giovedì 28 febbraio 2008

Il Foglio. "Così la castrazione chimica è entrata in campagna elettorale"

Sceriffo, forbici, pedofili e il pugno durissimo di Veltroni e Fini. Se ne può parlare? Forse sì, forse no

Roma. E ora? Che fare con questa storiaccia della castrazione? La notizia è quella che avete letto su tutti i giornali: la castrazione chimica per i pedofili è diventata un muscoloso argomento da campagna elettorale, Walter Veltroni ha confessato di non poterne escludere l’applicazione, Gianfranco Fini, già qualche giorno prima, aveva usato più o meno le stesse parole di W e l’ex ministro Roberto Calderoli aveva anticipato la questione già cinque anni fa: quando però il tema della pedofilia non era arrivato così violentemente anche in seconda serata e quando l’approccio della tolleranza zero contro i pedofili non era stato ancora identificato come formidabile strumento di consenso elettorale (come spiegato anche su questo giornale da Emily Horowitz). Il tema è molto delicato: la pedofilia è uno di quei crimini che viene circoscritto a fatica nell’espressione, un po’ rozza ma efficace, di “reato come gli altri” ed è per questo molto difficile trovarsi in disaccordo con chi parli di “tolleranza zero” e di “certezza della pena”. Allo stesso tempo, però, è altrettanto faticoso non ammettere che l’espressione “castrazione chimica” non può che far venire parecchi brividi, per quanto poi dietro l’idea di una grande forbice spalancata ci sia in realtà una cura farmacologica a base di ormoni che inibiscono la produzione di testosterone; ma si sa: tra “cura ormonale” e “castrazione” lo sceriffo in foto viene meglio impugnando la seconda.

La cronaca di oggi e la Turco di ieri
Certo, viene da sorridere sul consenso che oggi Veltroni trova sul suo “pugno duro”, come scritto ieri dall’Unità (anche se nel testo della proposta di legge il Pd di castrazione non ne parla mai), visto che qualche anno fa, sulla stessa proposta di castrazione, era il ministro Turco a ricordare che “misure di questo tipo ledono inutilmente lo stato di diritto: non si deve cadere nell’emotività quando si legifera su questioni tanto orribili”.
Che dire, dunque, di questa storiaccia? Ieri mattina, il Foglio ha riflettuto a lungo sull’argomento e ha ragionato su un paio di punti che potrebbero essere interessanti per circoscriverlo. E’ vero che il costo sociale di un detenuto può anche essere una delle motivazioni che giustificherebbe la castrazione (allo stato costa meno un ormone che una detenzione); è vero che l’eco di eugenetica mengeliana è sufficientemente forte da far mettere la testa sotto il cuscino; ed è altrettanto corretto dire “un conto è proporre l’inibizione ormonale come possibile integrazione di una pena, un altro, meno comprensibile, è quello di considerare questa ‘cura’ semplicemente sostitutiva”. Ma forse il punto è un altro: è giusto, per esempio, ridurre tutto a pura medicalizzazione? Non è difficile, infatti, trovarsi di fronte a casi di pedofili recidivi, come successo pochi giorni fa ad Agrigento con un uomo condannato per abuso di minori che uscito di carcere ha abusato ancora; e non è neppure difficile trovarsi di fronte a casi come quello capitato a Roma, qualche anno fa, quando un uomo arrestato per pedofilia aveva chiesto di “essere sottoposto alla castrazione chimica per tornare a essere un uomo normale”. Davvero lo stato può combattere il testosterone solo con la sua forbice chimica? L’impressione è che sia un po’ pericoloso ammettere che alcuni reati come quelli a sfondo sessuale (quindi causati da pulsioni per alcuni incontrollabili) siano “risolvibili” solo con cure mediche e siano quindi per certi versi inevitabili. Può essere così, ma questa può anche essere una scappatoia facile facile per non ammettere il fallimento della prevenzione di un reato e la mancata funzione rieducativa della detenzione. Si dirà: e se il pedofilo sconta la pena e dice di non essere pentito? Le soluzioni non mancano. In Italia, assieme al carcere, ci sarebbero gli arresti domiciliari e in Francia, per esempio, si discute della possibilità che un giudice prolunghi la pena del detenuto nel caso in cui ci sia possibilità di recidiva (si chiama retention de surete). Ci sono poi un paio di altre cose poco chiare: non è chiaro se la castrazione deve essere prevista anche per una maestra dell’asilo, per chi scarica materiale pedopornografico e per chi molesta i minori senza violentarli direttamente. Come detto ieri al Foglio, non c’è dubbio che con la castrazione si tagli la testa al toro, ma è anche probabile che parlare di “estensione dei termini di custodia cautelare per i pedofili” – e dire dunque che per reati più reati di altri lo stato di diritto può pure essere strapazzato – è rischioso, vista la facilità con cui sotto la polvere di reati così spaventosi spesso si nascondono mostri, ma altrettanto spesso germogliano terribili e spaventose cacce alle streghe.
Claudio Cerasa
28/02/08

martedì 26 febbraio 2008

Il Foglio.it "Così Boselli unisce l'utile all'incazzevole"

Il Partito socialista di Boselli, rispetto al poco pugnace clima elettorale, ha scelto di far vivere la sua campagna su un tema saldo, ragionevole e bipartisan come l’incazzatura. “Sono gay e sono incazzato”, “Sono precario e sono incazzato”, “Sono donna e sono incazzata”, si legge tra le righe dei manifesti. Sulla scia delle dure affermazioni dei principali concorrenti alla premiership (tra un Cav. che spiega perché “un voto utile sia scegliere tra Pdl e Pd”, tra un Bertinotti convinto che “sia un imbroglio il voto utile per il Pd” e tra un Baccini deciso nel ricordare che “un voto per la Rosa bianca sia un voto utile per il paese”), Boselli – convinto che il Pd sia una realtà molto più dilettevole che utile e che il loft di Veltroni sia simile, più che a un partito, a un “concorso di bellezza” o a un grande “provino tra i rampolli delle più importanti famiglie” – dopo una lunga e argomentata riflessione sul perché sia inopportuno parlare di "voto utile", sul perché sia un trucco affrontare il tema dell'utilità elettorale e sul perché la teoria del “voto utile ha il sapore di una trovata volta ad arginare le conseguenze elettorali di chi ha fatto i calcoli per guadagnare un premio di maggioranza a scapito della propria identità” (come coraggiosamente segnalato dall’eurodeputato socialista, Alessandro Battilocchio), insomma dopo tutto ciò, l’ex esponente della Rosa nel pugno e del Psi ha sciolto la sua riserva e ha svelato quale sia la vera e adeguata radice del voto socialista: “un voto utile all’Italia”.

lunedì 25 febbraio 2008

Il Foglio. "Che cosa significa interrompere una gravidanza. Nei dettagli"

Infermiere, anestesista, tubo, contenitore, contenuto, espulsione. Un ginecologo romano e la cronaca di una normale ivg

Serve un infermiere, un anestesista, un ginecologo, uno psicologo, una cannula, un tubicino, un lettino, un certificato, un aspiratore e un contenitore. Nei primi novanta giorni di gravidanza, l’aborto funziona così; ma se vai in un consultorio, oppure in un ospedale, in una clinica, in uno studio privato o in un ambulatorio, nelle prime dodici settimane di gestazione la parola “aborto” è una parola che semplicemente non esiste: perché lo psicologo ti dirà “ivg”, in consultorio la chiameranno “interruzione” e in ambulatorio, sostituendo di volta in volta la parola con la tecnica, parleranno di “karman”, di “raschiamento” e di “aspirazione del materiale”. La parola aborto è una parola che clinicamente compare sotto forma di acronimo (“a. t.”, aborto terapeutico) solo a partire dal secondo trimestre di gravidanza, in quell’arco di tempo che va dalla dodicesima alla ventunesima settimana e durante il quale, come direbbe il ginecologo, gli aborti “hanno sempre mantenuto un andamento costante”: 3.585 nel 2006, il 2,7 per cento degli aborti totali in Italia. Il dato però più interessante sulle interruzioni di gravidanza, quello che il ministero della Salute nasconde in un capoverso a pagina trenta della sua ultima relazione sull’attuazione della legge 194, è quello relativo agli aborti effettuati in “età precoce”; quelli, cioè, fatti prima delle otto settimane (il 37 per cento di quelli effettuati nel 2004, e il 38,4 per cento di quelli registrati nel 2005); e quelli fatti tra l’undicesima e la dodicesima settimana (circa il 15,8 per cento di quelli totali).
Prima della dodicesima settimana, la tecnica di aborto più utilizzata in Italia, e non solo qui, è quella che gli infermieri, i medici, i terapeuti e gli anestesisti definiscono “non traumatica”: si tratta del “metodo karman”, un metodo che prende il nome da una cannula che si introduce nell’utero della donna; un metodo così semplice, e così diffuso, che nel 1975 fu descritto così in un libro pubblicato da Savelli Editore: “Per imparare a fare l’aborto col karman basta avere la mano ferma, un po’ di delicatezza, e vederlo fare da qualcuno già esperto, un dieci, venti volte; poi farlo altre dieci venti volte con l’assistenza di qualcuno esperto. E’ tutto lì: non occorre studiare medicina per cinque anni. E’ per questo che è un metodo rivoluzionario: perché possiamo impararlo tutte e farci gli aborti l’una con l’altra”. Il volume, pubblicato nel 1975 si chiamava “Manuale di autocura e autogestione aborto”; ed è un manuale che ricorda piuttosto bene il ginecologo non obiettore dell’ospedale San Camillo di Roma che racconta al Foglio cosa significa concretamente “interrompere la gravidanza” prima della dodicesima settimana. E lo racconta nei dettagli.
L’ospedale San Camillo di Roma è uno dei due ospedali della capitale in cui vengono registrate più interruzioni di gravidanza in tutta la regione: 2.600 l’anno. Il secondo è il San Filippo Neri, che ha una media di interruzioni di 1.110 all’anno. (Roma, tra l’altro, è la città del Lazio con il tasso di abortività più elevato: 11,3 per 1.000 rispetto al 7,8 di Latina, il 6,4 di Rieti, il 6,3 di Frosinone e il 5,1 di Viterbo). In entrambi gli ospedali della capitale, le interruzioni di gravidanza vengono eseguite in regime di day hospital: la paziente arriva dopo aver prenotato di persona un appuntamento; e arriva dopo che il ginecologo stesso le ha già spiegato “sommariamente” qualcosa sull’intervento, sull’aspirazione, sul materiale usa e getta, e sui possibili problemi legati al “banale intervento chirurgico”. Il ginecologo, dopo aver fissato l’appuntamento, ricorda alla donna che si ha almeno una settimana per ripensarci; la donna aspetta qualche giorno, poi arriva in ospedale, si mette in fila, firma l’anamnesi, aspetta il turno ed entra in sala. All’ospedale San Camillo, l’ambulatorio è aperto dal lunedì al venerdì dalle 8,30 alle 14,00, e la struttura accetta fino a dieci prenotazioni al giorno. La paziente arriva in ospedale pochi minuti prima delle otto, entra in sala operatoria, si sdraia sul lettino e sceglie il tipo di anestesia. L’intervento comincia proprio in questo momento.

Spiega il ginecologo: “Oggi, in una struttura come la nostra non c’è uno psicologo. Prima si facevano dei gruppi con le pazienti e le pazienti poi si ritrovavano insieme il giorno dell’intervento. In questi giorni c’era una buona probabilità, intorno al quindici per cento, che una donna ci ripensasse. Ora, invece, senza psicologo la percentuale, non di molto, ma è un po’ salita”. Fino a qualche anno fa, per l’intervento le donne sceglievano un tipo di anestesia locale (un’iniezione di novocaina o xilocaina) che rendeva l’utero insensibile. Oggi, invece, circa il novantacinque per cento delle donne che abortisce preferisce non vedere e non sentire nulla, e sceglie un’anestesia generale: in due minuti l’anestetico entra in circolo. Il ginecologo pizzica dunque il collo dell’utero con un tenaculum, sostiene le gambe con una forcella, infila due dita nel canale vaginale e inserisce uno speculum per allargare l’ingresso dell’utero, dilatando questo con un paio di piccole aste di caucciù a forma di cilindro allungato. Le asticelle sono larghe al massimo un centimetro e permettono il passaggio di una cannula attraverso il canale cervicale: un condotto che dalla vagina porta alla cavità uterina, e quindi all’embrione. La cannulla si chiama “karman” ed è lo strumento che dà il nome alla tecnica di interruzione: è un tubo morbido a forma di bastoncino, è fatto con un materiale plastico, ha la punta arrotondata e un cono di inserzione; il karman è un tubo molto flessibile, il suo raggio può essere di cinque, sei, sette, otto, dieci, dodici millimetri e la sua dimensione varia a seconda delle settimane di gravidanza. Più l’embrione cresce e più il tubo dovrà essere grande. A una delle estremità di questa cannuccia, il ginecologo collega un aspiratore: un apparecchio che “crea una situazione di vuoto”. Il karman funziona come una qualsiasi macchina che aspira aria: mette sotto vuoto la cavità uterina e poi, in pochi minuti, aspira tutto. “La tecnica – dice il ginecologo – è semplice. Facciamo un esempio: se prendi un pezzo di formaggio e lo metti sotto vuoto, il contenuto si mantiene e il contenitore aderisce al contenuto. In questo caso il contenitore è decisamente più robusto, per cui, qui, il contenitore si mantiene meglio e il contenuto viene aspirato via molto facilmente”.
A questo punto della gravidanza, tra la nona e la dodicesima settimana, l’evoluzione dell’embrione (il “contenuto”) all’interno dell’utero (“il contenitore”) è stata registrata dal ginecologo tedesco Rainer Jonas. L’embrione ha gli organi interni non sviluppati, ma visibili; ha un principio di orecchie e di occhi; ha la lingua; il collo è appena delineato; il cuore batte; il “materiale” comincia ad avere un po’ di unghie e secondo il professor Jonas “proverebbe già gusti precisi” (in un esperimento fatto dallo stesso dottore, iniettando nel liquido amniotico delle sostanze dolci, il feto verrebbe fotografato mentre compie dei movimenti di deglutizione”). La lunghezza di quel che il ginecologo chiama “prodotto del concepimento”, “materiale non strutturato”, “contenuto”, “tessuto fetale”, “grumo di sangue”, “abbozzo placentare di cui non si identificano parti significative” è di circa sei centimetri. A volte, però, prima dell’intervento le pazienti fanno alcune domande. E’ un feto? E’ un embrione? E’ un bambino? Sente dolore? Il ginecologo, solitamente, risponde così. “E’ un momento delicato e ovviamente capita spesso. Il punto è che il nostro deve essere un approccio molto tecnico. Non ci deve essere religione, non ci deve essere etica, non ci deve essere politica. E’ un approccio ‘neutro’; e deve esserlo ancora di più quando la donna non ha un aiuto psicologico: in quelle circostanze il medico non è corretto che si sostituisca a un’altra figura professionale. Dunque, quando mi vengono fatte domande del genere, io rispondo che per quanto mi riguarda quel ‘materiale’ non è né l’uno né l’altro. Non è vita e non è ‘non vita’. E’ una forma vitale. E’ materiale del concepimento. Perché il dottore è un servitore dello stato e in quanto servitore dello stato deve conoscere le regole e applicarle. Io non credo che questo sia un lavoro come un altro, ovviamente; per quanto possa essere ‘terribile’ è sempre un lavoro e anche se si conoscono persone che farebbero interruzioni di gravidanza anche se non ci fosse una legge, il discorso che un ginecologo deve fare deve essere un altro: ‘c’è questa legge e io la applico’. E se non ci sarà più la legge si smetterà di farli”.
Il professor Bernard Nathanson, il famoso ginecologo di New York che negli anni Settanta realizzò per il presidente Ronald Reagan un video sulle tecniche di aborto (“Silent Scream”, l’urlo silenzioso) e che tra i primi praticò interruzioni di gravidanza negli Stati Uniti (ne fece circa 75 mila) ha descritto, con parole forti, cosa succede prima di un’“espulsione”: “Quando ha luogo una gravidanza, il meccanismo di difesa del corpo di una donna sente che la creatura è un intruso, un alieno, e che quindi deve essere espulso. A quel punto si scatena un intenso attacco immunologico e il non nato ha la meglio nel respingerlo”.
Tecnicamente l’aborto si chiama anche così: “Evacuazione della quantità di prodotto del concepimento”, oppure semplicemente “espulsione”; una frase, questa, che il ginecologo del San Camillo utilizza spesso. L’espulsione, o evacuazione, dell’embrione avviene attraverso un canale chiamato “cervicale”. Il ginecologo raggiunge questo canale dilatando l’utero e inserendo la cannulla. Una volta eseguito questo passaggio, l’infermiere mette in moto l’aspiratore e con l’utero ormai chiuso, e sottovuoto, si tira via tutto. “Quando si inserisce questa cannula – spiega ancora il ginecologo – non è particolarmente importante sapere dove vada a finire. E’ sufficiente sapere che sia nel canale e che sia pronto per aspirare”. La cannula entra dunque nel canale cervicale, il ginecologo completa con il tubicino una serie di micro movimenti orizzontali – avanti e indietro, avanti e indietro – sposta la cannula all’interno dell’utero, esercitando una rotazione di 360 gradi, e dopo circa cinque minuti, con l’aspiratore acceso, controlla che il tubicino a forma di cilindro allungato si colori di rosso. Il materiale aspirato viene poi raccolto in un contenitore usa e getta, viene quindi catalogato come “rifiuto speciale” e sarà trasportato a mano dall’infermiere all’interno dell’inceneritore centrale dell’ospedale. Poi il ginecologo controlla ecograficamente che l’intervento sia completo. A volte, però, ci può essere qualche intoppo. Una ginecologa fino a qualche anno fa di servizio al San Camillo, e oggi obiettore di coscienza, spiega perché. “In alcuni casi, ma intorno alla dodicesima settimana, la cannula si può otturare: l’embrione comincia ad avere delle dimensioni tali che non riesce a passare e il tubicino si ostruisce con piccoli pezzi di embrione, simili a materiale cartilaginoso. Quando ti capita, tu devi andare lì con una pinza ad anelli e raccogliere alcuni pezzi di embrione. Dopo di che continui ad aspirare”.
Alcuni ginecologi, poi, nel caso in cui all’interno dell’utero sia rimasto “materiale” possono decidere per un raschiamento: si tratta di un intervento di pochissimi minuti (tra i cinque e i dieci, al massimo quindici), generalmente eseguito in anestesia locale: il ginecologo esercita una nuova dilatazione del canale cervicale e controlla che l’utero sia “pulito” attraverso una curette, uno strumento tagliente a forma di cucchiaio che elimina gli ultimi residui del materiale placentare. L’intervento è concluso.
La convalescenza della paziente dura in media tra i trenta minuti e i sessanta minuti. La donna, a seconda della condizione, può rimanere sdraiata su un lettino oppure può riposare anche da seduta. Un infermiere le controllerà pressione e temperatura e poi la paziente tornerà a casa, avendo speso una cifra piuttosto contenuta: non c’è infatti nessun ticket da pagare, e la visita del ginecologo, che costa circa tredici euro, fa parte di quelle tipologie di “gruppi omogenei di diagnosi” per cui è previsto anche un rimborso. In tutto, esclusi il costo standard del salario dei singoli medici, per un intervento si spendono poco più di venti euro: tre euro per il barattolo, dieci euro per il bidone d’aria (cui è collegato l’aspiratore) e poco più di sei euro tra dilatatore e confezione da cinque cannule. Venti euro, dunque, per due minuti di anestesia, due minuti di preparazione della cannula, un minuto di dilatazione, cinque minuti di aspirazione, due minuti di controllo ecografico e due minuti da attendere per il risveglio della paziente. In tutto, per espellere il “materiale del concepimento”, ci voglio circa novecento secondi.
Claudio Cerasa
23/2/08

venerdì 22 febbraio 2008

Ho Visto l'Uomo Nero su "Left"




Ho visto l'uomo nero su Repubblica

Dissequestrato il libro sull´inchiesta di Rignano

Dopo il pronunciamento del garante della privacy è arrivata l´assoluzione del Tribunale civile che ha disposto il dissequestro del libro "Ho visto l´uomo nero". Così torna sugli scaffali il volume dedicato all´inchiesta sulla pedofilia di Rignano Flaminio, edito da Castelvecchi e scritto dal giornalista del Foglio Claudio Cerasa. In sostanza il Tribunale ha bocciato il ricorso presentato da alcuni dei genitori dei bambini, vittime dei presunti abusi alla Olga Rovere, e ha escluso che vi sia stata violazione delle norme che tutelano la riservatezza dei minori.
Il provvedimento è stato firmato da Alberto Bucci, presidente della prima sezione civile. «Nel libro il trattamento dei dati dei minori presunte vittime di abusi sessuali risulta a ben vedere effettuato nei limiti del diritto di cronaca» argomenta in sette pagine il giudice. «Gli accorgimenti (indicazione del nominativo dei minori mediante la sola iniziale del prenome) appaiono adeguati a garantire la reale protezione dei dati personali dei minori coinvolti». Inoltre il Tribunale ha ribadito che in sede di provvedimenti cautelari non si può inibire la diffusione della stampa. «Altrimenti si violerebbe la Costituzione - sottolinea Giovanna Corrias avvocato dell´autore - . Quindi il Tribunale ha recepito tutte le istanze sia sulla difesa della libertà di stampa che sulla piena legittimità del volume di Claudio Cerasa».
Differente la reazione dei legali dei genitori di Rignano. «È un ulteriore esempio di incertezza del diritto - incalza Roberto Ruggero e gli avvocati Antonio Cardamone e Franco Merlino aggiungono: «Questa decisione si contrappone a quella di primo grado. La nostra azione non è mai stata un attacco al diritto di cronaca ma una richiesta di maggiore attenzione ai diritti dei bambini».
Marino Bisso
22/02/08

giovedì 21 febbraio 2008

Il Foglio. "La caccia alla strega pedofila da Rignano a New York. Dissequestrato il libro Ho Visto L'uomo nero"

L’ordinanza del tribunale, il diritto di cronaca, la bimba che dice: “Me l’ha detto mamma”, la campagna elettorale

Roma. Dopo settanta giorni di sequestro passati tra interrogatori e magistrati, avvocati e udienze, memorie e collegi, reclami e garanti, la prima sezione del tribunale civile di Roma ha deciso di dissequestrare il mio libro su Rignano Flaminio, con un’ordinanza che arriva nello stesso giorno in cui, dopo la testimonianza di una delle bambine dell’asilo Olga Rovere, gli orchi di Rignano forse sono un po’ meno orchi. Un’ordinanza significativa, questa: perché in sette pagine di motivazioni i giudici hanno spiegato, e forse anche ricordato, perché sia giusto “garantire il diritto di libera manifestazione del pensiero” e perché “l’interesse alla circolazione della stampa ha prevalenza su altri interessi contingenti”. Il libro dissequestrato si chiama “Ho visto l’uomo nero”, l’editore è Castelvecchi, il suo sottotitolo è “l’inchiesta sulla pedofilia a Rignano Flaminio, tra dubbi, sospetti e caccia alle streghe” e queste 170 pagine ricostruiscono giorno per giorno il Sabba di quel paesino a 39 chilometri da Roma, riportano le denunce delle mamme, le testimonianze delle maestre, le memorie degli avvocati, le descrizioni dei bambini spiegando contro quali pareti è andato a scontrarsi il carrozzone del circo mediatico giudiziario, partito il 24 aprile 2007 da Rignano e finito in pochi mesi sulle prime pagine dei giornali e sulle poltroncine delle seconde serate. In questi casi si dice così: solo presunti innocenti, non presunti colpevoli.
Ricordate? Sono passati poco più di dieci mesi dal giorno in cui, in quel paese in provincia di Roma, tre maestre, una bidella, un benzinaio e un autore televisivo venivano arrestati con l’accusa di satanismo, sottrazione di minore, sequestro di persona, atti osceni in luogo pubblico e violenza sessuale su diciannove bambini, di tre e quattro anni. Pedofili, gridavano i giornali. Poi, poche settimane dopo e a sedici giorni dagli arresti, un tribunale del riesame dirà che per gli indagati, pardon, per i “pedofili” non esistono gravi indizi; un famosissimo avvocato arriverà da Cogne a Rignano, passando per Matrix, chiedendo nuovi arresti, la Cassazione spiegherà perché, nell’indagine, “gravi indizi” non esistono; i carabinieri ammetteranno di non aver trovato nessuna prova sui computer e i giornali e i tg, via via, parleranno un po’ meno (sono tutti titoli veri) di “pedofili ogni domenica a messa”, di “bambini drogati dalle maestre” e di “piccole vittime” che “dovevano bere il sangue e fare massaggi alle maestre”. (Cosa che invece non ha mai fatto Carlo Bonini di Rep.). Così, a ottobre, succede che alcuni dei genitori che il 9 luglio del 2006 avevano denunciato per primi i presunti abusi di Rignano, chiedono il sequestro d’urgenza del mio libro, sostenendo che quelle pagine avrebbero agevolato “l’identificazione dei minori coinvolti nelle vicenda” e avrebbero ripercorso il caso in modo “fazioso e offensivo”; libro che sarebbe stato possibile veicolo di “morbosità, pressioni psicologiche, rischi di ulteriori molestie ed atti intimidatori”. Il tutto perché, spiegano i genitori, scrivere il nome di battesimo di un papà o di una mamma, e scrivere l’iniziale del nome di un bambino è sufficiente per violare la privacy del minore. (Anche se quello stesso genitore era andato poche settimane prima a Porta a Porta senza nascondere né nome né cognome). Il 5 dicembre, dunque, con un’elegante formula per non dire “sequestro”, un giudice romano ordina “l’inibizione, la vendita, la distribuzione e la diffusione ulteriore del volume”. Ieri, però, dopo che anche il garante della privacy aveva escluso violazioni della riservatezza dei minori, i giudici del tribunale di Roma hanno spiegato perché – a prescindere dalla materia trattata – il sequestro preventivo di un libro va contro la libertà di stampa. Lo spiegano così, i giudici; scrivendo che nel libro “il trattamento dei dati dei minori presunte vittime di abusi sessuali risulta a ben vedere effettuato nei limiti del diritto di cronaca e in particolare di quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”, che “l’indicazione del nominativo dei minori mediante la sola iniziale del prenome appaiono adeguati a garantire la reale protezione dei dati personali dei soggetti coinvolti” e che, in casi come questi, va “evitato che la pretesa tutela dei dati personali divenga un facile escamotage per condizionare o comprimere la libertà di stampa”. L’ordinanza del tribunale civile arriva in un momento molto significativo, sia per quanto riguarda il caso Rignano sia per quanto riguarda il tema dei reati di pedofilia. Martedì pomeriggio, infatti, una bambina di cinque anni – una delle testimoni impossibili di un’inchiesta complicata come quella di Rignano, dove per trovare traccia di “gravi indizi” i magistrati sono costretti a interrogare in tribunale bambini di quattro anni – ha detto che “le maestre sono cattive perché dicevano cose brutte ai bambini, e me lo ha detto la mamma e alla mamma l’ha detto un’altra mamma” (riferendosi, la bimba, alla notte prima delle denunce, quando alcuni genitori, come si legge dai verbali, sarebbero “venuti a conoscenza di situazioni gravi”). Il momento è però significativo anche da un altro punto di vista, perché sul terribile reato della pedofilia oggi c’è chi, come Walter Veltroni e Gianfranco Fini, sta costruendo importanti battaglie elettorali. La pedofilia fa notizia e porta pure voti. Perché, come spiegava qualche settimana fa su questo giornale Emily Horowitz, docente di sociologia al St Francis College di New York “queste cause hanno un consenso generalizzato, e appoggiare o promuovere leggi sempre più severe per i colpevoli di reati sessuali fa lievitare i sondaggi”. E naturalmente i sondaggi – così come gli ascolti e così come i lettori – lievitano solo quando sei lì, sulle prime pagine dei giornali o seduto sulle poltroncine in seconda serata a parlare di orchi cattivi e di streghe crudeli, facendo a gara a chi in studio fa tintinnare di più le manette. Legittimamente, si capisce; ma un po’ meno legittimo è invece non ricordare che anche per gli orchi vale quella regola lì: che non ci sono presunti colpevoli ma solo presunti innocenti. E come si è visto a Rignano può sembrare scontato, ma non lo è. Ieri, a modo suo, lo ha ricordato anche un tribunale di Roma.
Claudio Cerasa
21/02/08

mercoledì 20 febbraio 2008

Ho visto l'uomo nero sul Messaggero

ABBIAMO letto recentemente un buon libro che si intitola “Ho visto l’uomo nero” e che racconta una caccia alle streghe dei giorni nostri. L’ha pubblicato l’editore romano Alberto Castelvecchi. L’autore, Claudio Cerasa, è un giornalista del Foglio di Giuliano Ferrara. Un giovane di 25 anni che ha il dna del cronista di razza e una penna felice. Con questi strumenti si è addentrato nella vicenda di Rignano Flaminio, l’inchiesta sui presunti pedofili, per raccontare quel «delirio mediatico-giudiziario» - come lo definisce - che ha condannato sette persone (e ne ha distrutto le vite) senza che ne fosse accertata la colpevolezza in sede giudiziaria. Cerasa non è né innocentista né colpevolista. E’ un garantista - come tutti dovremmo essere - e non può non provare scandalo per la giustizia sommaria dei media.
Avremmo voluto recensirlo, il suo libro, e consigliarlo ai lettori perché affronta un nodo importante della nostra società. Ma non possiamo farlo, perché due settimane fa un provvedimento di un giudice del Tribunale civile di Roma ne ha proibito la vendita, la distribuzione e la diffusione. Al Tribunale si erano infatti rivolti i genitori di quattro bambini di Rignano. Essi sono citati nel libro: i genitori con il solo nome di battesimo e i bambini con l’iniziale del nome di battesimo. Secondo il giudice Marta Ienzi la «quantità dei particolari inseriti rende facilmente riconoscibili le parti e i minori», e in nessun conto ha tenuto il fatto che due dei quattro ricorrenti si fossero esposti con nome e cognome in popolarissime trasmissioni televisive, come ha fatto notare ieri l’avvocato di Cerasa - Giovanna Corrias Lucente - nel corso di una conferenza stampa. Di diverso avviso era stato il giudice penale al quale i genitori si erano in precedenza rivolti. Il gip Alessandra Tudino, del Tribunale di Cassino, aveva ritenuto che non ci fossero gli estremi per procedere a un provvedimento grave come il sequestro preventivo e che andasse invece tutelata la libertà di stampa.
Il libro è scomparso nel silenzio generale e ciò ha fatto indignare Pierluigi Battista, vicedirettore del “Corriere della sera”, il quale se l’è presa con la «nomenklatura» dell’informazione solitamente sempre sollecita in casi del genere. Ieri, come si è detto, l’editore Castelvecchi ha organizzato una conferenza stampa con l’autore e con gli avvocati. Ha annunciato che nei prossimi giorni presenterà una richiesta formale di dissequestro del libro. C’è da augurarsi che venga prontamente accolta. Non tanto nell’interesse dell’autore quanto di noi tutti.
Oliviero La Stella
21/12/07

martedì 19 febbraio 2008

Il Foglio. "Il Csm va a Napoli e i Klinefelter querelano Rep."

Napoli. “Tutte le cose sull’eugenetica che sono state dette attorno a questa vicenda sono state dette a sproposito”. A sette giorni dall’incredibile caso del Policlinico Federico II, a Napoli, nello stesso ospedale in cui la signora Silvana aveva interrotto la sua gravidanza alla ventunesima settimana (dopo aver scoperto che a causa della sindrome di Klinefelter suo figlio “sarebbe stato un malato per tutta la sua vita”), il professor Carmine Nappi, primario di ostetricia del Policlinico Federico II, ha spiegato ieri in un’intervista al Corriere perché a Napoli non si può proprio parlare di “eugenetica”. La legge, dice Nappi, prevede la possibilità di aborto “quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. Dunque la sindrome di Klinefelter, secondo il primario, potrebbe rientrare proprio in questa definizione. Lo scorso 12 febbraio, prima che il castello di sabbia di Napoli fosse smontato dagli stessi giornali che lo avevano visto crescere, in un’altra intervista a Repubblica Nappi aveva spiegato che se quella “gravidanza fosse stata portata a termine ci sarebbe stato il 40 per cento di possibilità di un deficit mentale per quel feto”. Con i dati e con le statistiche però non si scherza; per questo il professor Carlo Foresta, andrologo dell’Università di Padova, dice al Foglio che “quei dati non sono reali”.
Sulla strana storia di Napoli, intanto, nei prossimi giorni indagherà anche il Consiglio superiore della magistratura. Ieri pomeriggio, infatti, il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, ha spiegato che la prima commissione di Palazzo dei Marescialli si occuperà direttamente di ciò che davvero è successo al Policlinico di Napoli; per “comprendere – spiega Mancino – come si sono svolti i fatti e per valutarli”. L’azione del Csm era stata richiesta il 13 febbraio dalle sei consigliere donne di Palazzo dei Marescialli. Ma al contrario di quanto chiesto dalle consigliere, il Csm non si esprimerà “contro il blitz”, come invece precedentemente chiesto; visto che il blitz, nel corso dei giorni, è stato sostanzialmente assolto; e visto che la signora Silvana non ha denunciato alcun poliziotto per la presunta “aggressione” nell’interrogatorio successivo all’aborto terapeutico. Per questo, le conclusioni del Csm saranno più che altro legate alla “modalità di esecuzione e alla possibile spettacolarità dell’intervento di Napoli”, come spiegano a Palazzo dei Marescialli. Sempre ieri pomeriggio, nelle stesse ore in cui il Csm avviava la sua indagine, Maurizio Fornasari, Klinefelter e presidente di Unitask (Unione italiana sindrome di Klinefelter), confermava al Foglio la sua idea di querelare quei giornali che come Repubblica, descrivendo la sindrome di Klinefelter, avevano parlato di feti “malati”, già “malformati” e con alta possibilità di “deficit mentale”. A questo proposito, il prossimo 11 marzo, l’Unione italiana sindrome di Klinefelter organizzerà un convegno a Roma al Policlinico Umberto I per spiegare davvero cosa significa essere un Klinefelter.
Su queste pagine, venerdì scorso il professor Carlo Foresta aveva spiegato perché, in casi come quelli di Napoli, parlare di eugenetica e di “selezione della razza” è praticamente inevitabile. Dice Foresta al Foglio: “Non si scherza con le statistiche perché non si può scherzare con la vita. Selezionare significa scegliere quali sono i bambini buoni e quali invece non lo sono; significa scegliere chi è sano oppure no. Solo che oggi il concetto di ‘sano’ è un concetto molto variabile. In Italia ci sono quasi 60 mila persone con Klinefelter e la metà di loro non sanno neppure di avere questo disordine genetico (io tra l’altro non parlerei neppure di malattia). Ma dire che un Klinefelter è una persona malata, malformata, con deficit mentale, significa considerare malato, e quindi non buono, chiunque abbia gli stessi sintomi di base; chiunque sia a rischio di malattie metaboliche, di malattie cardiovascolari, di disturbi cognitivi, di carenza di testosterone o di problemi legati all’osteoporosi. Se le cose stanno così, qualcuno oggi dovrebbe avere il coraggio di dire che se si parla di ‘vite normali’ non si deve aver paura di considerare legittimo anche altro, cioè l’eliminazione di situazioni non compatibili con la vita normale”.
Claudio Cerasa
19/2/08

Il Foglio. "Mia figlia valeva 232,19 euro al mese"

Consultori, comuni, assegni, buoni natalità, operatrici e una gravidanza “consapevole”. Storia di una bambina e della sua “incompatibilità normativa”

Aveva la bocca un po’ impastata, continuava a mangiare molte focacce, fumava qualche sigaretta in meno e aveva cominciato a nascondere tre Lindt al cocco nella tasca del suo piumino bianco. Poi era salita da sola a casa, si era seduta in cucina, il test era diventato tutto blu e le avevano detto sono affari tuoi. Il giorno dopo aver scoperto di essere incinta era un lunedì mattina: Tiziana era arrivata al consultorio familiare di Cinisello Balsamo, al civico numero due di via Friuli, e tra un pap-test, una visita al seno, una vaccinazione pediatrica, un’assistenza personalizzata, una consulenza sociale e una visita medica, sapeva che le avrebbero spiegato tutto. Dopo toccava a lei; e lei voleva capire, ora, come diavolo funzionava. Come avrebbe fatto una mamma senza soldi come lei a portare avanti la gravidanza. Non era semplice, però: Tiziana aveva trentanove anni, lavorava in una società di organizzazione catering per eventi e matrimoni, si era laureata qualche anno prima alla facoltà di scienze Politiche della Cattolica, a Milano, era stata votata come “rivenditrice dell’anno” nel 1999, si era licenziata dalla sua vecchia azienda di carta da macero, aveva iniziato da poche settimane un corso da barman e, proprio come ogni anno, ad agosto sarebbe andata per qualche giorno in vacanza in un posto a scelta tra Australia, Sudafrica, Valtellina, Montpellier e San Francisco. Quest’anno aveva scelto Melbourne e ci sarebbe andata anche se era incinta, Tiziana: ma con un codice “emme cinquanta” e con le contrazioni che le sarebbero cominciate già alla fine del quarto mese, da sola non sarebbe stata più in grado nemmeno di andare in bagno. Tiziana ora doveva scegliere, e la scelta era terribile: le avevano detto o il mutuo o la bimba, ma era come se le avessero detto signora, o la borsa o la vita
Tiziana era ancora indecisa: tre settimane di gravidanza non sono nulla, diceva, ma a trentanove anni il solo pensiero di diventare mamma per la prima volta era un’idea semplicemente pazzesca Lei avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di occuparsi della sua bambina: ora però voleva capire che cosa doveva fare; voleva capire che cosa significava, davvero, lasciare il lavoro per fare la mamma, e che cosa significava per una donna con la partita Iva – che prima di rimanere incinta e prima di lasciare il suo lavoro guadagnava mille e cento euro al mese – mettere la sua vita nel cassetto della maternità e rinunciare a tutto il resto per un po’; anche al suo unico stipendio, come le ripeteva, dal giorno dopo il test, la sorella Silvana; Silvana era molto eccitata, e Tiziana sapeva perfettamente perché. Anche lei era codice emme cinquanta.
La notte prima, Tiziana aveva cenato molto presto, aveva navigato per un’ora e mezza su Internet e aveva scoperto che una mamma aveva diritto a qualche aiutino dallo stato. Forse. Lo stato, aveva letto, garantiva un “fondo” per le “necessità della maternità”. Quel fondo un tempo valeva circa 50 miliardi di lire e sarebbe servito a bilanciare tutte “le carenze economiche che sono causa delle interruzioni di maternità”. Così dice la legge 194. Poi però Tiziana aveva scoperto che in Italia c’è un “bonus maternità” e un “assegno di maternità”. Tiziana aveva un po’ di confusione in testa, ma in linea di massima aveva capito la differenza: il bonus maternità era un contributo dell’Inps che andava a coprire la mancata entrata di reddito “a seguito dell’impossibilità di lavorare”. E Tiziana non lavorava più. Il secondo, l’assegno, era invece un buono che andava a coprire “l’aumento della spesa determinato dalla nascita del bambino”. E la spesa lei sapeva perfettamente che sarebbe aumentata: pannolini, bollette, medici, latte, passeggini e così via. Tiziana aveva scoperto che dal 2005 al 2007 l’assegno di maternità aveva però perso di consistenza: in soli due anni, non aveva capito bene perché, era stato letteralmente “tagliato”, passando dai 1.747 euro del 2005 ai 1.470 euro di qualche mese dopo. Qualcosa sarà rimasto, scherzava lei con la sorella. E in fondo Tiziana era nelle peggiori condizioni per fare una figlia ed era, dunque, nelle condizioni giuste per essere aiutata: aveva la sua età, aveva sempre pagato le tasse, aveva sempre versato i contributi, non aveva precedenti penali, era senza fidanzato, era da sola a casa, non aveva uno stipendio e aveva una gravidanza che lei chiamava “inaspettata” e che gli invece consideravno solo“indesiderata”.
La mattina dopo, Tiziana arriva al consultorio di zona, racconta la sua storia, racconta del catering, della partita Iva, dei barman, della gravidanza e del mutuo; e poi spiega, molto chiaramente, che lei la bambina l’avrebbe voluta, ma che senza un aiutino non sapeva proprio come andare avanti. Tiziana voleva risposte; voleva “cose chiare”, come diceva lei. Ci sono soldi? Ci sono aiuti? Ci sono sostegni? Ci sono i bonus? L’infermiera, che in consultorio si chiama semplicemente “operatrice”, l’aveva ascoltata per cinque minuti e dopo aver messo insieme quattro fogli protocollo con una spillatrice ad aria compressa l’aveva guardata e le aveva detto così: “La gravidanza è una scelta consapevole: o ti basi sulle tue forze oppure è meglio non averla”. Poi l’operatrice aveva cominciato con le domande: “Ma lei è sicura? Ma lei è sposata? Ma lei ha un mutuo? Ma lei è da sola? Ma lei è al primo? Lo vuole davvero? Ne è certa? Ha riflettuto? Lo sa che non ci sono fondi?”. Pochi minuti dopo, Tiziana esce dal consultorio con un paio di fogli protocollo e un appuntamento fissato per il giorno dopo dalla ginecologa. Tiziana aveva pensato che le domande dell’operatrice erano domande molto sensate, ma aveva sapeva perfettamente che dopo un mese di gravidanza in quelle condizioni non aveva bisogno che qualcuno le facesse molte domande; Tiziana aveva bisogno solo di qualche risposta e possibilmente di un po’ di soldi, e al momento non c’era nessuno che le aveva detto come trovarli.
Tre giorni dopo, Tiziana arriva al numero dieci di via Frova, alla sede del municipio di Cinisello Balsamo: lo stesso municipio dove, poco tempo prima, la sorella Silvana era entrata ben due volte. La prima volta con un un codice emme cinquanta e un bambino all’ottava settimana, la seconda volta con un altro codice emme cinquanta e un bambino al settimo mese di gravidanza. Codice emme cinquanta significa gravidanza a rischio. Gravidanza a rischio per lei significava “gestosi”; quindi diminuzione delle piastrine, rottura dei globuli rossi, sangue che si coagula in maniera anomala e placenta che nella seconda fase della gravidanza percepisce il bambino come se fosse un corpo estraneo, e quindi cerca di espellerlo. Il primo bambino, Silvana lo aveva abortito al terzo mese e lo aveva “espulso”, come si dice in questi casi, con un aborto spontaneo. Era il sette gennaio del 2006. Il secondo bambino, era nato non molti mesi dopo, con un taglio cesareo di dodici centimetri all’ottavo mese di gravidanza: sano fino a due giorni prima, morto soffocato dalla placenta il giorno del parto. Codice emme cinquanta e gestosi, Silvana; codice emme cinquanta e gestosi sarà anche Tiziana.
Al comune di Cinisello Balsamo, l’assistente sociale era stata chiara con lei: Signora, mi spiace, i fondi non ci sono. Tiziana aveva scoperto che i fondi dello stato “per sopperire alle carenze economiche” non esistevano più. Le regioni e le province avevano delegato la gestione del fondo ai singoli comuni, lo stato non aveva più l’obbligo di occuparsi direttamente del “sostegno” alle nascite, e i singoli comuni erano – e sono – così liberi di gestire la propria “quota natalità”. Tutto ciò che era disponibile per Tiziana era un “contributo ordinario”, un assegno da 150 euro al mese (per sei mesi), un corso gratuito per il preparto (con “lezioni in piscina”, “cuffiette gratuite” e “orari flessibili) e un pacchetto di sedute di “massaggi infantili”. Nessun fondo per la maternità, nessuno psicologo, nessun aiuto economico. Tiziana aveva scoperto che in un comune come il suo, in un comune da 99 mila abitanti, ciò che si riesce a mettere da parte per un fondo sociale, al massimo, sono 50 mila euro all’anno; e poco puoi fare se al posto del bonus natalità devi lavorare sulla ripavimentazione di una piazza o sulla definizione di una barriera anti traffico. In pochi giorni, Tiziana aveva scoperto che tutto quello che era previsto per una mamma come lei erano centocinquanta euro al mese, un massaggio infantile e un maledettissimo corso di preparto. E anche per quel piccolo contributoro la prassi era quella che era: dovevi compilare il tuo modulo Isee, verificare se il tuo reddito superasse, o no, i 18 mila euro annui, inviare la richiesta con il francobollo, aspettare che la richiesta arrivasse in giunta, che fosse votata, che il comune l’accettasse e che la “ratifica” arrivasse con una lettera a casa. Tiziana non ci stava più capendo nulla.
Dopo aver fatto due conti, e dopo aver capito che con 150 euro al mese avrebbe pagato sì e no la bolletta del telefonino, Tiziana decide di chiedere al comune qualcosina sull’Istituto nazionale di previdenza sociale: certo, era disoccupata, ma aveva sempre pagato i contribuiti; e ora voleva capire cosa c’era per una futura mamma. Con l’Inps era andata più o meno così: le avevano detto che la procedura sarebbe stata un po’ “macchinosa”, che avrebbe dovuto presentare la domanda al comune, che l’Inps avrebbe dovuto studiare la pratica e che poi le sarebbe stato inviato un assegno a casa, ma solo ad aprile. Tiziana non capiva: “Come ad aprile? Io ho bisogno dei soldi ora. Ad aprile mia figlia avrà già tre mesi e io non avrò più nulla. Ditemi: che cosa me ne faccio dei vostri soldi ad aprile? Come faccio ad arrivarci io, ad aprile?”. Ad aprile: perché prima di poter dare il via libera all’assegno di maternità, l’Inps avrebbe dovuto aspettare l’effettiva consegna delle tabelle sugli assegni familiari. E prima di aprile, l’Inps non sarebbe mai riuscito a versare sul conto di Tiziana i 292,13 euro al mese previsti per il bonus di maternità. In pochi giorni, tra stato e comune, aveva messo insieme per la sua futura bimba circa 450 euro al mese. Di questi, 292 euro sarebbero arrivati solo ad aprile.
Il giorno dopo la richiesta dell’assegno, Tiziana aveva però scoperto “un’incongruenza”. “Un’incongruenza a livello normativo”, le avevano detto in comune senza capire cosa significhi davvero dire a una donna al quarto mese, con un codice emme cinquanta, “qui c’è un problema normativo”. Ora doveva scegliere, perché – le avevano spiegato – chi ha l’assegno non può avere il buono. O l’uno o l’altro. Tiziana era disperata. Anche perché, oltre ai soldi che forse non avrebbe mai avuto, sapeva perfettamente quali spese ci sarebbero state se quella bambina, che si sarebbe chiamata Francesca, fosse nata davvero: pannolini, passeggino, seggiolino per la macchina, mutande monouso, assorbenti lunghi, trecento grammi di latte ogni nove giorni, duecento grammi di latte liquido per ogni poppata, sei euro per ogni confezione da trenta pannolini, gocce milicon per le coliche, Libenar Spray per il naso, spugnette per le braccia, salviette per il viso; e poi le bollette, l’acqua, la corrente e la luce che salivano sempre di più. Stringendo, stringendo, la spesa sarebbe stata di un euro al giorno per due mesi.
Alla fine del sesto mese, Tiziana si era ritrovata con il problema dell’asilo. Nel suo comune di residenza, a Cusano Milanino, aveva scoperto che non esisteva un nido. I pochi bambini che rientravano nelle graduatorie venivano dirottati a Sesto San Giovanni e quelli che non finivano lì potevano provare a fare domanda in quello vicino di Cinisello Balsamo (dove la retta mensile di 392 euro sarebbe stata però superiore all’assegno dell’Inps). Tiziana aveva saputo che per i bambini nati dopo il mese di settembre 2007 il primo posto libero all’asilo di Cinisello sarebbe stato nell’anno scolastico 2009/2010. Troppo tardi. Ma non solo, perché i genitori con più possibilità di iscrivere i propri figli all’asilo erano quelli “occupati”, non quelli disoccupati come lei. E per non pagare i 500 euro al mese di asilo privato, Tiziana avrebbe avuto solo una soluzione: non far riconoscere la figlia al padre; così, le avevano spiegato, tua figlia “salirà in graduatoria”. Tiziana aveva appena scoperto che per lo stato sua figlia valeva 292,13 euro al mese; la sua, effettivamente, non sarebbe mai stata una gravidanza “consapevole”. O il bonus o l’assegno. O il muto o la bimba. O la borsa o la vita. E dopo i due giorni al comune, dopo i tre giorni in consultorio, dopo la settimana all’Inps, e prima di scoprire a Milano, il Centro aiuto alla vita (quello di Paola Bonzi), per Tiziana valevano le parole di Ennio Flaiano “Ci sono molti modi di arrivare. Il migliore però è quello di non partire”. Poi Tiziana è arrivata al Cav, e ha deciso di partire. Oggi Francesca festeggia sei settimane.
Claudio Cerasa
19/02/08

lunedì 18 febbraio 2008

Il Foglio. "Rep. e corriere smontano il blitz. Chapeau"

Nessun anonimo, nessun Rambo, nessun aggressore. Così è crollato il castello di sabbia napoletano

Napoli. La storia della mamma circondata da sette poliziotti allertati da una telefonata anonima e arrivati con manette e pistole in ospedale per interrogare, senza mandato, una donna sotto anestesia che aveva regolarmente abortito pochi minuti prima un feto malformato in una sala operatoria, è una storia falsa; una storia che non è mai esistita; una storia che però per due giorni è stata raccontata dai più importanti giornali italiani con il battito pulp di un film di Quentin Tarantino. Imboscate, sgommate, blitz, denunce anonime, donne aggredite. Invece no: tutto quello che vi hanno detto non era vero.
Mentre ieri Franco Giordano, segretario di Rifondazione, raccontava di una donna “aggredita in corsia”, e mentre a Napoli, Roma, Milano e Palermo, due giorni fa, centinaia di donne in piazza avevano chiesto ai poliziotti di non fare “i Rambo negli ambulatori”, gli stessi giornali che avevano montato i fotogrammi di un film che non era mai stato girato hanno spiegato ai loro lettori, coraggiosamente e con eleganza, perché quelle scene proiettate su carta in realtà non sono mai esistite. La verità di Napoli è una donna che espelle un bimbo di ventuno settimane dentro un water al secondo piano del Policlinico Federico II, nel reparto di ostetricia, senza che nessun poliziotto l’abbia mai aggredita in un corridoio; senza che nessun Rambo l’abbia mai interrogata sotto anestesia; senza che in centrale sia mai arrivata alcuna denuncia anonima. Così ieri, nelle pagine due e tre (che pubblichiamo oggi nel primo inserto), Corriere e Repubblica hanno fatto capire perché quell’idea di “diavolo collettivo” di cui Francesco Merlo aveva scritto su Rep. è una cosa completamente diversa da “un diavolo arrogante che presume di incarnare la morale pubblica” che avrebbe “spinto giudice e poliziotti a trattare un’intera struttura ospedaliera come un covo sordido di mammane abortiste”. E’ un’altra cosa, invece: perché l’idea di diavolo collettivo è piuttosto quella che si ascolta dalla voce dell’infermiere che lunedì sera aveva chiamato la questura di Napoli, dal Policlinico Federico II, con nome, cognome e numero di telefono; per spiegare – e naturalmente denunciare – che in quell’ospedale una donna era uscita dal bagno con il sangue che ancora le scorreva, con i ferri e il feto in mezzo alle gambe, con trenta pazienti che, lì accanto, gridavano terrororizzati e con due infermieri che le avevano tagliato con le forbici il cordone ombelicale, dopo aver scoperto che quella donna “aveva abortito nel cesso”. E l’aggressione dei poliziotti? “Erano gentilissimi, non è stato un blitz”, racconta l’infermiere. E l’intimidazione? “Veramente ho atteso che la donna rientrasse in stanza, e quando le ho chiesto se potevo rivolgerle qualche domanda lei stava vedendo la tv in camera”, spiegherà la poliziotta. E la “malformazione”, la “grave malattia congenita? “Un non grave, e diffuso, disordine genetico”, dicono oggi i dottori. Dunque non c’è nessuna “giustizia che si è mossa in base a una qualsiasi convinzione religiosa”, come scritto da Rep.: perché un signore con nome e cognome ha raccontato in diretta ai carabinieri di una donna che ha partorito un feto morto in gabinetto, e perché i carabinieri in borghese, con abiti civili, con segnali acustici disattiviati e con un mandato (telefonico) del magistrato hanno chiesto alla donna che cosa era successo. Non c’è, naturalmente, nessun complotto, nessuna montatura e nessuna distorsione volontaria dei fatti. Poco importa che martedì scorso chiunque abbia avuto tempo di parlare con un ginecologo dell’ospedale di Napoli ha ascoltato la stessa storia raccontata dall’infermiere del Policlinico, perché il punto qui è un altro. Perché la costruzione pulp del castello di sabbia napoletano non è frutto di un complotto mediatico, è un tic, un riflesso incondizionato del giornalista collettivo di una verità che deve essere dimostrata a tutti i costi, perché, si pensa, è impossibile che le cose siano andate diversamente, che quella donna non abbia abortito normalmente, che “quella non meglio specificata vita” non fosse malformata e che a Napoli sia stato ucciso un bimbo di ventuno settimane perché malato. Invece oggi il blitz è stato assolto, la riduzione opinioninistica della cronaca è diventata un fatto e se le parole del procuratore di Napoli, Giovandomenico Lepore sono diventate verità (“un banalissimo caso di una denuncia che andava controllato”, ma qui “si è voluto creare una strumentalizzazione”) il merito è proprio di chi, per due giorni, quel castello fatto di imboscate, sgommate, denunce anonime e donne aggredite lo aveva visto ingigantirsi senza dire e senza scrivere nulla, e che ieri, invece, ha avuto il coraggio di smontare. Quindi chapeau.

Il Foglio.it "Il QI del Pd e il Quoziente Imperiale di W"

Il delegato democratico è uno dei 2.800 membri dell’assemblea costituente del Partito democratico di Walter Veltroni e ieri pomeriggio, al termine degli interventi della seconda e forse ultima assemblea costituente dell’anno del Pd, tra gli emendamenti proposti dal comitato ristretto della “Commissione statuto” ha dovuto esprimersi, a democratica alzata di mano, sull’approvazione, o no, di venti emendamenti che molto probabilmente lo stesso delegato, arrivato spesso a spese proprie da tutt’Italia, non ha avuto neppure il tempo di leggere: le quattro pagine votate sono infatti comparse in una sala quasi deserta appena trenta minuti prima dell’effettivo voto. Tra le altre cose, è stato abrogato il sistema di ripartizione di voti chiamato “Quoziente Imperiali”, grazie al quale il listone Veltroni, alle primarie, aveva conquistato un netto 57 per cento di delegati (quoziente che garantiva, in molti colleggi, un soglia di sbarramento quasi del 10 per cento): ora, per le prossime primarie, il metodo sarà proporzionale e basta; all’articolo due, il Pd ha invece deciso di escludere dal partito (cioè dall’anagrafe degli iscritti e dall’albo degli aderenti) chiunque sia iscritto ad altri partiti politici: oggi, dunque, Tonino Di Pietro non potrebbe neppure votare per le primarie dello stesso partito con cui si è apparentato. Il momento più doloroso della giornata è stato però alla fine della convention quando alcuni giovani delegati del Pd, mentre raccoglievano i pochi cartelli del “Si può fare” lasciati sulle seggiole della nuova fiera di Roma, notavano che in realtà il “Si può fare” di Walter Veltroni, ancor prima di Barack Obama, era stato utilizzato dallo scomodo blogger Mario Adinolfi, il cui slogan, nel corso della sua campagna delle primarie, era stato proprio il “Si può fare” cantato da Angelo Branduardi.

venerdì 15 febbraio 2008

Il Foglio. "Cronaca di una normalissima selezione"

L’ospedale di Napoli, il film con due “x”, la storia di Maurizio e il prof che chiama le cose con il loro nome

Napoli. “Non c’era altra scelta. Appena mi hanno comunicato che mio figlio sarebbe stato malato per tutta la sua vita non ho avuto dubbi e ho deciso d’istinto: abortisco”. La signora Silvana ha 39 anni, non è sposata, vive a ventidue chilometri da Napoli, a Frattamaggiore, e quattro giorni fa ha abortito un feto di ventuno settimane al Policlinico Federico II, a Napoli; lo ha fatto dopo aver scoperto che il suo bambino “sarebbe stato un malato per tutta la sua vita” a causa di un disordine genetico chiamato 47xxy e conosciuto con il nome di “sindrome di Klinefelter”. Un disordine genetico così diffuso che solo in Italia colpisce un uomo ogni cinquecento nati. Come spiega al Foglio il professor Carlo Foresta, importante endocrinologo all’Università di Padova, “una sindrome come quella di Klinefelter è caratterizzata da testicoli piccoli, da grandi mammelle e da un’alta probabilità di essere sterili. Ma questa è una sindrome che si può curare, perché le terapie a disposizione sono moltissime, e per le carenze di testosterone, causate dall’anomalia cromosomica, esistono molte soluzioni. Ci vuole un po’ di tempo, ma volendo si può. Ed è per questo che con una patologia come questa in Italia vivono quasi 60 mila persone: persone non drammaticamente malate, persone che stanno bene”.
Tra i 60 mila uomini con sindrome di Klinefelter, c’è Maurizio Fornatari, da due anni presidente dell’Unione Italiana Sindrome di Klinefelter. Maurizio, pochi mesi fa, ha chiesto un risarcimento danni a Lucía Puenzo, la regista che lo scorso anno ha vinto a Cannes il premio della Settimana della critica con il film “xxy” descrivendo i Klinefelter come se fossero ermafroditi. Ora Maurizio sta pensando di querelare qualche giornale. “E’ una follia scrivere che una sindrome come questa comporta il ‘40 per cento di possibilità di disturbi mentali’. Non scherziamo con le statistiche. Conosco migliaia di persone che hanno il mio stesso problema e che vivono benissimo; e il bello è che la metà dei Klinefelter vive senza sapere di avere questo problema. Certo, non bisogna generalizzare, ma con una sindrome come questa l’amniocentesi dovrebbe avere una funzione importante per individuare presto il disordine cromosomico e cominciare le cure da giovani”.
Nella strana storia di Napoli c’è però un passaggio a cui le cronache di questi giorni non hanno dato molto peso. Ci si arriva ricostruendo le tappe principali del caso. La signora Silvana arriva all’ospedale di Frattamaggiore il 18 gennaio per sottoporsi all’amniocentesi; il pomeriggio del 31 gennaio riceverà il referto con la diagnosi, era un “xxy”, la forma più lieve di Klinefelter. Pochi giorni dopo, l’8 febbraio, Silvana verrà ricoverata al Policlinico, dove le saranno somministrate, per tre giorni, cinque candelette di prostaglandine per stimolare le contrazioni dell’utero ed espellere il feto. Alle 18.30 dell’11 febbraio Silvana abortirà un bimbo già morto. Alle 19.20, dopo che i dottori avranno finito di ripulirle l’utero, Silvana esce dalla sala operatoria e, intorno alle 20, viene interrogata in ospedale da due poliziotti (un uomo e una donna) allertati da una telefonata non anonima. Ma la signora Silvana dove ha abortito? Spiega al Foglio una ginecologa del Policlinico di Napoli che la donna avrebbe espulso il feto in un bagno al secondo piano. Il procuratore capo di Napoli, Giovandomenico Lepori, sembra confermare la versione: “La telefonata ricevuta indicava la presenza di una donna in una precisa stanza del Policlinico chiusa in bagno per abortire”. “Io però faccio un ragionamento semplice – aggiunge il professor Foresta – Se davvero consideriamo il Klinefelter una patologia diversa dal ‘normale’, e dunque non degna di vivere, il rischio è che il concetto di ‘normalità’ possa diversificarsi nel tempo. Il rischio, per capire, è che prima o poi possa essere considerato preventivamente anormale anche un bambino albino. E dunque, se qualcuno dovesse scoprire un giorno qual è il gene che determina il diabete, chissà che non venga considerato ‘anormale’ anche questo. Un Klinefelter, però, non è a rischio: è una persona per cui esistono cure e terapie. Ecco, se dovesse passare, o consolidarsi, il messaggio che di sindrome come queste è possibile morire prima di nascere sarebbe molto pericoloso. E questa è una prassi che oggi io chiamo senza problemi così: eugenetica”.
Claudio Cerasa
15/2/08

mercoledì 13 febbraio 2008

Il Foglio. "Ero alla fine del secondo mese"

Due donne straniere, tre figli, un ginecologo e l’ospedale di Milano Cronaca di due vite impossibili che non trovavano il terzo piano

Era arrivata alle dieci e quarantasei minuti del nove dicembre, al primo piano del dipartimento medicina d’urgenza dell’ospedale Niguarda Ca’ Granda; era arrivata senza lavoro, senza casa, senza fidanzato, con un codice verde, una bambina di un mese e mezzo, un braccio che continuava a pizzicare un po’ e una gamba che quasi non c’era più; era salita fino alla stanza numero venticinque di piazza Ospedale Maggiore, al civico tre, e dopo undici minuti di attesa aveva letto la diagnosi sulle due paginette del verbale di pronto soccorso, in basso a sinistra, accanto alla prestazione offerta (ecografia ostetrica), alla modalità di accesso (spontanea), al motivo di accesso (perdite ematiche) e all’esito della visita (dimessa): “lieve minaccia di aborto”, aveva scritto il medico sulla tastiera del computer, prescrivendole due compresse di Buscopan al giorno (una la mattina e una la sera) proprio un mese dopo l’ultima volta che aveva fatto l’amore con lui.
A trentasette anni Maria Clara lavorava come colf in un appartamento al quinto piano di via Murat numero cinquantadue, a Milano; pagava un affitto di millecentocinquanta euro al mese in via Umberto Fracchia numero dodici e ogni mese guadagnava seicentoquaranta euro per pulire casa, per stendere i panni, per stirare le camice e per lavare i piatti: cinque giorni alla settimana, dalle undici di mattina alle sei del pomeriggio. Da sola Maria Clara non ce l’avrebbe mai fatta a pagare quell’affitto, non avrebbe mai potuto portare avanti la gravidanza e non sarebbe neppure partita dal suo bilocale a duecento chilometri da Lima, a Trujillo, in Perù, dove nove anni fa, dietro il bancone di una pasticceria di Piazza Antares, aveva conosciuto Carlos, l’uomo con cui aveva deciso di partire per l’Italia; l’uomo con cui avrebbe concepito una bambina che il papà non avrebbe mai visto nascere.
Maria Clara non aveva altra scelta: al primo mese di gravidanza, con quel braccio, quella gamba e quell’affitto, era andata per l’ultima volta a via Murat e aveva spiegato alla signora Rosaria che purtroppo non ce l’avrebbe fatta. La signora Rosaria era una donna di sessantadue anni, era arrivata a Milano ventidue anni fa, ed era sposata con un giovane farmacista calabrese. Maria Clara spiegava, Rosaria era lì che ascoltava, e non sorrideva mai, la guardava fissa negli occhi e dopo aver sentito quella parola, “incinta”, aveva alzato il telefono, aveva smesso di guardarla e le aveva detto ciao. Maria Clara, a parte il “ciao” che la signora non le aveva mai detto prima, sapeva perfettamente che sarebbe andata così. Lo sapeva, ma avrebbe voluto fare dell’altro, lei; le avrebbe voluto raccontare la sua storia, le avrebbe voluto descrivere la prima torta allo zabaione che le aveva preparato Carlos, le avrebbe voluto dire che erano otto anni che ci provava, avrebbe avuto voglia di abbracciarla, avrebbe voluto chiederle un consiglio, avrebbe voluto dirle che la piccola si sarebbe chiamata Lorena, le avrebbe voluto spiegare che si sarebbe chiamata come la nonna e che la nonna era morta lo stesso giorno in cui lei aveva fatto il check in per andare da Lima a Milano; e poi le avrebbe voluto chiedere come si dice in italiano quando una donna è davvero mui feliz; le avrebbe voluto urlare “viva” forte forte nell’orecchio; le avrebbe voluto dire che non riusciva ad alzare il braccio e che non riusciva più a muovere la gamba, le avrebbe voluto dire perché era rimasta da sola, perché il papà non avrebbe mai visto quella bambina e perché oggi avrebbe avuto voglia di piangere con lei, non di rispondere a un ciao.
Le prime due visite non erano andate molto bene. All’ospedale Niguarda Ca’ Granda, Maria Clara era uscita un po’ spaventata, ma non preoccupata. Le avevano spiegato che “lieve minaccia di aborto” non significava, naturalmente, aborto; ma più passavano i giorni e più che sentirsi incinta Maria Clara cominciava a sentirsi improvvisamente come se fosse una donna ammalata: iniezioni, analisi, ecografie, pronto soccorso, lastre, infermiere, cartelle cliniche, stetoscopi, sale d’attese e ambulatori. Non aveva capito perché: sapeva che in quelle condizioni sarebbe stato difficile portare avanti una gravidanza, ma non pensava di essere addirittura malata. Almeno, fino alla decima settimana, malata Maria Clara non lo era davvero.
L’ultima volta che aveva visto una scansione ecografica addominale era stato quando la cugina Silvia era rimasta incinta nella sua casa di Carpiano, in provincia di Milano. Silvia era molto più giovane di Maria Clara: aveva ventisei anni, viveva a casa di un amico dell’ex ragazzo, non pagava l’affitto, non aveva mai avuto problemi di salute, non riusciva a sopportare un fidanzato per più di due mesi e quando aveva scoperto di essere rimasta incinta non aveva la minima idea di chi fosse il figlio; e alla cugina, lei solitamente rispondeva così: “E’ stato un periodo un po’ movimentato”.
Non sapeva di chi fosse, ma le bastava sapere che era suo.
Silvia aveva scelto di portare avanti la gravidanza da sola, era arrivata al secondo mese e aveva deciso, finalmente, di ascoltare il consiglio di una collega dell’amico da cui abitava, anche lei incinta. “Hai fatto l’amniocentesi?”, le aveva chiesto lei. Pochi giorni dopo il primo prelievo di liquido, Silvia aveva letto il referto e aveva scoperto di avere un problema: la linfa della zona cervicale non passava perfettamente nel corpicino del piccolo e il cromosoma numero ventuno, dopo poche settimane di gestazione, si era triplicato, non duplicato. “Signora – le aveva detto il ginecologo – è una trisomia cromosomica: suo figlio potrebbe essere down”. Silvia pianse, poi parlò con il medico, andò al consultorio, le dissero di sì e decise di abortire. Era la ventiduesima settimana: Maria Clara rimase tre giorni a casa, senza mangiare nulla, senza parlare con nessuno, senza uscire dalla stanza e senza il suo nipotino.
Una settimana dopo la prima visita al Niguarda Ca’ Granda, Maria Clara scoprì che doveva abortire. Le avevano detto “può”, ma somigliava tanto a un “deve”. Dal giorno in cui aveva parlato con la signora Rosaria, Maria Clara non aveva più nulla: non aveva il lavoro, perché con quella pancia una colf non può stirare le camice; e non aveva più una casa, perché senza soldi un affitto in nero una come lei non può proprio pagarlo. Maria Clara, però, non aveva più nemmeno un fidanzato.
Era dal giorno in cui lei e Carlos erano arrivati a Milano che Maria Clara aveva deciso che non voleva pillole, non voleva preservativi, non voleva spirali. Perché lei conosceva tutte le tecniche di contraccezione: le aveva studiate a scuola e le aveva ripassate qua e là con la campagna di prevenzione in giro per la città. Sapeva tutto, ma aveva deciso così: voleva essere madre a qualunque costo. E lo voleva ora: anche senza soldi, anche senza lavoro, anche senza conoscere bene l’italiano. Facevano l’amore quattro volte alla settimana, lei e Carlos. Lo facevano sempre alla stessa ora, con la luce del bagno accesa e con la televisione di là, con il volume molto alto. Per otto anni non era successo nulla: e non era sterile lei e non era sterile lui; avevano solo qualche “difficoltà di concepimento”, come le aveva detto Carlos, che l’aveva letto su Internet; dopo otto anni, però, arrivata al suo trentasettesimo compleanno, Maria Clara aveva deciso di adottare un bambino. Ci pensarono un po’ ma poi il bambino arrivò davvero: lei fece il test di gravidanza, tornò a casa e aspettò che Carlos finisse il turno al supermercato della Despar, in via Caldera; lui aprì la porta e lei disse che aspettava Lorena. Due giorni dopo, Carlos uscì di casa molto presto senza dirle neanche ciao. Aveva promesso che l’avrebbe accompagnata al numero dodici di via della Commenda, al piano terra dell’ospedale Mangiagalli; e invece no. Carlos era andato via, e alla Mangiagalli Maria Clara ci arrivò da sola: scese con la metropolitana a Milano San Babila, attraversò Piazza delle Cinque giornate, superò viale Regina Margherita, chiese informazioni in portineria, cercò il reparto, aspettò quindici minuti e poi fu visitata. Prima al braccio, poi alla gamba, quindi alla pancia. Alla fine della visita, dopo quaranta minuti, il medico, con la cartella clinica stretta sotto il braccio, glielo aveva detto in due modi. Prima le aveva detto “coagulazione intravascolare localizzata”, poi le aveva detto cosa fosse quel dolore al braccio, alla gamba e ora alla testa: trombosi, le avevano spiegato prima che lei scoppiasse a piangere spalancando istintivamente le mani come per tappare le orecchie al pancione. Maria Clara era all’undicesima settimana di gravidanza. “Mi ascolti, signora: forse non è il caso di andare avanti”.
Pochi mesi prima, nella stessa città, nello stesso ospedale, nella stessa stanza, era arrivata Serena: una ragazzona di ventisette anni, nata in Ecuador e arrivata due mesi fa a Milano; con un posto letto al piano terra della Caritas ambrosiana, in via san Bernardino, con un fidanzato senza permesso di soggiorno e con un mamma che da poche settimane era stata seppellita nel cimitero General de Miraflores di Trujillo, a pochi chilometri dalla capitale dell’Ecuador. Serena si era sdraiata sul lettino, aveva parlato con il ginecologo, le aveva raccontato della sua condizione, le aveva detto che lei stava bene, che non aveva problemi e che fisicamente ci stava. Solo che Serena non aveva più molti soldi: lei aveva perso il lavoro e il futuro marito ancora non ne aveva trovato uno. Serena cercava un modo per capire come fare con quel pancione e con quella piccola bugia sussurrata al marito Eduardo, solo per non farlo preoccupare. E’ un bambino, gli aveva detto lei quando ancora vivevano in Umbria. E invece i bambini erano due.
Serena era partita due mesi prima da Perugia: faceva la colf, proprio come Maria Clara; lavorava tra Assisi e Todi in un casale del 1800, in cima a una collinetta, a pochi chilometri dal monte Subasio. Un buon lavoro, novecento euro al mese, un permesso di soggiorno. Aveva conosciuto Eduardo due anni prima a Deruta, seduta con un’amica su una panchina, fuori dal parcheggio della discoteca Matrioska. Dopo due settimane, Eduardo e Serena erano andati a vivere in quei sessanta metri quadrati, dietro via Matteotti, dove vivrebbero ancora oggi se lei non fosse rimasta incinta, se la madre non fosse stata uccisa da un piatto di funghi velenosi e se non fosse stata costretta a spendere tutti quei soldi per la vestizione, per la preparazione e per il trasporto internazionale della madre: 2.400 euro, quasi due terzi dei risparmi che Serena aveva messo da parte sul proprio conto corrente. Senza quei soldi, però, pagare l’affitto sarebbe stato impossibile. Eduardo e Serena decisero così, prima di arrivare alla Caritas, di farsi ospitare per un po’ da un amico a Milano: i due figli sarebbero dovuti nascere qui. Anche senza soldi, anche senza lavoro, anche senza casa. Anche se, arrivata in ospedale, il primo dei due ginecologi che l’avrebbero visitata non la pensava così; Serena quelle parole le ricorda perfettamente. “Se sei in questa condizione è meglio che tu non vada avanti”. C’aveva pensato un po’ e poi Serena al ginecologo gli aveva detto così, gli aveva detto di sì: non voglio il bambino.
Tra tutte le statistiche presentate lo scorso ottobre dal ministro della Salute Livia Turco, il dato che più sorprende è proprio quello relativo al numero delle interruzioni di gravidanza portate a termine dalle donne straniere in Italia. Dal 1980 al 2001, le donne nate all’estero che hanno interrotto la gravidanza sono passate da 4.510 a 32.161; sempre in questi anni, dal 1995 al 2002, la presenza di stranieri in Italia è quasi raddoppiata: erano 800 mila nel 1995 hanno toccato il milione e mezzo nel 2002. Oggi, la percentuale delle interruzioni di gravidanza delle donne straniere rappresenta il 24 per cento di quelle totali in Italia; nel 1995 era invece il due per cento. Negli ultimi dieci anni, il numero degli interventi portati a termine da donne con cittadinanza estera si è triplicato: nel 1996 erano il dieci per cento, nel duemilacinque erano arrivate al 29,6 per cento. E il dato è ancora più significativo, visto che in Italia le donne straniere hanno un tasso di fecondità che è esattamente il doppio di quello delle donne italiane (nel 2006, i bambini nati da genitori stranieri sono stati 57.765: l’11 per cento in più rispetto al 2005 e il 10,3 per cento di tutti i bambini italiani).
Qui in Lombardia, le straniere come Serena e come Maria Clara rientrerebbero in una statistica ancora più significativa: nelle sei province lombarde, infatti, su quasi ventiduemila interruzioni di gravidanze annue, 6.608 sono quelle completate da donne straniere; un dato che corrisponde a poco più del trenta per cento delle interruzioni di gravidanza straniere di tutta Italia. Secondo una recente indagine conoscitiva sul percorso di nascita delle donne extracomunitarie, la Lombardia è la quarta regione italiana come “adeguatezza di informazioni relative alla contraccezione”, nonché quella con il numero più alto di popolazione straniera di tutta Italia: 7,6 per cento.
“Sapevo tutto sul come non fare un figlio: sapevo tutto di preservativi, spirali, pillole del giorno prima, pillole del giorno dopo ma – racconta Serena – non sapevo nulla su come mi sarei dovuta comportare per fare nascere quel figlio, per avere qualche pannolino, per avere qualcosa da mangiare, per trovare un tetto, e per cercare, magari, anche un piccolo lavoro”.
Alla fine del secondo mese, Serena decide di abortire. Ogni anno, alla clinica Mangiagalli vengono registrati circa mille e ottocento interruzioni di gravidanza e aborti terapeutici, la metà di queste sono prenotate da donne extracomunitarie. Serena aveva deciso così, e non sapeva nulla delle sei stanze al terzo piano dell’ospedale più importante di Milano, dove ogni anno nascono ottocento bambini che semplicemente non ci dovevano essere; e dove Maria Clara e Serena avrebbero potuto salvare la vita dei propri figli, se solo lo avessero saputo. Perché le sei stanze al terzo piano del centro aiuto alla vita più famoso d’Italia, le devi conoscere per cercarle, e le devi conoscere prima se davvero vuoi trovarle. Perché entrando al numero dodici di via della Commenda devi salire una rampa di scale, superare la portineria, girare al secondo corridoio a destra, aspettare l’ascensore e premere il piano numero tre. Perché se chiedi informazioni in portineria, il portiere ti indicherà il quarto piano della scala D – invece che il terzo della scala B; perché se arrivi al quarto piano della scala D l’infermiere ti risponderà che non sanno cosa sia, il Cav; e perché se chiedi al piano terra, se chiedi di fronte al reparto di ginecologia, ti diranno che questo Centro aiuto alla vita non sanno proprio dove diavolo sia. E tu devi superare due corridoi, due rampe e tre reparti per trovare un piccolo foglio formato A4 appeso al muro fra le porte scorrevoli dei due ascensori della scala B. Devi arrivare qui per leggere di quel “Cav” che solo lo scorso anno ha fatto nascere 833 bambini che forse non sarebbero mai nati; lo ha fatto, la coordinatrice Paola Bonzi, con molti volontari, con pochissimi soldi, con parecchi colloqui, aiutando le mamme a trovare una casa e facendo semplicemente quello che la legge chiede: contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza. Gliel’hanno suggerito e dopo aver detto di no, Maria Clara ha detto di sì, e oggi muove ancora poco il braccio, non ha più dolore alla testa, veste con un maglioncino beige, ha i jeans poco aderenti, è rimasta senza Carlos ma Lorena è arrivata al quinto mese. Così ha fatto lei, così avevano suggerito di fare anche a Serena e a Eduardo, per salvare quei due figli che sarebbero nati senza casa, senza soldi, senza pannolini, senza cibo e con due cuoricini un po’ malati, e che oggi invece pesano due chili e mezzo.
Claudio Cerasa
13/02/08

domenica 10 febbraio 2008

Ho visto l'uomo nero su Repubblica

Il garante della privacy, autorità preposta specificamente alla tutela della riservatezza, al quale si erano rivolti alcuni dei genitori del caso di Rignano Flaminio, ha escluso che vi sia stata alcuna violazione delle norme che tutelano la riservatezza dei minori nella pubblicazione del libro "Ho visto l´uomo nero: l´inchiesta sulla pedofilia di Rignano Flaminio, tra dubbi sospetti e caccia alle streghe", edito da Castelvecchi e scritto dal giornalista del Foglio Claudio Cerasa. Il garante ha rifiutato di assumere i provvedimenti richiesti e ha invece consentito la libera divulgazione del libro. Una decisione che contrasta con l´ordinanza del tribunale civile di Roma che, due mesi fa, ha portato al sequestro del volume. Autore ed editore hanno già presentato ricorso e nei prossimi giorni la sezione collegiale guidata dal presidente Bucci si pronuncerà.
Secondo il Garante, infatti, «la pubblicazione del libro è riconducibile al legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica di un atto di interesse pubblico», quindi il libro non va sequestrato.

Omniroma, Ho Visto l'Uomo Nero, garante

(OMNIROMA) Roma, 10 feb - "Il garante della privacy, autorità preposta specificamente alla tutela della riservatezza, al quale si erano rivolti alcuni dei genitori del caso di Rignano Flaminio, ha escluso che vi sia stata alcuna violazione delle norme che tutelano la riservatezza dei minori nella pubblicazione del libro 'Ho visto l'uomo nero. L'inchiesta sulla pedofilia di Rignano Flaminio, tra dubbi sospetti e caccia alle streghe', edito da Castelvecchi e scritto dal giornalista del Foglio Claudio Cerasa". E' quanto comunicano gli avvocati del giornalista. Il garante della privacy "ha rifiutato di assumere i provvedimenti inibitori richiesti e ha invece consentito la libera divulgazione del libro. Il provvedimento contrasta con l'ordinanza inibitoria assunta dal giudice del tribunale civile di Roma, due mesi fa, che ha portato al sequestro del volume: ordinanza ora soggetta al reclamo, da parte dell'autore e dell'editore, alla sezione collegiale che si esprimerà nei prossimi giorni".
"La decisione del garante conferma le critiche espresse di fronte a Romano Prodi il 27 dicembre 2007 dal presidente dell'ordine nazionale dei giornalisti, Lorenzo Del Boca, secondo le quali il sequestro del libro di Claudio Cerasa è un grave atto di censura che attenta alla libertà di stampa", fanno notare i legali.
Secondo il garante per la protezione dei dati personali "la pubblicazione del libro è in termini generali riconducibile al legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica su un atto di interesse pubblico". Continua il garante della privacy: "L'ufficio ha poi riscontrato che alcune parti del libro indicate nelle segnalazioni riportano dichiarazioni dei genitori piuttosto dettagliate relative a giochi di natura sessuale cui sarebbero stati sottoposti i figli minori. Tali passi, pur consentendo di riferire alcuni fatti ivi descritti a taluni bambini, non li rendono identificabili per il vasto pubblico.
Per quanto riguarda l'ambito strettamente locale di Rignano Flaminio, è stato invece rilevato che il riferimento alle coppie di genitori individuati nel libro con i relativi nomi propri, nonché la menzione dell'iniziale del nome di alcuni bambini, può aver reso identificabili taluni fra essi, in una vicenda nella quale la moltitudine di notizie e informazioni già in circolazione aveva, però, già ampiamente esposto le famiglie degli interessati a una larga diffusione di dati nel medesimo ambito locale". Scrive ancora Giovanni Buttarelli, segretario generale del garante della privacy, che "le notizie stampa hanno via via evidenziato le complessità emerse nelle indagini e le diverse tesi sostenute dalle parti coinvolte, riportando anche dichiarazioni rilasciate alla stampa dalle famiglie interessate e/o dai relativi legali, nonché stralci di testimonianze rese nel procedimento penale". Conclude il garante: "Questo ufficio non ha comunque ravvisato i presupposti per promuovere l'adozione di un provvedimento del Garante"

Ansa, Ho Visto l'Uomo Nero, Garante

(ANSA) - ROMA, 10 FEB - Per il garante della privacy, il libro "Ho visto l'uomo nero" del giornalista Claudio Cerasa sui presunti casi di pedofilia a Rignano Flaminio, non viola la riservatezza dei minori e "rientra nel legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica su un fatto di comune interesse". Lo ha reso noto lo stesso giornalista riportando alcune frasi della decisione dell'Autorità.
Al garante si erano rivolti alcuni genitori di Rignano Flaminio sostenendo che nel libro il riferimento a coppie di genitori con i relativi nomi e la menzione dell'iniziale del nome di alcuni bambini "può avere reso identificabili taluni fra essi"; pesa anche "la moltitudine di notizie già in circolazione" che avevano già "ampiamente esposto le famiglie degli interessati ad una larga diffusione di dati nel medesimo ambito locale".
Il giudice del tribunale di Roma, invece, due mesi fa aveva ordinato il sequestro del volume individuando, invece, la violazione della riservatezza. Della vicenda si è occupato anche il presidente dell'Ordine dei giornalisti Lorenzo Del Boca, che il 27 dicembre scorso, davanti al presidente del COnsiglio Romano Prodi, aveva parlato di "un atto di censura".(ANSA).

giovedì 7 febbraio 2008

Il Foglio. "Nascita di un maestro. Franco Zeffirelli racconta i tre giorni in cui non doveva esistere

La gravidanza della madre, la pozione della nonna e poi l’uncino e i coltelli. Zeffirelli racconta i tre giorni in cui non doveva esistere

Il papà era un uomo molto affascinante: era ben piazzato, era forte, era agile, aveva gli occhi azzurri, passeggiava masticando stuzzicadenti, aveva dei magnifici cappellini monocromati e aveva sempre, quel mascalzone, un sorriso grande così. Si chiamava Ottorino Corsi, vendeva i tessuti più belli di Firenze, diventerà il padre di uno dei registi più famosi del mondo e anche quella volta fece la stessa scelta che aveva fatto per tutti i primi tre anni di guerra: solo quelle sposate, solo quelle con un marito, solo quelle belle come lei; come quella donna che, lottando contro tre aborti, di lì a poco sarebbe diventata la madre di Franco Zeffirelli. Lei si chiamava Alaide, era una sarta molto famosa, aveva un atelier al numero due di Piazza Vittorio Emanuele, a Firenze; aveva sposato da giovanissima un avvocato, un po’ più grande di lei; amava molto la musica di Mozart e aveva quel morbido profumo di seta che hanno solo le signore che lavorano con i tessuti. Alaide, però, per il signor Corsi, non fu esattamente come le altre: fu corteggiata a lungo, divenne la sua cliente preferita, cominciò a comprare da lui le lane più pregiate e scoprì quell’affetto che da due anni non aveva più trovato e poi, quando lei aveva ormai quasi quarant’anni, lui le regalò un figlio. Un figlio amato, ma non desiderato; un figlio che un giorno sarebbe diventato attore, regista, sir e senatore; un figlio che però proprio non doveva nascere, non doveva esistere, non doveva esserci. Perché, come le dicevano i genitori, non è il caso, non è il momento, non puoi farlo, e che cosa direbbero di te. E per tre volte, Franco Zeffirelli, rischiò di non esserci davvero. Ci proveranno in tutti i modi: la prima volta fu un coltello, la seconda fu una pozione, la terza fu un uncino. Era una questione di principio: ora tu non puoi, ora non devi. Non puoi: perché non hai l’età, perché hai già tre figli, perché sei una donna felice e perché con il tuo lavoro un altro figlio sarebbe una pazzia. Non devi: perché sei già sposata, perché lui oggi c’è e domani chissà e perché tutti saprebbero che il figlio portato in grembo non può essere di tuo marito, moribondo da tempo in un ospedale di Pratolino; doveva essere del tuo amante: Ottorino Corsi; quel signore diventato famoso a Firenze per essere caduto da cavallo, per essere stato riformato a ridosso della Prima guerra mondiale e per essere rimasto in Toscana quando tutti i mariti più belli, più forti e più giovani della regione erano partiti per andare al fronte, lasciando Ottorino libero di comportarsi come un galletto nel pollaio. Così fu. Dovevano essere belle, formose, alte e soprattutto poco disponibili: andò così con le famiglie Gherardini, Martelli, Gori, Venturi, Piccardi e andò così anche con sua madre Alaide. Come ricorda Franco Zeffirelli, quel mascalzone aveva anche una tattica. Funzionava così: lui inseriva nel suo calendario il giorno in cui sarebbe arrivata la licenza di questo e di quel marito, aspettava che il marito uscisse di casa, faceva passare due o al massimo tre giorni, poi bussava alla porta e ci provava. Fino a quando non arrivò lui: quel bastardino di Franco, come per anni fu chiamato il regista fiorentino. Non doveva nascere, non ci doveva essere e non doveva esistere. E Zeffirelli, o meglio Zeffiretti, che scoprì la sua storia qualche anno dopo la morte della madre, la rivive ora con il Foglio, seduto sul divanetto della sua casa romana sull’Appia antica, di fronte a una pila alta di vhs dell’“Otello”, dell’“Enrico V”, di “Sparrow”, del “Processo del lunedì”, di “Viva la diva”, de “Lo schermo vietato”, della “Traviata” e dei “Pagliacci”. “Non dovevo nascere, perché non era previsto, perché era uno scandalo, perché mia madre era al top del suo successo, e perché, come capitava ieri a Firenze e come potrebbe capitare oggi dovunque, se nasce un figlio non è detto che tu stia lì a pensare che quel bimbo potrebbe cambiare il mondo, è probabile invece che tu stia lì a pensare che quel figlio ‘potrebbe mettere a repentaglio il nostro rapporto’, che quello non sia ‘il momento giusto’, che ‘prima bisogna trovare un buon lavoro’ e che non ha senso se ‘non sei sistemato’. E spesso non ti viene neppure in mente che quella vita ancora non conosciuta andrebbe sempre e comunque rivelata. Sempre. Perché non è scontato che ti venga in mente che quel fiore è un fiore esplosivo, che quel fiore è già bello che fatto quando si crea, e non quando nasce. E quello che si chiama ‘l’incognito’, ‘il fascino del mistero’, perché quello è un fiore che esplode e che forse tu non lo sai, ma rivoluzionerà il mondo. E’ la nascita, quella. E’ quella cosa che fa cantare e che fa suonare le fibre più segrete di ognuno di noi. E’ la vita, e tu la vedi mille volte al giorno. La vedi quando nasci e la vedi anche in una di quelle camere buie dove tu entri, apri la porta e scopri che dalla stanza accanto arriva una luce che ti dice dove andare. E’ l’insostenibile fascino del mistero, questo. E’ la gioia di poter donare la luce a chi non vede ancora e di poter aprire una finestra, spalancandola sul mondo. E’ il sapere che lì dentro c’è una vita e che lì dentro forse ci può essere un genio, o forse no, e che comunque vale la pena di vedere, o almeno di sentire, la luce che fa”.
Il marito della mamma, Alberto, morì all’ultimo mese di gravidanza. Erano gli ultimi giorni dell’ottavo mese e la mamma, Alaide, arrivò al funerale del papà dei suoi tre figli (Giuliana, Adriana e Ubaldo) con il quarto figlio nel pancione. Lui, il marito, era un avvocato e da due anni era gravemente ammalato. Tubercolosi, dicevano. Poche settimane dopo la morte di Alberto, Alaide sarebbe diventata mamma per la quarta volta. Fu un parto difficile: a quarant’anni, e con un corpicino fragile come il suo, Alaide sapeva che sarebbe stato un rischio partorire. Ma quel figlio lei lo voleva, e senza che ci fosse una spiegazione precisa: lo voleva e basta, anche a costo di non farcela, anche a costo di non riconoscerlo, anche al costo di farlo nascere come se fosse “illegittimo”. “N”, “N”, scrissero. “Nescio nomen”, riportarono nel suo primo documento ufficiale. Perché in quegli anni, per i figli “illegittimi” con la doppia “N” c’era una regola precisa, e il figlio nato con il nescio nomen, per avere un nome, doveva essere abbinato a una lettera: una lettera per ogni giorno del calendario. Quel giorno era il dodici febbraio e toccava alla lettera zeta. Zeta, proprio come quei “zeffiretti gentili” di cui aveva sentito parlare mamma Alaide in un Idomeneo, visto pochi giorni prima. “Zeffiretti”, disse dunque la madre al copista del comune di Firenze, che prese nota e scrisse quel cognome con due “l” invece che con due “t”. Poche ore dopo, il piccolo Zeffirelli fu restituito a due puericultrici che per un anno lo affidarono a una coppia che abitava nella valle del Piombino. Senza cognome, senza nome, senza padre e con tre aborti andati miracolosamente male. Ma quel figlio lei lo voleva e basta.
“Diceva alle mie zie che la vita non va fermata, che un bambino non può essere schiacciato e che deve comunque aver la possibilità di nascere, a qualsiasi costo. Come darle torto? Se oggi penso a una vita che non c’è e che ci sarebbe potuta essere, io sto male; è una cosa che non accetto, è una cosa che non capisco ed è una cosa che neanche riesco a giustificare. Quella cosa va chiamata con il suo nome, cioè vita. E se una mano sublime ha fatto sì che un uomo e una donna si siano miracolosamente congiunti, e che il risultato alla fine sia stata la concezione di una creatura, che ci si creda oppure no, bisogna immaginarsela questa natura: una natura che vuole orientarsi, che per andare avanti ha bisogno di decine di migliaia di tentativi e che, se la si soffoca, qualcuno poi dovrebbe spiegare come fa ad andare avanti. Credo sia un discorso semplice: la mamma, quale che sia la sua condizione, è il tramite sacro per entrare nel mondo, è un ascensore per scendere giù, e se lei non ti aiuta, l’ascensore non funziona, si blocca; e l’amore rimane tutto strozzato”.
Continuavano a dirle mandalo via, tronca con lui, liberati del bastardino, vergogna, vergogna, vergogna. Per questo ci avevano provato tre volte: la prima con un dottore, la seconda con una pozione, la terza con un uncino. Con la pozione andò così. La mamma era sdraiata sul letto e non si sentiva bene. Colpa del bimbo, le dicevano; no, è solo mal di testa, lei rispondeva. Sua madre, la nonna di Zeffirelli, la vedeva, e diceva di volerla aiutare. Chiamò una fattucchiera, come la chiamava la zia, e fece preparare un intruglio: erbe, liquidi e qualche strano colorante. Prendine un po’, tesoro. Alaide ci pensò un attimo e poi scoprì l’inganno, e scoprì che la madre non pensava che fosse davvero tutto un problema di testa, pensava che fosse tutto un problema di pancia. E Alaide scoprì che quell’intruglio non era per la testa, scoprì che era per il bambino, buttò per terra il bicchiere, lo frantumò in mille cristalli, si alzò e uscì di casa. Lo voleva, quel bimbo. Lo voleva disperatamente, come se fosse l’ultima cosa buona della sua vita. Perché, seppur impropria, quella era una coppia bellissima: era al centro dei pettegolezzi, era diventata famosissima e sentiva che senza quel dono lei avrebbe vissuto con una parte di sé in meno, e con una parte in meno di Ottorino. Signora, le dicevano, lei è in pericolo di vita, non scherzi, lasci perdere con quel bambino. Bene, rispose lei, allora vorrà dire che se morirò, morirò più fiera di voi, e lascerò in terra quello che voi non avrete neppure in cielo: un figlio. Poi arrivò il coltello, perché l’uncino è troppo facile da immaginare. Un taglietto e via, le avevano detto. Ci provarono una sera di ottobre, e ci provarono legandola a una sedia. Mani, piedi, vita, collo. Tutto un nodo, tutto legato. Tutto un unico bavaglio. Si erano avvicinati in due per aprirle le gambe ma lei riuscì a slegarsi, si avvicinò al dottore e gli spaccò in testa un vaso di ferro. Il vaso in realtà non si ruppe, la testa del dottore, ricorda sorridendo Zeffirelli, un po’ sì. E quando glielo raccontarono, quando gli raccontarono dei tre quasi aborti, quando gli raccontarono della nonna, quando gli raccontarono che lui non doveva nascere, il regista fiorentino iniziò a pensarci un po’. Iniziò a pensare a quello che lui oggi chiamerebbe il grande manovratore, qualsiasi cosa volesse significare. “Mi sono chiesto perché sono io, dove sono io, come sono io, come sono diventato io, e perché il grande manovratore ha messo me nel grande novero, aprendomi quella porta. Quella porta che può essere aperta su una rampa di scale molto ripida, come ripida fu la mia; una porta che può anche aprirsi in un baratro, o in un burrone. Ma sempre una porta è, e tu non sai cosa puoi trovarci dietro. Ed è sempre meglio tenerla aperta che tenerla chiusa, qualsiasi cosa significhi tenerla aperta. Perché ogni figlio è come un desiderio mandato in terra, è una traduzione del linguaggio celeste in linguaggio umano, è una testimonianza del sublime, del supernaturale, e del principio del divino. Una donna che apre la porta è una donna molto forte. Una donna che non apre quella porta è una donna che resterà ferita per tutta la vita”.
Franco Zeffirelli, come scrive nella sua autobiografia, è cresciuto in un un periodo in cui il sesso non era così facile da frequentare; un periodo in cui la maggior parte delle ragazzine arrivavano vergini al matrimonio così come vergini, spesso, ci arrivavano anche i maschietti; un periodo in cui, come fu poi per lui, l’omosessualità si nascondeva come un fiume sotterraneo. Niente figli, dunque. Ma molti figli sono nati grazie a lui. Li ricorda uno per uno, Zeffirelli. Come se quei figli, che non dovevano nascere e che sono nati grazie a una sua parola, fossero in fondo un po’ carne sua: “Perché questa maschilità che non sono riuscito a esprimere attraverso la paternità ho cercato di farla vivere sfruttando la mia celebrità, e influenzare i cuori incerti nel prendere una decisione di vita. Quel mascalzone di mio padre lo faceva con il coitus che non voleva fosse interruptus. Lui lo faceva per il proprio piacere, io continuo a farlo come se fosse una piccola missione”. Ricorda quella volta in America, al New York City hospital, quando incontrò una signora di colore, scoprì che voleva abortire, scoprì che voleva farlo di nascosto dal marito, parlò con lei, parlò con il ginecologo e dopo qualche giorno la signora decise di non abortire più; ricorda quella volta alla Scala di Milano, quando una corista scoprì di essere incinta, scoprì che il suo fidanzato non voleva il bambino, vide il suo fidanzato andare via di casa, lui le parlò e provò a convincerla. Le disse di provarci, e così fu. Proprio come a Roma, all’Ospedale Fatebenefratelli, quando lui passò di fronte al reparto di ginecologia e vide una donna disperata. Era in fila, pronta per ricevere il certificato. Lui la guardò e lei lo riconobbe: “Maestro!”. Lui le chiese perché, si fermò a parlare e scoprì che lei voleva il bambino, ma non poteva. Lui la guardò, e le raccontò la sua storia: le raccontò dei tre aborti, del coltello, dell’uncino e della pozione; le spiegò che se quel giorno a Firenze, la mamma lo avesse ammazzato, lei, ragazza con il pancione, oggi non avrebbe nessuno da ammirare. Perché quel piccolo è come me, le disse. Io sono come lui, tu sei come lei, e se tu lo fai, il tuo bambino non disegnerà mai una stella più grande della mia. Poi arrivò il marito e ci fu una piccola baruffa. Il marito, il figlio non lo voleva, e la donna cominciò a urlare: “questa è una storia mia”, “questa è una storia mia”. Il marito non capiva, guardò il regista, lo spinse via e gli chiese che cosa significa “è una storia mia”. E gli chiese: mi scusi: ma lei conosce mia moglie? Parlarono un po’, poi Zeffirelli andò via. Pochi mesi dopo, i due diventarono papà e mamma, arrivarono sull’Appia, bussarono al cancello, chiesero di Zeffirelli, lo salutarono, presero in braccio un bambino, glielo passarono e poi gli dissero: buongiorno maestro, scusi il disturbo, siamo qui solo per presentarle il piccolo; il piccolo Franco.

martedì 5 febbraio 2008

Il Foglio. "Lo chiamavano scuorno”

Storia di Sara e di Eugenio. Così una vita che già batteva è diventata un guaio da abortire. “Che significa non lo voglio? Che significa la scelta è mia?”

Chiudi gli occhi, conta fino a dieci e dimentica quel nome. Tesoro. Lo sai che non ti ama, lo sai che se ti dice così è perché non ti capisce. Lo sai che io ti amo. Noi ti amiamo, lui no. No, non ti ama. Non ti direbbe così. Lui pensa di sì, ma tu lo vedi, lo senti che non è così. L’hai capito, no? Lo sai, amore mio? No, non lo sai. Ascolta. Ascolta bene: lascialo parlare, lascialo dire, lascialo telefonare. E dimentica quel nome. E se te lo chiede digli di no, poi vedrai che se ti ama lui capirà. Sì: capirà. Sì, è vero. Non mi capisce, nessuno mi può capire, sono io. E’ mio. Forse, forse tu; sì: forse tu puoi. Che guaio, cazzo. Che guaio. Che scuorno, che vergogna. Che ho fatto? Mamma, che ho fatto. Non piangere. Mamma, mamma. Hai trovato quel numero?
Era un martedì, Sara aveva chiamato a casa la sera prima e l’aveva avvertita. Mamma, stasera non torno. Non era tornata lunedì, non era tornata domenica, non era tornata neanche sabato. Ragazzi, diceva la madre. Sono ragazzi, tesoro; lasciamoli divertire. Che vuoi che facciano, lei ha diciannove anni, è una bambina. Non ti preoccupare, fidati di me. Fidati, sono solo due notti. Erano state due notti bellissime: la prima, la seconda, soprattutto la terza. Lui e lei. Due notti, e lui che le aveva detto tutto; le aveva detto il dove, il come e il quando, le aveva detto chi ci sarebbe stato e le aveva detto anche cosa le avrebbe regalato. Due notti, sì, ma senza sesso: perché lui non sapeva ancora se era il caso, e lei non sapeva cosa pensare, non sapeva come si faceva in quei casi e non sapeva neanche a chi chiedere. Riccardino?, diceva lui, mentre lei sorrideva solo con le guance, senza muovere le labbra, proprio come faceva lei quando stava bene, e quando per dire di sì non c’era bisogno di dire nulla.
Domani però andiamo da mamma. Se vuoi, va bene. Andiamo. Lei e lui. Lei: diciannove anni, i capelli lisci, gli occhi blu, il primo anno di università, i tre esami in Scienze dell’educazione, e poi la parrocchia, il volontariato, la gonna verde, le calze di seta, le scarpette bianche che non erano da ballerina, ma un po’ sembrava di sì. E lui: ventisette anni, laureato, ingegnere, quartiere Bagnoli, Napoli. Lei, Sara; lui, Eugenio. Eugenio sale due piani di scale a piedi, guarda l’orologio, bussa alla porta e sospira. Risponde lei. Mamma siamo noi. Entrate, papà è appena uscito. Entra pure, caro Eugenio. Due caffè? Uno, disse lui, tutto serio. Uno? Bene. Sedetevi pure: che hai fatto piccola? Stai bene? Sì, tutto bene. Eugenio sorrideva, e lei, Sara, non la guardava mai negli occhi, la mamma. Non ci riusciva. Diceva mamma, ma poi si fermava e la voce rimaneva lì, strozzata. Mamma. Mamma.
Amore. Amore. L’ho fatto.
Sara non lo sapeva, ma aveva capito praticamente tutto: era da qualche giorno che aspettava, che diceva io mi conosco, grazie non ho fame e no: non mi sento male, però lo so, è una cosa strana, devo vedere, devo comprarla: tesoro, ho un ritardo. Non sapeva perché, aveva detto che non sapeva ancora, e aveva detto di no. Non ti preoccupare, non è niente. Gli disse così, poi passa una settimana, Sara esce dal numero dieci di via Suor Orsola, 10, la sede napoletana della sua università, corre via, arriva in strada, si avvicina a Eugenio con la borsa della Lonsdale appesa al collo, e una piccola linea blu che si era improvvisamente colorata, e ora lei sapeva perché, e sapeva che gli avrebbe detto di sì. Diciannove anni, fidanzata, felice, bella. E ora mamma. Nona settimana, amore mio. Ma non dirlo a nessuno, non dirlo agli amici, non dirlo a papà. Lo dissero solo a Luigi, il parroco della chiesa di San Giuseppe confessore, dove Eugenio e Sara erano cresciuti insieme, dove avevano fatto i volontari per la Caritas, dove lui si era innamorato di lei, e dove, tre giorni dopo la linea blu del test di gravidanza che saliva di nove settimane, tornarono tutti e due, firmarono sul registro, e controllarono la data: ventisei giugno; piccola, vuoi sposarmi? E lui, non c’aveva pensato. Non c’era nulla da pensare. Era un sì, due volte sì. Ti voglio, voglio sposarmi; voglio un bambino, voglio quel bambino. Lui, ventisette anni, ingegnere, e ora padre; e con gli amici che lo fissavano, e lo guardavano e lo abbracciavano, e non sapevano come fare, non sapevano cosa dire: se dire auguri, se dire complimenti, se dire in bocca al lupo, se farsi dire tutto, se aspettare che fosse lui a farlo, se chiedergli un particolare, o se chiedere solo le cose semplici. Come si fa, cosa si chiede quando diventi papà? Dimmi: com’è? Di chi è? Quanto è? Ma lei? E tu? E i tuoi? E i loro? I loro.
Mamma. Mamma. Mamma. Tesoro, sedetevi. Ditemi pure, ditemi che succede, cosa sono quelle facce? Ragazzi, ditemi. Che avete fatto, qualche guaio avete fatto? Signora, la vorremmo invitare a una festa. Una festa. La mamma di Sara poggiò la tazzina di carta sul lavabo, e ci pensò. La festa. Il caffè. Quegli occhi così. Ma quale festa. Quale festa? Che guaio avete fatto, che guaio avete combinato? Signora, nessun guaio. Non dissero altro, non lo nominarono mai, avevano capito tutti. Lei, e la sua bambina. Gli altri, e il loro bambino. Cosa avete fatto. Ma avete fatto le analisi? Oddio, oddio, oddio. Cosa avete fatto. Cosa avete fatto.
Mamma.
Figlia mia, ti prego. Ti prego. Non dovevate, non me lo dovevate fare, non me l’aspettavo, mi avete rovinato, ve ne siete approfittati, che vergogna, che scuorno, che vergogna, vuoi fare come tua cugina? Dimmi, vuoi un bambino adesso? Lo vuoi a vent’anni? Vuoi fare come lei, come tua cuginetta, eh? No, mia figlia non sarà una zoccola: uscite di casa. Io vi ho dato la libertà e voi mi fate un figlio. Se lo sapesse tuo padre. Andate, andate via. Vergogna. Andate via.
Ciao amore, disse Eugenio, mentre scendeva le scale, io è meglio che vado via. Apre il portone, sale in macchina, spegne il telefono, torna a casa. Lo riaccende la sera dopo, Eugenio: ma il telefono non squilla più. Non squilla oggi, non squilla domani. Non risponde oggi, non risponde neanche domani. E se risponde, lei sospira; ti ascolta, ma non parla; ti sente ma non fiata. E chissà che fa? Sarà sul letto? Starà studiando? Si starà coprendo? Starà bevendo? C’avrà parlato? Avrà ascoltato. Amore. Amore. Amore: ma di cosa parli? Amore, fammi entrare. Amore, apri quella porta. Amore, non scendere dalla macchina. Amore, stai per diventare mamma. Piccola mia, che significa guaio? Squilla ancora, il telefono. E dopo due giorni lei sospira, e finalmente parla. Vieni a casa mia? La mamma ti vuole parlare. Vengo, arrivo. Sale le scale, Eugenio, apre la porta, saluta, ma nessuno sorride; niente caffè, niente papà, niente cucina, siedeti – con la e –, disse la mamma che era diventata nonna e che invece di chiamarlo piccolo continuava a chiamarlo guaio. Siedeti, dobbiamo parlare. E gli spiega. E gli parla.
Parla la mamma della sua ragazza, e parla senza nominarlo mai, pensando sempre a quello. Perché i bambini che non sono voluti non sono mandati da Dio, diceva lei; e tu devi lasciare libera mia figlia, lei ha la sua età, è giovane. E fammi finire: non la non devi plagiare, non le devi parlare; perché lei deve essere libera: libera di scegliere liberamente; libera di prendere le decisioni giuste; e se tu le vuoi bene allora lasciala stare, disse passando in un attimo, come fosse un soffio, dal ciò che c’è da dire a ciò che non si deve fare. Siete liberi, mia figlia può scegliere quello che vuole, ma se sceglie di sposarti, se sceglie di tenerlo, lei in questa casa non entra più. Mai più. Perché è tanto tempo che mia figlia piange, e io non la voglio più vedere così. Perché tesoro, tu lo sai che io ti amo. Tu lo sai che noi ti amiamo. E lei era bellissima, e non parlava; e la mamma che l’accarezzava, e non si fermava, e che alla fine disse così, mentre Sara piangeva: perché se l’ami, Eugenio, tu devi accompagnarla ad abortire. Lui si alzò, le salutò tutte e due e se ne andò via. E poi pensò molto.
Pensò ancora al nome, pensò che Riccardino era un nome splendido, pensò che si sarebbero sposati tra un mese, pensò che sarebbero diventati una sola carne, come diceva don Luigi, e pensò che in quel caso, carne la sarebbero diventata non tutti e due, ma tutti e tre. Sara, Eugenio, Riccardino. Pensò che la madre, prima o poi, avrebbe capito, pensò che il guaio si chiamava bambino, pensò che la figlia di lei ora si chiamava mamma e pensò che la mamma era in realtà la nonna, ed era in realtà solo molto spaventata, e anche se diceva che bambini non voluti non sono mandati da Dio, Eugenio, anche qui, si ricordava di don Luigi, lì in parrocchia: se lo ha voluto il Signore, sorrideva lui, beh, il Signore non manda certo guai; manda solo benedizioni. Ma Sara piangeva ancora, e piangeva come la madre. Piangeva a casa, e piangeva a telefono. E lui lo sapeva che quando una mamma piange le lacrime spesso sono sincere. Ma non c’era da preoccuparsi, non c’era ragione di chiedersi se sì oppure no, semplicemente perché pensando al no non avrebbe capito perché. Tesoro, perché? Tesoro, non scendere dalla macchina. Tesoro, ti prego parlami. Tesoro, perché piangi? Tesoro, che senso ha? E lei: dammi qualche giorno, non so cosa fare, ti prego; lasciami pensare. E lui non capiva, non capiva di cosa parlava, non capiva cosa pensava, non sapeva cosa cambiava, come funzionava. Che significa un po’ di tempo? Che significa che devi pensarci tu a una cosa tua che è però anche mia. Che significa che hai studiato la legge? Che significa, ti prego, amore. Dimmi qualcosa. Dimmi dell’altro. Che significa non lo voglio. Che significa non sono d’accordo. Che significa un figlio non si fa solo in due. Che significa decido io. Che significa che la legge è dalla parte mia. La legge. Non sapeva neppure che ci fosse una legge, Eugenio. E allora cominciò a leggere, cominciò a cercare, la trovò su Internet, scoprì il testo, e poi trovò anche qualche dato. Ventisette anni lui, diciannove e quasi venti lei: diciannove, che a Napoli, negli ultimi sei anni, significa qualcosa che la legge racconta ma un po’ rischia di nascondere. Napoli, e la Campania. Lo scoprirà qualche mese dopo, Eugenio.
Scoprirà che negli ultimi anni, dal millenovecentottandue al duemilasei, mentre in tutt’Italia quelle che oggi chiamano Igv, erano diminuite del 44 per cento – dai quasi duecentotrentacinquemila casi del 1982 ai centotrentamila di ventiquattro anni dopo – e mentre succedeva questo, c’era una regione con i dati e con i conti che ancora oggi non tornano: una regione con il cinquantacinque per cento di pillole del giorno dopo vendute ai ragazzi sotto i venticinque anni, una regione con uno dei più alti numeri di interruzione di gravidanza nei primi tre mesi (3.411 in Campania, 36.864 in tutt’Italia), e una regione che insieme ad altre due (Basilicata e Valle D’Aosta) mentre tutte le altre in Italia ne fanno un po’ di meno, lei invece ne fa sempre un po’ di più. E se oggi Eugenio guardasse le tabelle, per quanto riguarda le donne straniere, scoprirebbe che in Campania, di Igv, ce n’è un sei per cento in più. Sei per cento, dal duemilacinque al duemilasei. Che significa, si chiede Eugenio? Che significa quell’articolo. Che significa che la legge è dalla tua parte? Che significa la scelta è mia.
Eugenio chiama un amico, che nella vita fa l’avvocato. Lo chiama, lo cerca e glielo chiede. Me la faresti leggere? Centonovantaquattro. La trova, arriva allo studio, cerca le carte, trova la legge, trova il comma e capisce tutto; capisce che quando la donna decide di farlo, allora si rivolge al medico, il medico le fa gli accertamenti, le fa tutte le domande e dopo di che valuta. Valuta se farlo oppure no; valuta “le circostanze che la determinano a chiedere l’interruzione della gravidanza”. Lo valuta con la donna, il dottore; e, ove la donna lo “consenta”, con il padre. “Ove la donna lo consenta”. E se io voglio e lei no? Come si fa? E se la donna non consenta? Eugenio piangeva, e lei non chiamava. Cinque, sei, sette giorni, e il telefono non squillava, mentre le sue nuove colleghe, le amiche della facoltà, le cantavano lo stesso ritornello. Sempre, tutta la settimana. Tu sei pazza, tu sei giovane, tu ti devi divertire, tu avrai altre occasioni, non ci pensare proprio, non ti preoccupare, non sei né carne, né pesce, e ascolta chi ti ama, ascolta chi ti conosce, ascoltami. Ascolta tua madre. Starai un po’ male, poi però riprenderai in mano la tua vita. Ti voglio bene, non è difficile. Chiudi gli occhi, conta fino a dieci e vedrai che poi passa tutto, che tutto si risolve.
Sette giorni dopo squilla il telefono. Eugenio, dobbiamo vederci, vienimi a prendere, ti devo dire una cosa. Era quasi il terzo mese, era il tredici maggio e lei aveva deciso. Salirono sul Belvedere del quartiere Bagnoli, a Napoli, a pochi metri dalla parrocchia di San Giuseppe Confessore, e a pochi metri dal mercato ittico dove lavorava il padre di lei; che non sapeva nulla e che non doveva sapere nulla. Chiusero tutti e due il finestrino e si fermarono lì.
Lei aveva gli occhiali neri, con le lenti a goccia grandi, come quelle delle attrici, che nei film piangono per finta, nascondendo gli occhi dietro la montatura cieca; e lei, Sara. Aveva i jeans stretti stretti, una maglietta nera, aderente e molto attillata. Troppo, troppo attillati però quei jeans. Per piacere, Sara, sbottonali un po’, non è prudente, è troppo stretto. E lei, senza togliersi mai gli occhiali, lei lo fissò, e disse no. Non mi sento, non lo cresco, non lo voglio, non lo meriti, mi hai lasciato sola, non mi hai accompagnato, non hai voluto sapere, non hai voluto capire, mi dispiace, ma lui non c’è più.
Mamma non voleva. E lo disse tutto d’un fiato, senza nominarlo mai, senza dire cos’era successo, senza dire quando, dove, come; e senza dire perché non lo aveva lasciato parlare, perché non lo aveva lasciato dire, perché non lo aveva lasciato telefonare. Senza aver capito cosa significava, quando gli dicevano se la ami accompagnala, se la ami non puoi lasciarla, se la ami non puoi pensare a te; senza aver capito perché, senza aver capito perché un figlio non c’era più; senza aver capito perché la mamma non capiva, perché il papà non sapeva, perché la nonna lo chiamava scuorno. Che guaio. Che scuorno, che vergogna. Che ho fatto. E senza aver avuto il tempo di dire signora, lui non si chiama guaio, si chiama Riccardino.
Claudio Cerasa