mercoledì 31 ottobre 2007

Il Foglio. "Il Pd in redazione/2"

“Chiama Walter, chiama”. L’Unità non ha paura degli editori di Libero ma si sente dimenticata da W

Roma. Più che gli Angelucci, all’Unità il vero problema si chiama Walter Veltroni. Perché dopo il partito senza tessere, senza muri, senza sezioni e ora – forse – pure senza congressi, il Partito democraticamente veltroniano rischia di rimanere senza quel giornale che in poco più di due mesi ha dedicato tre speciali da otto pagine al Pd, che ha pubblicato uno a uno gli elenchi di tutte le migliaia di candidati alle primarie democrat, che ha distribuito 41 mila sue copie nei gazebo dello scorso 14 ottobre e che oggi l’unico collegamento “ufficiale” che si ritrova con il Pd, con il loft e quindi con la W è l’essere “diventati veicolo di distribuzione in Italia della rivista ufficiale del Pd”. Un po’ pochino, in effetti. Ed è per questo che a via Francesco Benaglia si ricorda che se il “partito senza tessere e senza giornale lo volevano pure ‘virtuale’, noi ci accontentavamo anche di un messaggino di ringraziamento su YouTube”; si ricorda che Walter se “è diventato il Veltroni democratico di oggi, quello che conosciamo e che abbiamo votato quasi tutti qui, ecco: Walter deve ricordare che il suo percorso di formazione lo deve principalmente agli anni passati qui all’Unità. Non se lo sarà già dimenticato, no?”. Ecco, che fine farà l’Unità? Cosa scriverà Antonio Padellaro, a dicembre, nella gerenza stampata sulla penultima pagina del suo quotidiano dove oggi si legge che “l’Unità è il giornale dei Democratici di Sinistra DS?”. La verità è che non c’è nessuna rivolta all’Unità, come ci spiega il corrispondente a Bruxelles, Sergio Sergi. Non c’è alcuna paura degli Angelucci, non c’è alcuna paura né “degli imprenditori”, né tantomeno del “capitalismo”, e in fondo chi lavora in cronaca romana sa benissimo come sia lo stesso gabinetto del sindaco di Roma a sgridare spesso al telefono la numero uno delle cronache romane Iolanda Bufalini con una battuta semplice: “Ma lo sai sì, che voi a volte siete peggio di Libero?”.

Titoletto
“Nessuno demonizza il mercato”, scriveva ieri il Cdr dell’Unità, “ma i redattori si chiedono come sia possibile che non siano ancora stati messi in atto tutti gli strumenti necessari per mantenere il radicamento della testata (…) nella vita democratica del paese”. E per questo il cdr dell’Unità ha chiesto ora un “incontro urgente con Walter Veltroni, con l’onorevole Piero Fassino e con il senatore Ugo Sposetti”. E non è un problema di tessera, non è un problema di militanza, e non è dunque un problema di Angelucci (“Che non sono i Murdoch, ma che in fondo gli investimenti li azzeccano sempre”); è che nella sede trasteverina del quotidiano dei Ds, dove c’è qualcuno che non sopporta più che l’Unità venga paragonata al “giornaletto di partito della Margherita” (“non siamo Europa, siamo un altra cosa, siamo un giornale vero, e Stefano Menichini dovrebbe rassegnarsi a riconoscerlo”, dice un volto importante del quotidiano), ecco, qui, sarebbero anche disposti a sostituire con un verde “nuova stagione” il rosso Antonio Gramsci, ma la paura vera, il vero dubbio è che Veltroni non abbia alcuna voglia né di parlare di giornale né di parlare di Unità. Né con i redattori né con gli Angelucci. Punto. La vera paura è che Veltroni non abbia alcuna voglia di portarsi un giornale tutto suo nel loft democratico. “Si capisce, si capisce dai suoi discorsi. Veltroni sembra sia attratto più dalla rete o dal satellite che dalla vecchia editoria. Io credo sia un errore, perché l’Unità, almeno questo era quello che ci aspettavamo, si sarebbe potuta trasformare in uno straordinario laboratorio del Piddì, anche in queste primarie. E invece nulla, neanche una telefonata. Perché?”, dice Fabio Luppino, capo del politico dell’Unità, elettore di Enrico Letta alle primarie democrat. E lo dice, Luppino, poco prima che una sua collega, “molto, molto incazzata”, riassuma l’così l’umore rosso Gramsci: “Walter, per favore. Mica nel loft del Piddì ti vorrai accontentare di avere solo Repubblica, no?”.
Claudio Cerasa
31/10/07

Il Foglio. "Il Pd in redazione/1"

Gli Angelucci vogliono l’Unità non per andare contro Veltroni ma per sedersi al tavolo con lui

Roma. Loro chiedono “capitali freschi”, “investimenti”, “garanzie”, “autonomia”, “identità” e magari anche un po’ di “sviluppo”; loro chiedono di essere ascoltati, chiedono di essere ricevuti e chiedono – soprattutto oggi – di non essere più così incredibilmente ignorati. Chiedono questo i giornalisti dell’Unità, chiede questo il cdr del giornale diretto da Antonio Padellaro nel comunicato pubblicato proprio ieri dal quotidiano dei Ds. Un comunicato che arriva nello stesso giorno in cui il Sole 24 Ore, con un articolo informato a firma di Orazio Carabini, ipotizza che un asse composto da Cesare Geronzi, da Massimo D’Alema, da Guido Rossi e dalla famiglia Angelucci sarebbe già pronto a lanciare l’assalto decisivo per l’acquisto del giornale dei Ds; approfittando magari della “freddezza” mostrata da Walter Veltroni nei confronti di quel quotidiano diventato oggi terreno di confronto delle attenzioni economico-finanziarie che ruotano attorno al nuovo Partito democratico; e quindi allo stesso Walter Veltroni.
Dopo le voci arrivate quest’estate su un possibile interessamento della famiglia Moratti al quotidiano dei Ds, ipotesi poi smentita dallo stesso Moratti, secondo quanto riportato ieri dal Sole, la famiglia Angelucci – oggi editrice dei quotidiani Libero e il Riformista, nonché padrona dell’impero sanitario Tosinvest –, sarebbe a un passo dall’accordo con Marialina Marcucci, presidente del consiglio di amministrazione della società che controlla il giornale, la Nuova Iniziativa Editoriale. Come? Con l’appoggio di Geronzi (oggi numero uno di Mediobanca, ieri numero uno di Capitalia, del cui patto di sindacato facevano parte gli Angelucci), con quello dell’“interlocutore preferito” dello stesso Geronzi, “Massimo D’Alema”, e “sotto la regia di Guido Rossi”. Il momento in effetti sembra essere molto delicato, visto che la stessa Marcucci – che proprio quest’estate aveva già chiesto al segretario diessino Piero Fassino e al tesoriere Ugo Sposetti una mano nell’irrobustire il nuovo assetto azionario del giornale – avrebbe firmato lo scorso 24 ottobre un preliminare di acquisto sul quotidiano da circa 17 milioni di euro con gli Angelucci. Un accordo arrivato giusto poche settimane dopo l’ultimo aumento di capitale da due milioni di euro deliberato dall’assemblea dei soci del quotidiano romano.

La vera preoccupazione
Se dunque è vero che il futuro dell’Unità verrà deciso nelle prossime settimane, e se è vero che le due pedine più attive negli ultimi mesi sono state le famiglie romane dei Toti e degli Angelucci, secondo una fonte autorevole del Foglio è da escludere che gli Angelucci si stiano muovendo in chiave anti Walter Veltroni. L’operazione potrebbe invece essere un po’ diversa, ed è anche per questo che al numero 25 di Francesco Benagli, sede dell’Unità diventata oggi per stessa ammissione dei suoi cronisti “molto veltroniana” – siano sostanzialmente inesistenti i giornalisti in “rivolta” contro gli Angelucci, come scritto invece ieri da Monica Guerzoni sul Corriere della Sera (gli Angelucci sono stati azionisti dell’Unità dal 1998 al 2000 con una quota del 20 per cento e nello staff veltroniano non sono considerati assolutamente “antiveltroniani”, come raccontano al Foglio). Certo, un asse tra Geronzi e D’Alema non è da escludere, ma la famiglia Angelucci sembra si stia giocando le carte in un’altra chiave: cioè entrare a far parte del pacchetto di controllo dell’Unità e avere così un posto a quel tavolo attorno al quale, prima o poi, il sindaco di Roma sarà costretto a parlare del futuro del giornale dei Ds.
Quindi il problema degli Angelucci, così come quello degli altri poteri forti un po’ trascurati da Veltroni, è quello di imporlo, il dialogo a W. Non sarebbe neppure una novità questa, visto che – come ha scritto l’Espresso poche settimane fa – gli stessi Angelucci, chiedendo aiuto all’ex vicedirettore del Riformista, Paolo Soldini, già membro dello staff di W, avevano cercato di fissare un appuntamento con Veltroni, ma con scarsi risultati. Solo che il vero problema, come lasciato intuire ieri dal cdr dell’Unità, è che Veltroni non sembra avere molta voglia né di ricevere gli Angelucci né tantomeno di parlare con i giornalisti dell’Unità del futuro di quel giornale diretto da W appena 15 anni fa.
Claudio Cerasa
31/10/07

sabato 27 ottobre 2007

Ho Visto l'Uomo Nero sul Giornale dell'Umbria

Il Foglio. "L’altra doppiavvù di w"

Il Foglio. "L’altra doppiavvù di w"

Si chiama Walter Verini, è il suo consigliere politico ed è lui che controlla la squadra invisibile di Veltroni. Oggi, a Milano, il suo esordio nel Pd

C’era anche lui quella mattina quando Walter Veltroni uscì dall’appartamento di via Velletri, scese le scale, saltò su in macchina, sfogliò le prime pagine, guardò l’orologio, arrivò in Campidoglio, salì una rampa, ne salì due, poi tre, poi quattro, chiuse la porta, aprì la sua agenda, accese il computer, posò il telecomando, compose due numeri e quindi li chiamò; chiamò il senatore Goffredo Bettini, e chiamò, subito dopo, Walter Verini: il suo consigliere, il suo portavoce, l’uomo che ha guidato Walter Veltroni nelle sue prime campagne elettorali nazionali in Umbria, che ha accompagnato W negli anni a Palazzo Chigi (da ministro per i Beni culturali, da vicepremier del primo governo Prodi), che lo ha scortato in Campidoglio nel 2001 e nel 2006 e che, in quasi trent’anni di convivenza, si è trasformato nell’altra metà, nella metà perfetta della Doppiavvù veltroniana. Li chiamò, Walter; e poi li guardò: “E’ giusto che io dia il mio contributo”, disse Veltroni. Era il 19 giugno 2007, il comitato dei 45 del Pd si era riunito la sera prima, aveva deciso di raddoppiare i membri dell’assemblea costituente (da 1.400 a 2.400, oggi però sono quasi 2.800) e fu lì, quel giorno, – con Verini e Bettini – che Walter Veltroni decise di candidarsi a quello che oggi diventerà ufficialmente il Piddì; quel partito che oggi alle 10.30 nascerà a Milano con la prima riunione dell’assemblea costituente dove Walter Veltroni non troverà Bettini (impegnato a Roma, con la Festa del cinema) ma dove troverà il suo primo uomo di fiducia: l’unico in grado di accompagnarlo dall’ufficio di Palazzo Chigi fino all’open space del loft del Piddì; proprio lui, Walter Verini. L’uomo con cui Veltroni ha costruito la sua campagna elettorale e con cui W costruirà, da oggi in poi, il suo futuro nel Piddì.
Walter Verini e Walter Veltroni si sono incontrati per la prima volta nell’aprile 1978, al terzo piano di un bellissimo palazzo perugino, in Piazza Dante (nello stesso edificio dove un tempo, seduta ai tavoli del Bar Turreno, si riuniva l’intellighenzia umbra e comunista), dove Verini si era appena insediato da direttore della prima televisione del Pci in Umbria – si chiamava Umbria tv – e dove Walter Veltroni, per due anni, ogni lunedì mattina dalle 11 alle 13 arrivava in sala, si sedeva, guardava la telecamera, cominciava a parlare di politica, salutava i compagni (che all’epoca diligentemente lo chiamavano “Budda”), e poi, per pochi minuti, si fermava a parlare con quel ragazzo con il suo stesso nome, quasi con lo stesso cognome, con la sua stessa età (52 anni Veltroni, 51 anni Verini), con la sua stessa passione (cioè, il giornalismo), la sua stessa militanza (quindi il Pci, il Pds, i Ds e ora il Pd) e le sue stesse esperienze lavorative: prima in Fgci, poi all’Unità, poi a Palazzo Chigi, quindi a Botteghe Oscure e infine in Campidoglio. Sempre così, un po’ in silenzio, un po’ nascosto, chiuso nella sua stanza di quaranta metri quadrati, con finestra su Piazza del Campidoglio, a due corridoi di distanza dal computer di Walter Veltroni: a cui nel corso degli anni Walter Verini, con quegli occhiali un po’ alla Woody Allen e un po’ alla Bill Gates, ha cominciato a somigliare sempre di più, anche fisicamente. E’ stato proprio l’altro W, Walter Verini, a costruire per il sindaco di Roma quella lunga campagna elettorale fiutata prima al PalaMandela di Firenze (quando i Ds si sciolsero e Verini pianse come Piero Fassino) e progettata, poi, poche settimane dopo, un po’ più su, un po’ più a nord, al Lingotto di Torino: dove la discesa in campo di Walter Veltroni fu organizzata e orchestrata proprio da quel Verini che Veltroni vide per la prima volta nel palazzo di Umbria Tv, e che Veltroni poi decise di richiamare, qualche anno più tardi.
Era il 1994, W aveva appena deciso di candidarsi in Umbria, una sera salì sul palco, avvicinò il microfono alla bocca, lo afferrò con due mani e davanti a tutti disse così: “Avessimo noi un riformista come te”. E poi lo guardò. E poi squillò il telefono, quattro anni dopo: era un aprile, erano le 20.30, Verini si avvicinò alla cornetta, sentì la voce di Walter e lo ascoltò: “Vedi, Walter – disse Veltroni – stiamo pensando di organizzare un giro per l’Italia, in pullman; sai, per l’Ulivo; per le elezioni. Ecco, mi piacerebbe che ci fossi anche tu. Ti andrebbe?”. Rispose: “Quando si comincia?”. “Si comincia domani”. Era il 1996, Veltroni poi vincerà le elezioni con l’Ulivo, salirà a Palazzo Chigi, ci resterà per due anni, porterà con sé Marco Causi – il consigliere economico più ascoltato da Veltroni, attuale assessore al Bilancio del Comune di Roma, marito della potente Monique Veaute (neoamministratore delegato di Palazzo Grassi a Venezia), piuttosto famoso in Campidoglio per le sue vacanze cambogiane e considerato un po’ come il Tremonti comunista di W – si porterà con sé Claudio Novelli – il ghost writer politico di Veltroni, innamorato di Flaiano, di Calvino, di Foa e di Rodari, autore del primo intervento in consiglio comunale di W, nonché grande esperto di Martin Luther King e gran consigliere anche per la Nuova Stagione del Lingotto – e si porterà con sé, quell’anno, anche Walter Verini: portavoce ieri a Palazzo Chigi, portavoce e capo di gabinetto oggi in Campidoglio e portavoce domani chissà dove.
Solo che a differenza di Walter Veltroni, che non è “mai stato comunista”, Walter Verini comunista (“comunista italiano”, dicono di lui) lo è stato eccome: lo è stato da giovane, lo è stato in Umbria, lo è stato in tv, lo è stato nei giornali, lo è stato in squadra con Veltroni e lo è naturalmente anche oggi. E lo si è visto quando Walter Verini – che all’epoca Francesco Merlo, sul Corriere della Sera, chiamò un po’ Veltroni e un po’ Verini, in sintesi Veltrini – dopo un’esperienza da consigliere comunale a Città di Castello (a 19 anni), dopo i tre anni passati da assessore alla toponomastica nella stessa città umbra, dopo l’esperienza a Paese Sera (in redazione con Lamberto Sposini e con l’attuale corrispondente di Repubblica in Umbria, Alvaro Fiorucci), dopo essere stato nominato coordinatore della regione Umbria del Pci e dopo essere stato anche il vice di Giuliano Pajetta a Botteghe Oscure, decise di candidarsi come sindaco di Città di Castello. Era l’aprile del 1997, l’altra metà della W si presentò nella sua Città, si schierò contro il dalemiano Adolfo Orsini (Verini non è considerato esattamente un dalemiano), fece imbufalire Romano Prodi, sperimentò un nuovo conio formato da Ppi, Rifondazione, Verdi e Cristiano sociali, prese una botta niente male (29 per cento) e creò una rumorosa spaccatura anche all’interno di Botteghe Oscure; e non a caso, in quei giorni, sul Corriere della Sera, Paolo Franchi firmò un editoriale in prima pagina titolato così: “Il futuro dell’Ulivo passa da Città di Castello”; dunque, anche da Walter Verini.
Fu quella l’ultima esperienza politica del consigliere numero uno in Campidoglio, prima del recentissimo successo delle primarie, dove Verini, insieme con Causi, è stato l’unico degli uomini ombra di Walter Veltroni a candidarsi – e a vincere – nel suo collegio di Gubbio, proprio in Umbria. Ma c’è dell’altro. Perché Walter Verini è naturalmente l’uomo che offre più consigli a W, è certamente anche l’anello di congiunzione tra il mondo di Veltroni e il mondo del tartufo (al berlusconiano patto della crostata, Verini ha risposto – come tecniche di concertazione – con il patto del tubero: tanto che – pochi giorni dopo la sua elezione a Gubbio – Verini ha festeggiato al settimo piano di un albergo romano, in zona Esquilino, con un equilibrato pranzo a base di gnocchi al tartufo, tartine al tartufo, supplì con formaggio e tartufo, filetto di manzo con tartufo e tramezzini con melanzane e tartufo, seduto al tavolo con moltissimi ospiti, con il sindaco di Città di Castello Fernanda Cecchini – anche lei nell’assemblea del Pd – e dove mancava solo la sua concittadina Monica Bellucci, reduce in quelle ore dal notevole flop della prima del suo non indimenticabile film presentato a Roma). Ma Verini è anche l’uomo con cui Walter Veltroni ha ideato parte di quella politica della toponomastica grazie alla quale W ha sedotto comunisti, fascisti, laziali, romanisti, calciatori, cestisti e scrittori. Come? Dedicando nella Capitale strade un po’ a tutti, un giorno a economisti come Marco Biagi e un altro giorno – tra poche settimane, prima di Natale, e questa è una notizia – a giornalisti come Oriana Fallaci; anche se ai tempi di Città di Castello Verini si superò e diede spettacolo in Comune inventandosi una piazza dedicata a Che Guevara e un’altra a Salvador Allende.
Non basta. Perché Verini è anche l’uomo che più degli altri ha lentamente costruito attorno a Veltroni una solida rete di lavoro che ha messo insieme il sindaco di Roma e i più importanti sindaci d’Italia (Verini, tra l’altro, conosce molto bene Sergio Cofferati); è l’uomo che politici, banchieri, sindacalisti, coordinatori, tassinari, imprenditori e naturalmente assessori, devono prima chiamare e poi consultare per aver accesso alle stanze di W (vale per Luigi Abete, valeva per Alessandro Profumo, valeva per Matteo Arpe); è l’uomo che ha messo lo zampino nella fortunata lista veltroniana con la parolina “sinistra” ed è sempre anche grazie a lui che Walter Veltroni è riuscito a consolidare il suo ormai evidente asse con il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani (“Veltroni è il miglior candidato a guidare il Partito democratico”, dirà lo stesso Epifani poco prima delle primarie). Perché Verini, tra gli uomini di W, è quello che meglio di tutti conosce i sindacati, e li conosce da tempo, li conosce dalla sua prima intervista a Luciano Lama per Paese Sera (1978, ad Amelia), li ha continuati a studiare negli anni in cui da coordinatore regionale del Pci in Umbria ha conosciuto Sergio Cofferati; e lo capisci, questo, quando tu vai in libreria e quando ti accorgi che tra le 2.754 pagine che compongono l’impressionante mole di letteratura democrat, tra “La Scoperta dell’Alba”, “Che cos’è la politica”, “La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi”, “Il disco del mondo. Vita breve di Luca Flores, musicista” (con o senza dvd), “Il sogno spezzato. Le idee di Robert Kennedy”, “La rivincita di Roma Ladrona”, “Berlinguer. La sua stagione”, “Il piccolo principe”, “Walter ego”, “L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo” (di Barack Obama, e con introduzione di Walter Veltroni), se guardi bene trovi anche un libro che sulla copertina ha l’altra doppiavvù: quella di Walter Verini stampata su carta patinata rossa, sotto il titolo “Sinistra con vista, conversazione con Luciano Lama” (l’ex numero uno della Cgil), ristampato lo scorso giugno, con prefazione di Walter Veltroni e postfazione di chi? Naturalmente di Guglielmo Epifani.
Ed è vero, in Campidoglio sono davvero tanti quelli che sentono il nome di Verini, ti sorridono, ti guardano e iniziano a parlare piano piano; e ti dicono che Verini sta a Veltroni come Henry Paulson stava a Richard Nixon; e ti dicono – probabilmente ossessionati dal Robert Redford di “Tutti gli uomini del presidente” – che Paulson, oltre a essere stato il segretario particolare di Nixon alla Casa Bianca, era anche quello che si vantava di avere scritto su un foglio affisso sul muro del suo ufficio: “Quando li tieni per le palle, il cuore e la mente ti seguiranno”. Ma è altrettanto vero, però, che è stato proprio Walter Verini a tessere la lunga tela democratica attorno a Veltroni; e lo ha fatto soprattutto quest’estate, quando W era ancora alle Maldive e quando Verini fu decisivo nello scrivere, nel valutare e nello scegliere i nomi di quelli che sarebbero poi diventati i coordinatori regionali del Partito democratico. E va detto: non furono giorni facili quelli; tutt’altro. Perché erano i giorni in cui Veltroni era immerso tra gli atolli tropicali, erano i giorni in cui il sindaco di Roma non riusciva più a trovare sui giornali le sue toccanti citazioni quotidiane di Ghandi, di Kennedy o magari di Martin Luther King (ma si rifarà, Veltroni: tanto che nel suo unico colloquio con Repubblica – il 5 ottobre – W riuscirà a parlare di Luther King in un’intervista solo sul welfare), erano i giorni in cui – senza sindaco e senza vicesindaco – pur di farsi immortalare con la fascia tricolore di W al collo, gli assessori romani più intraprendenti venivano notati mentre si arrampicavano, la domenica mattina, su, su fino al colle del Gianicolo, per farsi fotografare accanto ai granatieri, e accanto al bum del cannone di mezzogiorno, giusto per poter essere protagonisti di quello che era ormai diventato una specie di concorso a premi, ribattezzato da alcuni smarriti e terrorizzati assessori romani: “Vuoi essere anche tu sindaco per una settimana?”.
Ecco, diciamo che Verini al Gianicolo non ci andrebbe mai; diciamo che Verini non pubblicherebbe mai un editoriale sulla Stampa, non scriverebbe mai un saggio su Veltroni, non scriverebbe mai un libro né sui compagni di scuola del Pci, né sui compagni di classe dei Ds, e preferirebbe stare lì, un po’ in mezzo ma non troppo; un po’ come Oriali e un po’ come Facchetti, l’ex presidente dell’Inter di cui Verini – già numero 10 del Città di Castello (nella vecchia quarta categoria) – era molto amico. (Una volta l’anno, la sera prima che l’Inter giocasse a Perugia, i due cenavano in Umbria, a Torgiano: al ristorante le Tre Vaselle).
Ecco, diciamo che la regola, nello staff di Veltroni e di Verini – decisamente poco dalemiano e decisamente poco poco poco prodiano – è questa; e l’altra metà della doppiavvù di Walter la ripete dal primo giorno in cui le due W arrivarono in Campidoglio: “Essere presenti ma non essere invadenti”.
Lo staff, dunque. Perché proprio a destra e a sinistra di Walter Verini, oltre ai già citati Marco Causi e Claudio Novelli, si trova un solido gruppo di alter ego veltroniani, in Campidoglio ma non solo lì: si trova il triumvirato dell’ufficio stampa formato da Roberto Benini, Ilaria Capitani e Luigi Coldagelli; si trova il vicecapo di gabinetto di W, Luca Odevaine, già segretario della sezione di Piazza Verdi – ai tempi della Fgci – negli stessi anni in cui Veltroni era appena stato eletto nella sezione di Piazza Verbano (sempre a Roma); e si trova l’altro capo di gabinetto: Maurizio Meschino, ex consigliere di stato, già funzionario della Camera dei deputati, gran lettore di Giancarlo De Cataldo, amante del cavillo giuridico più che della Festa del cinema (impressionante – si nota in Campidoglio – come la leadership della Festa del cinema sia sovrapponibile con quella del Piddì), e così apprezzato che lo stesso Veltroni ha aperto per lui un varco nel muro dell’ufficio, proprio per collegare la sua stanza con quella di Meschino; che ora è l’unica con vista su W.
Poi però gli disse di no, Verini. Gli disse di no a metà dell’anno 2000; quando Veltroni arrivò a Botteghe Oscure, accese il computer, sbirciò i giornali, chiamò Verini, lo guardò e gli disse così: “Walter, mi candido a sindaco di Roma”. E Verini gli parlò dei sondaggi, gli ricordò dei voti, gli disse che pochi mesi prima, alle elezioni Regionali, a Roma Piero Badaloni aveva preso ben otto punti da Francesco Storace e allora lo guardò e gli disse di no. No, Walter; non candidarti. Solo che Veltroni si candidò ugualmente, vinse nel 2001, vinse nel 2006, arrivò in Campidoglio, posò il telecomando, compose due numeri, chiamò Bettini, chiamò Verini e arrivò al Lingotto dopo aver scritto la sua Nuova Stagione una sera in via Velletri, a casa sua (il 24 giugno), insieme con il consigliere Marco Causi, insieme con lo scrittore Claudio Novelli e insieme con l’altra metà della doppiavvù: oggi portavoce del sindaco e oggi membro dell’assemblea costituente del Piddì; che certo, non vorrebbe apparire troppo, non vorrebbe vedere le sue foto sui giornali, vorrebbe soltanto continuare a essere un po’ ombra, un po’ politico, un po’ Facchetti, un po’ Oriali, ma che se Veltroni glielo chiedesse, se solo Veltroni lo volesse come portavoce, ora nel Piddì e domani chissà, Verini lo guarderebbe e gli direbbe così, gli direbbe semplicemente di sì.
Claudio Cerasa
27/10/07

venerdì 26 ottobre 2007

Il Foglio. "A Rignano cinque famiglie vogliono sequestrare il libro su Rignano. Risposta"

Accuse di morbosita’ e di informazioni precise e circostanziate

Sono stato invitato dal tribunale civile di Roma a presentarmi in aula il prossimo sette novembre per essere ascoltato su quanto scritto nel mio libro – “Ho visto l’uomo nero. L’inchiesta sulla pedofilia a Rignano Flaminio, tra dubbi, sospetti e caccia alle streghe” – dopo che le cinque famiglie che per prime hanno denunciato i presunti abusi di Rignano hanno ufficialmente richiesto, “in via d’urgenza”, il sequestro delle mie centosettanta pagine, presentandomi pure una bella denuncia.
I motivi sono questi: riconoscibilità di alcune delle vittime dei presunti abusi e di alcuni dei genitori coinvolti nei fatti di Rignano e “divulgazione di atti relativi al procedimento penale in corso”. Dunque, non so esattamente come funzioni, ma le venti pagine che mi sono arrivate martedì mattina a casa, firmate da alcuni legali delle famiglie di Rignano, accusano me e il mio libro di aver fornito “informazioni precise e circostanziate” e così dettagliate da permettere “una immediata identificazione delle vittime degli abusi e dei loro genitori”, con tutte le conseguenze “in termini di morbosità, pressioni psicologiche, rischi di ulteriori molestie ed atti intimidatori che da ciò possono discendere”. Morbosità, scrivono gli avvocati, aggiungendo che “la vendita e l’ulteriore diffusione non potranno che aggravare la situazione indotta”, e che la mia idea era di “voler sfruttare, ai fini della vendita del volume, la morbosità dei lettori”.
Certo, genitori e legali si sono dimenticati ancora una volta di utilizzare la parolina “presunti” che andrebbe ripescata, accanto alla parola abusi, anche quando si scrive un ricorso, visto che le indagini sono ancora in corso. Peccato però che il punto sia un altro. Nel mio libro, così come negli articoli scritti sul Foglio, credo di aver sempre raccontato in modo sereno il caso di Rignano e credo di aver sempre riportato, senza voler offendere la dignità morale di nessuno, tutte le posizioni in campo (quella degli indagati, quella degli avvocati, quella degli psicologi e quella dei genitori, compresi quelli da me intervistati); limitandomi a riportare i fatti, le parole e gli atti (pubblici) del procedimento per raccontare nei dettagli una complicatissima vicenda giudiziaria, facendo molta attenzione a non riportare i nomi dei bambini (né sul libro, né negli articoli apparsi su questo giornale) e spiegando, in modo credo preciso, come è nato il caso di Rignano Flaminio, come sono nate le contraddizioni di un’inchiesta e come sei persone indagate – che fino a prova contraria sono innocenti, giusto? – sono finite in galera con accuse sì mostruose ma in base a indizi definiti “insufficienti” e “contraddittori”; anche perché i genitori (compresi quelli che hanno appena presentato ricorso) avrebbero ricostruito i fatti di Rignano con “domande suggestive”, e con “denunce, se non sospette, sicuramente particolari”, come raccontato nel mio libro e come successivamente ribadito dalla Corte di cassazione lo scorso dieci ottobre (i virgolettati sono della Corte, non miei).
E se proprio avessi voluto sfruttare la “morbosità dei lettori”, sarebbe stato più semplice per me non riportare le sole iniziali dei nomi di alcuni dei bambini (cosa fatta nel libro); sarebbe stato molto più comodo seguire l’esemplare intervista di un famoso avvocato che difende le famiglie di Rignano e che, il trenta luglio, in un colloquio con la Stampa ha svelato il nome di una bambina vittima dei presunti abusi a Rignano. E lo ha fatto pronunciando il nome per esteso, non con una lettera seguita da un puntino.
Claudio Cerasa
26/10/07

venerdì 19 ottobre 2007

Ho Visto l'Uomo Nero su "Il Giornale"

Così il cronista dubbioso si affida a Voltaire

La vicenda di presunta pedofilia all’asilo Olga Rovere di Rignano Flaminio dopo la sentenza della Cassazione è giunta a un punto fermo. L’iter giudiziario è svolto, ma sul piano pratico quanto e cosa di questa complicata storia rimarrà irrisolto, non è dato saperlo. Eppure, a futura memoria, qualche lezione bisognerà trarne. Di una certa utilità, in tal senso, è il libro di Claudio Cerasa Ho visto l’uomo nero (Castelvecchi), il quale ha ricostruito con la perizia del consumato cronista, tutto il caso da lui seguito fin dai primi giorni delle indagini, indicandone le complessità istruttorie e i tanti paradossi mediatici. Nel corso dell’inchiesta di Cerasa incontriamo in presa diretta gli avvocati, i genitori, le maestre e i giornalisti, setacciamo i primi riscontri indiziari, le testimonianze, le perizie, gli interrogatori. Pagina dopo pagina il cronista mette un po’ d’ordine nella ridda dei comitati di difesa, degli assistenti sociali, degli psicologi da talk show che hanno affollato questo caso mediatico-giudiziario senza emettere sentenze di alcun genere, ma senz’altro mettendo in guardia il lettore dall’orrore che una moderna caccia alle streghe può generare. Cerasa pare abbia come unico compagno di avventura il rigore che la professione di cronista impone, così come uno solo sembra il suo riferimento morale: mille sono le verità uno l’errore. E con una scrittura tersa, attenta a valorizzare il particolare per agganciare i fatti in un ambito di oggettività, da cronista l’errore primigenio lo mostra, è la sparizione dal lessico comune della parola presunto. Quella dimenticanza per mesi ha trasformato gli indagati in orchi ripugnanti, separando in distanze siderali la realtà popolare da quella giudiziaria. In effetti, leggendo di seguito i titoli dei quotidiani riservati alle cronache di quei giorni c’è di che far tremare i polsi. C’è da ridere invece, almeno un po’, degli atteggiamenti e delle prese di posizione degli amministratori locali e di alcuni politici sempre un po’ ondivaghi, dei risvolti psicologici tracciati sulla stampa e in televisione da certi disinvolti psichiatri, o dagli abbagli presi da alcune grandi firme del giornalismo nel descrivere con enfasi e dovizia di particolari un luogo per un altro! E qui il garbo di Cerasa è nel non calcare la mano. Dell’ironia la fa, ma su se stesso, raccontando le illusioni e i tic del cronista alla ricerca di fantomatici scoop. Ciò che alla fine dell’inchiesta rimane più chiaro all’orizzonte è il clima complessivo che l’ha accompagnata. Una storia dolente in cui un dramma privato diventa delirio collettivo. «Attenzione - ammoniva Voltaire - le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle».

mercoledì 17 ottobre 2007

Il Foglio. "La squadra di W alza la Voce"

Perché il fondatore di Rep. critica il capo della Fondazione De Benedetti

Roma. Nella sempre più fitta rete economica costruita dal leader del Partito democratico, Walter Veltroni, c’è un robusto gruppo di economisti italiani che nel corso degli ultimi mesi ha aumentato il proprio peso specifico nel sistema veltronomico. Sono gli economisti che orbitano intorno alla Voce.info. Sono presenti nel dibattito democrat con proposte di legge, con editoriali sui più importanti giornali (sulla Stampa scrive Tito Boeri, Repubblica pubblica interventi del duo Boeri-Garibaldi, sul Corriere scrive il più blasonato dei redattori della Voce, Francesco Giavazzi). Dialogano direttamente in modo sempre più fitto con Veltroni sui temi della politica economica. Lavoce.info era un think tank, è diventato una lobby liberista progressista la cui indiscutibile sovraesposizione mediatica (e antiprodiana) irrita gli esclusi e ha finito per mettere di malumore pure il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari; il quale, domenica scorsa, ha chiesto loro come mai non abbiano “tempestato di critiche quotidiane il governo Berlusconi come stanno facendo da un anno e mezzo col governo Prodi”. Ha attaccato questi “economisti indipendenti” che negli anni del Cav., spiega Scalfari, “non avevano certo i calzoni corti”. Ma l’attacco del Fondatore di Rep. rischia di aver creato un succoso caso diplomatico. Perché tra i firmatari della lettera di risposta dei vocianti a Scalfari (“Silenti con Berlusconi? Mai”), pubblicata lunedì su Repubblica, il primo nome a comparire sulla lista è quello di Tito Boeri: animatore della Voce.info, ideatore del festival dell’economia di Trento (era lui sul palco quando il pubblico contestò Prodi), autore con Tiziano Treu della proposta di contratto di lavoro unico fatta propria da W (proposta che ha scatenato la gelosia del ministro Cesare Damiano, il quale sospetta che Boeri voglia prendergli il posto), ma soprattutto uomo scelto da Carlo De Benedetti, presidente del gruppo Espresso e aspirante alla prima tessera del Pd veltroniano, per guidare la fondazione che prende il nome del padre: Rodolfo De Benedetti. Che la cosa sia sfuggita al Fondatore? “Difficile non lo sapesse”, dice al Foglio Tito Boeri, con un sorriso.
Tra questi economisti c’è una varietà di ruoli. Francesco Giavazzi è l’uomo che sceglie la parte di chi vuole influenzare il dibattito culturale: è l’ideatore della provocazione di maggior successo di questi mesi, “il liberismo è di sinistra”. Altri vorrebbero essere loro stessi a rafforzare la loro influenza culturale anche con ruoli operativi all’interno del Pd. E se Boeri già partecipa a quella robusta squadra dei consiglieri economici (insieme con Marco Causi, Enrico Morando e Nicola Rossi) con cui il sindaco di Roma sta provando a costruire la sua rupture democratica – e con cui prodiani e scalfariani non vanno d’accordo – ci sono altri nomi sui quali W ha puntato lo sguardo. Per esempio la vociante Daniela Del Boca (invitata un mese fa da Veltroni a un dibattito sul patto generazionale) e, soprattutto, Pietro Garibaldi: l’uomo con cui Boeri firma i contributi pubblicati da Repubblica, già consigliere economico dell’ex ministro dell’Economia Domenico Siniscalco e – curiosamente – componente del consiglio di sorveglianza della prodiana Intesa Sanpaolo (in quota torinese).
Claudio Cerasa
17/10/07

martedì 16 ottobre 2007

Il Foglio "La gara tra Corriere e Rep. per intestarsi un eventuale governo di W"

Roma. E’ l’ultima pagina di una gara, combattuta finora a colpi di fioretto, tra i direttori dei giornali più diffusi d’Italia, Ezio Mauro e Paolo Mieli; una gara che parte dagli anni trascorsi insieme alla direzione della Stampa, che riprende fiato nel 2005 attorno a un tavolo seduti accanto a Giuliano Amato (si parlava, a Roma, di futuro e di Partito democratico) e che si è riaccesa ieri mattina, sulla prima pagina del quotidiano di Largo Fochetti; con il direttore di Repubblica, Mauro, che, dopo una lunga e ovvia riflessione nei giorni precedenti sull’opportunità o no di commentare quello che poteva essere un possibile flop da primarie democratiche, ha seguito le votazioni del Pd, ha letto gli exit poll sui candidati, ha acceso il suo computer e in quattro cartelle ha messo in tasca a Repubblica la tessera numero uno, oltre che del Partito democratico, anche del Partito della crisi; posizionando così il suo quotidiano ai primi blocchi di partenza nella gara a chi tra i due sarà, da qui alle prossime elezioni, il quotidiano più a favore dello strappo, dopo la delusione di Romano Prodi. E lo ha fatto, Mauro, scegliendo parole nette, naturalmente non casuali e nascondendo dietro a quella che potrebbe essere letta come una sorta di sfiducia preventiva all’attuale esecutivo (bisogna cambiare ancora, spiega Mauro, “a costo di strappare, come sarà inevitabile”), un attacco indirizzato proprio alle scrivanie terziste di via Solferino, sede milanese del Corriere. Scrive Mauro: “E’ per il paese che questa riserva di fiducia e di partecipazione può contare. (…) Perché separa la protesta di questi mesi dalla sua frettolosa definizione: non era antipolitica, infatti, ma richiesta di una politica ‘altra’, radicalmente diversa. In questo modo, la ribellione può prendere la strada (la spinta) dell’impegno a cambiare, separandosi (…) soprattutto dai sospiri impazienti di chi da fuori pesava già le macerie politico-istituzionali, sperando in una nuova supplenza imprenditorial-terzista-professorale capace di forzare con alleanze da rotocalco la Costituzione, il bipolarismo e i partiti”. Imprenditorial, terzista, professorale: dice proprio così Mauro. Ed è un attacco, questo, che arriva in un momento decisamente non come tutti gli altri. Perché Repubblica, a differenza del Corriere, non ha problemi né a rivendicare la sua appartenenza culturale al Pd di cui Carlo De Benedetti (presidente del gruppo Espresso) ha richiesto la tessera numero uno né naturalmente a schierarsi anche in maniera molto dura contro le scelte di Prodi, bilanciate ormai solo la domenica dal fondatore Eugenio Scalfari, che per motivi “deontologici” domenica ha preferito non votare. (Ieri, tra l’altro, la lettera del presidente del Consiglio, “Vi spiego i ritocchi al patto del welfare”, era sulla prima pagina di Rep. ma nascosta in basso a sinistra quasi dimenticata e con un invisibile segue a pagina 12). Dall’altro lato, invece, per il direttore del Corriere è più difficile trovare un equilibrio, nonostante le sue parole chiarissime a Capri, tra la vocazione da Partito della crisi di via Solferino e alcune istanze più prodiane presenti anche nella compagine societaria dello stesso Corriere. “Fate subito e non rinviate. Se non vi muovete vi conviene portarci alle urne al più presto”, aveva detto, accompagnato da un lungo applauso, lo stesso Mieli ospite al convegno dei giovani della Confindustria, pochi giorni fa, a Capri, aggiungendo, come per voler dare maggiore peso alle sue parole, che “parla una persona che per questo governo ha speso una parola, nel suo piccolo, decisiva”. Da quel giorno, comunque, passando da una dura presa di posizione dal presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo (“Attenzione ai facili entusiasmi, a dire andiamo a votare domani”) e da un rapporto considerato da alcuni osservatori (come Rinaldo Gianola, sull’Unità) non troppo idilliaco tra Mieli e Giovanni Bazoli (presidente di Intesa Sanpaolo, azionista Rcs e sostenitore prodiano), il Corriere rischia di lasciare spazi di manovra al giornale e al direttore concorrente in quella gara che ha in fondo un obiettivo semplice semplice: chi darà per primo uno scossone per portare a Palazzo Chigi il nuovo leader del Pd? Sarà il Corriere eurocentrista che con i suoi editorialisti – oltre a cercare con una certa continuità una sintesi politica alla propria inchiesta anticasta – non si è mai risparmiato negli elogi a potenziali tecnici protagonisti come Mario Draghi (con lui “quasi niente sarà più come prima”, ha scritto il vicedirettore Dario Di Vico) o sarà, piuttosto, quel giornale che ieri ha dato un deciso strappo sul governo Prodi, e che è arrivato all’attacco post primarie dopo una serie di editoriali, tutti firmati dal suo direttore (“La sinistra nella crisi della politica”, “Sì alla miccia del referendum”, “Antipolitica per chi suona la campana?”) i cui titoli, da soli, danno idea del clima battagliero del quotidiano (dove ormai la solitudine del fondatore Scalfari sembra essere sempre più simile a quella di Romano Prodi nel “suo” Partito democratico). Un giornale che avendo cominciato da tempo a mettere la gonna corta corta al suo Partito della crisi, e al suo Pd, gradirebbe ora essere il primo a ballarci insieme. O magari l’unico, se possibile. Poi però tocca vedere, a Largo Fochetti, che la megaintervista prima del voto Veltroni la dà al Corriere. Rep. si sta già attrezzando per rispondere, colpo su colpo, magari con Prodi.
“Noi non auspichiamo affatto la crisi del governo di Prodi. Noi – spiega al Foglio il vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini – siamo semplicemente convinti che nel caso in cui l’attuale esecutivo dovesse trovarsi in una situazione oggettiva di crisi tra una soluzione di governo tecnico-istituzionale e una soluzione politica, in ipotesi estrema una staffetta tra Prodi e Veltroni, la seconda sarebbe preferibile. Ciò non toglie che, per certi versi, questa staffetta sarebbe meglio non ritrovarsela affatto e sarebbe dunque preferibile che Prodi continuasse il suo lavoro a Palazzo Chigi; ma attenzione, questo non deve accadere a qualunque costo: perché rimanere in piedi significa governare, non sopravvivere”.
Claudio Cerasa
16/10/07

mercoledì 10 ottobre 2007

Ho visto l'uomo nero sul "Piccolo"

Sulle tracce dell’uomo nero
Un libro di Cerasa sul caso di pedofilia a Rignano Flaminio

Rignano Flaminio non lo conosceva nessuno. Eppure, da un giorno all’altro, quel paese di ottomila abitanti, che sta a 39 chilometri da Roma, s’è trasformato in un teatro degli orrori. Perchè, il 24 aprile di quest’anno, sono finiti in galera tre maestre e una bidella della scuola materna «Olga Rovere», un ex addetto a un distributore di benzina e un autore di programmi televisivi. Con accuse terribili: pedofilia, condita da sospetti riti satanici. Su questa storia l’Italia intera si è divisa. Chi crede nell’innocenza degli arrestati ha organizzato addirittura delle manifestazioni di piazza per gridarlo ai quattro venti. Molti altri, tra cui i genitori dei bambini che avrebbero subito violenza, non hanno smesso di puntare l’indice contro i sospettati. Come finirà? Difficile dirlo. Ma, intanto, Claudio Cerasa, il giornalista che ha seguito il caso come inviato del quotidiano «Il Foglio», ha provato a raccontare i fatti e i retroscena, le dicerie e i sospetti, di quella che, tra qualche tempo, potrebbe rivelarsi una gigantesca caccia alle streghe, oppure uno dei più spaventosi casi di violenza nei confronti dei bambini. Il libro si intitola «Ho visto l’uomo nero» ed è pubblicato da Castelvecchi (pagg. 173, euro 14). Cerasa non ha scritto questo libro per emettere giudizi. E nemmeno per accusare o per discolpare. Piuttosto, ha provato a rimettere assieme tutti i tasselli del puzzle investigativo: dal video in cui i genitori filmano i propri figli e provano a dimostrare i terribili sospetti nei confronti degli accusati, agli interrogatori, alle perizie degli esperti, agli interventi degli psicologi che hanno tentato di fare luce su un caso davvero difficile. Su cui non è stata ancora scritta la parola fine.

Il Foglio "La corte svela la suggestione dell’orco"

Rignano Flaminio, i presunti abusi e le parole della Cassazione: “domande suggestive”, “tenace pressione dei genitori”, “suggerimento nelle risposte” e “denunce, se non sospette, sicuramente particolari”

Roma. Dicono qualcosa di nuovo, dicono qualcosa di più le diciassette pagine di motivazioni depositate ieri pomeriggio dai giudici della Corte di cassazione di Roma sul caso degli abusi – sempre più presunti e sempre meno accertati – di Rignano Flaminio rispetto alla già dura sentenza dello scorso maggio, quando il tribunale del riesame di Tivoli decise, dopo sedici giorni di detenzione, di rimettere in libertà Gianfranco Scancarello, Patrizia Del Meglio, Marisa Pucci, Silvana Magalotti, Kelum Weramuni De Silva e Cristina Lucerti, i sei indagati accusati di violenza sessuale, sottrazione di minore, sequestro di persona e atti osceni in luogo pubblico nella scuola materna Olga Rovere, a trentanove chilometri da Roma. Era il 10 maggio del 2007 e il tribunale del riesame, parlando di “indizi insufficienti” e “contraddittori”, diede un duro colpo allo stomaco dell’inchiesta condotta dal pm Marco Mansi e provò, così, a rimettere in discussione l’intera indagine. A cinque mesi da quella sentenza, e a quattro mesi dal ricorso del pubblico ministero di Tivoli contro la scarcerazione, la Cassazione ha prima rigettato la richiesta di Mansi, lo scorso 18 settembre (“il ricorso è inammissibile”), e ha poi aggiunto, ieri, nelle motivazioni della sentenza alcune considerazioni per certi versi clamorose: “Allo stato delle investigazioni è consentito rilevare che, se vi sono state violenze sessuali, esse sono state perpetrate con modalità differenti da quelle riferite nelle denunce”; e poi: “La possibilità che gli adulti abbiano influito con domande suggestive sulla spontaneità del racconto dei bambini ha avuto conferma in almeno due casi nei quali i giudici del tribunale hanno rilevato atteggiamenti prevaricatori evidenziando una forte tenace pressione dei genitori sui minori e di una forte opera di induzione e di suggerimento nelle risposte”. Proprio quest’ultimo è un passaggio molto significativo, probabilmente chiave, contenuto all’interno delle parole della Corte: perché se da un lato i legali dei genitori sono infuriati (“La sentenza – secondo Carlo Taormina – può essere definita senz’altro sconcertante e non compatibile con il ruolo che spetta nel nostro sistema alla Cassazione”) e se dall’altro gli avvocati della difesa sembrano piuttosto soddisfatti (“Mi pare che – dice Franco Coppi – emergano notevoli perplessità sulle dichiarazioni delle parti offese e la loro corrispondenza al contesto”), la Cassazione ha scelto, però, di puntare la sua lente di ingrandimento su due elementi chiave: i video girati dai genitori con i bambini (durante i quali, a un certo punto, un papà esclama: “Non parla più, porco zio”) e quegli incontri della sera dell’8 luglio, a seguito dei quali, alcune mamme e alcuni papà di Rignano Flaminio “confrontandosi a vicenda e scambiandosi informazioni, anche alla presenza dei figli” (ricorda la Cassazione) decisero di denunciare i presunti abusi nella scuola materna; con “denunce” – aggiunge ancora la corte – “se non sospette, sicuramente particolari”. Ma c’è di più. Perché a oggi, a quindici mesi dall’inizio delle indagini, le uniche prove considerate schiaccianti da parte dell’accusa sono le parole riferite dai bambini durante gli incidenti probatori, mentre – come spiega al Foglio l’avvocato Giosuè Naso (legale della maestra Silvana Magalotti) –, non solo la grande carenza di prove è testimoniata dal fatto che non sono stati trovati né video né foto né testimoni, ma forse il punto è proprio un altro. “La Cassazione afferma che quei ‘sintomi aspecifici dei piccoli’, che avrebbero dovuto far pensare a un presunto abuso, sono da ricondursi a un’epoca successiva alla presentazione delle denunce e alla chiusura dell’anno scolastico 2005/2006. Significa che i problemi dei bambini potrebbero essere collegati al comportamento non equilibrato, seppur in buona fede, assunto dai genitori nel corso delle indagini. Dunque, ora qualcuno ci spieghi come si fa a non richiedere un’archiviazione in un caso del genere e come si fa a mandare in galera qualcuno senza avere uno straccio di prova”.
Claudio Cerasa
10/10/07

giovedì 4 ottobre 2007

Il Foglio. "Pannella senatore"

Ecco che fine ha fatto la contesa sugli eletti (radicali e no) mai nominati. Si decide entro ottobre

Roma. Eravamo rimasti alla relazione dello scorso febbraio del senatore Roberto Manzione, eravamo passati per i 40 giorni di sciopero della fame di Daniele Capezzone ed eravamo quindi arrivati allo scorso 28 settembre quando, esattamente a 15 mesi dall’insediamento del Parlamento, il comitato dei Radicali italiani si era riunito a Roma, aveva richiesto un incontro di urgenza con Giorgio Napolitano e si era fatto una domanda semplice semplice: scusate, che fine hanno fatto i senatori “eletti ma non nominati?”. Che fine hanno fatto i seggi al Senato della Rosa nel pugno? Che fine hanno fatto le relazioni intrappolate nei cassetti di quella Giunta delle elezioni del Senato che non è ancora riuscita a dare una parola definitiva sui senatori estromessi da Palazzo Madama? Quella giunta impegnata negli ultimi mesi anche sulla questione delle immunità parlamentari (e quindi delle intercettazioni Unipol) e quella giunta che però ora, entro pochi giorni, potrebbe finalmente dare una risposta finale al caso.
L’ultimo capitolo del giallo sui seggi contestati era stato appuntato otto mesi fa, in concomitanza con la richiesta del riconteggio delle schede elettorali del Piemonte e con la richiesta dell’applicazione di un articolo (il 17) del decreto legislativo 533/93: quello che, come ricordato da alcuni esponenti radicali, porterebbe alla “decadenza del senatore Turigliatto” e all’ingresso a Palazzo Madama di Ugo Intini (primo dei non eletti nelle liste del Senato in Piemonte); che se dovesse rifiutare l’eventuale nomina, passerebbe però il testimone a uno tra Marco Pannella e Rita Bernardini. Ed era la stessa Bernardini, segretario di Radicali italiani, a spiegare qualche mese fa quale fosse il punto cruciale della questione: “Se una coalizione non prende il premio di maggioranza perché con le sue forze supera il 55 per cento dei seggi, non è previsto quello sbarramento del 3 per cento che, invece, è stato erroneamente applicato ai danni delle liste di Rnp, Idv, Udc, Nuovo Psi e Verdi-Comunisti”. Era il 26 settembre del 2006, e un anno dopo, la situazione è esattamente la stessa; se non peggio, dato il precario equilibrio del Senato: ieri c’è stato per un voto, ma domani chissà.
Ed è, questa, una situazione per certi versi anche paradossale, visto che – neanche a farlo apposta – non solo non sembrano esserci dubbi sulla legittimità del ricorso al Senato (secondo il giurista Giuliano Vassalli, “l’Ufficio elettorale regionale ha violato con la sua interpretazione le regole supreme dell’ordinamento italiano”), ma tra i seggi in bilico ci sarebbero anche quelli “ribelli”: Turigliatto (ex Prc) e Zanda (vicepresidente vicario dell’Ulivo al Senato, estromesso dalle primarie del Pd e protagonista di un duro scontro con Manzione, convinto che Zanda abbia “un profilo di incompatibilità”). Ecco, la questione, come ribadito con un sorrisso da Pannella al Foglio, è che, tra l’altro, applicando la legge e rispettando il diritto, è chiaro che in fondo la sinistra ci guadagnerebbe pure. Ora però si arriva a una fase decisiva: entro la fine del mese la giunta voterà sulle singole relazioni presentate. Se la giunta le approverà, le relazioni andranno al Senato. Se le rigetterà, i partiti interessati faranno ricorso alla Corte costituzionale. “Stiamo preparando una serie di iniziative per i prossimi giorni – dice al Foglio Rita Bernardini – ma a oggi credo ci sia un solo aggettivo per riassumere il modo in cui è stato trattato il caso di questi seggi al Senato: semplicemente scandaloso”.
Claudio Cerasa
4/10/07

Il Foglio. "Dal Pd al dvd"

Il perfetto elettore democrat deve spendere 320 euro per 2.754 pagine Ma i filmati sono a richiesta

Roma. Per semplificare la comprensione delle idee democraticamente indispensabili per le primarie del 14 ottobre, oltre agli appassionanti romanzi epistolari a puntate, con Veltroni che scrive a Repubblica (11 luglio, 5, 24, 30 agosto e 29 settembre), con Letta che risponde sull’Unità, con Bindi che si incazza su Europa e con Adinolfi che risponde con un post, per non perdere neppure una parola dell’imperdibile battaglia delle idee democratiche, ci vogliono esattamente 320 euro per le 2.754 pagine che compongono l’impressionante mole di letteratura democrat; una letteratura composta – ad oggi – dal libro del candidato Letta, dal libro del candidato Adinolfi, dagli 8 libri con W veltroniana stampata su copertina e dagli 11 manuali che, negli ultimi mesi, hanno impreziosito la scoperta del vero significato, non solo dell’alba, ma anche di quel Pd che, se ancora non si vede, lo si legge e lo si trova sugli scaffali anche più di un Camilleri o magari di un Moccia. Ed è, dunque, un incredibile elenco a bassissimo gradiente ormonale che il lettore democratico riconosce in successi sicuri che passano per “la Generazione U” (di Mario Adinolfi), “In questo momento sta nascendo un bambino” (di Enrico Letta), “La fabbrica del programma. Dieci anni di Ulivo verso il partito democratico” (di Giulio Santagata), toccano “Il Partito democratico. Alle origini di un’idea politica”, sfiorano “Quale via per il partito democratico?” e si bloccano sull’emozionante “Domani è un altro giorno. Il racconto di cinque anni di battaglie in Senato. Il progetto dell’Unione. Il Partito democratico”, scritto dal senatore Willer Bordon, che non ha avuto neppure il tempo di trovarlo in libreria che subito si è ritrovato a dire “che non entrerà mai nel Partito democratico”.

Una lunga lista dalla A alla W
Lista che però trova una sua storia a parte nel pantheon letterario che il sindaco di Roma ha copiosamente costruito negli anni (ma soprattutto negli ultimi mesi); una travolgente escalation editoriale piuttosto efficace nell’andare ad anestetizzare qualsiasi tentativo di isolare una singola idea forte del grande candidato del Pd; una lista composta da classici come “La Scoperta dell’Alba”, “Che cos’è la politica” (con dvd), “La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi”, “Il disco del mondo. Vita breve di Luca Flores, musicista” (con o senza dvd), “Il sogno spezzato. Le idee di Robert Kennedy”, “La rivincita di Roma Ladrona” (su Walter Veltroni, di Stefano Marroni), “L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo” (di Barack Obama, ma con introduzione di Walter Veltroni), “Berlinguer. La sua stagione” (con dvd, ma solo a richiesta); volumi che – capita soprattutto nelle librerie romane della Feltrinelli – sono spesso maliziosamente affiancati, oltre che dai libri di Salvati e Macaluso, da un significativo pamphlet di Giulio Marcon: “Come entrare in politica senza entrare in nessun partito”. Ed è un elenco indubbiamente interessante, magari non seducente, un elenco che forse potrà anche essere arricchito da saggi veltroniani sul “basket, metafora della nuova stagione” scritti a quattro mani con Michael Jordan, con introduzioni di Jury Chechi e con progetti grafici di Fuksas; ma è, questo, un elenco per certi versi anche un po’ preoccupante per l’elettore democratico: che – pur trovandosi nella posizione privilegiata di chi può leggere e studiare quasi 3.000 pagine dedicate a un partito che non si vede ma si legge altroché, ed essendo poi abituato a una letteratura politica che fino a qualche tempo fa si limitava nella travagliesca demolizione preventiva del nemico – ecco, ora il lettore democrat si perde in questo prosperoso pantheon letterario (inclusivo più che esclusivo); non riesce più ad associare una singola idea a un singolo candidato; e finisce, l’elettore – ma anche il Pd – per sentirsi sempre più simile al “Penso positivo” di Jovanotti (con un Pd “che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa, passando per Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano”); e finisce che pantheon e Pd siano sempre più simili alle parole scritte da W in “Io e Berlusconi (e la Rai)”, dove W in uno dei passaggi più piccanti spiega, seriamente, che la tv “è facile guardarla, ma difficile vederla”; era il 1990, si scriveva di Rai, ma sembra proprio sentir parlare, più che di tivvù, proprio di Piddì.
Claudio Cerasa
5/10/07