lunedì 30 giugno 2008

Il Foglio. "Il volto meno noto di Unipol"

Le coop, i vecchi comunisti, la Padania, l’Emilia Romagna, i verbali, le scalate, una famiglia incredibile e un personaggio chiave per capire sinistra e finanza rossa. Storia di Ivano Sacchetti, assicuratore

Reggio nell’Emilia. Lui è quello a sinistra: è quello con i baffi, con la camicia bianca, con la giacca nera, con la cravatta rossa e con il braccio che si sposta dall’alto verso il basso sfiorando i sei caratteri stampati sul muro accanto alla parola assicurazioni. Ivano Sacchetti è quello a sinistra, è quello che sorride con Consorte, è quello che ha trasformato una compagnia assicurativa in un piccolo gigante della finanza ed è quello senza cui oggi non si può parlare di Unipol, non si può parlare di Consorte, non si può parlare di Forleo, non si può parlare di coop, non si può parlare di Fassino, non si può parlare di D’Alema e non si può parlare neppure del rapporto che la sinistra ha costruito negli ultimi trent’anni con questa parte dell’Italia. L’Emilia, la Romagna, il nord e la Padania.
Sono passati tre anni dall’estate delle scalate bancarie di Gianpiero Fiorani, di Emilio Gnutti, di Giovanni Consorte, di Antonio Fazio, di Stefano Ricucci e sono stati scritti libri, sono state pubblicate sentenze e sono state sbobinate tonnellate di intercettazioni. Ma dai mesi centrali del 2005 a oggi c’è un persona che non è mai andata in televisione, che non ha mai parlato con i giornali, che non ha mai chiesto un interrogatorio e che non è mai stata raccontata nei giorni in cui degli altri, invece, si conosceva già tutto. Ivano Sacchetti, sessantaquattro anni, già vicepresidente di Unipol, assicuratore. E poi? Perché oggi se dici Unipol pensi a molte cose: pensi ai memoriali di Consorte, pensi alle parole di Piero Fassino, pensi alle frasi di Massimo D’Alema, pensi alla scalata – fallita – di tre estati fa e pensi soprattutto alle ordinanze del giudice Clementina Forleo. Arriverà a settembre il voto del Parlamento europeo sull’uso delle intercettazioni tra l’ex ministro degli Esteri e l’ex amministratore delegato di Unipol e si perderà ancora tempo a parlare di scalate, di insider trading, di aggiotaggio, di esondazioni e di giudici da rimuovere. Ma il punto è che non è possibile comprendere questa storia di politica, di finanza, di cooperative, di comunisti, di vecchi partigiani e di vecchi contadini senza conoscere la vita di Ivano Sacchetti e di tutta la sua incredibile famiglia. Perché non c’è solo la vecchia storia del ranch vicino a Reggio Emilia, non c’è solo la storia del papà che fu partigiano, non c’è solo la vicenda della parcella milionaria ricevuta da Emilio Gnutti. Non c’è solo la storia di un dirigente che ha visto trasformare il mondo delle cooperative in un mondo fatto anche di plusvalenze. C’è anche dell’altro. C’è la storia di un dirigente che ha rivoluzionato il mondo delle assicurazioni. C’è la storia della scalata a una banca (Bnl) di cui lo stesso Sacchetti sarebbe diventato presidente. C’è la storia di una regione dove per anni la politica ha significato Unipol e dove per anni la politica entrava in sezione solo dopo essere passata dagli uffici di una coop. C’è la storia di quel mondo dove oggi invece la Lega Nord arriva al 9 per cento, dove i leghisti entrano nelle cooperative e dove si trova un ex dirigente di Unipol come Sacchetti che a differenza della sua perfetta metà lavorativa, Consorte, ha scelto di non fondare merchant bank, ha scelto di non parlare della morte del padre, ha scelto di occuparsi solo dei processi, ha scelto di rimanere a Reggio, ha scelto di non scendere dalla sua bici per parlare con i cronisti ma riuscendo a essere, ancora oggi, la rappresentazione perfetta di quella terra (come scrive Edmondo Berselli) dove “si aggirano ancora vecchi comunisti pragmatici per i quali il socialismo è semplicemente il capitalismo fatto da noi”. E la storia di Sacchetti comincia proprio così. (continua)
Claudio Cerasa
29/06/08

sabato 28 giugno 2008

Il Foglio. "Premiata macelleria telefonica"

Cifre, trucchi e mercato nero. Guida contromano a tutto ciò che non avete mai saputo sulle intercettazioni e a tutto ciò che succede sottobanco tra magistrati, avvocati e giornalisti

Arrivano su fogli di carta liscia, con le pagine raccolte in cartelline di plastica, con le conversazioni registrate in ordine cronologico e con le chiamate in entrata e in uscita ordinate una a una dentro lunghe griglie di documenti trascritti. Data, time, durata, chiamante, note, omissis, voci incomprensibili e lunghi tabulati. Arrivano così, le intercettazioni telefoniche: arrivano a casa, arrivano alla fine di un’indagine e arrivano quando l’intercettato ha ormai compreso che, fino a quel momento, ogni parola bisbigliata al microfono del telefono poteva davvero significare qualsiasi cosa dall’altra parte dell’apparecchio. Chi è stato intercettato almeno una volta lo sa: sa perfettamente che cosa vuol dire aprire quella cartellina con il timbro della questura della sua città, sa perfettamente che cosa vuol dire sfogliare quelle pagine fitte fitte con le sue parole registrate magari solo per un po’ di giorni o magari per un paio di mesi. Perché, se non sei così famoso e se le tue conversazioni sono una notizia solo per te e non per i giornali, quando ti arriva il brogliaccio tu lo prendi, lo scarti, lo sfogli e lo leggi e lo rileggi sul tavolino di casa, nella speranza di non aver mai alluso a nulla, di non aver mai parlato con gente sospetta e di non aver mai detto per nessuna ragione niente, neppure una cazzata. Solo che quando le trascrizioni non rimangono nel tuo cassetto, quando le tue parole arrivano prima sui quotidiani, si sa come funziona: per il lettore la voce su carta è una sentenza che non ha bisogno di prove aggiuntive e spesso basta l’intenzione per provare l’accusa e basta un equivoco per confermare il sospetto. Capita così per circa 124 mila utenze all’anno, capita così a circa 300 italiani al giorno e anche per questo non è affatto difficile riconoscere subito la persona che almeno una volta nella vita è stata intercettata. La riconosci subito, quella persona, perché al telefono più che parlare preferisce ascoltare, perché nei messaggi preferisce non alludere, perché ti dice che non si sa mai, che lo sai come funziona, che queste cose non si dicono, che certi discorsi è meglio farli a quattrocchi e che di questo, forse, è meglio parlarne un’altra volta. Quanto ti capita, quando scopri che un orecchio estraneo è stato incollato alla tua cornetta per chissà quanti giorni, il telefono si trasforma inevitabilmente in un potenziale microfono rivolto verso un pubblico di cui tu non sai nulla, che di te però vuole sapere tutto e che non aspetta altro che spulciare tra le registrazioni per ascoltare dal buco della serratura quelle telefonate che sembrano essere “incriminate” anche quando con il reato non c’entrano proprio nulla. I numeri li conoscete e cronisti di ogni genere si sono già ampiamente esercitati per giorni sui dati reali delle intercettazioni telefoniche. Qualcosa però è sfuggito, e per comprendere come funziona un’intercettazione e per capire quali sono, davvero, le vie dell’abuso, la strada giusta non è quella di insistere sui costi effettivi delle intercettazioni. Non basta dire che intercettare in Italia costa moltissimo e che costa più di qualsiasi altro paese europeo. Non basta dire che ogni tabulato telefonico costa allo stato circa 26 euro. Non basta dire che ogni procura spende quotidianamente circa 1,6 euro per intercettare un telefono fisso, 2 euro per un cellulare e 13 euro per un apparecchio satellitare e che ogni giorno il ministero della Giustizia spende circa 613 mila euro per tenere sotto controllo le utenze intercettate (in Francia e in Germania le aziende telefoniche sono invece costrette a offrire gratuitamente allo stato la linea telefonica). Per comprendere davvero tutte le degenerazioni possibili della rete delle intercettazioni, dunque, bisogna dare uno sguardo a cosa succede in questi giorni a Napoli – con il caso Rai, con il Cav., con Saccà e con l’incredibile numero di telefonate registrate (in tutto sono novemila) – e si deve comprendere il senso di quel che è successo pochi giorni fa nel Gargano – con quell’overdose di intercettazioni che, per l’impossibilità di sbobinarle in tempo, ha portato alla scarcerazione di tredici delinquenti – per capire che ancora oggi ci sono aspetti che non possono essere trascurati. Certo, è un errore considerare a priori la registrazione telefonica come un elemento sempre pericoloso per la nostra privacy, perché per legge l’attività investigativa viene sempre privilegiata rispetto alla tutela dei dati sensibili, perché il 95 per cento delle sbobinature che finiscono sui giornali sono intercettazioni non più segrete e perché in fondo in molti casi l’attività di intercettazione non sostituisce affatto l’indagine sul campo, ma semmai spesso la integra.
“Noi – dice un poliziotto famoso che chiede l’anonimato – abbiamo conosciuto un periodo in cui non si facevano intercettazioni perché c’erano i pentiti. Poi si disse che la polizia non sa fare indagini, che comanda tutto il magistrato, e che noi non sappiamo fare più niente. Ed era in parte anche vero, perché io vedevo gli uffici dell’arma dei carabinieri che si erano appiattiti sulle dichiarazioni del pentito. Il pentito era interrogato dal magistrato e il magistrato diventava in modo incontestabile dominus dell’indagine, mentre la polizia giudiziaria si riduceva a rango di ‘aiutante d’interrogatorio’. Ma bisogna fare attenzione. Tu all’intercettazione ci arrivi come momento corroborante dell’indagine. E’ una cosa che va abbinata al resto. Se io metto sotto controllo due trafficanti di droga della camorra, se tu non fai attività di osservazione sul posto e non vai con una telecamera o non nascondi persone in contenitori dell’immondizia, travestendoli da spazzini, da muratori o magari da puttane, le intercettazioni da sole non servono a nulla”.
Soprattutto ora che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, è pronto a portare in Parlamento il restrittivo disegno di legge che regolamenterà le intercettazioni telefoniche, c’è un aspetto che più degli altri va preso in considerazione: il vero problema non sono le registrazioni in sé, ma sono tutte le vie che rendono possibile la fuga di notizie e grazie alle quali, spesso, le intercettazioni arrivano sul desk dei cronisti prima ancora che sul tavolo degli indagati. Ecco, come è possibile? Quali sono i punti critici della rete delle intercettazioni? E come fa, davvero, un giornalista a ricevere prima dell’interessato queste registrazioni? Bene, qualsiasi cronista abbia avuto a che fare negli ultimi anni con la pubblicazione delle intercettazioni sa perfettamente che in fondo non è così difficile riuscire a entrare in possesso di quei “documenti riservati”. (Tecnicamente ancora oggi esiste una legge che prevede il divieto assoluto di pubblicazione delle intercettazioni protette dal segreto istruttorio, ma in realtà per chi pubblica le conversazioni non ci sono vere sanzioni: se le intercettazioni vengono riportate prima della fine delle indagini il cronista se la cava con una multa di 250 euro; se le conversazioni invece finiscono sui giornali quando si trovano ancora sotto segreto istruttorio la persona che commette reato è quella che ha lasciato uscire le carte dalla procura non quella che le riceve). Dall’altra parte, però, sarebbe ingenuo nascondere che molto spesso le intercettazioni sembra proprio siano fatte scientificamente uscire sul quotidiano giusto e nel momento giusto. E se qualcuno crede che non sia così, se qualcuno ancora crede che le intercettazioni non vengano fuori, come dire, “ad arte”, è sufficiente ascoltare quanto detto qualche mese fa dal sostituto procuratore romano Piero Saviotti, che, a proposito di fughe di notizie, rispondeva così alla commissione giustizia del Senato. “Per quanto riguarda l’individuazione della fonte della fuga di notizie – spiegava Saviotti – è difficile dare una spiegazione, anche perché gli interessi sono spesso diversi. Vi è sicuramente l’interesse del pubblico ministero a fare bella figura, a comparire sui giornali, e ciò è molto frequente; non ho prove, ma la mia percezione, di chi opera nel settore, me ne dà in molti casi la conferma. Vi è poi quella che io chiamo la sindrome de ‘I tre giorni del Condor’. Alla fine di quel film, il giornalista promotore dell’inchiesta si sente al sicuro quando riesce a trasmettere il dossier al giornale. A quel punto si sente protetto dalla collettività per cui ritiene di aver lavorato. Ebbene, vi assicuro che questo atteggiamento mentale costituisce una motivazione altrettanto rilevante del far bella figura e di apparire. Si tratta di blindare un’indagine a fronte di aggressioni prevedibili, supposte o semplicemente paventate da parte di quei poteri ai quali ci si vuole contrapporre. In altre parole, l’indagine giudiziaria che approda sulla carta stampata per colui che l’ha condotta in questo modo può essere più protetta, più sicura. Un magistrato – continua Saviotti – non fa carriera in senso tecnico con un’indagine andata a buon fine, ma un ufficiale di polizia giudiziaria sicuramente sì. Un risalto giornalistico dell’indagine può soddisfare inoltre anche il malinteso senso istituzionale di volere più risorse per il proprio ufficio. Il dirigente di un ufficio specializzato, di una sezione anticrimine del Ros, di una Dia o di una Digos, sa che se produce risultati visibili ha un potere contrattuale maggiore nei confronti dell’amministrazione per ottenere risorse”.
Un tempo – prima che gli atti giudiziari venissero registrati su dischetti duplicabili e quando ancora i magistrati non ospitavano in vacanza i giornalisti per consegnare loro i cd con i verbali utili – il vecchio trucco era semplice e funzionava più o meno in questo modo: il giornalista entrava nel palazzo di giustizia, bussava nell’ufficio del magistrato, il magistrato apriva la porta, faceva sedere il giornalista di fronte a un tavolo e, nel dare una spolveratina alla coscienza allontanandosi “solo per un attimo” dall’ufficio, lasciava lì sul tavolo il verbale o l’intercettazione di fronte al cronista. Il quale, ringraziando, consultava rapidamente prima che il magistrato ritornasse in ufficio. Oggi invece le vie di fuga sono praticamente infinite, e basta ricostruire la vita di una registrazione per capire i passaggi nel corso dei quali la voce dell’intercettato, invece che passare da un ufficio giudiziario a un altro, arriva nelle mani curiose di chi con le indagini non c’entra proprio nulla.
Comincia così un’intercettazione telefonica, comincia con un ufficiale di polizia giudiziaria (dunque polizia di stato, carabinieri o guardia di finanza) che chiede al magistrato di poter intercettare. Il magistrato richiede l’autorizzazione al giudice per le indagini preliminari, il gip valuta se esistono le condizioni per mettere un “bersaglio” sotto controllo (non si può intercettare su tutto: occorrono gravi indizi e, fino a oggi, occorre che il reato preveda una pena non inferiore ai cinque anni). Se le condizioni esistono, il magistrato autorizza la polizia a mettere sotto controllo una serie di utenze telefoniche. (Le uniche intercettazioni che per legge possono essere effettuate preventivamente, cioè basate non necessariamente su indizi, sono quelle fatte dai servizi segreti e sono poco più di cento ogni anno). Così, la polizia giudiziaria invia un fax all’azienda telefonica e chiede di mettere a disposizione i suoi servizi per intercettare l’utente. La durata massima di un’intercettazione, oggi, è di un anno – tranne per i reati di mafia per i quali sono previsti dodici mesi in più. A questo punto l’azienda telefonica crea un ponte, un filo virtuale che arriva fino alla sala d’ascolto della procura e che permette alla polizia di ascoltare le telefonate delle utenze richieste. La sala d’ascolto è una piccola stanza che si trova all’ultimo piano di ciascuna delle 165 procure d’Italia, nella cosiddetta “piccionaia”. Qui, con una cuffia collegata al computer, gli ufficiali di polizia ascoltano le conversazioni su un monitor, grande quattro volte questa pagina di giornale, in grado di gestire contemporaneamente fino a trecento numeri di telefoni. Il computer ha un programma che condensa insieme le telefonate (i poliziotti la chiamano “lavatrice”) e segnala con un colore rosso l’utenza che squilla in quel determinato momento. Tecnicamente, per intercettare un telefono, basta conoscere il codice genetico di ogni apparecchio (si chiama “Imei”). Quel codice lancia un segnale radio che viene registrato da ogni celletta presente in città (attraverso le quali i telefonini sono connessi alla rete) che permette alla polizia non solo di ascoltare le parole dell’intercettato ma anche di conoscere esattamente la posizione sul territorio. Esistono solo due tipi di conversazioni che oggi vengono intercettate con difficoltà: la prima è quella che passa attraverso i telefoni satellitari (che si appoggiano ad alcune celle che spesso superano i confini del territorio italiano), la seconda è quella che passa attraverso lo scambio di dati su Skype, il programma di messaggistica istantanea più famoso del mondo per il quale ancora oggi gli inquirenti hanno difficoltà a decrittarne i contenuti. Al termine di un’indagine, infine, le conversazioni considerate più interessanti vengono trascritte su alcuni brogliacci e vengono caricate su supporti magnetici. Ogni cd viene inserito in una custodia sigillata, viene catalogato con un numero di repertorio ma, anche se la traccia del cd non è in via ipotetica modificabile, le duplicazioni purtroppo non mancano. (In un’audizione di due anni fa, il senatore Roberto Castelli sostenne senza ironia che esiste un solo modo per blindare il contenuto delle intercettazioni, “il sistema di attivazione delle bombe atomiche nucleari”).
Teoricamente, ancora oggi, fino al decreto di archiviazione o prima del dibattimento, sarebbe vietato pubblicare qualsiasi tipo di intercettazione. Ci sono casi in cui le conversazioni sbobinate possono però imboccare strade piuttosto diverse da quelle previste dalla legge. Sono molte e tutte lasciano intendere come sia possibile che all’improvviso i brogliacci si materializzino sui giornali prima ancora che questi siano arrivati all’esame della magistratura. In questi casi, con una perifrasi magnifica, i giornali parlano di “intercettazioni finite nella disponibilità dei giornalisti”. Ecco, ci sono occasioni concrete in cui queste “disponibilità” si possono verificare. Spesso, come spiegato con l’esempio dei “Tre giorni del Condor”, capita che sia lo stesso magistrato a fare uscire i verbali. Spesso però capita anche che il giornalista conosca perfettamente quali sono le falle del sistema. Non si tratta solo di voler tirare in ballo tutti i potenziali “casi Tavaroli”, cioè tutti quei casi in cui la figura dello spione potrebbe coincidere con quella degli uomini che si occupano di “business security” all’interno delle aziende telefoniche. Non c’è solo questo, naturalmente. Tanto per fare un esempio, al termine di un’intercettazione il magistrato è obbligato a distruggere tutte quelle registrazioni di cui è stato deciso di vietare l’utilizzo (intercettazioni come quelle tra Piero Fassino e Giovanni Consorte e intercettazioni come quelle che riguardano le ragazze coinvolte nell’inchiesta sul caso Rai). Che succede, però. Succede che in caso di mancata distruzione non è difficile farla franca, perché non esistono procedimenti punitivi per chi non stralcia quei documenti. Non solo: va anche detto che le sale d’ascolto non sempre hanno le stesse garanzie previste per i luoghi dove i dati vengono trascritti materialmente e che le procure affidano a società esterne (le più famose tra queste si chiamano Resi, I&S, Sio, Radio Trevisan, Area e Rcs – nulla a che vedere con il gruppo Rizzoli – e rappresentano circa l’80 per cento dei costi complessivi che lo stato spende per le intercettazioni). Per quanto riguarda il problema della conservazione dei documenti, invece, vi è una questione doppia, perché da una parte ogni dato di traffico deve essere conservato per almeno cinque anni (l’Italia è il paese a livello europeo dove si conservano di più – in Unione europea è previsto un termine ordinario di due anni) ma dall’altro lato in alcune aziende spesso vengono conservate a lungo anche alcune copie di quei documenti: le aziende, per dimostrare di aver erogato una certa prestazione, devono mantenere le carte fino all’incasso della fattura e le richieste di liquidazione, come ammesso dagli stessi dirigenti delle aziende telefoniche nel corso dell’ultima indagine conoscitiva sul fenomeno delle intercettazioni, spesso vanno misteriosamente smarrite.
Per quanto riguarda la questione degli avvocati, invece, vi sarebbe tutto un capitoletto da aprire a parte. Qui i problemi sono piuttosto seri, perché ogni legale ha diritto al deposito e alla copia di ciascuna intercettazione e ogni legale ha anche diritto a ricevere su cd rom tutto il materiale prodotto nel corso delle indagini. Il punto è che quando il giudice dispone la distruzione delle telefonate, dispone la distruzione di quelle custodite in procura. Mentre non prevede alcuna distruzione forzata di tutte le copie che sono state lasciate ai difensori. Il risultato è che qualsiasi cronista non ha grandi difficoltà a chiedere agli avvocati di fotocopiare questo o quel documento prima ancora che l’inchiesta sia arrivata al dibattimento. Ma non basta. C’è un altro aspetto che non può essere trascurato. Si dirà: come è possibile che i giornali possano pubblicare tutti quei pettegolezzi, tutte quelle voci sbobinate che non hanno nulla a che vedere con l’indagine e che però attirano l’attenzione del lettore più che un reato di insider trading? Lo spiega ancora una volta il sostituto procuratore Piero Saviotti. “Non credo che se escono sul giornale i pettegolezzi relativi alla vita privata, sentimentale e sessuale dell’indagato X vi sia un interesse di chi ha fornito la notizia a travasare anche quel pettegolezzo. Sicuramente lì c’è il valore aggiunto che bisogna dare alla notizia sulla carta stampata per renderla appetibile, perché naturalmente i lettori si sentono più attratti da queste curiosità piuttosto che dalla rilevanza penale della singola condotta”. In altre parole significa che l’intercettazione va sempre a ruba, che le conversazioni sbobinate stuzzicano comunque il lettore e che però tra una data, un time, una nota e un omissis, un po’ di gnocca e un po’ di vizietti tirano sempre più di una turbativa di mercato.
Claudio Cerasa
28/06/08

sabato 21 giugno 2008

Il Foglio. "W. rimane senza colpi in canna e senza il Cav. Il Pd non lo difende più"

Roma. Poteva essere l’occasione giusta per Walter Veltroni e l’ex sindaco di Roma avrebbe potuto caricarlo qui il secondo colpo in canna del Partito democratico. Eppure ieri pomeriggio il segretario del Pd si è ritrovato a convocare un’Assemblea nazionale brontolona e praticamente dimezzata, si è ritrovato a chiedere di ritirare le dimissioni a un presidente (Romano Prodi) che fino a qualche mese fa era stato sconfessato pubblicamente dallo stesso W. e, come se non bastasse, a fine giornata il leader dell’opposizione ha registrato la fine (momentanea?) traumatica del CaW. Il presidente del Consiglio ha infatti attaccato Veltroni a proposito della gestione finanziaria del comune di Roma (“Veltroni si preoccupi delle notizie terrificanti sui conti di Roma che vanno sotto la sua responsabilità” e si ricordi che “non c’è mai stata una luna di miele con l’opposizione in Parlamento”). E dall’altra parte, il segretario del Pd ha risposto con una certa fermezza e ha spiegato che per il momento è chiuso qualsiasi tipo di dialogo. “Questo – ha detto W. – è uno spartiacque che rischia di segnare negativamente l’intera legislatura e che strappa la delicatissima tela del dialogo istituzionale”. Ieri però (rinviando la nomina del presidente del Pd a fine anno) ha provato anche a fare quello tosto, Veltroni, ha rispolverato lo spirito girotondista dei vecchi tempi e ha convocato in autunno un’azione di protesta in tutto il paese (e Antonio Di Pietro gli ha subito chiesto perché non farlo adesso). Nei due interventi all’Assemblea il segretario ha ripetuto quali saranno le parole chiave sulle quali crescerà l’alternativa del Partito democratico all’attuale governo: vocazione maggioritaria, alleanze per il governo, opposizione intransigente, discontinuità dall’esperienza dell’Unione e no a ritorni al passato (“Noi non torneremo indietro ai tempi del clima di odio e di contrapposizione ideologica tra maggioranza e opposizione”). Ma ieri pomeriggio non è andato tutto liscio per il segretario del Pd. Anzi. L’assemblea che fino a poche ore fa era ancora il simbolo delle primarie del 14 ottobre, e che fino a poco tempo fa era ancora il cuore di quella formidabile investitura popolare che aveva lanciato nove mesi fa Walter Veltroni alla testa del partito, è ormai un organo azzoppato; un organo che verrà via via sostituito dalla nuova direzione nominata ieri pomeriggio (200 membri) e che su 2.800 delegati ieri a Roma era rappresentata da poco meno di 1.000. “Nella discussione di oggi abbiamo registrato un altissimo grado di convergenza. Forse anche al di là delle aspettative”, ha provato a dire Veltroni a fine giornata. Ma l’impressione è che la resa dei conti nel Pd sia semplicemente rinviata, perché sono in tanti oggi nel partito a bisbigliare a bassa voce quello che invece ha avuto il coraggio di strillare nel pomeriggio Arturo Parisi. Alcuni delegati toscani del Pd sostengono che oggi è “come se stessimo tutti sotto choc per un terremoto pazzesco ed è come se non riuscissimo ad alzarci in mezzo a tutte le rovine”.

“Siamo interessati all’Udc”
L’ex ministro della Difesa, invece, non è arrivato a chiedere le dimissioni di W, ma dopo aver ascoltato Veltroni mentre diceva che il Pd di oggi è “il compimento perfetto dell’Ulivo del 1996” Parisi non ha resistito, è salito sul palco dell’assemblea e l’ha messa così: “Per noi il progetto dell’Ulivo aveva come obiettivo un bipolarismo a vocazione bipartitica ma che si facesse carico di unificare tutto il centrosinistra. Questa non è una assemblea democratica”. Poi l’ex ministro della Difesa ha continuato il suo scontro personale con il segretario fino a dire al Foglio che il Pd è arrivato alla “decomposizione”. Il punto è che il Veltroni di oggi è molto lontano da quello che aveva provato a indossare l’abito da Obama italiano. E’ anche vero che dopo due mesi Veltroni è riuscito finalmente a nominare la parola “sconfitta” e che su alcuni punti il segretario del Pd è stato chiaro. Per esempio sulle alleanze (“Siamo interessati al dialogo con l’Udc e con i socialisti”) e per esempio sull’effettivo peso che avranno nel Pd fondazioni e correnti (“Bisogna mescolare le culture diverse del Pd senza riprodurre le vecchie correnti dei vecchi partiti”). Ma il fatto è che oggi è difficile trovare qualcuno nel Pd pronto ad appoggiare in modo incondizionato il segretario. Quasi tutti ieri hanno condiviso la relazione di Veltroni ma non c’è stato nessuno pronto a spendere una parola a difesa della sua leadership. Pronto a dire semplicemente: “Scusate ma Veltroni non si tocca”. E ci sarà un motivo, dunque, se l’unica standing ovation della giornata è arrivata solo quando Veltroni ha nominato Prodi.
Claudio Cerasa
21/06/08

venerdì 20 giugno 2008

Il Foglio. "Marini pensa a come allontanarsi da W., ma il CaW non è finito"

Movimenti mariniani. Più che la questione sullacollocazione
europea, più che il dibattito sull’effettivo peso di correnti
e fondazioni, e più che tutti i retroscena sul possibile
successore di Romano Prodi (la cui scelta potrebbe slittare
a fine anno), c’è un aspetto che più di ogni altro rischia di
dare un contributo notevole al logoramento della leadership
di Walter Veltroni. Così, nelle ore precedenti alla convocazione
odierna dell’Assemblea nazionale del partito, tra
i segnali minacciosi registrati dal segretario del Pd quello
più pericoloso riguarda senz’altro Franco Marini. Racconta
un parlamentare del Pd che da qualche settimana l’ex presidente
del Senato considera quella di Veltroni “un’esperienza
destinata a volgere al termine”. Il punto è che il filo
che fino a qualche tempo fa legava il triangolo formato dagli
ex Popolari non è più così unito come un tempo: Giuseppe
Fioroni e Dario Franceschini continuano a investire sulla
“nuova stagione” e per non perdere capacità d’azione da
tempo provano a trasformare Marini in semplice padre nobile
del partito. Dall’altro lato, però, Marini (che difficilmente
sarà presidente del Pd) è intenzionato a non farsi mettere
da parte e per non trovarsi impreparato alla possibile
successione del segretario ha scelto di intensificare i sui
rapporti con Massimo D’Alema. Anche per questo, l’onorevole
Nicodemo Oliviero, uomo fidato di Marini, è presente
nelle liste dei parlamentari iscritti alla Fondazione ItalianiEuropei
e non è un mistero che il dialogo con l’ex ministro
sarà favorito anche grazie alle idee condivise a proposito
di riforma elettorale. Marini e D’Alema la vogliono riscrivere
in tedesco e W. invece no. Ma nella dolce rottura tra
gli azionisti di maggioranza del Pd c’è dell’altro ed è anche
qualcosa in più che una coincidenza: perché nella stessa sera
in cui gli ex Ppi del Pd si preparavano per l’Assemblea
di oggi e domani, Marini era invece da tutt’altra parte, a cena
con Francesco Rutelli a discutere di Europa. Sarebbe
sbagliato parlare di vera rupture, ma come spiega un senatore
del Pd “tra gli alleati più fedeli alla linea del segretario
oggi c’è qualcuno come Marini disposto a non difendere
più Veltroni in modo incondizionato ”.

Movimenti del CaW. E’ vero: pochi giorni fa era stato Walter
Veltroni a spiegare con toni definitivi che con Silvio Berlusconi
“il dialogo è finito”. Non c’è dubbio che nelle prossime
settimane il segretario del Pd farà la parte di quello duro
nei confronti del leader della maggioranza, ma dall’altra
parte è difficile contestare che il motore del CaW abbia ormai
innescato una serie di processi per certi versi irreversibili.
E non saranno pochi i casi in cui ci si ritroverà di fronte
a inevitabili parlamentari inguacchioni. In fondo, dopo
aver ricevuto tra martedì e mercoledì al Quirinale sia Veltroni
sia Berlusconi, il presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano ha lanciato un messaggio chiaro ai leader della
maggioranza e dell’opposizione e ha chiesto di non tradire
quel clima nuovo di dialogo parlamentare costruttivo. Su che
cosa? Il CaW proverà a ricompattarsi partendo dalla Rai e
molto dipenderà dalla disponibilità che il centrodestra offrirà
sulle nomine della presidenza, del cda e della Vigilanza
(ieri la maggioranza ha però respinto la candidatura di
Leoluca Orlando dell’Italia dei valori). Per il resto, come
spiega al Foglio Ermete Realacci ministro ombra del Pd, “ci
sono dei terreni su cui un rapporto tra maggioranza e opposizione
è indispensabile quali che siano i rapporti e le condizioni
del dialogo. Posso dire che il Pd avrà un atteggiamento
costruttivo non soltanto sulle riforme istituzionali, ma anche
sulla riforma elettorale europea, sulla questione dei rifiuti
e sulla sicurezza. L’opposizione non avrà uno stile ispirato
al tafazzismo e non diremo di no a tutte quelle leggi che
negli ultimi mesi abbiamo dimostrato di condividere”. Sulla
Finanziaria, dice Realacci, “dovremo valutare punto per
punto un testo che ancora non conosciamo”. Ma chissà che
anche per il pacchetto Tremonti non valgano le parole usate
da W. due giorni fa: “Faremo un’opposizione dura ma non
torneremo al passato”.
Claudio Cerasa
20/06/08

martedì 17 giugno 2008

Il Foglio. "Al tintinnar delle manette anche il cronista non di sinistra frena il Cav."

Si è detto che dal buco della serratura sarebbe meglio non sbirciare e che trasformare le intercettazioni in roba da guardoni è cosa che sarebbe preferibile evitare. Il fatto è che il Cav. ha spiazzato un po’ tutti con la storia delle sanzioni sulle telefonate sbobinate: già nel weekend i particolari del disegno di legge sono arrivati minacciosi sulle pagine dei giornali e dopo l’unanime approvazione del ddl da parte del Consiglio dei ministri non sono stati pochi i cronisti di destra e di sinistra pronti a battagliare insieme contro famigerati “venti illiberali” e pronti soprattutto a disobbedire uniti contro le future disposizioni del Caimano ritrovato. Se dal versante sinistro era prevedibile raccogliere tuoni contro i segnali di “regime”, a prima vista sorprende il riflesso istintivo del giornalista non di sinistra che, vedendo armeggiare il Cav. con i fili scoperti della libertà di cronaca, si trova a scegliere inaspettatamente da che parte stare. Fedeli alla linea del Cav. anche quando il Cav. un po’ ti tocca o meglio diffidare e appellarsi ai diritti della Costituzione? Mario Cervi, editorialista ed ex direttore del Giornale, è stato il primo a suggerire al presidente del Consiglio di intercettare un po’ meno ma di non intercettare la libertà di stampa. Senza girarci attorno, interpellato dal Foglio, Cervi dice che “in casi come questi la libertà individuale va al di là dell’amore per la propria parte politica. E’ vero, forse c’è un po’ di imbarazzo nell’intravedere queste contraddizioni tra la volontà di rigore di un governo come questo e il tentativo di esercitare rigore contro chi, come un giornalista, sta invece dalla parte degli inquirenti e della polizia. Per questo, se mi potessi permettere, suggerirei al premier di prosciugare letteralmente molte di quelle norme di legge annunciate la scorsa settimana”. Risponde Mattia Feltri, caporedattore della Stampa: “Beh, va detto che da giornalisti non possiamo non ricordare tutte le centinaia di presunzioni di innocenza improvvisamente dimenticate negli ultimi quindici anni e tutti i casi di violazione della privacy fatti sulla pelle delle persone. La cronaca giudiziaria è indubbiamente un sistema ingovernato in cui i magistrati hanno fatto il bello e il cattivo tempo e personalmente non mi dispiacerebbe sapere che oggi sarebbero a rischio le categorie del ‘giudice star’ e del giornalista d’inchiesta da cancelleria. Ma detto ciò oggi mi sento molto corporativista, perché – seppur con amorevole disprezzo – è profondamente sbagliato fare così la guerra ai giornalisti”. C’è poi chi come Franco Bechis, direttore di Italia Oggi, “sostiene che l’esercizio stesso del giornalismo ne sia minacciato”: “Da parte mia continuerò a pubblicare senza imbarazzo ogni genere di notizia che riceverò, sia che questa coincida con un verbale sia che coincida con un’intercettazione telefonica. Personalmente, tra l’altro, ritengo sbagliato avere verso la nostra categoria idee preconcette”.
“Nel mio paese ideale – dice Filippo Facci, giornalista Mediaset ed editorialista del Giornale – questo ddl ci starebbe benissimo, perché ripristina il concetto base del codice penale del 1989 secondo il quale le indagini sono segrete, il processo è pubblico e le notizie sono quelle che scaturiscono durante un processo. Detto questo si è passati da un eccesso all’altro e ci sono dei particolari sconcertanti che in un testo del genere non ci dovrebbero essere. E’ giusto limitare la registrazione delle telefonate e non è vero che non si potrebbe fare più cronaca giudiziaria con una legge del genere, perché le intercettazioni non corrispondono sempre a notizie. Anzi. Ma non ha alcun senso invece costringere il cronista a pubblicare prima della fase istruttoria solo il nome della persona e il reato. Le notizie vere vanno sempre pubblicate, non c’è dubbio. Però non venitemi a parlare di ‘galera’, perché non ci finirà comunque mai nessuno: anche oggi resterebbe proibito riportare verbali e virgolettati ma la giurisprudenza ha via via tradotto la violazione in una ridicola oblazione. Chissà, la stessa giurisprudenza come potrebbe trasformare una legge come questa”.
Claudio Cerasa
17/06/08

sabato 14 giugno 2008

Il Foglio. "Veltroni cerca un presidente per non essere commissariato"

Roma. Ci si potrebbe chiedere perché mai considerare come tema non secondario il dibattito – non proprio appassionante – sulla presidenza del Partito democratico e ci si potrebbe anche insospettire riguardo al peso effettivo che la carica avrà all’interno del Pd (spiega un parlamentare malinconico che “nel nostro statuto non esiste alcuna specifica modalità di elezione del presidente e allo stato attuale per quel ruolo non c’è ancora alcun candidato ufficiale. Incredibile!”). Eppure, quando la prossima settimana l’Assemblea nazionale si riunirà a Milano (20, 21 giugno), alla nomina del presidente del Pd andranno inevitabilmente legati due aspetti non secondari: la solidità della leadership di Walter Veltroni e gli ultimi movimenti tra le truppe popolari del partito. Semmai ci fossero ancora dubbi, i 2.800 delegati dell’ex organo costituente chiederanno al professore di ritirare quelle dimissioni “irrevocabili” ufficializzate appena 48 ore dopo la sconfitta elettorale del 14 aprile. Prodi è consapevole del fatto che tra cinque anni il candidato alla presidenza della Repubblica del Pd potrebbe coincidere con la carica di presidente del partito. Ma nonostante ciò nelle ultime ore il professore – che sabato non sarà a Milano – ha chiesto di essere considerato “un semplice tesserato”. Opinione condivisa dal suo ex portavoce Silvio Sircana, oggi deputato del Pd. “Ho ragione di temere – dice al Foglio – che non c’è alcuna speranza che Prodi ritiri le sue dimissioni. Certo, la politica mi ha insegnato a essere sempre molto prudente ma direi che per il momento non se ne parla. Come avremmo detto da giovani, il professore ha deciso per ‘un altro percorso di vita’. Deve essere chiaro però che Prodi non è alla ricerca di un cappello istituzionale: a me sembra invece che lui voglia tornare a essere uno studioso e un pensatore. E per farlo non è necessario essere presidente di qualcosa”. Solo che da quando Giuseppe Fioroni, intervistato da questo giornale, ha spiazzato un po’ tutti sostenendo che per quel ruolo il candidato migliore non è Franco Marini ma Romano Prodi, la linea del Pd è diventata trasparente ed è la stessa che si legge in controluce dietro le parole di Giorgio Tonini: “Il profilo che dovrà avere il presidente – dice il senatore del Pd al Foglio – è solo uno ed è quello che oggi ha il fondatore del Partito democratico, Prodi”. Non a caso, dunque, prima del 20 giugno, W. proverà a convincere di persona l’ex presidente del Consiglio (ieri è stato prima annunciato e poi smentito un incontro). Ma il tentativo del segretario va al di là della semplice formalità. Veltroni sa che in questo momento potrebbe essere pericoloso ritrovarsi dietro le spalle un presidente smaliziato, ambizioso e con una linea politica oltremodo autonoma. “Il punto è che Veltroni – spiega un senatore del Pd – non gradirebbe affatto un presidente ‘contundente’. Per dirlo in poche parole, il segretario oggi non vuole correre il rischio di essere ‘commissariato’ come capitò nella Margherita a Francesco Rutelli con Franco Marini”. Non può sorprendere che tra i candidati possibili alla presidenza del partito (Franco Marini, Rosy Bindi, Anna Finocchiaro, Arturo Parisi) il segretario del Pd voglia una nomina di “garanzia” come quella di Prodi. Ma non deve neppure sorprendere che il nome dell’ex premier ancor più di quello di Franco Marini sia gradito a due mariniani come Beppe Fioroni (responsabile organizzazione) e Dario Franceschini (vice segretario). Un uomo di peso come l’ex presidente del Senato alla presidenza del Pd toglierebbe infatti capacità d’azione ai due popolari che nella “nuova stagione” hanno raggiunto i galloni più alti. Per evitare che il Pd possa diventare un partito “presidenziale”, Franceschini, Fioroni eW. sono disposti ad adottare tutti i mezzi diplomatici possibili. Il ragionamento è che Prodi deve essere il presidente anche a costo di far slittare l’elezione a fine anno. Per questo, l’assemblea potrebbe limitarsi a respingere le dimissioni del Prof. Ipotesi remota? Secondo Tonini non troppo. “Un’assemblea senza presidente qualche problema potrebbe crearlo. Ma non è un mistero che questa nomina in fondo non è una questione né dirimente né così urgente”.
Claudio Cerasa
14/06/08


venerdì 13 giugno 2008

Il Foglio. "L’Economist attacca il CaW e Veltroni prova a fare quello duro"

Roma. Sarà per via dell’affondo ricevuto dall’Economist e sarà per tutti quei sondaggi minacciosi che collocano il Pd sul precipizio del 24 e del 27 per cento: fatto sta che dopo aver riunito il Cdm ombra, ieri pomeriggio Walter Veltroni ha fatto un po’ la parte del duro, indossando per la prima volta l’abito da capo dell’opposizione rigido e intransigente. D’altronde, le parole arrivate dal settimanale inglese non potevano essere più chiare e, se non fosse che l’espressione è stata già piuttosto abusata per il vecchio governo Berlusconi, il messaggio per il segretario oggi suonerebbe più o meno così: unfit, non adatto. In sintesi, l’Economist sgrida Veltroni per aver perso l’occasione di mettere in difficoltà l’esecutivo e per aver “rafforzato” la popolarità di Berlusconi trasformando l’opposizione ombra in opposizione “fantasma”. Naturalmente il leader del Pd non condivide le critiche (le considera “travagliesche”) ma è anche per questo che nel corso della giornata i toni usati dall’ex sindaco si sono fatti severi. A metà mattinata, lo shadow cabinet ha esaminato (e depositato) una serie di emendamenti al disegno di legge contenente le misure su Ici e detassazione degli straordinari. Il Pd, come spiegato dall’ex sindaco, considera “importante” l’abolizione dell’Ici ma ritiene poco appropriato il modo in cui il governo ha intenzione di coprire il costo del provvedimento. In particolare, il partito non condivide il taglio ai fondi per le infrastrutture nel sud (1,4 miliardi di euro) e propone di sostituire il gettito dell’imposta sulla prima casa “con un intervento che operi su assicurazioni, banche e industria petrolifera”. “Allargando – come spiega W. in perfetto stile Robin Hood – la base imponibile di questi soggetti che hanno raggiunto importanti guadagni”. Veltroni poi stimola il Cav. puntando l’attenzione su due aspetti. Il segretario ritiene che le iniziative sulla portabilità dei mutui siano “una presa in giro” e per quanto riguarda il ddl sulle intercettazioni telefoniche non si esprime direttamente sul contenuto del testo – dimostrando ancora una volta di non criticare lo spirito del provvedimento – ma dice semplicemente di non credere alla versione del “refuso”: “Noi – dice Veltroni – ribadiamo che le priorità sono altre e che occorre intervenire su stipendi, salari e pensioni”. Detto questo, continua W., “mi spiace che il governo invece di dire ‘ci siamo sbagliati politicamente e istituzionalmente’, dica che si è trattato di un errore”.
Ma per comprendere lo stato di salute effettivo del Pd ci sono due ulteriori aspetti da non trascurare. Come spiegato ieri dal dalemiano Nicola Latorre, il congresso che rinnoverà gli organi dirigenti sarà quello del 2009 e non del 2008 (“In questo momento – ha detto senza ironia Latorre – su Veltroni c’è un consenso altissimo”). Dall’altra parte, invece, non è difficile immaginare che nelle prossime ore il dibattito sulla collocazione europea del Pd (lunedì potrebbe arrivare una decisione ufficiale) lascerà spazio a quello sulla presidenza del partito. L’elezione avverrà il 21 giugno ma allo stato dei fatti per quel ruolo non esiste alcun candidato ufficiale. Franco Marini sostiene di essere “troppo grande di età” e il presidente dimissionario (Romano Prodi) chissà se farà marcia indietro. Sarà difficile ma non impossibile, perché – come spiegano dal partito – “il Pd lascerà le porte aperte all’ex premier fino al 21”. In alternativa le soluzioni sono queste: la prima è quella di una “nomina di garanzia” (e per quel ruolo nel Pd vedrebbero bene Oscar Luigi Scalfaro) la seconda quella di un presidente rosa come Rosy Bindi o magari Anna Finocchiaro.
Claudio Cerasa
13/06/08

giovedì 12 giugno 2008

Il Foglio. "Prodi presidente, in Europa da soli e W non si tocca. Fioroni svela la vera tattica del Pd"

tere in campo nei prossimi mesi. La prossima settimana Fioroni, con tutti i dirigenti del Pd, parteciperà all’Assemblea nazionale del partito (20, 21 giugno) e a proposito di quell’appuntamento l’ex ministro offre due spunti di riflessione che somigliano molto a due notizie. Fioroni spiega con una battuta il grande equivoco sul ruolo dei cattolici nel Partito democratico (“Dire che nel Pd i cattolici non contano nulla è come dire che negli ultimi sei mesi il Foglio non ha parlato di aborto”) e poi, entrando nel cuore degli equilibri del partito, conferma quanto segue: il grande asse che lega W. con gli ex Popolari esiste, Franco Marini lo ha rinforzato in questi giorni e lo stesso Fioroni dice che gli ex Ppi “continueranno a essere alleati leali con il segretario”. “E’ importante – spiega – capire che l’identità del Pd non è rappresentata da una tessera: l’identità è un sentimento che deve legare, che deve unire tutti noi attorno a principi condivisi. Possiamo dire valori? Credo di sì. Io sono convinto che il primo compito del partito sia quello di ridare dignità alla politica. Ma il problema è che questo grande ‘festival delle amarcord’ che ci circonda in questi giorni è il sintomo dell’incapacità di trovare l’orgoglio di ciò che siamo oggi. E per questo, la nostra nuova missione sarà quella di arrivare alla fine dell’anno riuscendo a creare una cosa molto semplice, l’orgoglio di essere democratici”. Chiediamo con un po’ di malizia: con o senza Pier Ferdinando Casini nel Pd? “Casini rimane per noi un interlocutore importante. Ma troverei offensivo nei suoi confronti auspicare un suo ingresso nel Pd”. A proposito di collocazione europea, Fioroni – pur intravedendo un po’ di confusione (“E’ un problema quando da una straordinaria opportunità per il Pd nasce una strana forma di opportunismo”) – anticipa che con ogni probabilità il Pd non avrà bisogno di entrare nel Pse. “Credo che riusciremo a creare una ‘cosa nuova’, un soggetto innovativo con parlamentari di nazioni diverse prima delle elezioni”. Fioroni – ricordando che il Pd ha intenzione di riscrivere la legge elettorale europea “non andando oltre una soglia del 3 per cento” – crede sia “inevitabile che per procedere al rinnovo degli organi dirigenti servirà il congresso del 2009” e intravede nel prossimo congresso tematico (a ottobre) un’opportunità non per “misurarsi in discussioni su D’Alema o Veltroni ma per dare un solido profilo al partito”. A Milano, tra l’altro, la prossima settimana si eleggerà il nuovo presidente del Pd: il nome più probabile è quello di Marini ma Fioroni la mette così. “Dovremo far di tutto per confermare Romano Prodi presidente del partito”. Parlando poi dell’attivissima fondazione di Massimo D’Alema, Fioroni considera le correnti e le anime del Pd “una risorsa fondamentale e tutt’altro che ambigua per il partito. Ma a una condizione. Sarebbe un grande errore se tutti cominciassimo a vivere di ricordi, se il partito dovesse muoversi a velocità diverse e se ci trovassimo di fronte a una situazione in cui c’è chi corre nel Pd per ottenere un risultato diverso da quello del segretario”.
Claudio Cerasa
12/06/08

mercoledì 11 giugno 2008

Il Foglio. "Ecco perché sarà molto difficile vivere senza iPhone"

Roma. Vi racconteranno un mucchio di balle, vi diranno che è troppo grosso, troppo lungo, troppo pesante, troppo lento, troppo caro persino troppo bello per essere davvero utile e saranno tutti pronti a tenervi lontani dal vostro inevitabile iPhone spiegandovi che quell’aggeggino lì non serve a nulla e che al massimo vi farà ulteriormente rincoglionire. (Vi diranno anche che un anno fa Greenpeace denunciò improbabili composti a base di bromo concentrati nell’iPhone, ma dimenticheranno di spiegarvi che non è vero, che l’iPhone lo fanno quei geniacci della Apple e che nel board di Apple accanto a Steve Jobs non ci sono stakeholder di Gomorra che smaltiscono rifiuti ma in fondo ci sono premi nobel per la pace come Al Gore). E’ vero, nell’iPhone che tra 31 interminabili giorni arriverà in Italia manca ancora qualcosina (la radio, il modem e la funzione “copia e incolla”) ma per il resto la cosa più difficile da ora in poi sarà non ammettere le inevitabili e meravigliose conseguenze che l’iPhone porterà dalle nostre parti. Perché basta un istante e basta semplicemente accarezzare per un attimo, e con tutti i polpastrelli, il corpo dell’iPhone per capire che il gioiello dell’Apple continuerà ad assassinare gli altri telefonini proprio come qualche anno fa la televisione cominciò a fare con le radio star. Le cose sono andate così, e due giorni fa Steve Jobs – che dalle cronache americane sembra ormai essere diventato l’unica rappresentazione umana del volto di Siddharta – ha presentato il modello di iPhone che l’11 luglio arriverà in Italia, e già dalle prime descrizioni sembra scontato che senza l’iPhone sarà difficile continuare a vivere. Perché. Perché quando dici iPhone dici un mucchio di cose che si potrebbero riassumere citando impronunciabili nomi di software e di sistemi operativi. Ma, per capire, il succo del discorso è che allo stesso prezzo del bauletto completo contenente tutti i singoli di Gianna Nannini (più o meno 128 euro, in Italia costerà un po’ di più) si avrà in mano un apparecchietto che ti permette di fare queste cose qui: parlare cinque ore a telefono senza dover cambiare batteria, navigare su Internet meglio che su un pc, consultare la posta elettronica in tempo reale, usare il navigatore satellitare, sbirciare i video su You Tube, vedere i film in ottima risoluzione, fare fotografie perfette, ascoltare musica e comprare su eBay. Trentuno giorni in effetti sono veramente tantissimi ma non ci sono più scuse; e per chi tira fuori la vecchia scusa dell’iPhone che non si può usare perché “ho le mani troppo grosse” ci si deve ricordare che qui i comandi sono più grossi che su qualsiasi altro telefonino. L’iPhone funziona meglio di un pc e non c’è nessuna giustificazione per non cominciare a scrivere mail accompagnate da quella parolina magica lì: “Sent from my iPhone”.
Ma per capire cosa significa davvero l’arrivo del cellulare Apple in Italia in fondo basterebbe dare una sbirciatina a tutti quei formidabili dati che negli ultimi mesi sono arrivati dagli Stati Uniti. Sono pochi ma fanno ugualmente impressione perché in un anno, e ci sarà un motivo, l’iPhone si è mangiato il tre per cento del mercato dei telefonini americani, in tre giorni dall’uscità del primo esemplare (un anno fa) sono stati venduti 520 mila apparecchi (6 milioni in un anno) e come se non bastasse a New York da un mese gli iPhone non si trovano più. Finiti, sold out. Certo, da queste parti si dice che il problema principale del gioiellino sarà quello relativo al capitolo costi ma il problema sembra facile da superare perché nei ventidue stati in cui l’11 luglio arriverà l’iPhone (in Italia arriva grazie al lavoro di Luca Luciani, il simpatico manager Telecom che un mesetto fa illustrò il trionfo d Napoleone a Waterloo) varrà questa regola: se compri l’iPhone senza cambiare scheda paghi solo il traffico sul tuo nuovo telefono, se compri l’iPhone e vuoi mantenere il tuo vecchio contratto devi pagare qualcosina in più. Il modello iPhone è però un modello pazzesco non solo perché con l’Apple vi è una regola impossibile da superare (facciamo cose sempre più fiche e le vendiamo sempre a meno) ma anche per un’altra serie di ragioni che in qualche modo giustificano gli inconfessabili esodi registrati negli ultimi mesi dall’Italia a New York di quelle persone che con la scusa del “dollaro basso” sono arrivati in America per entrare in un Apple store e mettersi in saccoccia un magnifico iPhone (da marzo, da Roma e Milano a New York i voli Alitalia sono aumentate di tre frequenze a settimana). E così, se fino a pochi mesi fa gli smanettoni si dividevano tra chi aveva Microsoft e chi aveva Apple, Jobs è ora riuscito a divedere il mondo in due nuove semplici e devastanti categorie. Chi ha l’iPhone, chi va in barca a leggere il New York Times, chi invia mail in qualsiasi parte del mondo senza dover cercare disperatamente il telefono di un bar a cui collegare lo spinotto del computer e chi invece perde tempo senza averne uno. Forse sembrerà banale, ma una delle conseguenze che porterà l’iPhone sarà anche una grande e storica rivoluzione lessicale. Perché tra pochi mesi quella i piccola seguita da un P maiuscola andrà a dare una spallata alla parola telefonino così come un po’ di tempo fa fece il “Billy” con il succo di frutta e la “Vespa” con il motorino. Si dirà iPhone, non più telefono. Si potrebbero dire altre cose e si potrebbe scendere nel tecnicisimo parlando di capacità di riproduzione e connettività e si potrebbe dire che l’iPhone farà schizzare in alto il traffico su Internet. Ma in questi interminabili 31 giorni il discorso da fare è uno, scegliere tra un fornelletto a gas da campo e un forno a micronde che oltre a scaldare i pasti li cucina e li condisce come se fosse Heinz Beck. E qui, sinceramente, oltre che essere pro-life oggi siamo parecchio ma parecchio pro-iPhone.
Claudio Cerasa
11/06/08

Il Foglio. "Investigare senza sbobinare? Si può". Per Mantovano e Ghedini l’auricolare impigrisce e penalizza le indagini

Arriverà venerdì prossimo in Consiglio dei ministri ed è facile prevedere che il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche continuerà a far borbottare ancora per giorni magistrati, giudici, giornalisti e parlamentari di ogni schieramento. Ma dietro ai numerosi spunti di riflessione che anche ieri hanno appassionato sottosegretari, ministri, senatori e deputati, c’è un punto senza il quale non è possibile entrare nel cuore del dibattito. Le prime indiscrezioni lasciano intendere che il divieto “assoluto” di ordinare, eseguire e diffondere intercettazioni varrà per ogni tipo di reato che non abbia a che vedere con le inchieste su camorra, mafia, ‘ndrangheta e terrorismo. Ma per tutte le altre inchieste, invece, come la mettiamo? Come si fa a indagare senza guardare dal buco della serratura? E’ possibile? Luca Palamara, presidente dell’Anm, sostiene che ogni genere di intercettazione sia “fondamentale per le investigazioni”. Parlando con il Foglio, però, il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, il presidente della commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli (Pdl) e il deputato azzurro Nicolò Ghedini spiegano perché nella stragrande maggioranza dei casi la registrazione delle conversazioni telefoniche non solo non aiuta le indagini ma spesso finisce per sottrarre spazio a tecniche indiziarie ben più solide. “Le intercettazioni impigriscono, mi sembra evidente, e il loro uso spropositato è una delle cause che hanno via via addormentato le facoltà autonome della polizia giudiziaria. Io – dice Ghedini – credo che la prima riforma da fare oggi sia quella di restituire autonomia alla polizia giudiziaria. Certo, bisogna considerare che in Italia ci sono dei pm bravissimi, ma è chiaro che poliziotti e carabinieri sono più bravi dei magistrati nel raccogliere elementi utili per un’inchiesta giudiziaria. Un conto è avere un pm che coordina duecento indagini, un altro è avere un poliziotto che ne coordina cinque, che quel lavoro lo fa per mestiere e che, potendo colloquiare direttamente con i suoi informatori, riesce a essere più tempestivo sul territorio di uno stesso magistrato. Parliamo di tolleranza zero? Perfetto. Ma se vogliamo davvero rompere le scatole ai criminali, seguendo il buon modello adottato dalla contea dell’Essex, per ogni tipo di reato vale la regola della prevenzione a tutto campo. E con un apparato investigativo di pregio si possono raggiungere risultati migliori rispetto a quelli ottenuti con le intercettazioni. Un esempio. Non è vero che senza le conversazioni registrate casi come Bancopoli e Calciopoli non sarebbero mai emersi. E’ falso, i reati non erano nelle intercettazioni, esistevano ancora prima nei bilanci delle stesse banche. E’ per questo che avendo i soldi per pagare consulenti in grado di studiare ogni tipo d’operazione sospetta, la giustizia sarebbe capace non solo di scoprire per tempo quei reati, ma anche di prevenirli”. A questo proposito Mantovano suggerisce un parallelo significativo tra due date e due argomenti. 2001, legge sui pentiti. 2008 legge sulle intercettazioni. Il sottosegretario la mette così.
(segue dalla prima pagina) Dice Mantovano: “A fronte di reati gravi devono essere utilizzati tutti gli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziara, nessuno escluso e senza pregiudizi. L’intercettazione va benissimo, ma l’investigatore non può rinunciare a priori a misure efficaci come i pedinamenti, gli appostamenti, i sequestri e la ricerca di testimoni. In passato le indagini si sono adagiate sulle dichiarazioni dei pentiti e lo stesso capita oggi con le registrazioni telefoniche. Il paradosso è che ci troviamo con uno strumento importante come quello delle intercettazioni che si ritorce contro chi lo utilizza. Per questo, se nel 2001 vi erano tempi maturi per riformare la legge sui pentiti oggi una simile situazione la si può riscontrare per quanto riguarda le intercettazioni”. “E’ errato – secondo il senatore Berselli – credere che la bontà delle indagini sia legata alla sbobinatura delle telefonate. Intercettare deve essere l’eccezione rispetto alla regola e invece oggi non lo è. Il mio parere è che le intercettazioni deresponsabilizzano il pm, perché gli danno un risultato apparentemente immediato che spesso al riscontro processuale non regge. Non è un mistero che negli ultimi cinque anni la giustizia abbia speso un miliardo e 150 milioni per registrare conversazioni (che tra l’altro, per il novanta per cento dei casi non portano a nessun risultato). Solo che oggi servono più pedinamenti, più interrogatori, più controllo del territorio e più agenti infiltrati. E per questo concentrare quel numero spaventoso di energie dietro un telefono spesso è più dannoso di quello che si potrebbe immaginare.
Claudio Cerasa
10/06/08

venerdì 6 giugno 2008

Il Foglio. "Rutelli agita i cattolici del Pd"

“Non possiamo diventare socialisti”. L’ex vicepremier invia una lettera ai vecchi colleghi della Margherita sulla “collocazione europea” del partito e convoca un convegno d’area per il 18 giugno. Un problema in più per W.

Il Foglio. "Rutelli agita i cattolici del Pd"

Roma. La storia è rimasta un po’ nascosta durante la campagna elettorale e fino a poche ore fa, al loft, il discorso veniva accolto con colpetti di tosse, sbadigli e battutine più o meno fulminanti: “Come sarà il Pd in Europa? Beh, prima cerchiamo di capire se ci sarà davvero un Pd in Italia”. Da qualche giorno, però, c’è una novità che vivacizza la questione della “collocazione europea” del Partito democratico e che potrebbe essere messa in relazione anche con l’analisi del “voto cattolico” celebrata ieri pomeriggio dagli ex Popolari nelle aule della Pontificia Università Gregoriana. (Aule in cui c’era Massimo D’Alema, in cui non c’era Walter Veltroni e dove ai parlamentari del Pd è stato ribadito che alle ultime elezioni il partito è stato votato solo dal 37 per cento degli elettori cattolici). La novità è una lunga lettera inviata tre giorni fa, via fax, da Francesco Rutelli a Enzo Bianco, Rosy Bindi, Antonello Soro, Pierluigi Castagnetti, Enrico Letta, Paolo Gentiloni, Luigi Zanda, Giuseppe Fioroni, Dario Franceschini, Lapo Pistelli, Arturo Parisi, Gianluca Susta, dove l’ex sindaco di Roma lancia un appello per creare fuori dall’Italia una “cosa nuova”. “Credo – scrive l’ex segretario della Margherita – che si debba confermare che il percorso che abbiamo realizzato in questi anni e la fisionomia in costruzione del Partito democratico non siano compatibili con un ingresso nel partito né nel gruppo parlamentare dei socialisti europei”. La lettera di Rutelli arriva in un momento delicato non solo per la questione della collocazione europea del Pd ma anche per quanto riguarda il filo sul quale ha cominciato a muoversi l’ex vicepremier. Rutelli, infatti, dopo la sconfitta a Roma contro Gianni Alemanno, seppur confortato dalla nomina bipartisan a capo del Copasi, sa che oggi il rischio è quello di perdere peso nel partito e di diventare sempre più un semplice leader di minoranza.
Ma Rutelli sa anche che all’interno del loft esistono ancora spazi per provare a far squadra attorno a una certa linea politica. E a questo proposito, sono due gli argomenti con i quali il senatore (da ieri anche consigliere comunale di Roma) proverà a imporre la propria agenda su quella del partito Il primo punto è il nuovo manifesto dei coraggiosi che presenterà entro la metà di luglio. Il secondo è la collocazione europea. Rutelli, che è cofondatore e copresidente del Pde (che fa parte dell’Alde), sa che in questo momento la linea del Pd, e la linea di Veltroni, a proposito di Europa non è ancora coincidente con quella dei cattolici del partito. Il segretario vorrebbe creare un contenitore come il Pd anche a livello europeo ma come riassume un collaboratore di fiducia di W. l’approdo più immediato per il Pd in Europa oggi “è quello di una sorta di apparentamento del partito nel gruppo del Pse”. Non è difficile da comprendere, dunque, che per i cattolici del Pd “diventare socialisti” non è in cima nella lista dei desideri e anche per questo c’è da scommettere che la battaglia di Rutelli contro la formula “Pse-Pd” sarà presto appoggiata anche dagli ex Ppi (due giorni fa Pierluigi Castagnetti, ex segretario Ppi, ha già scritto su Europa un articolo preoccupato sull’argomento). Solo che gli ex popolari di fronte all’affondo di Rutelli potrebbero anche essere in difficoltà. “Il tema del partito europeo – spiega un ex Ppi presente ieri pomeriggio alla Gregoriana – non è un tema etico su cui vale la libertà di coscienza. Se Veltroni non la pensa come noi, rischiamo per la prima volta di trovarci seriamente in disaccordo con il segretario”. C’è poi un appuntamento che potrebbe incuriosire i parlamentari cattolici del Pd. Domani Rutelli parteciperà con Lapo Pistelli a una riunione organizzata dall’Alde a Bilbao. Ma il colpo che l’ex vicepremier prepara è quello di metà giugno, quando Rutelli organizzerà in Italia un convegno in cui mettere a punto un’agenda programmatica per l’Europa e il Pd. Il convegno sarà a Roma il 18 e 19 giugno e si svolgerà, non proprio casualmente, poche ore prima dell’assemblea nazionale convocata dal Pd (20, 21 giugno) E come suggeriscono oggi i rutelliani quel giorno a Milano l’ex sindaco saprà perfettamente cosa chiedere a W.
Claudio Cerasa
06/06/08

mercoledì 4 giugno 2008

Il Foglio. "El Caimano resiste solo in Spagna e i girotondi ora si fanno sul País"

Madrid. Il Caimano in Italia non lo vede più nessuno e per trovare qualcuno disposto ad ascoltare la storia del Cav. brutto e cattivo bisogna andare nelle terre di Zapatero, sfogliare i giornali madrileni e dare uno sguardo alle dure interviste di Paolo Flores D’Arcais e ai profondi editoriali di professori come Alexander Stille. Ma prima di leggere questa storia di scrittori e intellettuali eroici che non ci stanno e che battono forte i pugni sul tavolo per far fronte alla tentazione d’immergere il dito nel mieloso mondo del CaW, c’è una premessa che bisogna conoscere. Perché, si sa, le parole prima di ogni elezione sono sempre le stesse e ogni volta che il Caimano si presenta alle urne, accanto a un valoroso Travaglio che resiste, a un D’Arcais che si dispera e a un Tabucchi che minaccia, fino a qualche tempo fa c’era sempre un Umberto Eco che prometteva quanto segue: se Berlusconi vince non ha più senso rimanere in Italia. E dunque, sia prima sia dopo il voto, giù articoli, giù libri, giù saggi e giù vastissime interviste. Nel 2001, per esempio, Eco disse che se il Cav. avesse trionfato sarebbe andato in Francia, e lo motivò con parole sincere: “I cavalli cosacchi faranno il bagno nelle acquasantiere di San Pietro!”. Lo stesso promise Tabucchi e lo stesso gridò D’Arcais. Come si ricorderà, sui giornali era un continuo minacciare resistenze d’intelletto ed era una continua tentazione di andare a esportare i propri cervelli oltre i confini italiani. Ora le cose sono un po’ cambiate e i giapponesi pronti a immolarsi sui quotidiani per protestare contro il nuovo Cav. “a prescindere”, come direbbe Totò, sembra proprio che non abbiano più granché fortuna, e per riascoltare i passi della vecchia resistenza girotondina bisogna superare il Mar Tirreno e mettersi qui, sulle strade di Barcellona e di Madrid. Perché, scomparso il conflitto di interesse e rimasta la sola Unità a ribellarsi alle strette di mano tra W. e il Cav., gli ultimi battiti di quel panchopardismo-morettismo militante trovano accoglienza ora solo nelle terre di Zapatero. Li avete sentiti, i ministri di Zap., di volta in volta dire che “L’Italia criminalizza il diverso” (16 maggio) e che “Berlusconi avrebbe bisogno dello psichiatra” (17 maggio). E l’avete sentita, poi, la sinistra rimasta fuori dal Parlamento urlare, come ai bei tempi, “evviva Zapatero!”. Chissà che la stessa cosa non la pensino i vecchi teorici del girotondismo, quelli che il Caimano negli abiti da statista proprio non riescono a sopportarlo e che ormai trovano tribuna solo lontano dall’Italia.
E così, il Flores D’Arcais che fino a poco tempo fa presentava in prima serata le sue “giornate della giustizia” “per non piegarsi alla sudditanza nei confronti del Cav.” eccolo trovare ormai solo in Spagna qualcuno disposto a prendere sul serio le sue parole. El País, 10 aprile: “Berlusconi es una amenaza muy seria”, “una minaccia molto seria” che “renderà l’Italia uguale alla Russia di Putin”. E poi, ricordate il professor Stille, che fino a poco tempo fa scriveva libri sul “Citizen Berlusconi” spiegando su Rep. quanto fosse mascalzone il Cav.? Beh, ora Stille su Rep. scrive solo di Murdoch e per trovare qualcuno pronto a raccogliere le sue teorie su quel cattivone del Cav. il professore dove se ne va? Anche lui a El País, naturalmente. 31 maggio, titolo dell’ultimo pezzo di Stille: “Mafia y politica en la Italia de Berlusconi”. Perché il Caimano non lo vede più nessuno ma coloro che invece los caimanos li scovano in ogni dove ci sono ancora e fanno in Spagna quello che in Italia fanno solo Santoro e certi cronisti dell’Unità. Anche se, va detto, un po’ di sangria di tendenza Concita sembra che presto arriverà anche qua.
Claudio Cerasa
4/06/08

martedì 3 giugno 2008

Il Foglio. "Da Chiaiano a Vicenza, il sindaco Pd contro la base Usa e contro W."

Vicenza. Non ha più spazio sui giornali, perché oggi la cronaca è Napoli, Chiaiano, la monnezza e i serpentoni (10 mila, 5 mila, 2 mila, chissà) che sfilano in piazza offrendo alle telecamere le parole ultime dell’incazzatura antidiscarica: “Jatevinne! Jatevinne!”. Ma spostando il dito un po’ più in là, centrando la cartina dell’Italia un po’ più a nord, c’è un’altra città che nel giro di un mese potrebbe diventare una nuova Chiaiano e che, per ragioni diverse dalla spazzatura, potrebbe mettere in imbarazzo centrodestra e centrosinistra, aprendo una ferita tra la segreteria del Pd e le amministrazioni locali del partito. Vicenza e la sua base militare come Chiaiano e la sua discarica comunale? Il rischio c’è. “Questa è una battaglia per la democrazia uguale a quella di Vicenza!”, ha detto domenica a Napoli il compagno disobbediente Luca Casarini, alla testa di un corteo che accanto agli “anti discarica” e agli “anti Tav” ospitava anche le bandiere bianche e rosse dei “No Dal Molin”. Tra i due casi il collegamento esiste e non soltanto perché i “no” alla Tav, alle discariche e alle basi militari sono ormai diventati un fronte unico nell’evoluzione delle “resistenze” no global. Ma anche perché, dalle parti di Napoli così come a Vicenza, c’è una certa spaccatura interna all’opposizione e non a caso non sono pochi i sindaci del Pd che usano parole molto diverse dai dirigenti del partito. A Marano, a pochi chilometri da Napoli, il sindaco Salvatore Perrotta (Pd) si è schierato con il fronte anti discarica di Chiaiano, attaccando il suo stesso partito che non è contrario a quella discarica. A Vicenza, invece, a proposito dell’allargamento della base militare americana (la Dal Molin), succede una cosa simile: il sindaco Achille Variati eletto ad aprile con il Pd, l’allargamento non lo vuole. Il Pd invece sì.
L’ampliamento della base americana, tra l’altro, è stato anche uno degli argomenti con cui Veltroni ha declinato la sua “politica del fare”. Negli ultimi mesi, il segretario lo ha ripetuto un paio di volte e lo ha scritto anche tra le pagine del suo programma elettorale. L’ex sindaco di Roma è convinto che “la base americana si deve fare” e a quanto pare, la notizia è delle ultime ore, l’ampliamento della Dal Molin comincerà già dalla fine di giugno, quando una lunga striscia di terreno vicentino passerà dalla competenza dell’aeronautica italiana a quella americana. A quel punto, spiega al Foglio lo stesso sindaco di Vicenza, “i lavori potrebbero cominciare” e c’è da scommettere, come Variati sa perfettamente, che nel giro di poche settimane a Vicenza cominceranno a esserci molte delle bandiere che oggi sventolano tra le strade di Chiaiano. Ma con una differenza rispetto al 2007, quando contro l’ampliamento della base sfilarono 150 mila manifestanti, pochi giorni prima che il governo Prodi cadesse sulla politica estera. Oggi il primo cittadino è del Pd, non più di Forza Italia, e alle ultime elezioni, mentre W. spiegava come ampliare la base, Variati veniva eletto anche grazie ai 5 mila voti raccolti dalla lista “Dal Molin”. E’ anche per questo se sulla base di Vicenza il Pd dovesse dare il suo appoggio al governo (favorevole all’ampliamento), in piazza con i “no Dal Molin”, e contro il Pd, ci sarà anche il sindaco della città. Sindaco che per il prossimo settembre ha già convocato una consultazione, con cui la città esprimerà il suo giudizio sulla base. “Qui non si tratta di essere ‘nimby’, non si tratta di dire no nel mio giardino e non si tratta di essere anti americani. Quello che forse il Pd non comprende – dice al Foglio Variati – è che qui c’è un popolo che riguardo alle decisioni del suo territorio non vuole essere scavalcato da nessuno. Certo, su queste questioni il mio interlocutore è il governo, non il loft. Ma se il Pd non vuole perdere terreno al nord mi auguro che su argomenti come questi anche Veltroni cominci a pensarla come me. Perché prendere decisioni contro la città in questo momento per il Pd potrebbe essere rischioso”.
Claudio Cerasa
03/06/08

lunedì 2 giugno 2008

Il Foglio. "Il Pd non avrà giornali di partito ma una tv, parla Gentiloni"

Roma. Per il momento sarà una “una shadow tv”, ma sarà comunque una televisione vera: con un palinsesto, una linea editoriale, una piattaforma multimediale, una community, una struttura ispirata a due modelli americani e un’altra struttura che farà da cerniera tra la redazione giornalistica e la direzione del partito. In poche parole, dal prossimo autunno Walter Veltroni vedrà nascere la prima televisione ufficiale del partito. Il segretario del Pd aveva anticipato l’idea, qualche giorno fa, in un’intervista al Corriere della Sera (stiamo lavorando per “rafforzare la nostra presenza nel web e nel sistema tv”) e l’ex ministro delle Comunicazioni (ora ministro ombra), Paolo Gentiloni, anticipa al Foglio il progetto della rete democratica. Una rete che sarà diversa dalla tv satellitare che la fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema presenterà nei prossimi mesi; che sarà speculare a quella ideata dall’ex vicepresidente americano Al Gore, la Current tv (arrivata un mese fa in Italia); e che si appoggerà a un network simile a quello molto famoso chiamato moveon.org, capace di raccogliere nel 2004 circa 21 milioni di dollari per il candidato alla presidenza John Kerry (“Una formidabile macchina di mobilitazione politica e finanziaria”, dice Gentiloni). Per certi versi, però, la tv di Veltroni e del Pd rappresenterà una piccola rivoluzione per un partito di centrosinistra. Perché, come spiega Gentiloni, alla fine dell’estate il Pd avrà una sua rete, una sua web radio, una suo telegiornale e un suo canale satellitare ma non avrà più, invece, un giornale di sua appartenenza. “Fermo restando – spiega Gentiloni – che nell’area politico-culturale del Pd convivranno almeno due quotidiani autonomi (Europa e Unità) il partito non sarà più proprietario di alcun giornale. Il punto è che oggi la comunicazione del Pd deve essere in discontinuità rispetto ai modelli adottati in epoche storiche precedenti. Insomma: noi non puntiamo a essere proprietari di mezzi di comunicazione ‘alternativi al sistema’, ma a diventare un grande fornitore di contenuti. Per questo il nostro progetto è quello di creare un apparato di comunicazione che lavorerà su più piattaforme e che, oltre a essere presente sul satellite e sul web, sarà visibile anche su alcuni canali privati. Il web sarà porta di accesso per tv e radio, per l’informazione online e per il social networking. Detto questo, il Pd credo abbia l’esigenza di superare alcuni problemi di comunicazione, come la difficoltà di dialogo con i propri aderenti e i militanti più giovani. Una tv così credo possa aiutare”.
Gentiloni, che per mettere a punto il progetto riunirà a metà giugno un gruppo di lavoro composto da parlamentari, esperti e giornalisti (ci sarà anche il responsabile web del Pd Francesco Verducci), dice che il partito arriverà presto sul satellite e, con molta diplomazia, ammette che non ci sarà “nessuna concorrenza” con la tv satellitare di D’Alema. “Dal nostro punto di vista, tra l’altro, una struttura che gestisca insieme web e tv può essere anche una buona idea e non mi stupirei se la radio e la tv che stiamo preparando siano curate da società ad hoc. A quanto ne so, poi, la fondazione ItalianiEuropei sta discutendo di questo progetto con Nessuno tv e credo proprio che con quel canale è possibile che faremo un pezzo di strada anche noi”. Dalla Nessuno tv spiegano che questa però è un’ipotesi difficile e che, con ogni probabilità, la loro rete (che oggi ha come consiglieri i senatori pd Giorgio Tonini e Luigi Zanda) potrebbe invece entrare presto nel cda di ItalianiEuropei.
Claudio Cerasa
31/05/08