mettendo insieme Alitalia e Air One i dipendenti totali sono circa 20 mila. Dicevano tremila esuberi? Non mi risulta, ed è facile dire fannulloni!, fannulloni!, bamboccioni!, bamboccioni, quando poi ti danno mille euro”.

Che cosa succede altrove?
“E poi, forse, non avete idea di quello che succede nelle altre compagnie. E’ vero, ci sono altre storie, ci sono altre situazioni contrattuali, e Air France non Alitalia e bla, bla, bla. Ma è una bugia dire che in Italia ci sono assistenti di volo privilegiati. Prendete il contratto di Air France. 1.500 euro di minimo, 4.800 di massimo, 132 euro di diaria, 784 ore di volo ogni anno. Non solo. Dite che in Alitalia c’è troppo personale, che siamo tutti furbacchioni, che non abbiamo voglia di lavorare e che le altre compagnie non stanno lì a brontolare come noi, quando invece basterebbe un controllo semplice semplice per capire che i 18 mila dipendenti di Alitalia messi di fronte a quelli di Air France (103.500) a quelli di British (44.645), a quelli di Iberia (23.000) e a quelli di Lufthansa (94.000) sono una cifra, se mi permette, semplicemente ridicola. Vede, credo che il mio non sia un discorso così difficile da comprendere. Voi scrivete che ‘i dipendenti Alitalia non vogliono rinunciare ai privilegi’, che ‘gli assistenti di volo fanno falire una compagnia’, che siamo degli irresponsabili, degli egoisti e molto altro. Ma noi non vogliamo benefattori, non è quello che cerchiamo, non è la ragione per cui manifestiamo. Noi vogliamo qualcuno che arrivi nella nostra compagnia, che faccia impresa, che guadagni, che faccia profitti, che faccia utili, che faccia soldi. Tutti i dirigenti che ha avuto Alitalia in questi anni dovrebbero prendere il signor Spinetta e dire: per favore, viecce a spiegà come si comanda una compagnia di aerei. Qui capisco che bisogna sempre limare limare limare, e questo ci può anche stare. Ma provate a immaginare se nominassero direttore di un giornale uno che fino a pochi giorni prima, chessò, allevava trote. Ecco. Noi ci troviamo da almeno dieci anni in una situazione di questo tipo. Ogni sei mesi qui arriva qualcuno con un nuovo piano industriale. Ogni sei mesi arriva qui un manager che prima dice spostiamo tutto a Milano, poi ci ripensa e ci manda a Roma, poi ci ripensa ancora e ci taglia lo stipendio, poi ci ripensa ancora una volta e decide di tagliare rotte, rotte e rotte. Roma-Sidney? Via. Roma-Rio de Janeiro? Via. Roma-Bangkok? Via. Il fatto è che il solo pensare che oggi potevamo essere già fusi con Air France, e invece niente, che potevamo essere un unico mondo con Klm, e invece niente, ci fa impazzire. Non si può disegnare un futuro di appena tre o quattro anni per una delle più grandi imprese italiane. E poi? Che succede dopo i tre anni? Beh, lo sanno tutti qui che succede: prima o poi entreremo in Air France, ma questa volta, quando succederà, c’entreremo con la coda in mezzo alle gambe e c’entreremo dopo che ci saremo ritrovati a vivere nella stessa situazione in cui ci siamo ritrovati da non so più quanto tempo e continueremo a pagare noi gli errori che hanno fatto i nostri dirigenti”.
“Vede, io lo so che quello che alla fine rimarrà di tutta questa storia saranno le braccia al cielo delle mie colleghe di Fiumicino, le foto in mutande dei miei colleghi di Napoli, le cordate a forma di cappio tricolore di fronte ai ministri e i ragazzi che si sono dati fuoco davanti le porte del ministero. Ma non credete: noi non siamo felici se la trattativa va a farsi fottere. Noi siamo dis-pe-ra-ti. Forse non è eccessivo dire che oggi siamo disposti a farci salvare anche da chi vende trote, ma il fatto è che in questo momento è come se tutta l’Italia ci stesse dando un calcio in bocca e chiedendo di non dire che ci fa tanto male. Poi, certo, è facile parlare dei privilegi che non abbiamo, è facile dire che abbiamo, non so, le nostre macchine (che non è vero), i nostri autisti (che non è vero), gli stipendi più alti dei nostri colleghi (che non è vero). La verità è che noi vorremmo soltanto essere gestiti da gente competente, vorremmo che venisse data un po’ di dignità alla divisa che portiamo in giro per il mondo e vorremmo che si conoscesse quantomeno un po’ di verità. Ecco. Spiegateci perché non avete scritto che negli ultimi anni la nostra compagnia ha avuto una produttività superiore del venticinque per cento rispetto a quella di Lufthansa; dell’undici per cento rispetto a quella di Air France; e dell’otto per cento rispetto a quella di Iberia? Spiegateci perché non avete scritto che Air France ha 246 dipendenti per ogni aereo, che la British ne ha 158, che Lufthansa ne ha 152 e che Alitalia invece ne ha soltanto 62. Spiegateci come fate a dire che, dalle nostre parti, il numero dei dipendenti è, come scrivete voi, ‘eccessivo’. Come no. ‘Eccessivo’. E se vi dicessi che l’Alitalia per il suo personale spende la metà di tutte le altre compagnie europee? E se vi dicessi che l’Alitalia per il suo personale ha spese pari ha 15,6 euro ogni 100 euro che incassa? Se vi dicessi che la British per il suo personale di euro ne spende 27 ogni 100, Iberia 25, Lufthansa 23 e Air France 31? Vede, qui ci sono i signori che dicono di fare i sindacalisti che non capiscono che, se li prendiamo a fischi, è perché non è possibile rappresentare un dipendente senza sapere nulla dei nostri contratti. Che c’entra Bonanni con gli assistenti di volo? Che c’entra Epifani? Noi lo sa che a Fiumicino abbiamo strappato le tessere della Cisl, della Cgil e della Uil? E lo sa perché? Perché nessuno ha fatto nulla per noi. Perché i sindacati che vorrebbero rappresentarci così tanto non hanno firmato un contratto che dovevano firmare cinque mesi fa con Air France; perché i sindacalisti si sono addormentati quando l’azienda andava a farsi benedire e perché oggi, gli stessi che sulle prime pagine dei giornali si presentano come i salvatori della patria non riescono a trovare un accordo con chi, in un modo o in un altro, ci potrebbe comunque salvare. Le posso assicurare che non siamo pazzi, che non siamo viziati, che non siamo privilegiati e che se ci sono persone di cinquantadue anni che passano le notti di fronte al ministero e che minacciano di darsi fuoco non lo fanno per fare i capricci. Lo fanno perché sono disposti a umiliarsi. Lo fanno perché sono disposti a difendersi da accuse false. Lo fanno sapendo perfettamente che non c’è nulla da festeggiare se la sera alla tua bambina che ti vede uscire e che ti chiede: ‘papà vai a lavorare?’ ti ritrovi a dover rispondere ‘sì, ci sto provando, ma stasera, piccola, papà va a lavorare senza divisa’”.
Claudio Cerasa
24/09/08

giovedì 18 settembre 2008

Il Foglio. "Il Cav. seppellisce W. ma il Pd si scopre un po’ tremontiano"

Roma. Nel giorno che ha visto arrivare sulle sue spalle uno degli attacchi più tosti mai ricevuti dal governo di centrodestra (“Veltroni è inesistente, questa sinistra non è capace neanche di fare opposizione”, ha detto ieri il Cav.), il Partito democratico si ritrova in una condizione che fino a pochi giorni fa sarebbe stata difficile da immaginare. Sull’orizzonte del maggior partito dell’opposizione, al momento, non sembra esserci alcuna traccia del vecchio CaW, e in un momento difficile come quello vissuto in questi giorni (banche che falliscono, borse a picco, compagnie di bandiera che non decollano e sindacati che non mollano) il dialogo tra centrodestra e centrosinistra, a uno sguardo superficiale, potrebbe apparire solo come un vecchio rottame. Ma di fronte all’incontenibile Giulio Tremonti di queste ore – che tra le altre cose ieri pomeriggio ha promesso di tagliare le tasse entro la fine della legislatura, appena pochi minuti dopo che il ministro ombra dell’Economia, Pierluigi Bersani, aveva chiesto al governo di “adottare immediate misure per ridurre le imposte sui redditi da lavoro” – a sinistra del Cav. si sta aprendo un nuovo fronte nel Pd. Un fronte che, seppur lontano dai taccuini, non ha difficoltà ad ammettere che il ministro dell’Economia rappresenta oggi uno dei “miglior interlocutori del governo di Silvio Berlusconi”.
Il discorso riguarda non soltanto la critica – condivisa da gran parte dei dirigenti democrat – sull’assenza degli adeguati meccanismi di controllo che hanno portato al fallimento di banche d’affari come Bear Stearns e Lehman Brothers, ma riguarda un’analisi squisitamente politica che avrà un certo peso nella definizione dell’agenda economica del Partito democratico. Conversando con il Foglio, il senatore Nicola Rossi crede che sia eccessivo parlare di “crisi del capitalismo”, mentre Enrico Morando sostiene che sia sbagliato parlare di “fine della terza via blairiana”. Fatte queste premesse, però, il senatore Nicola Latorre, la mette così: “Qui non si tratta di stimare o non stimare Tremonti – dice al Foglio il vicecapogruppo del Pd al Senato – il punto è che va riconosciuto come Tremonti si sia sforzato più di ogni altro nell’offrire utili elementi di analisi sulla situazione economica globale. Nel Pd non c’è ancora stata la possibilità di affrontare un’analisi condivisa sull’argomento, ma è fuori discussione che con Tremonti esista oggi un terreno di condivisione politica difficile da negare. Questo non vuol dire scegliersi un interlocutore invece che un altro – perché nel governo ci sono personalità di primo piano, come Gianni Letta, tanto distanti da noi, quanto affidabili – né tantomeno che la condivisione non lasci spazio a una profonda diversità di opinioni per quanto riguarda le risposte che il paese dovrebbe garantire di fronte alla crisi della globalizzazione. Ci tengo a dire però che le parole del ministro dovrebbero essere coerenti anche per quanto riguarda gli argomenti di più stretta attualità per il nostro paese. Penso al federalismo. Non si può criticare l’assenza di regole e di controllo, da una parte, e poi lasciare che si arrivi a una sorta di deresponsabilizzazione dello stato centrale. In questo momento, soprattutto alla luce di ciò che succede negli Stati Uniti, abbiamo bisogno di esaltare l’unità del paese, non di fare il contrario. Per questo, non potremmo che rimanere molto vigili su quello che succederà in queste ore a proposito di federalismo”. Ma oltre al federalismo, che Tremonti presenterà alla Camera tra lunedì e martedì prossimo insieme con la Finanziaria, nell’agenda economica del Pd ci sono alcuni punti che il partito di Veltroni rilancerà a partire dalla conferenza programmatica del 6 ottobre. A questo proposito, il consigliere economico di W. Marco Causi – convinto che nel Pd ci sia la necessità di contrastare la crisi economica con una “politica neokeynesiana”– anticipa che il primo argomento economico con il quale il Pd incalzerà il governo sarà quello di riproporre “una riforma sull’imposta personale dei redditi in grado di ridurre sia l’aliquota minima sia quella intermedia”. Una riforma che, ascoltando il Tremonti di queste ore, potrebbe regalare qualche soddisfazione a quell’inconfessabile fronte neotremontiano del Pd.
Claudio Cerasa
19/09/08

mercoledì 17 settembre 2008

Il Foglio. "I nemici del Pd"

Esistono alternative alla leadership di W? Bene, che vengano fuori

Zitti zitti, nel Pd sono davvero molti i dirigenti convinti che il modo migliore per garantire una rapida ed efficiente successione all’attuale segreteria del partito sia quello di confidare in una progressiva autodissoluzione della leadership di Veltroni. Ma a tutti coloro che in questi giorni si nascondono dietro agli errori commessi dal segretario verrebbe da dire di fare attenzione, perché il rischio che i peggiori nemici di W. si trasformino anche nei peggiori nemici del Partito democratico è un rischio tutt’altro che da sottovalutare.
E’ evidente che, per tutti quei leader che in silenzio si stanno autocandidando alla successione all’ex sindaco di Roma, auspicare il logoramento di Veltroni potrebbe persino rivelarsi (almeno dal punto di vista personale) una tattica efficace per non farsi trovare impreparati di fronte a un clamoroso flop alle prossime elezioni europee. Rendere però esplicite le linee politiche alternative presenti nel Pd sarebbe, a questo punto, l’unico modo per far respirare il progetto politico del maggior partito dell’opposizione, e per questo non dovrebbe essere così difficile per politici – ad esempio – come D’Alema, Bersani o Letta comprendere che, per chi già si trova su una zattera malconcia, può essere molto pericoloso considerare risolutiva, e persino liberatoria, una prossima tempesta elettorale. Dunque, se nel Pd esistono delle visioni alternative, bene, che vengano fuori: altrimenti il rischio è quello di fare la figura non soltanto degli autolesionisti ma un po’ anche dei vigliacchetti.
Claudio Cerasa
17/09/08

venerdì 12 settembre 2008

Il Foglio. "Cronaca di una giornata tra sindacalisti, fischi, ministri e piloti che trattano a oltranza su un’azienda fallita anni fa"

Roma. Fino al primo pomeriggio di ieri la complessità della situazione che riguarda il futuro della nuova compagnia di bandiera era in fondo ben riassunta dalle dichiarazioni involontariamente ironiche rilasciate dai principali sindacalisti (“La situazione sta precipitando!”), dalle cordate a forma di cappio tricolore appese a Roma di fronte al ministero del Lavoro, dai quaranta voli bloccati da centinaia di manifestanti all’aeroporto di Fiumicino e dalle dure parole del commissario Augusto Fantozzi, che già in mattinata aveva ribadito che per la nuova Alitalia non c’è molto da aspettare. Si chiude oggi e chi ci sta ci sta. Ma il primo segnale positivo nell’ultima pazzotica giornata della vecchia compagnia di bandiera si presenta a metà pomeriggio ed è un messaggino riservato che arriva sui cellulari dei piloti Alitalia, pochi minuti dopo le tredici, e che informa alcuni iscritti ai sindacati confederali sulle effettive garanzie fornite dal governo a proposito delle due questioni che saranno decisive per far resuscitare l’Alitalia: le tipologie dei contratti (che potrebbero non essere tagliati quasi del cinquanta per cento, come invece previsto dal Piano fenice) e il numero di aerei che dalla prossima settimana manterrà in volo la compagnia di bandiera (che con ogni probabilità saranno superiori ai 150 previsti fino a qualche ora fa).
Nonostante il clima non proprio conciliante registrato comunque ieri a Roma (quattro pullman arrivati da Napoli, lunghi cortei a pochi passi da via Veneto, un cassonetto quasi rovesciato in via Flavia, e poi cappi sventolati in piazza, fischi a Raffaelle Bonanni, personale di terra in mutande e piloti pronti finalmente a mangiarsi le mani per l’occasione persa con Air France), la nuova Alitalia avrebbe in teoria tutte le carte a posto per nascere già oggi: i sindacati potrebbero aver trovato un accordo nella notte, i contratti potrebbero non penalizzare più di tanto il personale Alitalia e il ministro Maurizio Sacconi potrebbe veder così esaudito il desiderio confidato ieri mattina ai giornalisti: “Escluderei un weekend in cui si lavorerà ad oltranza”. Ma passeggiando per un pomeriggio intero lungo gli stessi marciapiedi sui quali hanno sfilato per tutto il giorno un migliaio di persone – tra piloti incazzati, hostess disperate, assistenti di volo vestiti con buste della spazzatura e dipendenti dell’Atitech arrivati in tarda mattinata da Napoli accolti da uno sventolio trionfante di necrologi con data del decesso e simboli Alitalia – l’impressione è che il personale coinvolto nella rivoluzione della compagnia di bandiera sia ormai consapevole del grave errore fatto nell’aver contribuito a tirare su barricate contro una buona offerta di Air France, ritrovandosi così costretto ad accettare oggi l’ultimo disperato tentativo di respirazione bocca a bocca della compagnia di bandiera. Così, da un lato si possono trovare i piloti che ricordano che l’Italia ha un costo del personale molto più basso rispetto al resto dell’Europa (19 per cento, contro una media europea del 25), che chiedono di essere quantomeno trattati con dignità e che non ci mettono molto a riassumere il proprio pensiero sulla qualità percepita della cordata alitaliana: “Aho, aridatece Spinettà!”.

In serata le aperture e le minacce
Dall’altro lato si trovano invece gli agguerritissimi assistenti di volo certi che i ministri del governo (“Vergogna! Ladri! Buffoni!”) con le richieste fatte pervenire ai sindacati si siano in fondo limitati a sparare solo molto forte; e convinti che, se nella notte i sindacati si permetteranno davvero di firmare il contratto con la cordata, sarà inevitabile scioperare insieme con i colleghi di Air One. In serata naturalmente sono arrivati gli ultimi tentativi di dare un senso di normalità alla giornata. Ma il fatto è che quella che i giornali racconteranno oggi come la “giornata più lunga” resta prima di tutto la descrizione della storia rocambolesca di un’azienda che si ritrova con ministri, lavoratori e sindacati che disperatamente provano a trattare sul corpo di una compagnia defunta non oggi, ma dieci anni fa.
Claudio Cerasa
12/09/08