domenica 30 settembre 2007

Il Foglio. "Stasi a Garlasco"

Il gip non convalida il fermo di Alberto. La mamma di Chiara dice: “Ora cercate l’assassino”. Senza arma e senza movente serve una confessione (o un testimone). E le indagini si fanno anche con la pressione mediatica

Garlasco. Era il 22 agosto del 2007 quando
per la prima volta dall’inizio delle indagini il
pm Rosa Muscio – il magistrato che da poco
più di un mese ha in mano le indagini sul
giallo di Garlasco – ha guardato Alberto Stasi,
si è avvicinata al ragazzo e dopo nove ore
di interrogatorio si è fermata, lo ha fissato e
all’improvviso gli ha detto: “Sei stato tu a uccidere
Chiara?”; con Alberto che per l’ottavo
giorno consecutivo le continuava a ripetere
la stessa parola. La stessa parola sussurrata
durante le 39 ore di interrogatorio e la stessa
parola sussurrata poche ore prima che il giudice
per le indagini preliminari, Giulia Pravon,
decidesse ieri di non convalidare il fermo
di Alberto; sempre la stessa parola: “No”.
Alberto Stasi ieri è così tornato nella sua
casa di via Carducci, nella stessa villetta dove
38 giorni fa gli investigatori avevano sequestrato
tre automobili, una pinza da camino
e una delle due biciclette sui cui pedali i
Ris avrebbero trovato le macchie di sangue
di Chiara; macchie che, secondo il procuratore
Alfonso Lauro, sarebbero state “le prove
che lo accusano” (Corriere della Sera, 27 settembre);
quelle macchie di sangue che nel giro
di due giorni sono diventate “micromacchie”
e che ora, secondo gli avvocati di Alberto,
addirittura non sarebbero neppure
delle vere e proprie macchie di sangue; ed è
per questo che ieri il procuratore capo e il
pm hanno visto il proprio dubbio materializzarsi
su carta intestata della procura di Vigevano;
un dubbio controfirmato dallo stesso
gip: “Insufficienza degli elementi probatori
presentati dall’accusa”. Dunque, senza prove,
senza perizie e soprattutto senza confessioni
l’arresto di Stasi non poteva proprio essere
convalidato. Ma nonostante quelle accuse titolate
a tutta pagina (a volte anche a doppia
pagina e sempre accompagnate dai glaciali
occhi di Alberto), nonostante tutti quei titoli
diventati un elemento di pressione parallelo
alle difficili indagini del pm di Garlasco
(“Nuovo indizio contro Alberto”, Corriere
della Sera, 23 settembre; “Tre indizi contro
Alberto. Anche il pigiama rosa”, Corriere della
Sera, 22 agosto; “Il mistero del fazzoletto e
delle scarpe del fidanzato”, Repubblica, 1°
settembre), prove schiaccianti ancora non se
ne vedono; ed è per questo che tra titoli, foto,
indagini e reportage, la soluzione, o più che
altro la speranza, è sempre la stessa; e cioè
che qualcuno parli. E’ andata così con gli interrogatori
delle due cugine di Chiara Poggi
(uccisa il 13 agosto nella sua villa di Garlasco),
ed è andata così anche con lo stesso Stasi;
che però, freddo, risponde sempre allo
stesso modo: “No”. Dunque, ora, si ricomincia
tutto da capo. E, un po’ come successo a
Cogne, l’impressione è che senza arma e senza
movente, la freddezza dell’indagato, la sua
sicurezza, i suoi occhi glaciali e la sua non
confessione siano visti sempre più come tracce
evidenti (ma non utilizzabili) della colpevolezza
presunta dell’indagato: perché se non
c’è un movente deve esserci, come nel caso di
Stasi, “l’aggravante della crudeltà”; e perché
se nessuno parla il problema non è che non
ci sono prove: è che nessuno è disposto a parlare,
semplice. E’ che “nella nostra cultura
manca una certa coesione sociale”, non i testimoni,
come ammesso dallo stesso Lauro. E
avranno pensato proprio così, pm e procuratore,
anche con Alberto: interrogato come testimone
il 14 agosto (18 ore), come informato
sui fatti il 17 agosto (8 ore), come indagato il
22 agosto (quasi nove ore) e come fermato il
24 settembre (4 ore). Perché a Garlasco, è vero,
ci sono molti giornalisti, molti fotografi e
molte televisioni che a volte sembrano essere
anche più incisive pure degli stessi magistrati
(“Tra le altre rivelazioni di Porta a Porta”,
scrive la Provincia Pavese come se il salotto
di Vespa fosse diventato l’ufficio di un
gip); solo che a Garlasco non c’è una confessione,
non c’è un movente, non c’è un’arma e
non c’è nessuno pronto a ricordare – specie
se Alberto dovesse essere innocente – che eccesso
di giustizia significa malagiustiza. Perché
a Garlasco, se non fosse per quelle piccole
macchie di sangue, le accuse più consistenti
per Alberto (unico indagato per il delitto
di Chiara) più che sulle ordinanze i genitori
di Chiara e di Alberto le hanno lette finora
soprattutto sui giornali. “E ora cercate
l’assassino”, è stato il commento della mamma
di Chiara dopo la liberazione di Stasi.
Claudio Cerasa
29/09/07

venerdì 28 settembre 2007

Il Foglio. "Le 2.227 liste per eleggere segretario e stato maggiore del Pd"

Inizia sabato la campagna elettorale per le primarie. Niente preferenze, la lotta tra i 1.181 raggruppamenti che appoggiano W

Roma. Dopo aver attraversato una fase di riconosciuta creatività artistica-elettorale tra vaporetti, aliscafi, battelli e motobarche galleggianti e con la non proprio emozionante politica “on the boats” (quella sul Po con Franceschini, Prodi e Fassino e quella di Rutelli in Costiera Amalfitana), nella guerriglia elettorale del Partito democratico ci sarà una campagna nella campagna che potrebbe essere anche un po’ più eccitante della scontata acclamazione veltroniana del prossimo 14 ottobre, giorno delle primarie democrats. Una campagna che tra cantanti, attori, nuotatori e architetti, comincerà sabato alle 10, al centro congresso Frentani, a Roma, e sempre alle 10, al numero 231 della romana via di Ripetta (con Veltroni, Bettini, Fassino, Follini, Gasbarra e Morricone) dove i primi candidati delle 1.181 liste veltroniane (su un totale di 2.227, 471 per la Bindi e 476 per Letta) cominceranno a elaborare le proprie strategie per appendersi a tutti gli spigoli a forma di “W” della futura leadership democratica; una campagna un po’ particolare, dove tutti, comunque sia, andranno a contrastare la prima delle tre liste di Veltroni, quella che verrà lanciata ufficialmente sabato a via di Ripetta (la numero tre, a sinistra per Veltroni, verrà presentata a via Frentani, mentre la numero due, la ecodem, sarà schierata entro mercoledì prossimo).
E sarà una battaglia con regole rigide, forse un po’ noiose, dove sarà possibile farsi pubblicità solo senza comprare spazi sui giornali, dove sarà possibile volantinare ma contenendo le spese (i limiti sono 250 mila euro per la candidatura a segretario nazionale, 50 mila per il segretario regionale e 5.000 per l’assemblea costituente); e dove, questa volta, dopo la “riuscitissima” campagna elettorale sulla “serietà”, si è scelto di puntare su un’altra efficace parola chiave: “sobrietà”. Ma sarà comunque una campagna elettorale nuova e per certi versi rivoluzionaria per gli elettori di centrosinistra: con i candidati che si vorranno molto bene, magari parleranno anche di Birmania, ma dove, per poter essere ammessi nell’universo costituente veltroniano, dovranno stare attenti a non sembrare troppo poco severi con la prima lista di W; dato che per essere eletti dovranno conquistare più di quel previsto 12 per cento delle liste di Rosy Bindi. Dunque, non uno scherzo. E’ per questo che sarà comunque una battaglia vera, che tra l’altro verrà combattuta con la strategia elettorale che ha portato in trionfo negli ultimi anni il modello del sindaco d’Italia: quella delle comunali. Quindi ci saranno molti manifesti, tantissimi volantini, parecchi opuscuoli, qualche video su YouTube, tanti dibattiti per strada, qualcuno parlerà nelle scuole, in Veneto verranno inviate nelle case di tutti gli elettori delle lettere democratiche, in Piemonte saranno distribuite cartoline a mo’ di promemoria, in Toscana, Sandro Veronesi, a Prato, sembra stia preparando degli eventi in piazza con la sua lista completamente formata da lavoratori stranieri; ci sarà anche una notevole invasione porta a porta dei candidati e si faranno pure happening nei parchi cittadini (ieri ha cominciato Veltroni nel Villino medievale di Villa Torlonia, con tantissimi sedicenni). Anche se poi gli strateghi meno conosciuti delle liste veltroniane (Andrea Martella e Andrea Orlando per la lista uno, Lucia Urciuoli e Renzo Innocenti per la lista due e Vincenzo Vita per la lista tre) sanno che i manifesti che a breve cominceranno a intavedersi in giro per le città appariranno un po’ anomali; cioè, senza facce, senza nomi, senza cognomi ma con simboli verdi, rossi e probabilmente arancioni che saranno gli unici veri punti di riferimento elettorali delle liste regionali e nazionali (liste, naturalmente, bloccate). E tra attori, sportivi, scrittori e artisti c’è qualcuno che però già brontola; qualcuno che avrebbe preferito le liste un po’ diverse e con i nomi dei candidati più famosi ben in vista sugli opuscolini. Perché per poter contare qualcosa tra i quasi 2.500 rappresentanti della prima riunione dell’assemblea costituente del 27 ottobre (già ribattezzata come “Woodstock democrat”) oltre a essere eletti sarà importante non farsi schiacciare sotto la pressione degli amici ma anche un po’ nemici veltroniani. E senza preferenza questo sarà semplicemente ancora un po’ più difficile.
Claudio Cerasa
28/09/07

mercoledì 26 settembre 2007

Il Foglio. "Elogio del lusso"

La lagna sui privilegi e sui voli di linea è un grande equivoco che va dall’Eliseo a Ceppaloni

E’ un lamento continuo di politici (con promesse alla Romano Prodi: prenderemo i voli di stato soltanto se non ci sono quelli di linea), è un delirio di proteste di blogger, editorialisti, corsivisti, portavoce, capigruppo, capipopolo, conduttori e sindacalisti anticapitalisti; tutti garbatamente terrorizzati da una parola di cinque lettere passata nel giro di pochi noiosissimi mesi dall’essere associata agli slip di una magnifica francesina di nome Laetitia alle eleganti bretelle di un qualsiasi ministro o di un qualsiasi sottosegretario di via del Plebiscito. E allora sì, diciamo basta a tutto; ai politici che vanno in aereo di stato, ai barbieri a metà prezzo, agli alberghi d’oro, alle consulenze d’argento, agli stipendi di platino e ripetiamo ad alta voce: casta, casta, casta, casta. E certo, si dice casta e si immaginano i rubinetti d’oro nelle case di Ceppaloni o gli acquari dei viceministri popolati da consulenti che nuotano assieme ai piranha e ai contribuenti; poi però si dice casta e in realtà si pensa ad altro; si pensa ai privilegi, si pensa all’insopportabile splendore del lusso e si pensa che, in fondo in fondo, anche i ricchi – seppure eletti e non certo sorteggiati – è giusto che ogni tanto piangano, almeno un po’. Ed è terribile che sia così; perché un conto è l’eccesso, un altro conto è il lusso, o magari la ricchezza. Perché il problema non è la “casta”, il problema – se vogliamo – è che la “casta” non ha il coraggio di rivendicare il proprio diritto al privilegio e non riesce a dimostrare che vivere nel lusso – e governare nel lusso, naturalmente – non significa guidare un paese contromano investendo un pedone sulle strisce dopo essere passati con il rosso e con il dito medio fuori dal finestrino. Semplicemente non c’è nulla di male, ed è anche comprensibile; se non si esagera. Perché il lusso è bello, e potrebbe anche essere scandalosamente calzato con scollature sfrontate se solo si riuscisse a giustificarlo, a rivendicarlo e magari, poi, pure a valorizzarlo. E sarebbe senz’altro magnifico poter vedere Prodi parcheggiare di fronte a Palazzo Chigi in Ferrari, o ammirare D’Alema salire sul suo Ikarus con le Crocs tempestate di diamanti o vedere Veltroni filmare autografi sulle sue sceneggiature con una MontBlanc di cristallo; sarebbe bello vedere tutto questo sapendo, però, che in qualsiasi momento, la casta, anche immersa nel caviale, è in grado di farsi amare premendo sempre il bottone giusto e facendo la scelta (politica) sempre più appropriata. E’ per questo che Sarkozy può permettersi di trascorrere magnifici weekend nelle ville più scandalose del mondo, con gli imprenditori più abbronzati dell’Atlantico, con le donne più belle del suo regno, e poi – con gran classe – governare sull’Eliseo in Ray Ban, sicuro che la sua autorevolezza non diminuirebbe neppure se iniziasse a firmare riforme sugli Champs-Élysées in vestaglia di seta nera. Perché il lusso è bello, ma bisogna saperlo indossare. Ed è un po’ difficile dire no grazie, che schifo il lusso; semmai, a proposito di lusso (“luxus” in latino significa proprio “eccesso”) e a proposito di casta, l’odio nazionalpopolare avrebbe più senso se invece di lanciare freccette avvelenate sulle foto di un Mastella che scende da un aereo di stato sgomitando con ministri e consiglieri (a Monza, mica a Malindi, mica a Las Vegas), forse avrebbe più senso ascoltare il filosofo francese Thierry Paquot; lui che nel suo “Éloge du luxe” (pubblicato in Italia da Castelvecchi), spiega che il vero lusso non è qualcosa che – in un modo o in un altro – chiunque potrebbe comprare.

Una ricca colazione da Tiffany
Il lusso vero, il lusso verso il quale sarebbe più che comprensibile incazzarsi, è invece quel lusso che abbraccia tre tipi di concetti: il silenzio, il tempo e lo spazio. Ed è per questo che forse sarebbe non giustificabile ma quantomeno comprensibile caricare le freccette populiste per un Veltroni o per un Fini immortalati mentre leggono un libro distesi in un pacifico ranch africano o magari giamaicano a spese del povero contribuente, più che vederli annoiati a bordo di un maledetto aereo. Quello è il lusso, mica questo. Ma se si chiede un voto per mettersi alla guida del paese, il minimo che ci si aspetti e che chi venga eletto sia in grado di utilizzare le marce fino alla sesta e di aprire e chiudere i suoi splendidi sportelloni senza darli in faccia a chi lo ha votato. Altrimenti il pretesto della casta e quello del privilegio diventano un semplice e banale sintomo della delegittimazione pubblica e politica. Perché ci vuole un po’ di classe per indossare il lusso e bisogna farlo sfrontatamente, senza imbarazzi e senza aver paura di svegliarsi la mattina e andare a fare una ricca e preziosa colazione da Tiffany.
Claudio Cerasa
26/07/06

Il Foglio. "Indagine su un cittadino al centro di ogni sospetto"

Garlasco. Sono passati quarantaquattro giorni dalla mattina in cui, in una villetta di Garlasco (in provincia di Pavia), Alberto Stasi – secondo la sua versione – ha scavalcato un muretto, ha superato un cancello, ha attraversato un viale, ha aperto una porta e, entrando nella casa di Chiara Poggi, ha trovato su un gradino al primo piano della villetta il corpo della sua fidanzata; morta, ancora in pigiama e con il cranio fracassato da dieci violentissimi colpi. Alberto Stasi è ora in isolamento nel carcere di Vigevano con l’accusa di omicidio volontario e, come detto dal procuratore capo Alfonso Lauro, visibilmente soddisfatto per la macchia di sangue di Chiara Poggi trovata sul pedale sinistro della bicicletta di Alberto, finalmente in possesso “di una prova, non di un indizio”; una “prova” arrivata dopo delle indagini molto difficili, durante le quali gli investigatori non sono ancora riusciti a trovare né l’arma né il vero movente del delitto.
Quarantaquattro giorni, dunque. Un arco di tempo e una tecnica d’indagine che per certi versi ricordano le prime battute delle tormentate fasi investigative di Cogne; e non solo per una notevole coincidenza temporale (Stasi è finito in cella dopo quarantaquattro giorni dall’inizio delle indagini, come la Franzoni), ma soprattutto per come pm e procuratore capo hanno puntato molte energie sulla confessione dell’unico indagato del caso, confidando – magari – in un improvviso crollo come successo a Omar (il fidanzato di Erica), nel caso di Novi Ligure; e lo hanno fatto interrogando Stasi prima come testimone, come persona informata dei fatti, come indagato, come recluso e tra qualche giorno, chissà, magari anche come arrestato (il pm deve però ancora depositare in procura la richiesta di convalida del fermo e con ogni probabilità il gip non si esprimerà prima di giovedì). Senza però che nessuno sia riuscito davvero a far crollare Stasi; che in realtà, finora, ha sempre ripetuto di non essere lui l’assassino, anche se gli inquirenti di dubbi sembrano averne molti, già dai primi passi delle indagini: possibile, si chiedono, che Alberto sia rimasto in quella casa per sei minuti senza toccare il corpo della ragazza? Possibile che la ragazza abbia aperto a un estraneo? Possibile che sul muro che Alberto dice di aver scavalcato non ci sia alcuna impronta? Possibile che Alberto non si sia accorto che Chiara aveva il volto completamente rigonfio di sangue e non “pallido”, come invece riferito dallo stesso ragazzo? Possibile, secondo i legali di Alberto. Impossibile per il pm Rosa Muscio e per il procuratore, che – in assenza di altre prove – hanno comprensibilmente messo in risalto il commovente (e presunto) trionfo dei Ris: quei poliziotti “della scientifica” che, per colpa di una fortunata fiction televisiva e di una formidabile serie americana sugli equivalenti Ris di Miami (Csi), non possono ormai che essere immaginati bellissimi, a bordo di un motoscafo con Camilleri, Lucarelli e Montalbano e naturalmente infallibili; ma con una percezione che spesso va a scontrarsi con indagini come quella di via Poma, dove non sono stati sufficienti diciassette anni per completare una perizia sulla macchia di sangue nell’ufficio di Simonetta Cesaroni. Ecco, forse questa volta i Ris hanno davvero una prova schiacciante in mano (anche se Stasi dice di non aver preso la bici quella mattina). Ma chissà perché senza testimoni alfa e senza confessioni omega, è diventato così terribilmente difficile riuscire a trovare le grandi e incontestabili prove per incastrare il colpevole di un delitto.
Claudio Cerasa
26/07/06

martedì 25 settembre 2007

Rollingstone "Fratelli molto marziani"

http://www.rollingstonemagazine.it/page.php?ID=473

Arturo disegnava; Roberto, invece, studiava. Arturo progettava; Roberto, intanto, volava. Arturo abbozzava il futuro; Roberto, dentro quel futuro, ci entrava direttamente. Arturo è un architetto, Roberto viaggia nell’infinito, come piace dire a lui. Perché questo fa di lavoro, l’astronauta. E nello spazio ci è andato per davvero, due volte, nel 2002 e nel 2005. E mentre Arturo, dalla sua casa di Bomarzo (Viterbo), ha disegnato un futuro da esporre al museo del Beaubourg di Parigi, tra circa trent’anni Roberto vedrà quello stesso futuro direttamente lassù, a 56 milioni di km dal Centre Pompidou. Perché quando nel 2032 arriverà il primo uomo su Marte e quando il primo uomo su Marte entrerà nell’atmosfera da sette millibar del pianeta rosso, lì troverà un laboratorio da circa 30 metri quadrati, un vascello spaziale con un tavolo, una cucina, tre sedili, tre letti, un bagno, un salotto, di musica, tre letti, uno schermo, tutto in quel piccolo gioiellino che di nome fa Mars CruiserOne, ideato dallo studio Architecture+Vision (architectureandvision. com) di Arturo Vittori e di Andreas Vogler. L’architetto, 35 anni, autore di DesertSeal, un progetto piuttosto famoso che da pochi mesi è entrato a far parte della collezione permanente del Museum of Modern Art di New York, spiega che «disegnare il futuro in uno spazio futuro di un pianeta futuro richiede un impegno creativo notevole. Vuoi fare una sedia, progettare un bagno, ideare una finestra? Ecco, nell’immaginare ambienti in condizioni estreme, dove l’uomo dipende dalla tecnologia per sopravvivere, l’architetto deve rimettere in discussione le sue conoscenze di base e adattarle a condizioni differenti. Perché qui si parla di una missione che arriverà fra trent’anni, di un laboratorio in cui andrà riprodotta la luce del giorno, dove andrà stimolato l’olfatto, l’udito, il tatto, e dove l’astronauta non solo dovrà essere messo nelle condizioni di sopravvivere, ma dovrà pure un po’ goderci a stare lassù, in quella casetta a 57 milioni di chilometri dalla terra». Così, mentre c’è chi (Bill Gates), un giorno sì e un giorno sì riflette se farsi un giretto nello spazio, o chi, come la Eads Astrium, valuta se sia il caso di mettere in vendita 150mila biglietti low cost per una passeggiata sulla Luna, un giorno non tanto lontano ci sarà anche chi, grazie a Vittori, su quel pianeta che ha scatenato Tim Burton, De Palma, Spielberg e Guzzanti potrebbe pure iniziarci semplicemente ad abitare.
Claudio Cerasa
25/08/07

sabato 22 settembre 2007

Panorama. "Chi è il genio di Ryanair "


Sono passati vent’anni dal giorno in cui Michael O’ Leary si affacciò sul mercato con un’idea rivoluzionaria e a bassissimo costo che ha portato la Ryanair, in poco tempo, dalla gestione di un paio di tratte tra Inghilterra e Irlanda alla conquista dei cieli d’Europa. Passando dalle voci su un suo possibile interessamento per Alitalia («Non la vorrei neanche in regalo» spiegherà poi) e arrivando all’impegnativa offerta per gli slot di Malpensa. E lo ha fatto a modo suo, O’Leary; senza giacca, senza cravatta, senza camicie di seta e senza completini gessati, ma con un progetto di successo grazie al quale la low cost nata a Dublino è diventata la compagnia più amata del pianeta (secondo un sondaggio di giugno dell’International air transport association).

E gran parte del merito è proprio di questo irlandese di 46 anni (la cui storia è stata recentemente raccontata da Alan Ruddock nel libro A Life in Full Flight), il primo grande manager europeo ad aver eliminato i viaggi in business class, ad avere fatto aumentare del 10 per cento – negli ultimi mesi – il valore delle azioni della sua società e ad avere aperto i portelloni degli aerei a quei ragazzi che viaggiavano solo sui binari dell’inter-rail. Ma O’Leary, intervistato dal Wall Street Journal dice che in fondo il suo è uno «stupid business», dove «a parte qualche compagnia low cost, nessuno riesce davvero a guadagnare qualcosa». O’Leary sogna di incassare solo con le pubblicità per eliminare i costi dei biglietti e puntare su un nuovo obiettivo: abbassare sempre di più i prezzi dei cieli, e fare davvero concorrenza anche ai binari dei treni.

Claudio Cerasa
22/09/07

"Ho visto l'uomo nero" su Panorama

http://cerazadeallegati.blogspot.com/2007/09/ho-visto-luomo-nero-su-panorama_24.html


È un libro scritto dalla parte degli orchi. Sempre che orchi siano. È il libro che scava intorno all’ipocrita rappresentazione del «presunto» per eccellenza, ossia il pedofilo, quello di Rignano Flaminio, il paese a 39 km da Roma dove di presunti ce ne sono tanti: tre maestre, il marito di una di loro, una bidella della scuola e un benzinaio. È un libro Ho visto l’uomo nero, non una collezione di articoli, un romanzo dove intorno alla notizia criminis Claudio Cerasa, inviato del Foglio, ha raccontato uno speciale posto italiano. È un presepe con un solo parrucchiere (gli altri non sono bravi) Rignano Flaminio, c’è un solo sarto e gli uomini hanno tutti lo stesso taglio di capelli, (ragione per cui chi viene da fuori è subito sgamato). Don Henry, parroco della parrocchia di S. Vincenzo e Anastasia, difende gli indagati. Due delle maestre erano catechiste nella sua parrocchia e don Henry raccomanda di non dar retta alle malelingue e alle falsità. La casa degli orrori sarebbe quella della maestra Patrizia arrestata insieme al marito, Gianfranco Scancarello, autore televisivo di programmi quali Buona domenica su Canale 5 e un programma per ragazzi su Sat 2000. Il 25 aprile 2007 l’Italia intera conosce la storia della scuola materna Olga Rovere, le madri, inizialmente imbarazzate e non desiderose di essere inquadrate durante le prime interviste, nel giro di qualche settimana, saranno più disinvolte davanti alle telecamere. Dopo nove mesi di indagini non sono stati trovati testimoni e prove di quanto sarebbe accaduto. Il consiglio di istituto della scuola vara un regolamento che vieta agli insegnanti baci e carezze ai bambini e gite. Ma anche travestimenti e fiabe. A Rignano Flaminio cade la domanda di acquisto di case e villette. Già nel passato in paese si era parlato di satanismo. Il 18 settembre la Corte costituzionale ha respinto il ricorso del pm di Tivoli dott. Marco Mansi contrario al ritorno in libertà degli indagati. Anche se non c’è nebbia, né la pipa, né alcun boccale di birra, l’Uomo nero sembra scappato da un’indagine del più inquietante Maigret. E la violenza resta tutta. Addosso ai bambini.

Pietrangelo Buttafuoco

Il Foglio. “Scriviamo, nessuno escluso, per vanità”. La parola ai blogger

Roma. Cioè, scrivono anche cose belle.
“Da quando ho aperto il mio blog mi sento
più sicuro, gli altri blogger mi scrivono cosa
non gli piace di me e io, anche se con grande
difficoltà, cerco di esser come loro mi chiedono
di essere”. Cioè, ci credono davvero. “Il
mio blog lo controllo e l’aggiorno continuamente…
non potrei non farlo! Sarebbe come
chiedermi di bloccare il tempo, la vita… impossibile!
Il blog è vivo perché io vivo!”. Scrivono,
e poi si sentono meglio. “Perché a me
scrivere i post mi rilassa! Trovo che i pensieri
che si riescono a mettere giù quando uno
si prende la calma e il tempo libero per farlo
hanno tutto un altro effetto. Scrivere ti libera
completamente del pensiero che ronza
nella testa!!!”. Dicono così alcuni tra i cinquecento
blogger intervistati dal professor
Lavenia dell’Università di Chieti nella ricerca,
anche un po’ inquietante, su “Analisi e
valutazione preliminare dei blog”. E’ un documento
significativo, non molto conosciuto,
ed è utile per capire chi sono i blogger e quali
possono essere i pregi e le degenerazioni
dei fenomeni del post; che aprono un blog
“per dire che ci sono anche io” (35 per cento),
che lo usano nei periodi “difficili” (12 per
cento), che ci scrivono, spesso, in modo impulsivo
(83 per cento) raccontando un po’ di
balle sulle proprie caratteristiche personali
(inteso come un buon 78 per cento che si presenta
come una Jessica e che in realtà non è
altro che un Paolo), che vengono pericolosamente
influenzati, ogni giorno, dai commenti
letti sul blog (27 per cento) e che (13 per
cento) si considerano abusatori di blog o comunque
“soggetti a rischio”.
Dunque, va bene, va benissimo il “diario”,
è piuttosto comprensibile voler “condividere
i propri interessi” e sono verissime un mare
di altre cose. Però, su, andiamoci con calma.
Perché sarà pur vero che la sfera del
blog è noiosa, che è solo tempo rubato allo
shopping, o roba da segaioli falliti e magari
per tromboni incalliti. Ma il discorso sembra
più che altro essere un altro. Perché un conto
è parlare del blogger che scrive; un conto,
invece, è parlare di quello che il blog lo legge,
e magari non lo capisce. Dice Marta De
Cinti, 32 anni, ingegnere elettronico da duecento
contatti al giorno sul suo mae.splinder.
com: “I blogger, nessuno si senta escluso,
scrivono fondamentalmente per vanità. Dentro
di loro, ma spesso anche fuori, sono convinti
di avere qualcosa di interessante da dire
al mondo. Alcune volte è perfino vero.
Molte altre meno. E’ una specie di grande
psicanalisi collettiva. Il fatto è che di per sé
il blog, nel modo in cui viene usato dalla
maggior parte degli utenti, è totalmente inutile.
Ma attenzione; il loro modo di vedere e
di scrivere ha senso solo se visto all’interno
del loro universo. Fuori, invece perde completamente
senso ed efficacia”.
Il punto, in effetti, sembra essere proprio
questo (“E il bello è – dice Paolo Ferrandi,
autore del blog paferrobyday – che un prodotto
così artigianale ribalta tutto il sistema;
non sei tu che ti fai vedere, sono gli altri che
poi ti vengono a cercare”). Perché, occhio,
un conto è parlare con il mattarello alla riunione
di condominio, un conto è farlo in un
posto dove i condomini sono potenzialmente
infiniti e se tu dici una stronzata magari
sono in tanti a crederci e magari, poi, anche
a seguirti. Perché in fondo il blog non è altro
che un web log, cioè un diario on line dove,
teoricamente, si scrive per se stessi più che
per gli altri e dove, però, ad un tratto, capita
che qualcuno inizia a trovarti, a darti strani
appuntamenti, a suggerirti di formare qualche
circolo, e a chiederti quanti accessi fai;
e tu ti emozioni e inizi a scrivere non più per
te, ma per gli altri. Cioè, praticamente fai il
Grillo, non fai più il blogger.
Dice Carlo Stagnaro (www.realismoenergetico.
org) che “Il blog è la prova provata che
il capitalismo è una figata pazzesca; che ci
rende talmente ricchi da avere non solo il
tempo e la voglia di distillare le nostre idee
sul senso dell’universo, ma addirittura da
consentire a qualcuno di avere così tanto
tempo da perdere che finiscono per leggere
i blog. Ma attenti. Il gioco rischia di essere
una bufala perché chi ha veramente qualcosa
da dire, in generale, non ha bisogno del
blog per essere ascoltato. E’ però vero che il
blog abbatte i costi di entrata e consente a
tutti di racimolare un pubblico, per quanto
esiguo o disperso, perché il mercato di un
blogger è il mondo”. Ecco, poi c’è la questione
dei numeri, che mette un po’ paura ma va
studiata; perché nel web ci sono circa 70 milioni
di blog, ce ne sono 120 mila che spuntano
all’improvviso ogni giorno, e si contano
circa 17 post pubblicati al secondo. Solo che
basta leggere quali sono i dieci blog più importanti
d’Italia per capire che il blog che
funziona davvero – Grillo è un caso a parte –
è quello che aggrega altri blog; è quello che
fa sorridere ed è quello che fa riflettere, non
quello che fa politica, naturalmente. “Io però
penso che il Foglio stia toppando a fare la
sua implicita critica politica ai blog perché i
blog sono una parte di un fenomeno di
rafforzamento del ruolo del cittadino nei
messaggi pubblici, sia in senso di discorsi sia
in senso di corpi che si mobilitano. E non va
sottovalutato”, dice Enrico Maria Milic, 31
anni, consulente per la creazione di comunità
virtuali, 300 utenti al giorno su morbin.it.
E chissà che non abbia ragione Claudio Caprara
che, naturalmente con un post, spiega
che il blog funziona soprattutto “per soddisfare
la propria presunzione e il proprio
ego”. E questo varrebbe anche per Grillo che
se non fosse per quelle listine che avranno il
suo timbro, con il suo blog, più che politica,
farebbe anche una geniale satira. “Certo,
non staremmo a parlare di blog se non ci fosse
stato Grillo – dice Piero Macchioni, di leibniz.
splinder.com – Ma Grillo è vero che ha un
blog ma non si comporta da blogger. Per questo
la vera bufala non sono i blog; la vera bufala
è semplicemente Grillo”.
Claudio Cerasa
22/09/07

giovedì 20 settembre 2007

"Ho Visto l'uomo nero" sul Foglio

"Ho Visto l'uomo nero" sul Foglio

Così nasce una caccia alle streghe
A Rignano è successo di più, ma anche di meno di quello che avete letto. Un libro lo racconta

Pubblichiamo il primo capitolo del libro “Ho visto l’uomo nero. L’inchiesta sulla pedofilia a Rignano Flaminio, tra dubbi, sospetti e caccia alle streghe” (Castelvecchi editore, 14 euro), scritto da Claudio Cerasa, e in uscita venerdì 21 settembre


Quei pedofili ogni domenica a messa.
Il Tempo, giovedì 26 aprile 2007

I bambini dell’asilo drogati dalle maestre.
La Stampa, mercoledì 25 aprile 2007

Don Henry non è scortese, ma preferisce riattaccare, grazie.
Di fronte all’altare della chiesa più importante di Rignano Flaminio ci sono sedici bambini, tutti bianchi, tutti silenziosi, tutti in fila. Sono lì, aspettano la prima comunione. Quattro di loro appoggiano la mano sinistra sopra la destra, gli altri dodici aprono la bocca. Don Henry si avvicina. Prese il calice, rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse.
Don Henry non ha mai imparato a parlare vicino al microfono. Lo tiene sempre un po’ troppo distante dalla bocca e le quindici casse della chiesa di San Vincenzo e Anastasia sono praticamente inutili. Don Henry, però, ha un’ottima voce. Urla, Henry. Proprio come faceva nella sua chiesa di Caracas, prima che a Rignano, don Henry, iniziasse a difendere le maestre. Quelle maestre.
“Desidera?”.
La finestra di don Henry è al secondo piano di una palazzina costruita sul lato destro della parrocchia dove ogni domenica mattina celebra la sua messa, canta, prega, discute, consiglia. Don Henry ha i capelli bianchi, pesa 98 chili, ha 46 anni, gli occhi chiari, le guance affaticate, canta con le dita delle mani intrecciate tra loro, non parla con nessuno e non ha voglia di dire nulla. Niente telecamere, niente microfoni, niente giornalisti, niente radioline, niente interviste, grazie. Dalla porta dell’alloggio di don Henry fino all’ingresso principale della chiesa ci sono sedici metri, due scalini, un campetto da calcetto di cemento, cinque bambini con un Super Santos infilato in un sacchetto di plastica e poi un muretto, due palmette, altre due palmette e tredici scalini che portano qui, dentro la chiesa di Rignano Flaminio.
La chiesa è davvero molto brutta.
Don Henry socchiude gli occhi, saluta e non toglie mai le mani dalle tasche. E’ piuttosto arrabbiato, Henry.
La parrocchia di San Vincenzo e Anastasia, da tre minuti, è tutta piena. A Rignano c’è un solo parrucchiere, un solo sarto e una sola camiceria. O perlomeno, di parrucchieri ce ne sarebbero tre, ma “quello bravo”, come lo chiamano qui, è solo uno. Gli altri però sono tutti amici. Sarà per questo che gli uomini, quasi tutti, hanno i capelli a spazzola, le donne un caschetto nero che sfiora le orecchie, le signore una camicia di seta fiorata, i ragazzi le scarpe Lotto, i pantaloncini corti, le tute Adidas, le magliette Nike e le calze Ellesse. Dai cinquant’anni in su, qui, sono tutti praticamente uguali. Stessi capelli, stesso sarto, stesso negozio.
Se non sei di Rignano ci mettono due minuti per capirlo, ovvio.
Alle 9.05 don Henry non è ancora arrivato. Le telecamere, per il momento, non si vedono. Di fronte alla chiesa ci sono molti ragazzi, molti maglioncini cuciti a mano, qualche bimbo, tre passeggini, una macchina che arriva dalla farmacia, una dalla biblioteca comunale, altre due dal ristorante, una dal bar e un’altra dalla banca accanto alla sede locale dei Carabinieri. La scuola “Olga Rovere” si trova ottocento metri più giù, sotto la collinetta, prima della fermata dell’autobus.
Eccolo, “l’asilo degli orrori” (Il Corriere della Sera, venerdì 27 aprile 2007).
Di fronte all’ingresso laterale della parrocchia, accanto al banchetto con gli ultimi numeri dell’Avvenire, ci sono quattro signori vestiti con la giacca grigia, i jeans con la piega al centro, una camicia bianca infilata dentro i pantaloni. Sono seduti vicini, qualcuno li saluta. Tre di loro hanno gli occhiali da sole. Non parlano mai, fanno impressione.
Insieme a me, nascosti un po’ qua e un po’ là, ci sono solo due giornalisti: un ragazzo della Repubblica e uno del Tempo, entrambi molto simpatici. Il primo è arrivato a Rignano oggi. Il secondo il giorno dopo il primo articolo comparso su un giornale: era il 13 ottobre del 2006. Otto mesi dopo sono arrivato anche io.
Don Henry in chiesa non è ancora arrivato. Qualcuno inizia a farsi delle domande. Rignano ora ha davvero paura. Perché non dice nulla, Henry? Perché difende le maestre? Perché non difende i genitori? Perché non difende i bambini? Perché fa così, Henry? Perché è così silenzioso, don Enrico. Ci dica. Sì, lei. Ci dica: sa qualcosa? Li conosceva? Le conosceva? Ha qualcosa che vorrebbe raccontarci? Ha qualcosa da dire sui presunti pedofili? E su quella scuola? E su quelle indagini? Ci dica, don Enrico: perché tutto questo silenzio?

***

Don Henry guarda la chiesa, sale il primo scalino, ha le mani ancora in tasca e sorride. Oggi finalmente parlerà. Sul muro un po’ incrostato all’interno della parrocchia ci sono cinque certificati di matrimonio. Fuori, all’ingresso, due volantini stampati in carta plastificata. I volantini sono molto colorati. Sono due inviti, o meglio, due offerte per Lourdes: Partenza alle otto di mattina, ritorno alle diciotto di sera. In basso, a destra, prezzo, data, agenzia e condizioni: aperto a tutti, sani e malati. Don Henry entra in chiesa in questo momento. Cinque passi e arriva al centro della navata centrale, sotto un crocifisso alto due metri, tutto di legno, poco illuminato e appeso di fronte a una finestra a vetri a forma pentagonale.
La giornata non è granché.
Arriva un fotografo e i genitori nascondono i bambini: “Prova a scattarne una e ti ammazzo”, dice un signore con un paio di pantaloni neri, a righe, più o meno gessati. Sono le 9.10, è il 29 aprile, anno 2007. Dopodomani, primo maggio, Sagra del Pecorino. Oggi, Messa del fanciullo. Cinque giorni fa, a trecento metri dalla parrocchia, gli arresti: atti osceni in luogo pubblico, sottrazione di minore, sequestro di persona, violenza sessuale e poi quei terribili giochi di cui parlano i giornali: il gioco della patatina, il gioco del pisellino, il gioco del dito a punta, il gioco della banana, il gioco della punta azzurra, il gioco del tavolo, il gioco del dottore, il gioco della mamma, il gioco dei figli, il gioco dello scatolone, il gioco del lupo, il gioco della tigre e il gioco dello scoiattolo.
Erano, anzi, sono coinvolte quattro maestre, una bidella, un autore televisivo e un benzinaio: Patrizia Del Meglio, Marisa Pucci, Silvana Candida Magalotti, Cristina Lunerti, Gianfranco Scancarello (marito della Del Meglio) e Kelum Weramuni De Silva. Sedici giorni dopo gli indagati verranno tutti rilasciati. Ma a Rignano c’è qualcuno che le sentenze non avrà alcuna voglia di aspettarle. Basta l’indagine. Basta l’essere presunti. Basta solo il dubbio, solo l’idea. Bastano solo le foto, magari solo quei nomi, solo le facce, solo i titoli. A Rignano ci vuole così poco, solo il sospetto, per iniziare a credere che tutti quegli “orchi” (La Stampa, venerdì 11 maggio 2007) tutte quelle “braccia amputate” (La Repubblica, giovedì 26 aprile 2007) e tutti quegli “uomini incappucciati” (La Repubblica, giovedì 26 aprile 2007) non siano presunti, ma esistano davvero.
“Buongiorno, don Enrico”.

(segue dalla pagina I) Quattro mesi fa da Rignano partono le prime accuse. Siamo a novembre, l’anno è il 2006. Pedofilia, sissignore. Ogni mese nuove denunce, nuovi controlli, nuove perizie, nuovi sospetti e poi tutte quelle associazioni, quelle visite, quegli specialisti, quelle psicologhe, quegli interrogatori, quelle nuove denunce e quelle nuove mamme che, per mesi, hanno raccontato dei figli, della scuola, degli abusi, degli orchi. Dei presunti abusi, naturalmente. Dei presunti orchi, naturalmente. Ma chissà perché a Rignano quella parola, presunti, la dicono così, la dicono sottovoce, la dicono piano piano.
“Ha altro da aggiungere, signora?”.
“Si?”.
“Prego”.
La signora si chiama Patricia, la piccola si chiama N. La signora è una delle mamme di Rignano Flaminio. Mia figlia, dice, è stata abusata. La signora racconta di quel supermercato. Lo racconta a Bracciano e lo racconta qualche mese dopo quell’incontro molto strano. Il supermercato si chiama Super Emme, si trova sulla Flaminia, la strada che parte da Roma e arriva fino a Rimini e che al chilometro 39 si ferma qui, a Rignano Flaminio. La signora, a Bracciano dai Carabinieri, parla di un parroco, parla di un prete di colore e di un altro un po’ più basso di lui. Racconta di questo prete, di quello un po’ più alto, e racconta di quel parroco, ancora, che alla vista di mia figlia le dà uno schiaffetto, o come si chiama, un buffetto sul capo, e poi le sorride.
“Altro, signora?”.
“Si?”.
“Prego”.
La mia bambina si è voltata, mi ha guardato, si è irrigidita e io le ho chiesto: tesoro, lo conosci quel signore? E lei no, negava, negava con forza e diceva di non voler parlare. Sa, io non frequento la chiesa, non conosco quella persona, non conosco quei due preti. Io in parrocchia non conosco proprio nessuno. Ecco, le confesso: sono rimasta impressionata dall’incontro.
Un parroco. Un supermercato. Un buffetto.
Don Henry, naturalmente, con i presunti pedofili e con tutti quegli “otto anni di violenze” (Il Tempo, venerdì 27 aprile 2007) non c’entra nulla, chiaro. Don Henry, a Rignano, non è mai stato indagato, non è mai stato interrogato, non mai è stato denunciato. Semplicemente, lui con la storia della scuola degli orrori non c’entra proprio niente. Ma da quando quel giorno ha difeso le maestre, da quando ha difeso i presunti pedofili, a Rignano c’è qualcuno che non lo capisce più. Perché quelle parole? Perché difendere gli indagati? Perché parlare di azzeccagarbugli? Perché parlare di indagini e di arresti? Perché?
Quel giorno, Henry, disse molte cose. Disse di stare attenti e non dare retta alle malelingue, di non ascoltare le falsità e di non dare retta alle persone cattive. Mentre i giornali, in quelle ore, ricordando “il supermercato”, parlavano di “nuovi eventi”, raccontavano delle “indagini che vanno avanti” e descrivevano nei minimi particolari un paese “dove il clima, comunque, resta molto pesante”. “E pensare, eh”, mi dice una signora con un bambino sottobraccio, accanto all’uscita dalla chiesa di Rignano Flaminio. E continua, la signora: “E pensare che quelle maestre venivano sempre a messa a pregare, e pensare che pregavano, si inginocchiavano, sembravano pure devote. E sì, signore, lei ha ragione. L’arresto è grave, è molto grave, però non crede che con tutte queste voci che girano qualcosa non sia successo davvero? O sbaglio? No, mi dica”. Mi dica lei: “Sa, di storie strane qui a Rignano ne girano, sa? La sa, la conosce la storia dei pedofili della bassa Emilia? Lo sa che li hanno assolti tutti? Lo sa che a Modena sono tutti a casa, ora? Mi dica, mi dica perché. Mi dica perché in carcere non c’è più nessuno. Lei che è un giornalista, mi dica: è possibile che in quel paese non sia successo nulla? Come è possibile non credere ai nostri bambini?”.

***

Nel 1999, nella bassa Emilia, un certo don Govoni venne indagato per pedofilia. In quei mesi i grandi giornali si scatenarono, iniziarono a raccontare la città dei presunti orchi (dove la parola presunti, come qui a Rignano, era scritta piccola piccola) e provarono a scoprire cosa era successo, lì, nella bassa Emilia. In quei giorni si scriveva delle “tragiche violenze”, di tutti “quei misteri” e di quelle “famiglie distrutte”. In quei giorni, Gad Lerner, in uno scrupoloso articolo uscito sulla Repubblica il 9 giugno del 2000 (intitolato “Il Diavolo tra i campi di grano, viaggio nei paesi dei pedofili”), riportava le sue impressioni su quel paese dove alcuni bambini sarebbero stati violentati da genitori, zii, nonni, fratelli, preti e naturalmente maestre. In quei giorni si scriveva che don Govoni era a capo di un gruppo di satanisti pedofili, un gruppo che agiva nei cimiteri di Mirandola e Finale Emilia, un gruppo che celebrava finti funerali, decapitava bambini e gettava le loro teste in un fiume. Rifletteva, Lerner, sul “racconto convergente di quei poveri bambini” e lo faceva anche se di provato non c’era nulla, in quel momento: non un resto umano, non una foto, non un filmato, nulla che potesse condannare quei presunti pedofili e quel diavolo di un prete. “Don Giorgio, proprio don Giorgio, il Diavolo?”, scriveva Lerner. Un anno dopo, la Corte d’Appello di Bologna assolverà il sacerdote modenese dall’accusa di pedofilia: tra “i campi di grano”, in effetti, non c’era proprio nessun diavolo. Ma quando lo si scoprirà sarà ormai un po’ troppo tardi: il giorno prima del processo (il 19 maggio del 2000, 21 giorni prima del servizio di Gad Lerner), dopo che il Pubblico Ministero aveva richiesto la condanna del prete, don Govoni era stato trovato per terra. Un infarto, innocente, stecchito. Anche se fino a pochi giorni prima, quel prete strano strano era per tutti così, un diavolo di pedofilo.

***

Don Henry cammina velocemente. Sorride, abbassa la testa e parte. E’ la prima messa dopo gli arresti, la prima dopo che Rignano ha scoperto cosa significa aver paura, la prima comunione dopo che un intero paese ha capito cosa significa quello che monsignor Angelo Amato chiama un “film perverso sul male”, un film “che viene girato ogni giorno in ogni parte del mondo con sceneggiature sempre nuove e crudeli”. Un film di cui Amato (segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede) parlava pochi giorni prima che a Rignano i giornali iniziassero a raccontare di arresti, di orchi e di streghe cattive. Scriveva Amato che oggi è come se il male non esistesse più: oggi è l’uomo che esercita la sua ragione per far finta di non conoscerlo, il male, ed è come “se tutti i mali avessero un’origine sociale”. Come se il male non ci fosse più. Come se l’orrore non esistesse più. E invece no, e invece eccola qui, all’improvviso, la percezione del male. Eccola qui quella scuola che i giornali amano definire “degli orrori”(La Stampa, venerdì 27 aprile 2007), eccolo qui quello che sembra un “sabba delle streghe cattive”, con tutta quell’atmosfera malvagia, tutti quegli articoli, quei titoli, quei servizi e quelle cronache che arrivano all’improvviso e che arrivano così, a 39 chilometri da Roma. In un paesino dove si dice che esistono le streghe, dove si dice che le streghe vanno bruciate, dove non c’è ancora Gad Lerner ma dove c’è già Vincenzo Cerami. Un paesino dove però, dopo un anno di indagini, di quelle streghe di cui parlano i giornali e di quegli orchi presunti di cui i parlano i tiggì, si sa davvero ancora poco.
E lei, don Henry, cosa sa? Ci spieghi un po’, ci dica perché due maestre sbattute in cella erano catechiste nella sua parrocchia. Ci spieghi perché lei ha difeso quelle maestre prima che venissero arrestate, prima che a Rignano arrivassero i Ris e i Gip, prima che qui, a 39 chilometri da Roma, arrivasse la Polizia e il sindaco vietasse pure le manifestazioni. Ci spieghi, Henry. Cosa c’entra lei con il paese dove le maestre (così si sospetta) bevono il sangue delle bambine, dove le maestre chiudono i bambini in uno scatolone e le bidelle tagliuzzano le braccia dei nostri piccoli? Don Henry, ne sa qualcosa lei?

***

Dopo venti minuti di messa si sparge una voce. Chi non è di Rignano si riconosce subito, naturalmente. Si riconosce dai vestiti, dai pantaloni, dai capelli o dal telefonino che squilla. Ed è probabile che il blocchetto degli appunti del giornalista della Repubblica, l’auricolare nero del giornalista del Tempo e la suoneria livello quattro del mio telefonino qualche sospetto possano pure averlo creato.
Ci sono tre giornalisti, occhio. Ma don Henry lo sapeva da un pezzo che oggi, oltre ai fedeli, ci sarebbero stati anche i cronisti. E sapeva che per lui non sarebbe stata una domenica come le altre. Tutte quelle domande, quegli articoli, quei genitori. Tutto quel male. E quel paese che continua a chiedere a don Henry una sua parola, una sua risposta: un sì o magari un no. Ed è anche per questo che la sua predica, oggi, è davvero forte ed è un po’ diversa dal solito. Non dice vostro onore, ma poco ci manca. Dice così, Henry: “Il Buon Pastore non lascia le sue pecorelle nel momento del bisogno”. E poi: “Quanti azzeccagarbugli, quanti arruffapopoli in questi giorni bui hanno rivelato invece segreti istruttori e professionali per farsi pubblicità. Stiamo attenti. Non esistono solo le pecorelle smarrite. Esistono anche quelle che conducono le altre verso il male. Ma ricordatevi. Il pastore conosce le sue pecorelle e vigila su di loro. Sapete, io avrei potuto far carriera e andarmene da qui. Ma sono rimasto, perché questo è il momento del bisogno e, come sapete, i sacerdoti sono gli unici ad essere sempre reperibili. Proprio come i Carabinieri”.
I Carabinieri, quelli in borghese, con le Nike nere (con baffo rosso), marsupio Invicta, jeans chiaro, giacca nera (very young), occhiale nero (a goccia), capello a spazzola (sempre nero), una mano in tasca, telefonino Motorola, così, a pelle, non sembrano riscontrare grossi punti di contatto con il parroco. Però non fiatano: sanno che i problemi sono altri. Sanno che chi abita a Rignano sono mesi che ormai legge quelle parole che aveva sentito solo quando qualcuno in Tv, davanti a un plastico, parlava di Cogne. Processo. Circo mediatico. Psicosi. Interrogatori. Incidenti probatori.
Nessuno, qui a Rignano, avrebbe mai pensato che nella chiesa del paese qualcuno si mettesse a evocare gli azzeccagarbugli. Che qualcuno tra un “il Signore sia con voi” e un “prese il pane e rese grazie” parlasse di “violazioni del segreto professionale” e di “preti che avrebbero potuto fare carriera e che invece sono rimasti a Rignano”. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare di vederlo così, Henry. Di vederlo parlare di indagini in chiesa, di vederlo sfilare per le maestre di fronte a Rebibbia, di sentirgli ricordare che “anche tra i primi cristiani c’erano disaccordi” (e che “Pietro e Paolo li hanno risolti pregando insieme”), di sentirgli dire che “un barattolo vuoto fa sempre più rumore di un barattolo pieno”, di sentirlo parlare di processo mediatico, in chiesa, di chiedere “allo Spirito Santo il conforto dell’amore e della pace per questi bambini e le loro famiglie”. O dire che “oggi, a Rignano, non è facile essere genitori” o sentirsi chiedere a fine messa, scusi, padre, cosa è un azzeccagarbugli?

***

“Buongiorno, come posso aiutarla?”
Si avvicina un signore, all’improvviso, un po’ minaccioso. Avrà trentacinque anni, mi guarda, mi punta e mi fa: “Scusi, è del posto?”. Beccato. “Volevo sapere dove giocare la schedina”. Mi spiace, chieda al bar.
Il bar, qualche minuto dopo, è già pienissimo. Poche ore dopo la messa c’è il derby, il numero 128. Quello con la rovesciata di Mancini, la punizione di Ledesma e la botta di De Rossi, la solita, vicino al palo. Roma-Lazio finirà zero a zero. Su “l’Unità” Roberto Cotroneo, in quelle ore, scriveva che “l’aria di tenebra non la senti, la vedi proprio, come fosse un fiume invisibile, la vedi negli occhi della gente, nei silenzi, nelle mezze parole, nei movimenti indecisi, di chi non sa bene come comportarsi”. “E’ la banalità del male che annega tutto in un gratta e vinci, in una panchina ben tenuta nella piazza, negli occhi di questa gente” e dove si trova un “Henry nato a Caracas, da una famiglia di emigrati di Rignano che sono tornati e hanno ora un figlio prete”.
Don Henry esce dalla chiesa, la messa è durata meno di un’ora e lui non dice nulla, tiene la testa bassa, ha ancora le mani in tasca, gli si avvicina prima una giornalista del Tg2, no grazie, poi una giornalista del Tg3, no grazie, poi un cronista dell’Ansa, no grazie. I presunti mostri di Rignano sono in carcere da quattro giorni, don Henry non parla con nessuno, ma a Rignano c’è qualcuno che non capisce. Qualcuno che vorrebbe sapere qualcosa di più, che a quei presunti pedofili ci crede davvero, che quei pedofili non li ha visti, non li ha toccati ma li ha sentiti. Li ha spiati con gli occhi dei propri figli. Li ha seguiti con le orecchie dei propri bimbi. Qualcuno che ora, per questo, non si ferma, parla, ascolta, prega, accusa, ricorda e continua a chiedere. Continua a pregare. A dire vi prego, ascoltateci. Vi prego, fermatevi. Vi prego, credeteci. Vi prego. Come fate a non credere ai nostri bambini?
Claudio Cerasa
20/09/07

mercoledì 19 settembre 2007

"Ho visto l'uomo nero" su Repubblica

"Ho visto l'uomo nero" su Repubblica

Oggi Attilio Bolzoni su Repubblica recensisce "Ho visto l'uomo Nero".

L´UOMO NERO diario di un cronista
La vicenda di Rignano Flaminio: un libro di Claudio Cerasa.
Quella parola la pronunciano sempre «piano piano». Quasi per forza, sottovoce. Quella parola - presunti - è come se avessero paura di farla sentire agli altri. E´ da mesi e mesi che l´hanno dimenticata, perduta fra le loro angosce. Da quando si incontrarono per la prima volta in una casa per confessarsi sui loro figli, i bimbi che frequentavano la scuola materna. Era due estati fa, i primi giorni del luglio del 2006. Fu allora che in paese cominciarono ad apparire all´improvviso gli «orchi», che cominciarono a circolare quelle spaventose descrizioni sugli «uomini incappucciati» e sui piccoli che «bevevano sangue». Orchi e non presunti orchi. Diavoli e non presunti diavoli. Mostri e non presunti mostri. Neanche uno di quei genitori aveva più cuore per aspettare un processo e una sentenza. Bastava il dubbio.
Bastava il sospetto. Bastava anche solo l´idea. Quella parola - presunti - fu seppellita già prima degli arresti. E mai più dissotterrata. Nemmeno dopo le scarcerazioni.
La complicatissima e scivolosissima vicenda di Rignano Flaminio e dei suoi (mai presunti) pedofili della scuola materna «Olga Rovere» è diventata un racconto. I passi dell´inchiesta giudiziaria che si intrecciano con i personaggi, rivelati uno dopo l´altro nelle loro pieghe più intime fra la cronaca degli avvenimenti e quella suggestione di massa che ha piegato la realtà condannando inesorabilmente tre maestre, un autore televisivo, una bidella e un benzinaio di colore ancor prima che la giustizia potesse dimostrare uno solo di quegli orrori. Un piccolo paese come specchio dell´Italia intera. Di tutte le sue paure. Il titolo del libro è Ho visto l´Uomo Nero (Castelvecchi, pagg. 180, euro 14) e l´ha scritto Claudio Cerasa, giovane redattore de Il Foglio. Sarà in libreria dal prossimo 21 settembre.
E´ una narrazione che ha il rigore dell´inchiesta giornalistica.
Le drammatiche testimonianze dei bambini. Le risultanze delle perizie e delle controperizie. I pareri dei dottori. Gli atti dei pubblici ministeri. I dubbi degli avvocati. Le grida delle madri disperate. Tutte le ragioni di tutti sono finite nel diario di un cronista inviato in quel paese a trentanove chilometri da Roma il 26 aprile del 2007, appena poche ore dopo l´arresto degli «orchi». In Ho visto l´Uomo Nero c´è anche, c´è soprattutto un j´accuse «contro l´incredibile caccia alle streghe» che si è scatenata a Rignano Flaminio. I sospetti subito condannati. Già tutti colpevoli. Tutti messi in croce.
E´ proprio un giornalista che questa volta ha puntato il dito contro il grande delirio mediatico-giudiziario. Il libro di Cerasa ricostruisce ciò che è accaduto sin dalle prime denunce dei genitori e dalle prime visite mediche. Dalle prime smentite. Dai primi «pezzi» sui giornali e dai primi seguitissimi talk show. Nei dettagli ricostruisce un incontro - anche quello il primo - dei genitori dei bimbi «abusati». E´ uno dei punti chiave della brutta e controversa storia di Rignano Flaminio. Le prime denunce dei genitori vengono verbalizzate dai carabinieri della caserma di Bracciano fra il 9 luglio e il 9 settembre 2006. Verrà riportata successivamente in un passo dell´ordinanza di custodia cautelare contro gli indagati: «Non inficia in alcun modo l´affidabilità di tali denunce, la circostanza che i genitori dei minori si siano a un certo punto confrontati su quanto andava emergendo».
Confrontati. I genitori dei bimbi della scuola materma «Olga Rovere» si erano «confrontati» prima e durante e dopo le denunce ai carabinieri. Avevano «interrogato» i loro figli prima e durante e dopo quelle denunce. Li avevano addirittura filmati i bimbi, per raccogliere e documentare ogni loro parola. E´ tutto riportato nei vari capitoli di Ho visto l´Uomo Nero, verbali agli atti, prove di accusa che in futuro potrebbero facilmente trasformarsi in robusti elementi a favore delle difese. Sono le contraddizioni di un´indagine che in più fasi appare disordinata. Gli arresti a nove mesi dalle denunce e poi le scarcerazioni a quindici giorni dagli arresti. La Cassazione, proprio ieri, ha confermato il ritorno in libertà degli indagati.
Ho visto l´Uomo Nero racconta anche tutto quello che è avvenuto dopo gli arresti. Sui giornali. In tivù. Nell´ultimo capitolo c´è una raccolta dei titoli sulle prime pagine dei quotidiani italiani. Quella parola - presunti - non compare quasi mai.
«Violentavano i bambini e li filmavano». «Dovevano bere il sangue e fare massaggi alle maestre» «Quei pedofili ogni domenica a messa» «Bambini drogati e filmati» «Narcotizzavano i bimbi, poi gli abusi». «Anche le donne lo fanno con i loro bimbi». Scrive Cerasa: «In quei giorni, come capita spesso qui in Italia e come capita con un certo successo dal 1992 ad oggi, non esistevano indagati, non esistevano sospettati e non esistevano "presunti pedofili". Esistevano solo mostri».
Le ultimissime pagine sono dedicate alle trasmissioni televisive. Nelle tre serate che Porta a Porta si è occupata degli «orchi» ha registrato il 19, il 25 e il 27 per cento di share. Nelle quattro serate sui «mostri» Matrix ha raggiunto il 14, il 15, il 20 e il 29 per cento. E´ la pedofilia che fa audience, l´Uomo Nero turba e richiama. Gli ascolti salgono, salgono sempre con i bimbi e con i diavoli.

qui la pagina

Ho Visto l'Uomo Nero

domenica 16 settembre 2007

Il Foglio. "La listina del Piddì"

Per le primarie di ottobre, il ticket Veltroni-Franceschini prepara una sorpresa fatta con qualche under trenta, un po’ di Africa e anche un “bananino”. Ecco la generazione W


Apre lentamente la porta dello studio
al primo piano del suo ufficio
al Campidoglio; ha un completo nero,
la cravatta blu, la camicia bianca, i capelli
spettinati, un leggero tocco di cipria
sulla guance e una cartellina
arancione sotto il braccio destro; va
un po’ di corsa, Walter: sa che questa
sarà una giornata un po’ dura, sa che
c’è una nuova stagione da scrivere, sa
che c’è un Partito democratico da progettare,
sa che l’amica Rosy si è appena
candidata alle primarie, sa che l’amico
D’Alema ha appena finito la sua
colazione con l’amico Blair e sa, Walter,
che oggi c’è anche l’amico Gigi
Proietti che litiga con l’amico Maurizio
Costanzo. Ma c’è anche dell’altro,
oggi. Apre la porta, Walter; sorride, supera
un gradino e poi, tenendo stretto
stretto sotto il gomito sinistro il braccio
di Gigi, si gira, fa un cenno con il
capo verso il suo alter ego Walter Verini,
quindi si ferma e inizia a contarli
uno per uno: uno, due, tre, quattro,
cinque, sei, sette. Sette, dunque; “Gigi,
guarda”, dice Walter. “Ti presento il
futuro del Partito democratico”.
E’ il 18 luglio 2007, è un mercoledì,
sono le diciassette e dodici minuti; il
futuro del futuro Partito democratico
inizia in Campidoglio nella stanza del
sindaco, con sette ragazzi, con Walter
Verini, con Walter Veltroni e con un
gelato un po’ particolare; quello di cui
va pazzo Veltroni; quello che Walter,
insieme all’altro Walter, mangia ogni
giorno pochi minuti dopo la fine del
pranzo; quello che i due Walter consumano
in quantità democraticamente
industriale negli Autogrill di tutt’Italia
e quello che, seduti insieme con
l’altro Walter di fronte all’anticamera
della stanza del sindaco, i sette ragazzi
del possibile futuro Piddì veltroniano
hanno simbolicamente ricevuto come
primo omaggio dal probabile sindaco
d’Italia. Uno per Pina Picierno,
uno per Gianluca Lioni, uno per Luciano
Nobili, uno per Luigi Madeo,
uno per Fausto Raciti (che però, orgogliosamente,
non ha accettato), uno
per Michele Samoggia, uno per Mattia
Stella; ovvero, i sette ragazzi con cui
Walter Veltroni sembra aver deciso di
costruire il futuro – giovanile – del
Partito democratico; i sette ragazzi
con cui – un po’ per propaganda e un
po’ perché parlare di giovani è sempre
il modo più semplice e immediato
per fare qualcosa di giovane e per i
giovani – Veltroni, Franceschini, Fioroni
e Bettini, costruiranno una buona
parte delle liste elettorali per le primarie
del Partito democratico del
prossimo 14 ottobre.
E qui il discorso è delicato, per due
motivi. Perché se da un lato, naturalmente,
il giovanilismo imposto nel
Piddì potrebbe facilmente essere classificato
come la classica “quota giovane”
o come un tradizionale young
brand da indossare solo in occasione
della serata di gala delle primarie, è
anche vero un altro tipo di discorso; e
cioè che la “quota giovane” del Partito
democratico si inserirà in un complicato
meccanismo di liste e di sistemi
elettorali diabolicamente concepiti
per creare non pochi problemi ad
alcuni big di Ds e Margherita.
Come? Così: quando il prossimo
ventidue settembre saranno ufficializzate
le liste democratiche delle primarie,
grazie a un geniale sistema
elettorale potrebbero esserci delle
sorprese – anche clamorose – nelle
elezioni e nelle candidature. Il sistema
è un po’ complicato, ma sembra essere
perfettamente costruito per garantire
le “quote” e le trombature.
Perché nelle quattrocento liste che
verranno schierate il 14 ottobre, lo
schema dovrà esser quello di uomodonna-
uomo-donna-uomo-donna oppure
donna-uomo-donna-uomo-donnauomo.
Dunque: mai due uomini o due
compagni di partito schierati uno a
fianco all’altro; dunque una donna
per ogni uomo eletto. Ma non finisce
qui, perché oltre all’alternanza tra i
sessi, ci sarà anche una rigida alternanza
di appartenenza che dovrebbe
funzionare più o meno così: Ds-Margherita-
società civile-Margherita-Dssocietà
civile. Una combinazione
nient’affatto semplice che permetterà
di non avere una donna e un uomo del
proprio partito uno a fianco all’altro e
che darà un’evidente spazio ai politici
non di professione (come, ad esempio,
Carlo Petrini di Slow Food o il
jazzista Paolo Fresu, rispettivamente
membro del comitato promotore del
Pd e coordinatore per il Partito democratico
in Sardegna). Ecco, a queste rigide
regole – che sembrano essere state
ideate proprio per preparare qualche
tranello – verrà poi aggiunta la
“quota giovane”; una quota non obbligatoria,
da un punto di vista normativo,
ma quantomeno doverosa almeno
da un punto di vista, diciamo, estetico.
O almeno così sembra, sentendo parlare
Veltroni e Franceschini.
Ricordate il Walter del Lingotto?
Quando a Torino il sindaco di Roma
presentò la sua Nuova Stagione democratica,
prima che la Stampa proponesse
uno dei suoi imperdibili e giovanilissimi
“quiz per l’estate” (“Quanto
Walter c’è in te?”, “Sentimenti, musica,
politica: ecco il test per scoprire
il tuo tasso di veltronismo”, titolo poi
accompagnato da indimenticabili domande
come: “Se proprio dovete, che
faccia stampereste sulla vostra maglietta
tra Che Guevara, John Lennon,
Francesco Totti e Totò”; con una nota
a margine che, con precisione, spiegava
che le risposte più giovanilisticamente
appropriate erano: la “a” di
Che Guevara e la “c” di Francesco
Totti), ecco quel giorno a Torino, Veltroni
disse così: “Il gruppo dirigente
dovrà essere composto, a tutti i livelli,
dai nuovi ragazzi che nei partiti come
nella società hanno voglia di spendersi
per il loro futuro e per quello del
paese”. Certo, sembrano le solite parole:
i soliti giovani, giovani, giovani e
ancora giovani che devono votare a sedici
anni, che devono pagare un euro
alle primarie, che non troveranno mai
lavoro, che devono essere valorizzati,
ammirati e che, come direbbe Walter,
andrebbero semplicemente “capiti” e
che poi, però, andrebbero, naturalmente,
anche guidati. Ma questa volta
potrebbe esserci davvero dell’altro.
Questa volta, con il Pd, nelle liste su
cui stanno già lavorando i veltroniani
Goffredo Bettini insieme con Andrea
Orlando, Vinicio Peluffo e Andrea
Martella (tre giovani un po’ meno giovani
dei ragazzi del futuro Pd giovanile
ma che comunque, assieme a Nicola
Zingaretti e allo stesso Veltroni,
hanno organizzato una produttiva rete
di consenso democratico nella capitale,
e non solo lì) e su cui sono all’opera,
da mesi, i franceschiniani Nicodemo
Oliveiro e Antonello Giacomelli,
ecco: magari solo per avere una
buona scusa per risolvere certi delicati
equilibri di potere (cioè per togliersi
di mezzo qualche ribelle di Ds e
Margherita), qualcosa sembra muoversi
davvero, in quota giovane nel Pd;
anche se però, sul tutor scelto da Veltroni,
c’è qualcuno che proprio non
capisce in che senso, per i giovani, ci
debba essere un “tutor”. Cioè, in che
senso Ciriaco De Mita?
Quando pochi giorni fa Walter Veltroni
ha deciso di nominare, dopo una
lunga riunione con Franceschini, Ciriaco
De Mita come tutor dei giovani
del Piddì, Veltroni – anche per risolvere
i problemi di equilibri nella Campania
di Tino Iannuzzi e Andrea Cozzolino
– intendeva ricreare una sorta
di nuova scuola a metà tra il modello
della scuola Pci delle Frattocchie, tra
il modello democristiano della scuola
della Camilluccia (quella di Aldo Moro)
e tra quello magnifico dell’Ecole
Nationale d’Administration fondata
dal generale Charles De Gaulle nel
1945; in altre parole, sempre che De
Mita sia davvero eccitato dall’idea,
l’ex presidente del Consiglio andrebbe
a presiedere una vera e propria
scuola di formazione del Pd. E questo
dopo che una scuola per il Partito democratico
era in realtà stata già fondata
lo scorso anno con Filippo Andreatta,
Salvatore Vassallo, Maurizio
Sobrero, Massimo Vergami e altri 174
professori universitari all’università
di Bologna: l’Unibò. Di quella scuola,
però, non si sa più granché. Dunque,
eccolo qui Ciriaco De Mita.
E chissà che anche grazie al nuovo
– possibile – incarico demitiano non
si vengano a rompere alcuni equilibri
tra i ragazzi del Piddì, soprattutto tra
quelli presenti quel giorno, in Campidoglio.
Perché quando nomini De Mita,
tra i giovani, la prima persona che
ti viene in mente si chiama Pina Picierno
(26 anni, autrice di una famosissima
tesi di laurea proprio sul linguaggio
di Ciriaco De Mita); proprio
lei che con piglio un po’ più che democratico
negli ultimi giorni ha preso
sempre più coraggio e, chissà perché,
ha iniziato a citare con un certo
piacere Francesco De Gregori: “I veri
giocatori li vedi dal coraggio, dall’altruismo
e dalla fantasia”, ripete da un
paio di giorni la Picierno. Indovinate
un po’ a chi si riferisce? Sì: a lui; naturalmente
a Walter.
Ma dietro Pina Picierno, i cui legami
demitiani sono ben noti, ci sono
una serie di ragazzi che nel futuro del
Partito democratico hanno iniziato a
spostare le proprie pedine sullo scacchiere
del Piddì accompagnati (perché
“guidati” è una parola brutta) dai
propri punti di riferimento dello scacchiere
nazionale. Vediamo un po’ chi
sono davvero i veri giovani del Partito
democratico; quelli che – almeno finora
– a differenza dei cosiddetti “outsider”
non cercano di fare della propria
giovanilità una risorsa politica, ma
semmai, – grazie a una più o meno efficace
militanza – provano a sfruttare
quella che potrebbe essere la loro
grande occasione, anche per evitare
di essere continuamente classificati
come quelli che “sanno fare bene i
giovani” (come diceva Nanni Moretti a
Vito, un giovane ragazzo pelato e con
una notevole pancia trattenuta a fatica
da un’enorme salopette blu, nel
film “Ecce Bombo”).
Questa volta, dunque,Veltroni e
Franceschini sembrano voler far sul
serio; e con alcuni ragazzi in particolare,
di cui senz’altro sentirete parlare
nei prossimi mesi. Ragazzi di riconosciuta
militanza, come Fausto Raciti,
segretario nazionale della Sinistra
giovanile – eletto con quasi il 90 per
cento dei voti all’ultimo congresso – timidamente
fassiniano e molto vicino
a uno dei veri propri deus ex machina
degli ingranaggi del nascente Pd (l’ulivista
Andrea Ranieri); il dalemiano
Roberto Speranza (presidente della
Sinistra giovanile, già consigliere comunale
a Potenza, veltroniano non di
nascita e molto vicino a quel “luminare
delle preferenze”, come ricordato
recentemente da Bettini, che di nome
fa Gianni Pittella; che, oltre a essere
un eurodeputato è anche un grande
sponsor di uno degli avversari di Veltroni:
Enrico Letta); Federica Mariotti
(responsabile esteri della Sinistra
giovanile), Sara Battisti (coordinatrice
della segreteria nazionale della Sinistra
giovanile). E poi, dalle parti della
Margherita, Luigi Madeo (26 anni,
segretario organizzativo dei giovani
della Margherita, in quota Marini),
Luciano Nobili (29 anni, coordinatore
dell’esecutivo in quota Rutelli con il
quale, nel 1993, partecipò anche alla
campagna elettorale per l’elezione a
sindaco e ironicamente apprezzato
per essere riuscito a tesserare, in un
passato non troppo lontano, la talentuosa
Flavia Vento, nelle liste della
Margherita); e infine il vicepresidente
vicario dei giovani della Margherita,
Gianluca Lioni, sardo di 26 anni e
componente della troika di fiducia
che accompagna da mesi Dario Franceschini
sia in campagna elettorale
sia alla Camera (Lioni è anche il ghost
writer del capogruppo alla Camera
dell’Ulivo); e poi, in ordine sparso, Simone
Martino (29 anni, ex Udc e ora
uomo folliniano dell’Italia di Mezzo,
molto vicino al portavoce dello stesso
Follini: Domenico Barbuto) e naturalmente
anche i Mille di Luca Sofri
che, così come gran parte dei giovani
del Piddì, si presenterà nelle liste
elettorali con la veltroniana lista di
Giovanna Melandri, Ermete Realacci
e Anna Finocchiaro (la lista si chiama
“Con Veltroni. Ambiente, innovazione,
lavoro”).
Ma non solo, c’è dell’altro naturalmente;
e lo si capisce sentendo parlare
Veltroni di volontariato, associazioni
e società civile. A cosa si riferisce,
Walter? Un’idea, tra i giovani del
Piddì, se la sono già fatta. Prendete
quella riunione in Campidoglio, ad
esempio, dove oltre ai ragazzi in quota
Margherita e Ds (tra questi c’era
anche il venticinquenne diessino
Mattia Stella, animatore dell’associazione
Giovani per la Costituzione di
Oscar Luigi Scalfaro) era presente anche
un ragazzo che si chiama Michele
Samoggia, di 23 anni, ideatore dell’associazione
“Kanimambo” con cui Veltroni
ha organizzato i suoi recenti
viaggi in Mozambico (anche assieme
ai cantanti Daniele Silvestri, Max
Gazzè e all’attore Claudio Amendola);
un ragazzo, pare, molto stimato da
Veltroni e che sarebbe in questo momento
l’unico in “quota Africa” nel
Piddì. (Sulla definizione di “quota
Africa” può aiutare una noticina piccola
piccola nascosta nella ormai storica
pagina della Stampa sul “Quanto
Walter c’è in te”, alla voce: “Africani”:
“L’altrove è per voi una chimera esistenziale,
utile a rimanere saldi nella
vita vera. Qui spargete a piene mani
languori caritatevoli e solidarietà inclusive.
In buona fede naturalmente.
Questo è il vostro mistero”).
E sarà proprio così, probabilmente:
con un po’ di giovani (meglio se giovani
e pure donne) con un po’ di associazioni,
un po’ di società civile e un
po’ di Africa che Veltroni e Franceschini
prepareranno qualche sorpresa
in quelle liste dove il ticket ha democraticamente
deciso di investire
sui giovani militanti, sulla società civile
(Veltroni ha già in tasca una lista
con 250 nomi da proporre) e anche
sulle associazioni di volontariato
(Walter punterà molto anche sui “Ragazzi
di Locri”, ma c’è chi crede che
nel comitato promotore dei giovani
del Piddì, e probabilmente non solo
in quello, ci saranno anche giovani in
quota Letta e in quota Bindi).
Ed è cominciato tutto lì, in quella
stanza al primo piano del Campidoglio
affacciata sui Fori romani, dove
Walter Veltroni tra un po’ di quota
Mozambico, un po’ di quota Scalfaro,
un po’ di Ds e un po’ di Dl e tra un magnifico
Gigi Proietti e un terribile bananino
(praticamente un introvabile
gelato al gusto di banana considerato
un vero e proprio must veltroniano,
quasi ai livelli dei fratelli Kennedy o
del Mahatma Gandhi, come scherzosamente
avrebbe ammesso lo stesso
Verini quel giorno a Roma), è lì che
Walter, dopo trenta minuti di terapeutica
seduta, si è fermato, si è alzato in
piedi, ha guardato l’orologio, ha benedetto
i sette ragazzi e poi, sorridendo,
tra un Proietti e un bananino, si è fatto
serio serio, si è alzato, e salutando
ha sedotto tutti quanti. Così, all’improvviso,
solo con un nome.
Perché di là c’è un signore che mi
aspetta: si chiama Tony e di cognome
fa Blair. Se volete scusarmi.
Claudio Cerasa
15/09/07

martedì 11 settembre 2007

Il Foglio. "Beppe Grillo"

Il passaparola che ha costruito in rete vale di più del darsi la mano girando in tondo

"Vai Beppe, smerdali tutti”. Ecco, il beppegrillismo funziona proprio così. E funziona bene, non c’è dubbio: lo capisci dai numeri dei suoi teatri, dalle firme dei suoi banchetti o dalle reazioni ai suoi commenti; ed è vero, si può dire che nel Day pride del comico genovese – quello di sabato scorso – non vanno confusi firmatari e manifestanti; si può anche dire che Grillo non è altro che un magnifico telepredicatore che in piazza e a teatro fa quello che Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo fanno, da quindici edizioni, in libreria; vero, ma c’è dell’altro. Perché il movimentismo di Beppe Grillo non ha nulla a che vedere con i rivoluzionari cordoni dei girotondi morettiani: lì, in quei casi, il movimentismo nasceva durante gli interminabili pomeriggi in cui ci si prendeva per mano attorno a un cavallo della Rai, ci si scambiava i numeri di telefono, ci si messaggiava di fronte al tg delle 20 (“hai visto!!, il mio striscione”) e ci si commuoveva con un casca il mondo casca la terra e tutti giù per terra sui sampietrini di Montecitorio. Il beppegrillismo, invece, nasce in maniera completamente diversa. I girotondi attorno ai banchetti dei referendum beppegrilliani nascono tra blog, teatri, link, e grandi spettacoli; e dunque non nascono attorno a un cavallo della Rai, nascono prima; molto prima. Ed è per questo che sarebbe un errore sottovalutare, morettizzare o classificare Grillo come una sottospecie di fenomeno da baraccone controllato, o magari indirizzato, dai titoli dei tg o dalle prime pagine dei giornali. Non è così; perché il comico genovese è la perfetta evoluzione mediatica (e tecnologicamente teatrale) del consenso costruito con una scoppiettante gogna pubblica. Il motivo? Semplice. L’antipolitica di Beppe Grillo funziona, come scriveva qualche settimana fa il New York Times a proposito del libro “la Casta”, perché “he names name”, perché Grillo nomina i cognomi dei nemici e poi prende quei nomi e li fa penzolare dagli schermi dei suoi teatri. E funziona bene, funziona benissimo, perché le parole di Grillo sono depurate, o forse addirittura immunizzate, dal dipietrismo o dal travaglismo. Cioè: Grillo non ha un nemico singolo; Grillo non se la prende con il parlamentare, se la prende piuttosto con il Parlamento e ti dice che tu, gentile lettore, per me non sei un elettore, sei solo un amico, al massimo uno spettatore e dunque, fidati, io non ho interessi, io ti racconto la verità e ti spiego naturalmente che cosa non va. Semplice, no? Certo, anche Grillo fa i propri interessi: i suoi lettori sono anche i suoi finanziatori e la sua politica fa parte del suo spettacolo; ma le 300 mila firme di sabato (300 mila sono anche i contatti quotidiani sul suo blog; un numero spaventoso che vive senza aver bisogno dei giornali o dei tiggì), ecco, almeno per il momento, è difficile che quelle firme si trasformino in una crocetta in una scheda elettorale con un simbolo a forma di Grillo; è più probabile, semmai, che quelle firme si trasformino in un non voto “contro il sistema”, “contro le aziende” e, ci mancherebbe, “contro la casta”.

“Però è simpatico”
E se è vero che è difficile che Grillo entri in politica, è anche faticoso non riconoscere che i veri critici di Grillo si contano sulle dita di una mano. Semplicemente è un po’ troppo impopolare criticare un comico così popolare; è molto più semplice invece criticarlo – anche con violenza – e poi aggiungere di volta in volta un “ma” oppure un “però”. Però “è simpatico” (Giulio Tremonti), però su alcune cose sono “assolutamente d’accordo” (Walter Veltroni). Però, però, però. Ed è anche semplice capire il motivo: andare contro Grillo, ora, è rischioso; sarebbe come voler difendere la casta, come voler dire sì a tutte quelle auto blu e a quei condannati in Parlamento. Ecco, Grillo è come se dicesse o di qua o di là. O contro i privilegi o a favore. O con la casta o contro; e chi non mi segue vuol dire che è proprio come tutti gli altri. E lo fa con contenuti molto più forti di un libro, di un comizio o di una lettera al Corriere. Perché se è difficile che Grillo trasformi in elettori i suoi lettori, come la mettiamo se un comico così popolare dovesse davvero iniziare a dare consigli su chi diavolo votare?
Claudio Cerasa
11/09/07

martedì 4 settembre 2007

Tra le lettere del Foglio

Al direttore - Vedi Michael Moore che entra a Cuba, lo osservi mentre su una barchetta si avvicina lentamente al carcere di Guantanamo, lo fissi mentre estrae dallo zaino un gigantesco megafono e allora pensi che Moore, lì a Guantanamo (nel suo ultimo film: “Sicko”), ci vada per parlarti di torture e di poveri terroristi trattati come animali. E invece no. Invece Michael Moore, nel coraggioso – e un po’ commovente – tentativo di dimostrare che negli ospedali americani i pazienti se la passano peggio che a Guantanamo, racconta, per una volta non propagandisticamente, come stanno davvero le cose, lì a Guantanamo; e con un sottofondo leggero leggero di uccellini cinguettanti, Moore ci dice come si sta bene qui a Guantanamo e come si sta male qui in America; e guardate, guardatevi intorno: non ci sono prigionieri torturati, non ci sono gabbie, non ci sono massacri, non ci sono urine sul Corano e non ci sono quei gulag di cui parlava tanta stampa occidentale. No: non è come vi hanno raccontato finora. Qui, a Guantanamo, i detenuti – oltre ad avere delle celle belle e spaziose – hanno anche alcuni campi sportivi dove per due ore al giorno possono fare tutti gli esercizi fisici che vogliono; e poi, naturalmente, ci sono quelle magnifiche sale ospedaliere, dove i detenuti – meglio: i terroristi – vengono seguiti, assistiti e naturalmente curati e dove, al contrario di quello che leggete sui giornali una settimana sì e un’altra pure, i terroristi non vengono trattati come animali. Vengono trattati – dice Moore – anche meglio degli americani. Ecco: non esageriamo; però stavolta, sui detenuti di Guantanamo, ha ragione Moore. Ed è un vero peccato che nessuno gli abbia ancora fatto i complimenti. Bravo Michael. Claudio Cerasa
05/09/07

Karl Rove

Karl Rove ha lavorato come consigliere del presidente per sette anni. Il 31 agosto è stato il suo ultimo giorno di lavoro alla Casa Bianca, e ha scritto questo articolo per National Review.

Il “Washington Post” trattò con disprezzo il presidente Truman, dandogli del “lottizzatore” che “sottovalutò l’intelligenza della gente”. L’editorialista del “New York Times” James Reston liquidò il presidente Eisenhower con queste parole: “Un uomo stanco in un periodo di turbolenza”. Alla fine del secondo mandato di Reagan, il “New York Times” lo congedò definendolo un “uomo semplicistico, pigro e distratto”.
(Karl Rove)

Questi giudizi duri, fatti al momento, non hanno retto alla prova del tempo. Per fortuna, se gli osservatori contemporanei hanno l’abitudine di non capire i presidenti, la storia tende a essere più accurata. La storia, allora, come potrà vedere il quarantatreesimo presidente? Difficilmente mi si può considerare un osservatore obiettivo, ma in un periodo tanto polarizzato come quello attuale chi lo è? Credo comunque che la storia darà un verdetto più lucido sul modo in cui questo presidente ha guidato il paese di quanto sembra indicare la rabbia dei suoi critici attuali.

Il presidente Bush sarà considerato un leader lungimirante, che ha affrontato la prova cruciale del XXI secolo. Sarà giudicato uomo di chiarezza morale, che ha messo l’America sul piede di guerra nella battaglia pericolosa contro il terrorismo islamico radicale. A seguito dell’orrore dell’11 settembre, questo presidente ha cambiato la politica estera americana dichiarando che i sostenitori del terrorismo sono responsabili delle imprese di coloro cui offrono riparo, addestramento e finanziamenti. L’America, ha detto, non aspetterà che i pericoli si materializzino appieno, non aspetterà gli attacchi sul nostro suolo prima di affrontare quelle minacce.

Il presidente ha dato alla nazione nuovi strumenti per sconfiggere il terrorismo all’estero e proteggere i nostri cittadini all’interno del paese con il Patriot Act, una sorveglianza estera all’altezza dell’età dei collegamenti senza fili, la trasformazione dei servizi segreti e di sicurezza e la creazione di un Dipartimento per la sicurezza interna. E questo presidente ha compreso quanto fosse saggio rimuovere le cause del terrorismo propugnando la diffusione della democrazia, in particolare nel mondo musulmano, in cui l’autoritarismo e la repressione hanno costituito un potente motore di crescita per la disperazione e la rabbia nei confronti dell’occidente.
(Giorgino Bush)

Ha riconosciuto che la democrazia in quei luoghi ci rende più sicuri nei nostri paesi. Il presidente Bush sarà considerato un leader compassionevole, che ha usato la forza dell’America per il bene. Mentre il mondo esitava, l’America ha affrontato l’Hiv e l’Aids in Africa con un programma d’emergenza presidenziale (The President’s Emergency Plan for Aids Relief) che ha contribuito alle cure di oltre un milione e centomila persone nel mondo, più di un milione delle quali in Africa. Mentre la maggior parte del mondo ignorava il Sudan e il Darfur o si rifiutava di intervenire, il presidente ha chiamato quella violenza col nome di genocidio e ha spinto i leader mondiali ad agire.

Una vasta gamma di questioni relative ai diritti umani, dalla repressione nella Corea del nord, in Myanmar e altrove, alla libertà di religione e al traffico di esseri umani rimangono all’ordine del giorno della Comunità internazionale in buona parte perché questo presidente continua a chiedere che si intervenga. E Bush ha affrontato la sfida di trovare nuove istituzioni e nuovi metodi. Per esempio, la Proliferation Security Initiative affronta il trasferimento di materiale e informazioni pericolosi. E ha riformato il sistema di aiuti esteri americani in modo che si desse maggiore attenzione ai risultati, all’assunzione di responsabilità, alla trasparenza e alle misure contro la corruzione e per la democrazia. Bush promuove la crescita economica e sa bene che dare libertà ai mercati è il modo migliore per spianare la strada ad un domani più promettente.

Il presidente ha ereditato un’economia che stava entrando in una fase recessiva ed è stato indebolito ulteriormente dagli attacchi terroristici, dagli scandali delle grandi società, dai disastri naturali e dalle spese fuori controllo, tanto che nell’ultimo anno di mandato del suo predecessore le spese discrezionali interne erano aumentate del 16 per cento. Bush ha intrapreso azioni decisive, tagliando le tasse e ponendo un freno a queste spese.

Il risultato? La creazione netta di 8,3 milioni di nuovi posti di lavoro dall’agosto 2003, una crescita degli incentivi e dei profitti al netto delle tasse per le imprese, perché possano investire e crescere; tre anni in cui la crescita economica dell’America è stata al primo posto tra le economie del G7; e il bilancio sulla via dell’avanzo per il 2012, nonostante l’aumento dei fondi investiti per la sicurezza dell’America con la creazione del nuovo Department of Homeland Security e la lotta nella guerra globale contro il terrorismo.

Nei quattro anni dall’ultimo taglio alle tasse, nel 2003, l’economia statunitense è cresciuta del 13 per cento in dollari reali. La crescita aggiuntiva è maggiore per dimensioni a tutta l’economia canadese. Questo presidente sa anche che la nostra qualità di vita dipende da quanto riusciamo a vendere nel mondo. Le 14 nazioni con cui abbiamo stretto degli accordi di libero scambio rappresentano il 7,5 per cento del pil mondiale, ma il 43 per cento delle nostre esportazioni. Il numero crescente degli accordi di questo tipo conclusi e firmati sotto il presidente Bush aiuta a spiegare perché le esportazioni americane siano salite del 27 per cento tra il 2004 e il 2006, creando posti di lavoro e prosperità nel nostro paese.
(Giorgino tribale!)

La storia vedrà nel presidente Bush un riformatore che si è concentrato sulla modernizzazione di importanti istituzioni. Si occupa da vicino di modifiche fondamentali che, tra le altre cose, rafforzeranno il sistema scolastico e sanitario per i nostri figli. Per l’istruzione, il programma “No Child Left Behind” ha introdotto nel nostro sistema di istruzione pubblica l’assunzione di responsabilità, per garantire che si valutino sempre i progressi di ciascun bambino. I genitori ora sanno se il proprio figlio sta imparando, rispetto ai risultati ottenuti all’interno della stessa scuola e in confronto agli altri istituti.

Questa nuova attenzione ai risultati ha indotto maggiori miglioramenti nelle capacità di lettura in cinque anni di quanto non fosse avvenuto nei 28 precedenti considerati nel loro complesso. Questa riforma dimostra che effettuare le valutazioni porta dei risultati. Il programma Medicare è stato modernizzato con l’introduzione dei contributi per i medicinali prescritti dal medico, usati da 39 milioni di cittadini della terza età. Disporre dei medicinali di cui hanno bisogno li aiuta ad evitare costose operazioni e lunghe degenze in ospedale. Il risultato è un migliore sistema sanitario per loro, a costi più bassi per chi ne beneficia e minori delle attese anche per i contribuenti.

Il presidente ha affrontato anche altre questioni: come la riforma del sistema legale, l’assistenza all’istruzione superiore, i trasporti e le politiche per la conservazione e le foreste, con lo stesso spirito riformista. E l’ha fatto anche in materie controverse all’interno del suo stesso partito, come la vasta riforma dell’immigrazione, di cui si era fatto promotore sin dall’inizio della prima campagna elettorale per l’elezione a governatore del Texas, nel 1993. Sarà considerato un pensatore conservatore innovativo con un programma d’azione positivo e ottimista. La sua proposta di riforma del sistema sanitario, ad esempio, proviene dalla consapevolezza del valore della concorrenza e del mercato.

Una deduzione fiscale standard per le cure sanitarie, simile a quella che i proprietari di casa possono ottenere per gli interessi sul mutuo, creerebbe parità di condizioni tra chi riceve l’assicurazione sanitaria dal datore di lavoro e chi deve pagarla di tasca propria, aumentando così il numero di famiglie coperte. I cittadini dovrebbero poter mettere da parte dei risparmi non soggetti a tassazione per le spese sanitarie “vive”. La legge con cui il presidente ha creato l’Health Savings Account costituisce il primo passo verso quest’idea e aiuterà a spostare il sistema sanitario verso un modello guidato dal consumatore, allontanandosi sempre più dal sistema del single-payer (il sistema per cui le spese sanitarie sono coperte interamente da un solo ente, ad es. lo stato o l’assicurazione).

Più di 4,5 milioni di famiglie americane ne beneficiano già oggi. Si avrebbe una maggiore concorrenza se si permettesse alle assicurazioni di vendere al di là dei confini statali e alle piccole imprese di condividere i rischi, il che ridurrebbe anche i costi e farebbe aumentareù l’accesso alle assicurazioni. Il presidente si concentra in egual modo sui grandi cambiamenti quando si tratta di opportunità e povertà. Ha rinvigorito le politiche, come la riforma del welfare, che promuovono la partecipazione e incoraggiano la responsabilità personale invece di sostenere un atteggiamento di dipendenza dal governo.

Le sue iniziative basate sulla fede e la comunità stanno incoraggiando l’imprenditoria sociale ad affrontare la povertà e le sofferenze. Miliardi di dollari federali sono ora accessibili ai gruppi che vogliono soccorrere un prossimo nel bisogno. Già ora 34 governatori democratici e repubblicani e più di 100 sindaci di tutti gli orientamenti politici hanno creato degli uffici sulla base della confessione religiosa e della comunità di appartenenza per ampliare l’iniziativa federale. Sull’energia, l’ambiente e i cambiamenti climatici, sta sviluppando un nuovo paradigma. Ponendo maggiore attenzione alla tecnologia, alla creazione di collaborazioni ad alta efficienza energetica e alla diversificazione delle risorse, le sue politiche stanno migliorando la sicurezza energetica e rallentando la crescita dei gas a effetto serra senza mandati e regolamentazioni distruttivi per l’economia.

Il presidente che ha attirato su di sé tante critiche per aver rifiutato l’errata impostazione di Kyoto ha attuato delle politiche che hanno permesso agli Stati Uniti di crescere del 3,1 per cento e ridurre la quantità assoluta di emissioni di anidride carbonica (dell’1,3 per cento). In queste e in altre aree, la storia vedrà che il presidente Bush ha guidato la politica in direzioni nuove, sulla base di princìpi conservatori. Gli sarà riconosciuto il ruolo di grande avvocato dei valori tradizionali.

Ha promosso una cultura della vita in cui ogni bambino è protetto e ben accolto. Ha dato il suo sostegno al matrimonio tradizionale quando è stato attaccato dai tribunali. Ha cercato di rafforzare le famiglie e incoraggiare la responsabilità personale. E ha compreso la necessità di nominare giudici che conoscessero il ruolo proprio dei tribunali e i loro limiti e ci daranno una giustizia imparziale, garantendo il rispetto fedele della Costituzione. Il presidente Bush ha avuto il coraggio politico di affrontare le più grandi sfide economiche cui l’America si trova davanti.

L’incombente crisi fiscale nel programma Medicare e Social Security o porteranno all’impoverimento dei cittadini americani o a causa di un aumento delle tasse e di una riduzione della crescita, o impediranno al governo di mantenere le promesse fatte. Questo presidente ha lavorato per limitare la crescita di spesa a copertura del debito pubblico, per modernizzare i programmi Social Security e Medicare inserendo nei loro sistemi operativi le forze del mercato e della concorrenza.

Ha proposto una riforma del primo che risolverebbe le carenze finanziarie di lungo termine del sistema, dando ai giovani lavoratori la possibilità di scegliere di depositare parte dei loro soldi in investimenti azionistici molto prudenti. Ha fatto sì che sia impossibile, per i futuri presidenti e i membri del Congresso, ignorare questa sfida. La proposta del presidente costituirà il punto di partenza per la riforma, quando si farà. E quando succederà, l’America sarà grata al presidente Bush per aver fatto della riforma del debito una questione centrale, e sarà cosciente del fatto che si è perso tempo prezioso a causa delle tante critiche. Il risultato delle operazioni in Iraq e Afghanistan influirà sul giudizio che la storia darà sul presidente.

La storia guarda ai risultati finali, non ai piccoli errori o all’avanzata di un momento ed emetterà un verdetto favorevole se il risultato nel medio oriente sarà simile a quello che l’America ha visto dopo la Seconda guerra mondiale. La presenza dell’America in Europa e in Asia dopo la fine di quella guerra aiutò la Germania e il Giappone a diventare democrazie e alleati nella lotta al comunismo. Se qualcosa di simile succederà in Iraq e in Afghanistan, quel qualcosa cambierà la regione e il mondo. Per la prima volta, milioni di cittadini nel medio oriente vedono all’opera nei loro paesi un modello di libertà, e questo darà loro la speranza di un futuro migliore per i loro figli, rendendo al contempo più sicura l’America.

Se il risultato sarà simile a quello che abbiamo visto nel Vietnam dopo che l’America abbandonò i suoi alleati e la regione precipitò nel caos, nella violenza e nel pericolo costante, il giudizio della storia sarà severo: dirà che il presidente Bush ha avuto ragione, e gli avversari della sua politica torto, come fu per George McGovern all’epoca. Oltre a queste politiche e azioni, la storia valuterà l’uomo. Conosco George W. Bush da 34 anni e ho avuto il privilegio di osservare da vicino quando la storia ha imposto a lui e alla nostra nazione le sue domande.

Conosco la sua umiltà e il suo contegno, la sua intelligenza e ponderatezza, il suo rispetto per tutti quelli con cui entra in contatto, il suo impegno indefesso a decidere sempre basandosi sui princìpi, e conosco il cuore placido e compassionevole di quest’uomo e della sua graziosa moglie, Laura. Ho capito che chi ha davvero la capacità di guidare un paese sfida il vento contrario. Affronta le grandi sfide dall’esito incerto invece di accettare compiti semplici e sicuri. Fa ciò che è giusto, indipendentemente da quel che dicono gli ultimi sondaggi o gli indici di gradimento. La storia chiede molto all’America e a chi la guida e sono sicuro che giudicherà il 43° presidente come un uomo che si è più che meritato la grande carica che il popolo americano gli ha affidato due volte.